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Archivio del Tag ‘rigore’

  • Giannuli: sono di sinistra, per questo non voterò Tsipras

    Scritto il 09/4/14 • nella Categoria: idee • (6)

    La lista Tsipras? «E’ un aggregato che non ha nessuna vitalità o prospettiva. E’ la sommatoria deprimente di quel che resta di alcuni apparati di sinistra, alla ricerca disperata di margini di sopravvivenza, ma senza alcun reale progetto politico». Aldo Giannuli boccia sonoramente l’esperimento messo in piedi per le europee da Barbara Spinelli e Paolo Flores d’Arcais. E di chiara di aver «ascoltato con crescente desolazione» un recente comizio di Moni Ovadia, che sosteneva: «Non si torna indietro dall’Europa, perché bisogna battere i nazionalismi che hanno portato alla prima ed alla seconda guerra mondiale». Replica Giannuli: «Ancora con questa accozzaglia di luoghi comuni? Ci mancava solo che dicesse che di mamma ce n’è una sola e che non ci sono più le mezze stagioni. Vogliamo riflettere su cosa è in concreto questa Europa e le sue istituzioni, al di là della propaganda “europeista” in cui non crede più nessuno?».
    Secondo Giannuli, non essendoci né un’analisi («e come volete che venga fuori in poche settimane di raffazzonata corsa a fare le liste?») non c’è neppure una linea politica e, di conseguenza, nessuna azione politica. «E voi pensate di prendere voti così?». Il politologo, docente universitario e con alle spalle una lunga militanza, anche in Rifondazione Comunista, si dichiara «non ostile» alla “Lista Tsipras”, ma la considera «una cosa morta». E aggiunge: «Posso fare le mie condoglianze, ma non ho molta voglia di restare a vegliare la salma. Se altri ritengono di doverlo fare, per carità, facciano pure, ma, ci rivediamo dopo le esequie». Ci sono molti modi di essere “di sinistra”, charisce Giannuli. «Ad esempio, io sono convinto della inconciliabilità fra capitalismo e giustizia sociale, perché il capitalismo è costitutivamente portatore di ingiustizie sociali. Ed è il motivo per cui mi definisco comunista. Poi altri la pensano diversamente, ad esempio la lista Tsipras si muove nell’ottica di una socialdemocrazia moderata, cercando di realizzare “spazi di giustizia sociale” all’interno del sistema dato, che non rimette in discussione».
    Dunque, se uno si considera “di sinistra” – cioè convinto del «nesso inscindibile fra giustizia sociale e libertà individuali e politiche», all’interno di una comunità di persone che aspirano a «un ordinamento sociale giusto e libero» – come può credere nella “Lista Tsipras”, che di fatto non propone di radere al suolo l’attuale ordinamento dell’Unione Europea, sostanziale dittatura dell’élite finanziaria imposta attraverso strumenti come l’austerity, il Fiscal Compact e la camicia di forza dell’Eurozona? Come dire: è illusorio pensare di riformare e correggere l’Ue, bisogna proprio abbatterla. Ma il vero problema è che, in Italia, il “popolo di sinistra” ha ben poche chanches: se la “Lista Tsipras” è così deludente, quello che ha attorno è ancora peggio. Per Giannuli, il Pd è ormai un partito «organicamente di destra», ligio ai diktat dell’élite finanziaria europea, anche se tiene ancora in ostaggio una residua porzione di “popolo di sinistra”, per lo più composta da pensionati, segnati più che altro «da una nobile ma sterile nostalgia». Si salva solo Civati, ma il suo «è un gruppo minuscolo e neanche tanto coeso». Dov’è finito, allora, il popolo della sinistra? Soprattutto nell’astensionismo e nel Movimento 5 Stelle.
    Nel 2006, ricorda Giannuli, le liste di sinistra (Rifondazione, Pdci, Verdi) ottennero complessivamente circa 4 milioni di voti. Nel 2013 “Rivoluzione Civile” guidata da Ingroia (con dentro anche un pezzo di Idv) ottenne 765.000 voti, e Sel un milione di suffragi. Totale, meno di 2 milioni di voti. E gli altri 2 milioni persi per strada? Fronte Pd: nel 2008 il partito di Veltroni ottenne 12 milioni di voti, mentre nel 2013 quello di Bersani si è fermato a 8 milioni e mezzo, perdendo cioè quasi 3 milioni e mezzo di elettori. Sommati a quelli della sinistra radicale, fanno 5 milioni e mezzo di italiani. Dove sono finiti? «Mi pare che non sia necessario fare calcoli particolarmente raffinati o interpellare chiromanti per capire che si sono divisi fra astensione e M5s». Il resto, oggi, è ancora collocato nel Pd per «una residua ma non trascurabile quota, direi un 25-30%», più forse un 10% nella «pozzanghera in cui si agitano Rifondazione, Sel, Pdci». Giannuli non ha dubbi: «Se qualcosa di sinistra ripartirà in questo paese, è dall’area dell’astensione o da quella del M5s che può succedere. Non certo dal Pd, da Rifondazione o Sel».
    Certo, ammette Giannuli, i grillini dovrebbero accelerare una sorta di evoluzione democratica. Pessime le espulsioni a catena dei dissidenti, «una pratica stalinista». Un problema anche «la proprietà privata del simbolo» del movimento creato da Grillo. D’accordo, serviva a «tutelare il simbolo da parte di “assalti” esterni», ma resta «una soluzione strampalata». Molto meglio «avere uno statuto ed una regolare costituzione come soggetto politico». Il professor Giannuli è convinto che, tra un po’, il M5S «rivedrà questa stramba sistemazione». Certo, il “populista” fondatore-padrone resta ingombrante, ma anche decisivo sul piano elettorale. «Non ho mai nascosto le mie critiche alle pose leaderistiche di Grillo», premette Giannuli, che però ribalta il ragionamento: come mai, nonostante il populismo, le esternazioni “isteriche” di Grillo e la mancanza di democrazia di cui è accusato, il M5S prende tutti quei voti, sottraendoli tanto al Pd quanto alla cosiddetta sinistra radicale? «Non sarà che, nonostante tutte le sue numerose pecche (che i suoi elettori conoscono benissimo, state tranquilli) il M5S appare più credibile, poniamo, di Rivoluzione Civile o della lista Tsipras?». Possibile che i signori della sinistra ufficiale siano così poco credibili da essere superati «da un rivale così pieno di difetti»?

    La lista Tsipras? «E’ un aggregato che non ha nessuna vitalità o prospettiva. E’ la sommatoria deprimente di quel che resta di alcuni apparati di sinistra, alla ricerca disperata di margini di sopravvivenza, ma senza alcun reale progetto politico». Aldo Giannuli boccia sonoramente l’esperimento messo in piedi per le europee da Barbara Spinelli e Paolo Flores d’Arcais. E di chiara di aver «ascoltato con crescente desolazione» un recente comizio di Moni Ovadia, che sosteneva: «Non si torna indietro dall’Europa, perché bisogna battere i nazionalismi che hanno portato alla prima ed alla seconda guerra mondiale». Replica Giannuli: «Ancora con questa accozzaglia di luoghi comuni? Ci mancava solo che dicesse che di mamma ce n’è una sola e che non ci sono più le mezze stagioni. Vogliamo riflettere su cosa è in concreto questa Europa e le sue istituzioni, al di là della propaganda “europeista” in cui non crede più nessuno?».

  • Ai vertici dell’Ue una banda di criminali: processateli

    Scritto il 08/4/14 • nella Categoria: segnalazioni • (5)

    Le politiche di austerità, gli aggiustamenti strutturali, le privatizzazioni imposte agli Stati membri dai vertici Ue, ovvero dalla cosiddetta Troika (Bce, Fmi e Commissione) stanno infliggendo privazioni insostenibili a milioni di cittadini. In Italia, non meno che in Grecia, Spagna e Portogallo, la disoccupazione è alle stelle. Il Pil ha perso oltre 10 punti rispetto al 2007. La combinazione di micidiali indicatori come la deflazione (crollo dei prezzi), la domanda stagnante e la crescita-zero sta portando le rispettive economie, a cominciare dalla nostra, verso il disastro. Errori? No: crimini. Lo sostiene un gruppo di giornalisti e politici greci, che a fine 2012 ha inoltrato alla Corte Penale Internazionale dell’Aja una denuncia per “sospetti crimini contro l’umanità” a carico dei vertici della Troika: il presidente della Commissione Europea, Barroso, la direttrice del Fmi, Lagarde, del presidente del Consiglio Europeo, Van Rompuy, nonché della cancelliera Angela Merkel e del suo ministro delle finanze Wolfgang Schäuble.
    A sua volta, aggiunge Luciano Gallino in un intervento su “Repubblica” ripreso da “Micromega”, un’attivista tedesca nel campo dei diritti umani, Sarah Luzia Hassel, appoggiava la denuncia con una documentatissima relazione circa le azioni compiute dalle citate istituzioni a danno sia della Grecia che di altri paesi, europei e no. «Tutte azioni suscettibili di venir configurate addirittura come crimini contro l’umanità, ai sensi dell’articolo 7 dello Statuto di Roma della Corte Penale dell’Aja». Si va dalla liquidazione della sanità pubblica alle politiche agricole che hanno affamato milioni di persone, dalla salvaguardia del sistema finanziario a danno dei cittadini ordinari alle ristrette élite che influenzano le decisioni delle istituzioni stesse, fino agli interventi nel campo del lavoro e della previdenza atti a ledere basilari diritti umani. Un terzo documento, infine, che accusa i vertici Ue di gravi forme d’illegalità, è stato pubblicato a fine 2013 dal centro studi di politiche del diritto europeo di Brema, su richiesta della Camera del Lavoro di Vienna.
    Documenti che «giacciono tuttora nei cassetti dei destinatari», benché rinverditi da clamorose denunce come quella della rivista medica “Lancet” «circa i danni che sta infliggendo alla popolazione la crisi della sanità in Grecia per via delle misure di austerità imposte dalle istituzioni Ue». In pratica, «chi soffre di cancro non riesce più a procurarsi le medicine necessarie, divenute troppo costose», e «la quota di bambini a rischio povertà supera il 30%». In Grecia sono ricomparse, dopo quarant’anni, malaria e tubercolosi, mentre i suicidi sono aumentati del 45% e chi fa uso di droga non dispone più di siringhe sterili distribuite dal sistema sanitario, per cui utilizza più volte la stessa siringa. Risultato: i casi di infezione Hiv rilevati sono ormai centinaia. Attenzione: «L’Italia, insieme con Spagna, Portogallo e Irlanda, appare avviata sulla stessa strada della Grecia», avverte Gallino.
    Il sistema sanitario nazionale italiano è alle corde: «Anche da noi i tempi di attesa per le visite specialistiche si sono allungati sovente di molti mesi perché i medici che vanno in pensione non sono rimpiazzati». Inoltre, le prestazioni sono sempre più costose, al punto che molti rinviano le analisi o «rinunciano a visite mediche o esami clinici perché i ticket hanno subito forti aumenti e non riescono più a pagarli». Paradossale: «Coloro che vanno in un laboratorio convenzionato si sentono dire che se scelgono la tariffa privata spendono meno del ticket». Senza contare che «molte famiglie non riescono più a mandare i bimbi all’asilo o alla scuola materna perché i posti sono stati ridotti, o la retta è aumentata al punto che non possono farvi fronte».
    La Grecia è vicina, ammonisce il rapporto di “Lancet”: «Se le politiche adottate avessero effettivamente migliorato l’economia, allora le conseguenze per la salute potrebbero essere un prezzo che val la pena di pagare. Per contro, i profondi tagli hanno avuto in realtà effetti economici negativi, come ha riconosciuto perfino il Fmi». In altre parole, riassume Gallino, non soltanto i vertici Ue hanno dato prova, con le politiche economiche e sociali che hanno imposto, di una «scandalosa indifferenza per le persone che vi erano soggette», ma queste sciagurate politiche «si sono pure dimostrate clamorosamente sbagliate». Nel 2008, diversi giuristi americani ed europei parlarono di “crimini economici contro l’umanità”, commessi dai dirigenti dei maggiori gruppi finanziari. Ma nel caso della crisi europea non si tratta più di attori privati (banchieri-pirati), bensì dei massimi esponenti della dirigenza pubblica della Ue, cui è stato affidato l’oneroso impegno di presiedere ai destini di 450 milioni di persone ai tempi della crisi.
    I vertici dell’Ue «hanno mostrato anzitutto una clamorosa incompetenza della gestione della crisi», e hanno scelto di «favorire gli interessi dei grandi gruppi finanziari andando contro agli interessi vitali delle popolazioni». Di fatto, «hanno dato largo ascolto alle maggiori élite europee, e in più di un caso ne fanno parte». Soprattutto, «hanno mostrato di non tenere in alcun conto le sorti delle persone cui si dirigevano le loro politiche». Stando al documento di Brema, le violazioni dei diritti umani compiute dai vertici Ue, in spregio agli stessi trattati dell’Unione, potrebbero essere portate davanti a varie corti e istituzioni europee, nonché davanti a organizzazioni internazionali quali l’Onu e l’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Domanda: «È mai possibile che non siano chiamati a rispondere per nulla delle illegalità non meno che degli errori che hanno commesso, e delle sofferenze che hanno causato con l’indifferenza se non addirittura il disprezzo dimostrato verso le popolazioni colpite?».

    Le politiche di austerità, gli aggiustamenti strutturali, le privatizzazioni imposte agli Stati membri dai vertici Ue, ovvero dalla cosiddetta Troika (Bce, Fmi e Commissione) stanno infliggendo privazioni insostenibili a milioni di cittadini. In Italia, non meno che in Grecia, Spagna e Portogallo, la disoccupazione è alle stelle. Il Pil ha perso oltre 10 punti rispetto al 2007. La combinazione di micidiali indicatori come la deflazione (crollo dei prezzi), la domanda stagnante e la crescita-zero sta portando le rispettive economie, a cominciare dalla nostra, verso il disastro. Errori? No: crimini. Lo sostiene un gruppo di giornalisti e politici greci, che a fine 2012 ha inoltrato alla Corte Penale Internazionale dell’Aja una denuncia per “sospetti crimini contro l’umanità” a carico dei vertici della Troika: il presidente della Commissione Europea, Barroso, la direttrice del Fmi, Lagarde, del presidente del Consiglio Europeo, Van Rompuy, nonché della cancelliera Angela Merkel e del suo ministro delle finanze Wolfgang Schäuble.

  • Goldman Sachs, il super-potere che fa il lavoro di Dio

    Scritto il 05/4/14 • nella Categoria: segnalazioni • (6)

    Dall’inizio della crisi economica, la Goldman Sachs, una delle maggiori banche d’investimento a livello mondiale, è stata spesso presa di mira e perfino scambiata per una specie di Leviatano di predatori finanziari senza scrupoli. In un articolo pubblicato su “Rolling Stone” nel 2009, Matt Taibbi l’ha definita una macchina che produce bolle e crisi economiche a ripetizione. Un paio d’anni dopo, lo scrittore americano William Cohan ha paragonato la Goldman Sachs a un oscuro e potentissimo “governo del mondo”. Le solite teorie del complotto da aggiungere alla lunga lista di deliri virali che popolano il magico mondo della rete? Non è proprio così. Nel 2007, la Goldman Sachs ha indirettamente contribuito alla crisi mondiale del cibo attraverso ingenti speculazioni nei mercati dei derivati che, a loro volta, hanno provocato aumenti vertiginosi dei prezzi dei generi alimentari.
    Questo ha inevitabilmente incrementato la malnutrizione e scatenato rivolte popolari in molti paesi in via di sviluppo. Nel 2008, la banca di Wall Street ha contribuito al crollo dell’economia mondiale attraverso la diffusione dei mutui tossici sub-prime e le scommesse contro le “collateralized debt obligations”. È importante ricordare inoltre che la Goldman Sachs è stata riconosciuta colpevole da un punto di vista penale per le attività di “insider trading” nello stato della California. Nel 2009, la banca americana ha contribuito a creare alcune delle condizioni della crisi nell’Eurozona, aiutando ad esempio il governo della Grecia a “cucinare” e mascherare i dati sul debito pubblico nazionale tra gli anni 1998 e 2009. La metafora “Goldman Sachs, macchina delle crisi” sembra chiarita ora, ma perché parlare anche di “governo del mondo”?
    Dall’inizio degli anni ‘80, dopo l’avvento della finanziarizzazione neoliberista, la Goldman Sachs ha aumentato in modo esponenziale il suo potere politico. Le ingenti quantità di ricchezza accumulate attraverso l’uso e l’abuso dei derivati sono state in parte investite in finanziamenti di campagne elettorali e attività di lobby. La Goldman Sachs è poi riuscita, grazie al sistema delle “porte girevoli”, a piazzare alcuni dei suoi uomini migliori in posizioni politiche di rilievo nei governi degli Stati Uniti e in Europa. Tra gli ex banchieri della Goldman Sachs, che hanno ricoperto cariche politiche importanti negli Stati Uniti, ricordiamo Henry Paulson, ex segretario al Tesoro durante l’amministrazione Bush figlio, Robert Rubin, ex segretario al Tesoro durante l’amministrazione Clinton, Timothy Geithner ex segretario al Tesoro durante l’amministrazione Obama, Mark Patterson, ex capo del personale al segretario al Tesoro e Stephen Friedman, ex presidente della Federal Reserve Bank di New York.
    Tra i leader di Goldman Sachs che hanno occupato importanti cariche di governo in Europa, ricordiamo invece Mario Draghi, attuale capo della Banca Centrale Europea (Bce), Mario Monti, ex primo ministro d’Italia, Otmar Issing, ex membro del consiglio della Bundesbank e della Bce, Karelvan Miert, ex commissario alla concorrenza dell’Unione Europea, Antonio Borges, ex capo del Fondo Monetario internazionale (Fmi), Lucas Papademos, ex primo ministro della Grecia e Peter Sutherland, ex procuratore generale d’Irlanda. Non male, vero? L’assunzione di alte cariche istituzionali da parte di ex dirigenti della Goldman Sachs non è tuttavia evidenza sufficiente per dire che “governa il mondo.”
    C’è dell’altro, però. Oltre a contribuire a generare crisi mondiali, aiutare politici a vincere le elezioni, fare lobby per ottenere favori fiscali e piazzare i suoi uomini negli uffici governativi che dovrebbero disciplinare le attività speculative, la Goldman Sachs si permette pure il lusso di suggerire ricette economiche ai governi. Provate a pensare alle riforme adottate negli Stati Uniti e in Europa negli anni successivi il collasso della Lehman Brothers. Prima c’è stato il salvataggio delle banche “troppo-grandi-per-fallire” con circa 12 trilioni di dollari di denaro pubblico (il Prodotto Interno Lordo del mondo è di circa 70 trilioni di dollari). Poi, sono arrivate le riforme finanziarie all’acqua di rose che hanno evitato di regolare i circa 600 trilioni di dollari di derivati che hanno messo in ginocchio l’economia. Infine, sono state adottate le famose politiche di austerità. Ma chi ha guadagnato da queste riforme?
    A pensar male si fa presto, ma sentite cos’ha scritto John Williamson, ideologo delle politiche di deregolamentazione finanziaria neoliberista del Consenso di Washington: «I tempi peggiori (come le crisi economiche) danno luogo alle migliori opportunità per chi comprende la necessità di fondamentali riforme economiche». Poi ha aggiunto: «Ci si dovrà chiedere se, concettualmente, potrebbe avere un senso pensare di provocare una crisi deliberatamente… in modo da spaventare tutti ad accettare questi cambiamenti». Qualche tempo fa, un giornalista ha chiesto a Lloyd Blankfein, amministratore delegato della Goldman Sachs, se fosse giusto imporre dei limiti ai compensi dei suoi top manager. Il banchiere ha risposto che «mettere un limite alla loro ambizione sarebbe sbagliato perché i banchieri adempiono un compito fondamentale nella società: fanno il lavoro di Dio».
    (Roberto De Vogli, “Goldman Sachs, la macchina delle crisi che fa il lavoro di Dio”, da “Il Fatto Quotidiano” del 14 marzo 2014).

    Dall’inizio della crisi economica, la Goldman Sachs, una delle maggiori banche d’investimento a livello mondiale, è stata spesso presa di mira e perfino scambiata per una specie di Leviatano di predatori finanziari senza scrupoli. In un articolo pubblicato su “Rolling Stone” nel 2009, Matt Taibbi l’ha definita una macchina che produce bolle e crisi economiche a ripetizione. Un paio d’anni dopo, lo scrittore americano William Cohan ha paragonato la Goldman Sachs a un oscuro e potentissimo “governo del mondo”. Le solite teorie del complotto da aggiungere alla lunga lista di deliri virali che popolano il magico mondo della rete? Non è proprio così. Nel 2007, la Goldman Sachs ha indirettamente contribuito alla crisi mondiale del cibo attraverso ingenti speculazioni nei mercati dei derivati che, a loro volta, hanno provocato aumenti vertiginosi dei prezzi dei generi alimentari.

  • La Cgil esaudisce il sogno di Renzi: fine dei sindacati

    Scritto il 04/4/14 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Quel terribile applauso che nella trasmissione di Fazio ha sottolineato un passaggio particolarmente reazionario di Renzi fa venire i brividi. Il presidente del consiglio ha affermato che farà lavorare i disoccupati, e se i sindacati si opporranno pazienza. Quindi secondo Renzi e il pubblico di Fazio i sindacati sarebbero contrari a far lavorare i disoccupati, quindi i disoccupati ci sono anche per colpa loro. È una vecchia baggianata che periodicamente percorre gli umori della destra: i sindacati hanno rovinato l’Italia e ora il presidente nuovo e moderno la fa sua, approfittando della crisi evidente e della burocratizzazione di Cgil, Cisl e Uil. In questo modo Renzi strizza un occhio a chi verrebbe sindacati più forti ed efficaci e un altro a chi non li vorrebbe in nessun modo. È questo il suo modo di non essere né di destra, né di sinistra, cioè di essere di destra stando formalmente a sinistra.
    Avendo passato un bel pezzo di vita sindacale a contestare la concertazione, posso ben dire che non sono a lutto per la sua fine, però non posso non tenere conto del fatto che essa cade dal lato della finanza, delle banche e delle multinazionali, e non da quello dei diritti del lavoro. Socialmente cade da destra. Noi che la contestavamo da sinistra abbiamo più volte denunciato il fatto che lo scambio che stava alla base della concertazione, rafforzamento del ruolo istituzionale di Cigil, Cisl e Uil in cambio della loro disponibilità ad accettare la regressione del mondo del lavoro, aveva qualcosa di insano. Questo scambio, il sindacato come istituzione stava meglio mentre per i lavoratori andava sempre peggio, non poteva durare all’infinito. Renzi e il sistema di potere che lo ha messo lì e che oggi lo sostiene sono ingenerosi. Grazie alla collaborazione o non opposizione dei grandi sindacati abbiamo avuto la caduta dei salari, la precarizzazione di massa per legge, il peggioramento delle condizioni di lavoro, un sistema pensionistico che è tra i più feroci ed iniqui di Europa.
    Appena insediato come ministro dell’economia, Tommaso Padoa Schioppa spiegò che il suo governo, quello di Prodi, aveva gli stessi obiettivi di quello della signora Thatcher, solo li voleva realizzare con la collaborazione e non con lo scontro con i sindacati. Fino alla crisi la concertazione ha funzionato e lor signori dovrebbero essere riconoscenti alla moderazione sindacale. Ora però non serve più, con le politiche di austerità e i diktat della Troika, anche la sola immagine di essa non piace ai signori dello spread, per i quali il sindacato è negativo in sé. Come diceva il generale Custer degli indiani, per chi guida la finanza e ci giudica sulla base dei propri interessi, il solo sindacato buono è quello morto. Già nel libro verde del ministero del lavoro gestione Sacconi, si chiedeva il passaggio dal regime della concertazione a quello della complicità con le imprese. E questa è stata la richiesta dalla lettera Bce del 4 agosto 2011, assunta da Berlusconi che sperava così di salvarsi, e poi resa operativa da Monti.
    Renzi è un puro continuatore di questa politica, ma è lì perché ha il compito di costruire attorno ad essa quel consenso che non ha mai avuto. Per questo dopo aver sostenuto Marchionne contro la Fiom, ora cavalca lo scontento sacrosanto che c’è verso la passività di Cgil, Cisl e Uil, ma per colpire il sindacato, non per rafforzarlo. Renzi ha lamentato che la Cgil si svegli dopo aver dormito venti anni, ciò che vuole è che quel sonno continui per sempre. Alla crisi e alla ritirata dell’azione sindacale Susanna Camusso e Maurizio Landini stanno reagendo in due modi conflittuali tra loro e comunque sbagliati. La segretaria generale della Cgil difende la linea ed i comportamenti della Cgil di oggi, ne nega la burocratizzazione e la passività e ripropone la concertazione su scala ridotta, come azione comune delle cosiddette parti sociali, sindacati e Confindustria tutti nella stessa barca.
    L’accordo del 10 gennaio è una disperata difesa della casa che crolla, ma in realtà aggrava la crisi democratica del sindacato attraverso regole autoritarie e corporative. La risposta di Landini parte dalla giusta denuncia di questa crisi democratica, ma poi finisce per scegliersi con interlocutore proprio quel Renzi che è avversario politico di un sindacato davvero rinnovato. Camusso, per non cambiare, si aggrappa all’intesa con Cisl, Uil e Confindustria, così prestando il fianco alla demagogia renziana contro le caste sindacali. Landini, che afferma di voler cambiare, si aggrappa a Renzi, così compromettendo tutto il senso della sua battaglia. Entrambe queste scelte sono il segno che la Cgil è una organizzazione in piena crisi, i cui gruppi dirigenti hanno sinora tentato tutte le strade tranne una. Quella di rompere con i palazzi della politica e del potere e con ogni collateralismo con il centrosinistra, per ricostruire la piena autonomia di azione sociale. Il sindacato deve cambiare e la sfida di Renzi va raccolta, ma proprio per lottare meglio contro il suo governo, ultimo esecutore delle politiche di austerità.
    (Giorgio Cremaschi, “L’attacco di Renzi e le risposte sbagliate di Camusso e Landini”, da “Micromega” dell’11 marzo 2014).

    Quel terribile applauso che nella trasmissione di Fazio ha sottolineato un passaggio particolarmente reazionario di Renzi fa venire i brividi. Il presidente del consiglio ha affermato che farà lavorare i disoccupati, e se i sindacati si opporranno pazienza. Quindi secondo Renzi e il pubblico di Fazio i sindacati sarebbero contrari a far lavorare i disoccupati, quindi i disoccupati ci sono anche per colpa loro. È una vecchia baggianata che periodicamente percorre gli umori della destra: i sindacati hanno rovinato l’Italia e ora il presidente nuovo e moderno la fa sua, approfittando della crisi evidente e della burocratizzazione di Cgil, Cisl e Uil. In questo modo Renzi strizza un occhio a chi verrebbe sindacati più forti ed efficaci e un altro a chi non li vorrebbe in nessun modo. È questo il suo modo di non essere né di destra, né di sinistra, cioè di essere di destra stando formalmente a sinistra.

  • Renzi, svolta autoritaria in vista della macelleria 2015

    Scritto il 01/4/14 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Qualcuno si stupisce che il governo Renzi, in una situazione economica così drammatica, dia invece la priorità alla riforma del Senato e della legge elettorale? «La spiegazione di questa apparente incongruità è chiara, purtroppo». Renzi, sostiene Marco Della Luna, è stato scelto «non certo per dimostrate capacità, ma per la sua immagine di bravo ragazzo a capo di un governo di giovani rassicuranti». E’ un’immagine che «lo rende idoneo, con l’aiuto di contentini demagogici su tasse e bollette, a far passare una riforma elettorale e del Senato estremamente pericolosa e aggressiva verso la democrazia e lo stesso impianto della Costituzione». Una riforma, dice Della Luna, che «prepara l’ambiente giuridico-costituzionale adatto in cui il successivo premier potrà esercitare una dittatura formalmente legittima per gestire un prevedibile e imminente periodo di peggioramento economico e di protesta sociale».
    Quel premier, aggiunge Della Luna nel suo blog, «non sarà un ragazzotto inoffensivo», ma un uomo degli interessi finanziari, dei poteri forti, un delegato della Troika, che «macellerà l’Italia come la Troika ha macellato la Grecia, senza però che la Troika debba metterci la faccia», quindi scaricando sugli italiani la responsabilità di ciò che essa farà a loro. «Il peggioramento economico arriverà l’anno prossimo, con le decine di miliardi che annualmente l’Italia dovrà togliere ai contribuenti per l’abbattimento forzoso del debito pubblico (Fiscal Compact) in un trend già di avvitamento fiscale pluriennale». Prevedibilmente, continua l’avvocato Della Luna, l’Italia dovrà allora invocare l’aiuto, il bail-out, della Troika, accettare le sue “cure” e quindi reprimere l’ampio scontento popolare che, a quel punto, scoppierà. E allora «servirà una mano dura, un governo autoritario con poteri forti. Ecco a che cosa servono la riforma elettorale e del Senato. Ecco perché per questo governo sono prioritarie e vengono prima dei problemi economici».
    In una situazione come la nostra, in cui l’Italia è indebitata sempre più – e il debito pubblico è denominato in euro, cioè «in una moneta praticamente straniera e tutta sbilanciata su poteri esterni alla repubblica» – avremmo bisogno di tutt’altro. Per esempio, di una riforma sovranista «che prevenisse da altre sospensioni della democrazia come quelle imposte ben tre volte dai manovratori del rating e dello spread attraverso Napolitano». E invece, arriva esattamente l’opposto. «Riflettete bene: sotto la pelle d’agnello di Renzi e dei suoi ragazzi un po’ ingenui, con le loro riforme, e con l’aiuto di un Berlusconi sempre più condizionabile giudiziariamente, stanno istituendo una nuova architettura costituzionale», in cui il capo del partito di maggioranza relativa – magari eletto solo da qualche milione di italiani – si prende praticamente tutto. Con le “riforme” imposte da Renzi, infatti, il segretario del partito si sceglie i candidati che gli vanno bene, e col voto di meno di un terzo degli elettori si prende la maggioranza assoluta nell’unica camera legislativa, blindando a priori la fiducia al proprio governo.
    Sempre il premier, con un pugno di voti, designerebbe anche il presidente della Repubblica (che a sua volta nominerebbe buona parte del Senato), ma anche «il presidente dell’unica camera legislativa, i giudici costituzionali, i membri laici del Csm e altre cariche di garanzia». Il neo-premier potrebbe anche revocare a piacimento i ministri e lasciare senza rappresentanza parlamentare partiti che raccolgono milioni di voti, ponendosi quindi «al di sopra di ogni controllo». La giustificazione, continua Della Luna, è che i tempi richiedono un premier forte e decisioni rapide. «E’ una giustificazione bugiarda perché queste esigenze di efficienza-rapidità e insieme di democraticità-legalità sarebbero molto facilmente soddisfatte senza rinunciare alle garanzie e alla rappresentatività vera del corpo elettorale: basta mantenere, accanto a una Camera dei deputati eletta con un sistema maggioritario e con sbarramenti, un Senato elettivo, riformato in modo che sia l’organo della rappresentanza fedele dell’elettorato e delle garanzie».
    Per Della Luna, il Senato ideale potrebbe essere eletto con sistema proporzionale su base regionale e rinnovato per la metà ogni 3 anni. Non dovrebbe poter essere sciolto, non parteciperebbe alla normale attività legislativa e non voterebbe la fiducia (queste funzioni spetterebbero alla sola Camera dei deputati), salvo «un diritto di veto che può esercitare con maggioranza dei 3/5 dei membri su proposta di 1/3 di essi». Il nuovo Senato democratico, in compenso, avrebbe «competenza legislativa esclusiva per riforme costituzionali, leggi costituzionali, leggi sulla cittadinanza, leggi elettorali, ratifica di trattati limitanti la sovranità nazionale, messa in stato di accusa del presidente della Repubblica, decisioni su eleggibilità e decadenza di deputati e senatori, commissioni d’inchiesta, nomina del presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali, dei membri laici del Csm, dei capi di tutte le istituzioni di garanzia». Un tale sistema bicamerale, conclude Della Luna, sarebbe «così semplice e chiaro, lineare ed efficace nell’assicurare tutte le funzioni, l’efficienza e le garanzie, che il fatto stesso che non sia nemmeno proposto prova il pericoloso obiettivo del governo in carica e la corresponsabilità di chi lo sostiene in qualsiasi modo».

    Che c’azzeccano il Senato e l’Italicum con la crisi economica? Qualcuno si stupisce che il governo Renzi, in una situazione così drammatica, dia invece la priorità alla riforma di Palazzo Madama e della legge elettorale? «La spiegazione di questa apparente incongruità è chiara, purtroppo». Renzi, sostiene Marco Della Luna, è stato scelto «non certo per dimostrate capacità, ma per la sua immagine di bravo ragazzo a capo di un governo di giovani rassicuranti». E’ un’immagine che «lo rende idoneo, con l’aiuto di contentini demagogici su tasse e bollette, a far passare una riforma elettorale e del Senato estremamente pericolosa e aggressiva verso la democrazia e lo stesso impianto della Costituzione». Una riforma, dice Della Luna, che «prepara l’ambiente giuridico-costituzionale adatto in cui il successivo premier potrà esercitare una dittatura formalmente legittima per gestire un prevedibile e imminente periodo di peggioramento economico e di protesta sociale».

  • Sveglia, sinistra: i nemici dell’Europa sono l’euro e l’Ue

    Scritto il 01/4/14 • nella Categoria: idee • (2)

    La sinistra vorrebbe “un’altra Europa”, completamente rifondata? Errore: prima bisogna radere al suolo «l’attuale architettura dell’Unione Europea» e, letteralmente, «demolire i presupposti alla base dell’unione monetaria». Riformare i trattati vigenti? Missione impossibile, spiega Enrico Grazzini: per modificare il Trattato di Maastricht e lo statuto della Bce occorre l’unanimità del voto di tutti i 28 paesi Ue. A bloccare tutto basterebbe l’opposizione di un solo Stato, di un solo governo. «E’ più facile ripudiare o abolire i trattati che modificarli». L’Unione Europea, semplicemente, non è riformabile. E’ un non-Stato, un mostro giuridico che «opprime i popoli». Nient’altro che «una istituzione intergovernativa diretta dalla finanza e guidata da una sola nazione, la Germania», nonché «debolmente legittimata da un Parlamento senza potere», peraltro «eletto nel 2009 solo dal 43% dei cittadini europei». Ergo: impossibile fondare “l’Europa dei popoli” partendo da questa Unione Europea.
    «Oggi – scrive Grazzini su “Micromega” – bisogna avere il coraggio di affrontare dei punti di frattura con il governo di questa Ue che nessun cittadino europeo ha eletto, che toglie sovranità alle nazioni e schiaccia i popoli in difficoltà». I promotori della “Lista Tsipras” hanno scelto di non fidarsi più della socialdemocrazia europea, e in Italia del Pd, «che sono tra i promotori e complici di obbrobri ultraliberisti come il Fiscal Compact – cioè il taglio selvaggio della spesa pubblica in tempi di crisi – e il pareggio in bilancio in Costituzione». Anche il governo Renzi, dopo quelli di Letta e di Monti, «si fa garante del rispetto dei crescenti vincoli europei». Grazzini non ha dubbi: «Siamo già allo stremo, ma se seguiremo la politica della Ue e di Renzi faremo la fine della Grecia». E dal centrosinistra, solo e sempre propaganda: a parole, Martin Schulz è contro la disastrosa politica europea di intransigenza liberista, ma la Spd «ha finora promosso la deregolamentazione finanziaria e la famigerata politica autoritaria europea di disoccupazione e di immiserimento della Ue».
    La cieca politica di austerità dettata dalla Ue e dalla Troika (Bce, Fmi, Ue) sarà sempre più intrusiva, rigida e antisociale, continua Grazzini. «La Ue impone ai governi di tagliare il costo del lavoro e il welfare in nome della competitività. La sua politica è destinata a provocare crisi economiche e democratiche dei paesi sottoposti ai suoi diktat, o anche a provocare il crollo dell’euro (e quindi della Ue stessa)». Romano Prodi, già presidente della Commissione Europea e protagonista dello sciagurato ingresso dell’Italia nell’Eurozona, oggi ha preso atto della politica egemonica tedesca e propone di costruire un’alleanza alternativa tra Italia, Francia e Spagna e gli altri paesi del Sud Europa per contrastare «la folle (ma lucida) politica della Merkel». Soluzione impraticabile, avverte l’ex ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni, intervistato dal “Corriere della Sera”: la Francia del socialista Hollande non accetterà mai di allearsi con noi, perché ha fatto della partnership con la Germania sull’euro il suo scudo (di latta) di fronte alla speculazione internazionale.
    Nulla all’orizzonte che preluda a qualcosa di diverso dal disastro nel quale stiamo sprofondando: «Ormai i bilanci dei paesi Ue vengono decisi non dai parlamenti e dai governi nazionali ma in maniera preventiva a Bruxelles, Francoforte e Berlino. E chi sgarra avrà delle sanzioni e poi verrà commissariato dalla Troika». Il disinvolto Renzi? «Magari otterrà qualche contentino da Bruxelles, ma il suo governo probabilmente cadrà proprio perché sarà costretto a trasmettere le politiche impopolari dettate dalla Ue», fatte di «lavoro sempre più precario, chiusura di aziende, disoccupazione dilagante ed eliminazione dei servizi sociali». Risultato: «Così dalla crisi non usciremo mai. E la crisi, soprattutto in Italia, potrebbe diventare irreversibile. La Grecia è vicina».
    Per rifondare l’Europa, dice Grazzini, occorre essere euroscettici. La sinistra respinge l’euroscetticismo come marchio infamante, denunciando le destre nazionaliste, xenofoba e neofasciste, il populismo nazionalista anti-europeo, senza vedere il vero pericolo, cioè l’autoritarismo dell’Ue e che fa a pezzi la nostra libertà, la nostra democrazia. «L’euroscetticismo ci riporta alla realtà», avverte Grazzini, citando uno dei maggiori storici marxisti, Eric Hobsbawn, fa poco scomparso, pessimista sul futuro europeo: «Penso che bisognerà abbandonare la speranza di trasformare l’Unione Europea in qualcosa di più di una semplice alleanza di Stati e di una zona di libero scambio». Troppo diversi gli interessi delle diverse aree, troppo liberista l’ideologia della Ue e troppo forte l’egemonia della Germania, ciecamente convinta «dell’austerità forzata e di questa architettura deflazionista e repressiva dell’euro perché sia possibile invertire facilmente la direzione di marcia».
    L’Europa unita, continua Grazzini, è importante se offre cooperazione, pace, democrazia e benessere dei popoli, non se genera povertà, disoccupazione, divisione e democrazie autoritarie e magari conflitti sanguinosi. «L’unione europea va, se possibile, salvaguardata nelle sue parti migliori, ma non adorata». Sicché, «occorre lottare per democratizzare la Ue e per dare al Parlamento Europeo il potere di fare proposte di legge», potere oggi affidato alla sola Commissione. La parola chiave, per uscire dal tunnel, si chiama sovranità. «E’ indispensabile rivalutare la sovranità nazionale, e quindi anche la sovranità monetaria», perché «solo recuperando la sovranità nazionale è possibile che i popoli possano difendersi dalle rigide politiche liberiste e neocoloniali della Ue e della Germania, e sperimentare nuovi modelli di sviluppo sostenibile. Solo così i governi europei potranno trovare delle forme efficaci di cooperazione per resistere alla speculazione finanziaria internazionale».
    Grazzini propone apertamente un’uscita concordata dall’euro, non-moneta palesemente insostenibile. «Bisognerebbe abolire il Trattato di Maastricht e concordare politicamente il ritorno alla sovranità monetaria degli Stati». Per prevenire la speculazione internazionale, la Ue e la Bce dovrebbero però anche creare e gestire, sulle orme di quanto proponeva Keynes a Bretton Woods, una moneta comune europea, l’Euro-Bancor, di fronte al dollaro e allo yen. «Purtroppo però gran parte (ma non tutta) della sinistra radicale ritiene che la questione della sovranità nazionale sia da demonizzare perché di destra. Eppure senza sovranità nazionale non ci può essere neppure un’ombra di democrazia».
    Senza moneta sovrana, resta solo questa Europa di oggi, «che schiaccia le nazioni» e le lascia in balia dello strapotere speculativo della finanza. «La sinistra – in particolare quella che si richiama al marxismo – dovrebbe ricordare le nozioni di imperialismo e di dominazione straniera, e dovrebbe sapere che le forze progressiste hanno sempre appoggiato e promosso le lotte di liberazione nazionale, in Sud America, in Africa e in tutti i paesi del mondo, di fronte all’oppressione straniera». Ora che più evolute forme di neocolonialismo economico minacciano per la prima volta anche i paesi europei, conclude Grazzini, sembra che una parte della sinistra afflitta da masochismo chieda “ancora più Europa”.

    La sinistra vorrebbe “un’altra Europa”, completamente rifondata? Errore: prima bisogna radere al suolo «l’attuale architettura dell’Unione Europea» e, letteralmente, «demolire i presupposti alla base dell’unione monetaria». Riformare i trattati vigenti? Missione impossibile, spiega Enrico Grazzini: per modificare il Trattato di Maastricht e lo statuto della Bce occorre l’unanimità del voto di tutti i 28 paesi Ue. A bloccare tutto basterebbe l’opposizione di un solo Stato, di un solo governo. «E’ più facile ripudiare o abolire i trattati che modificarli». L’Unione Europea, semplicemente, non è riformabile. E’ un non-Stato, un mostro giuridico che «opprime i popoli». Nient’altro che «una istituzione intergovernativa diretta dalla finanza e guidata da una sola nazione, la Germania», nonché «debolmente legittimata da un Parlamento senza potere», peraltro «eletto nel 2009 solo dal 43% dei cittadini europei». Ergo: impossibile fondare “l’Europa dei popoli” partendo da questa Unione Europea.

  • Voto inutile, D’Andrea: la truffa delle europee 2014

    Scritto il 31/3/14 • nella Categoria: idee • (1)

    Vi hanno raccontato che queste elezioni europee saranno decisive per il futuro del continente prostrato dall’austerity? Sperare di cambiare le cose con il voto di maggio è una pia illusione, sostiene Stefano D’Andrea, perché chi esibisce propositi bellicosi contro Bruxelles in realtà non ha un vero programma, e perché – soprattutto – il Parlamento Europeo non conta niente. Boicottare le elezioni? Non occorrono appelli: l’astensionismo è in crescita costante. Se non altro, scrive D’Andrea su “Appello al popolo”, rinunciare alle urne può contribuire a delegittimare ulteriormente l’Unione Europea, in attesa che si “estingua” da sola, nell’unico modo possibile: cioè l’uscita unilaterale di uno dei paesi-cardine, come la Francia di Marine Le Pen o l’Inghilterra, che ha già messo in agenda un referendum per scegliere se restare o meno nell’istituzione comunitaria.
    Se appare ormai evidente l’insostenibilità economica e democratica dei trattati-capestro europei, da Maastricht al Fiscal Compact, il blogger ricorda che «sono gli Stati dell’Unione che possono modificare i trattati, non i cittadini attraverso i loro rappresentanti eletti in Parlamento», che ha poteri paragonabili a quelli del collegio sindacale di un’azienda, non certo dell’assemblea degli azionisti. Per l’approvazione del bilancio annuale dell’Ue, Strasburgo «non ha effettivi poteri, perché la richiesta unanimità dei membri del Consiglio impone di trovare l’accordo a livello intergovernativo». Idem per la funzione legislativa: «La regola è che “un atto legislativo dell’Unione può essere adottato solo su proposta della Commissione, salvo che i Trattati non dispongano diversamente”. Quindi il Parlamento “legifera” ma ha una limitata iniziativa: in linea di principio legifera su impulso della Commissione. E comunque quando legifera, lo fa per per attuare i trattati».
    Quanto alle procedure di “revisione ordinaria”, oltre che dal Parlamento Europeo, un progetto di modifica «può essere presentato da qualsiasi Stato membro, dalla Commissione e dal Consiglio», il cui potere è invece vincolante: «Il Consiglio Europeo, a maggioranza semplice, decide se è opportuno procedere alle modifiche proposte: può quindi decidere che non sia opportuno. Basta dunque che la maggioranza degli Stati, ossia dei governi, sia contraria alla modifica proposta, che la procedura di revisione nemmeno inizia». E dato che l’Unione Europea è una organizzazione internazionale fondata sui trattati, «le modifiche dei trattati implicano sempre l’unanimità nel Consiglio europeo», ovvero «il consenso di tutti i governi o capi di Stato». Brutte notizie, dunque, per i “sovranisti”, cioè «coloro che intendono riconquistare la sovranità», per ridefinire su basi eque e democratiche la partnership tra Stati europei. Dunque: «Un partito che avesse una posizione politica chiaramente sovranista che si presenta a fare alle elezioni del Parlamento Europeo?».
    Sulle barricate contro Bruxelles c’è ad esempio la Lega Nord, ostile essenzialmente all’euro. Tesi: «Si può “recedere da alcuni articoli dei trattati” e segnatamente dalle norme che riguardano l’unione monetaria e assumere, secondo la propria volontà, la posizione che oggi hanno l’Inghilterra e la Danimarca, ovvero mutare la posizione dell’Italia da Stato con l’euro a Stato con deroga». Secondo D’Andrea, «se mai l’Italia assumesse unilateralmente questa decisione di rottura dell’ordine giuridico europeo, il rischio di conflitti diplomatici, commerciali e giurisdizionali sarebbe molto maggiore che non in caso di recesso dai trattati». In ogni caso, aggiunge il blogger, i partiti che sostengono questa posizione «non hanno alcuna ragione per candidarsi alle elezioni europee (salvo voler consolidare il potere, eleggere deputati e prendere rimborsi). In che modo, infatti, entrando nel Parlamento Europeo, la Lega agevolerebbe la realizzazione dell’obiettivo politico che essa dichiara di perseguire, il quale implica una decisione del governo nazionale? I deputati europei non potrebbero apportare alcun contributo all’obiettivo prefissato».
    Poi ci sono il Movimento 5 Stelle e la “Lista Tsipras”, che intendono candidarsi a Strasburgo per “modificare” i trattati. «Questi due gruppi politici non intendono né recedere dall’Unione Europea, né recedere dal solo euro, bensì modificare i trattati», a cominciare dal Fiscal Compact. Attenzione: anche nel caso (improbabile) in cui il Parlamento Europeo dovesse votare a maggioranza la richiesta di abolizione del “patto fiscale”, quel voto potrebbe essere «vanificato e mortificato dal Consiglio Europeo a maggioranza semplice, nonché modificato (nel contenuto del progetto) dalla Convenzione nella raccomandazione e stravolto discrezionalmente dalla Conferenza dei rappresentanti dei governi degli Stati membri». L’assemblea degli eurodeputati – l’unica struttura democratica dell’Ue, eletta dai cittadini – non ha il potere di modificare i trattati. «Che senso ha, dunque, che un partito o movimento che è critico nei confronti dei trattati europei e voglia modificarli si candidi al Parlamento Europeo? Questo partito prende in giro gli elettori o è diretto da incompetenti. Eleggere parlamentari europei non serve assolutamente a nulla per raggiungere l’obiettivo dichiarato».
    «I trattati europei – conclude D’Andrea – saranno modificati soltanto quando la Francia, l’Italia, l’Inghilterra, la Germania o forse la Spagna recederanno e recedendo costringeranno le controparti ad addivenire a modifiche sostanziali dei trattati, sempre che lo Stato recedente desideri la modifica dei trattati». Rispetto all’Ue, gli Stati «cooperano come il lavoratore subordinato al datore di lavoro», perché a Bruxelles «la cooperazione è l’ideologia per ingannare gli ingenui». Quindi, non si scappa: chi vuol veramente modificare i trattati europei deve prima «conquistare il potere all’interno dello Stato nazionale». Meglio boicottare le elezioni, se poi i parlamentari europei saranno chiamati sostanzialmente ad attuare quei trattati. «L’unica vera ragione per la quale M5S, Lega e lista Tsipras si candidano alle elezioni europee è di ottenere visibilità, posti da deputato, finanziamenti e successo da spendere sul piano politico nazionale». Chi tifa per l’astensionismo ha di che sperare: nel 2009 votò solo il 43% dei cittadini europei, in Italia il 65%. Il vero successo dei sovranisti e di coloro che intendono modificare i trattati europei, dice D’Andrea, sarebbe abbassare ulteriormente l’affluenza italiana, al di sotto del 50%.

    Vi hanno raccontato che queste elezioni europee saranno decisive per il futuro del continente prostrato dall’austerity? Sperare di cambiare le cose con il voto di maggio è una pia illusione, sostiene Stefano D’Andrea, perché chi esibisce propositi bellicosi contro Bruxelles in realtà non ha un vero programma, e perché – soprattutto – il Parlamento Europeo non conta niente. Boicottare le elezioni? Non occorrono appelli: l’astensionismo è in crescita costante. Se non altro, scrive D’Andrea su “Appello al popolo”, rinunciare alle urne può contribuire a delegittimare ulteriormente l’Unione Europea, in attesa che si “estingua” da sola, nell’unico modo possibile: cioè l’uscita unilaterale di uno dei paesi-cardine, come la Francia di Marine Le Pen o l’Inghilterra, che ha già messo in agenda un referendum per scegliere se restare o meno nell’istituzione comunitaria.

  • Generazione decrescente: la crisi e la formica utopista

    Scritto il 29/3/14 • nella Categoria: Recensioni • (4)

    Fine del lavoro, del futuro, della società civile protetta dai diritti di cittadinanza. Fine di tutto quello che siamo stati abituati a pensare come destino, consuetudine, standard di vita, aspettative. E’ scoppiata una guerra: era pronta da trent’anni, ma quasi nessuno se n’era accorto – men che meno la sinistra, partiti e sindacati. Oggi vaghiamo smarriti tra macerie lungamente programmate: persino l’incresciosa elemosina degli 80 euro promessi da Matteo Renzi può apparire una buona notizia, anche se ha il sapore della minestra della Caritas o della distribuzione di aiuti umanitari nel Darfur. Siamo in guerra, ma c’è chi ragiona come se fossimo ancora in tempo di pace. Lo fanno i politici, naturalmente, professionisti dell’elusione della verità esattamente come i maggiori media. E lo fanno pure, a modo loro, gli illuminati sostenitori dell’eresia decrescista: dicono che il sistema si è rotto semplicemente perché “doveva” rompersi, non poteva durare.
    Certo, l’attuale modello di sviluppo ha avvelenato la Terra e prodotto solitudine e depressione. E ora che s’è inceppato, abbandona al suo destino la prima “generazione decrescente” della storia occidentale moderna, quella che sa di non poter avere quello che ebbero tutte le generazioni precedenti: la legittima speranza di crescere ancora. Il che però non significa, di per sé, precipitare nell’abisso: ci si può attrezzare per vivere meglio, comunque, a prescindere dall’ecatombe del Pil. E’ la tesi di Andrea Bertaglio, classe 1979, espressa nella sua ultima dolente ricognizione editoriale presentata da Maurizio Pallante, di cui è stretto collaboratore. Il libro si affaccia con angoscia sul panorama desolante dei coetanei, traditi dalle false promesse dello sviluppo illimitato e condannati all’esilio o al call center, in precaria alternativa alla disoccupazione perenne, mentre intorno si sfasciano, giorno per giorno, tutte le certezze del sistema Italia. Sta franando, il nostro paese, che pure militava nel G7 – settima potenza industriale del mondo – e che l’Eurozona dell’austerity ha letteralmente declassato, stroncato, ridotto a mendicare clemenza dai potenti signori di Bruxelles, che peraltro nessuno ha mai eletto.
    Tutto questo accade, sostengono ormai molti analisti, perché l’élite mondiale non tollera di dover “dividere la torta” con ormai 7 miliardi di esseri umani e le loro inevitabili aspirazioni di consumo. Cibo e terre, acqua, energia, tecnologia, merci. Il risveglio dell’ex terzo mondo, oggi guidato dai Brics, dopo la caduta dell’Urss ha fatto esplodere il business della globalizzazione selvaggia, le delocalizzazioni, il lavoro schiavistico. L’industria? Sempre meno conveniente, per gli antichi “padroni”: meglio la pura speculazione finanziaria. A una condizione, essenziale: sbaraccare l’ostacolo della politica democratica, il welfare, la sovranità degli Stati, le leggi a tutela del cittadino, i diritti del lavoro. Per teorici intransigenti come Paolo Barnard – che cita economisti come il francese Alain Parguez, già insider all’Eliseo – basta dare un’occhiata alle biografie dei padri fondatori dell’Unione Europea (l’autoritario Mitterrand, “monarchico” come il suo guru Jacques Attali, e il primo presidente della Commissione Europea, Jacques Delors, definito “uomo dell’Opus Dei”) per capire che razza di progetto – a vocazione feudale – sia quello dell’Ue, di cui l’euro rappresenza il braccio armato, con un unico grande obiettivo: radere al suolo la sovranità finanziaria degli Stati membri, e quindi la loro residua capacità di proteggere le rispettive comunità nazionali.
    Il tracollo è ovvio, perfettamente voluto. Se privatizzi la moneta crolla tutto, a cascata: credito, spesa pubblica, settore privato dell’economia, occupazione, risparmi delle famiglie. “Masters of the Universe”, li chiama Noam Chomsky. Sono l’élite planetaria, erede dell’oligarchia occidentale che per due secoli, e in particolare nella seconda metà del ‘900, ha subito come un affronto la nascita della democrazia moderna, l’avvento dello Stato come erogatore di benessere materiale per i propri cittadini, grazie alla libera creazione di moneta. Oggi? Si stanno semplicemente riprendendo tutto, abolendo di fatto la democrazia. E lo fanno in un mondo sovrappopolato e minacciato da più crisi, concomitanti e tutte potenzialmente letali: energia, clima, economia, acqua, cibo, ambiente. Per Giulietto Chiesa, autore del saggio “Invece della Catastrofe” che parte dalle drammatiche profezie del Club di Roma sui raggiunti limiti dello sviluppo del capitalismo coloniale e mercantile, ci sono tutte le condizioni geopolitiche per temere l’avvento di una Terza Guerra Mondiale.
    Dopo l’11 Settembre la storia s’è rimessa a correre: Iraq e Afghanistan, Libia e Siria, ora Ucraina. Evidente il tentativo degli Usa di coinvolgere l’Europa in una drammatica sfida con la Russia. Obiettivo: fermare l’avanzata della Cina, sfruttando l’unico vero vantaggio di cui gli Stati Uniti ancora dispongono, cioè la supremazia tecnologico-militare. Il guaio, avverte uno storico medievista come Franco Cardini, è che ormai a decidere non sono più i governi eletti dal Parlamento, perché tutte le maggiori istituzioni nazionali e soprattutto internazionali – politiche, diplomatiche, economiche, finanziarie – sono capillarmente infiltrate dalle lobby dell’élite, che tende a militarizzare il mondo impiegando missili-fantasma, droni-killer, milizie private, eserciti mercenari. Si preparano soluzioni sbrigative, repressioni, abolizioni di diritti sociali. Un incubo, che aiuta a comprendere lo scenario nel quale sono paracadutati i trentenni di oggi, a cui anche in Germania viene spiegato che i mini-job da 500 euro al mese sono un lusso, dati i tempi che corrono. C’è una guerra in corso, appunto. Ma ancora si stenta a riconoscerla.
    Di recente, in un incontro coi ragazzi torinesi del Movimento per la Decrescita Felice, un intellettuale ultra-indipendente come Guido Ceronetti ha ammesso la propria nostalgia per il socialismo, cioè un sistema in cui lo Stato garantisca pari opportunità per tutti. Lo Stato è il grande assente dei nostri giorni: privandolo della sua sovranità fisiologica, i trattati-capestro di Bruxelles lo costringono a trasformarsi in spietato esattore, non avendo più altra fonte finanziaria che quella fiscale. Un libero pensatore come Alex Langer, profeta europeo dell’ambientalismo politico, si battè già negli anni ‘80 per il grande cambiamento oggi invocato dagli ecologisti: sapeva benissimo che solo il governo, investendo denaro sovrano attraverso la spesa pubblica e quindi il debito, può imprimere una forte eccelerazione a qualsiasi politica di ricoversione sostenibile dell’economia. Bertaglio lo cita in un passaggio del suo libro: «La conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile». E’ esattamente il crinale – innanzitutto culturale – su cui si impegnano i promotori della decrescita intelligente, da Pallante a Latouche.
    E’ anche il cuore dell’indagine che Andrea Bertaglio conduce con voce disarmata, partendo dalla propria esperienza personale, a confronto con quella di suo padre e, prima ancora, di suo nonno. E’ crollato un mondo, il loro. E questo di oggi, popolato di giovani spaesati e costretti a farsi mantenere dai genitori, rinunciando all’idea di metter su casa, è qualcosa che – per la prima volta – fa davvero paura. Quella della decrescita (s’intende: decrescita del Pil, degli sprechi, dei veleni) è una sorta di bussola: se lavori come un pazzo e spendi tutto quello che guadagni, finisci col non sapere neppure più cosa stai facendo, e perché. A cosa serve il lavoro che attualmente – quando c’è – ci dà da vivere? Riconversione: di certo, un lavoro socialmente utile fa vivere meglio, anche se magari fa calare il Pil perché comporta meno consumi, meno spostamenti, meno spese. E’ la filosofia della filiera corta, dei territori sostenibili, del “meno e meglio”. La strada imboccata da Roberto, che ha mollato il lavoro d’ufficio a Cagliari e si è messo a fare l’orticoltore in un paesino della provincia. O quella – spettacolare – dei ragazzi di Pescomaggiore, l’ecovillaggio fatto di case di paglia.
    I pionieri dell’economia sostenibile sembrano scansare il dilemma politico dei rapporti di forza, quelli cioè che – attraverso le elezioni – possono far vincere un’idea, trasformandola in azione pubblica regolarmente finanziata. Si diffida, purtroppo (ma comprensibilmente) delle organizzazioni politiche, preferendo l’azione diretta, promossa dal basso. Come quella del Comitato Rifiuti Zero che, ricorda Bertaglio, ha imposto «la vittoria del popolo valdostano contro l’affarismo», che voleva il solito inceneritore. Leader del comitato di lotta, il giovane medico Jean-Luis Aillon, dirigente Mdf. Un ragazzo di 29 anni, che ha scelto di lavorare meno – come guardia medica – per avere più tempo per l’orto e la produzione di formaggi destinati all’autoconsumo. «Se lavorassi soltanto per diventare ricco e famoso, sarei presto molto depresso».
    L’ennesimo ingenuo utopista? «La selezione naturale ha prescelto l’istinto utopista», risponde il dottor Aillon. «Sperare in un mondo migliore, mettere in crisi il reale, lottare per i propri sogni, è qualcosa che è stato iscritto nel nostro parimonio genetico. Perché favorisce la sopravvivenza della specie». Utopia, maneggiare con cura: quello che può apparire debolezza, è esattamente il suo contrario. Nel libro di Bertaglio, Jean-Luis ricorre a una parabola: «Se paragoniamo il nostro cinquantenne medio, disilluso e senza speranze, e una specie di formiche utopista, che sogna e si batte per un mondo diverso, possiamo vedere che quest’ultima è molto più forte e sopravvive». Inutile negarlo: «Noi abbiamo dentro questo patrimonio genetico, che la cultura odierna cerca di spegnere. L’ingenuo, semmai, è chi non lo riconosce». Farà in tempo, la “formica utopista”, a fermare i carri armati neoliberisti di Harvard, quelli che suggeriscono all’euro-totalitarismo la dottrina dell’austerity espansiva che uccide come mosche i bambini di Atene e avvicina alla Grecia anche il nostro paese?
    (Il libro: Andrea Bertaglio, “Generazione decrescente”, riflessione autobiografica sul mondo che è – e che potrebbe essere, con prefazione di Maurizio Pallante, Edizioni Età dell’Acquario, 103 pagine, 14 euro).

    Fine del lavoro, del futuro, della società civile protetta dai diritti di cittadinanza. Fine di tutto quello che siamo stati abituati a pensare come destino, consuetudine, standard di vita, aspettative. E’ scoppiata una guerra: era pronta da trent’anni, ma quasi nessuno se n’era accorto – men che meno la sinistra, partiti e sindacati. Oggi vaghiamo smarriti tra macerie lungamente programmate: persino l’incresciosa elemosina degli 80 euro promessi da Matteo Renzi può apparire una buona notizia, anche se ha il sapore della minestra della Caritas o della distribuzione di aiuti umanitari nel Darfur. Siamo in guerra, ma c’è chi ragiona come se fossimo ancora in tempo di pace. Lo fanno i politici, naturalmente, professionisti dell’elusione della verità esattamente come i maggiori media. E lo fanno pure, a modo loro, gli illuminati sostenitori dell’eresia decrescista: dicono che il sistema si è rotto semplicemente perché “doveva” rompersi, non poteva durare.

  • Rottamano la Costituzione perché hanno paura di noi

    Scritto il 27/3/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Pessima trovata, abolire il Senato. Segno di una politica senza idee, che ha paura degli elettori. E tenta di rifarsi il trucco per nascondere la sua incapacità di affrontare i veri problemi che abbiamo di fronte: «La concentrazione del potere economico e gli andamenti della finanza mondiale, l’impoverimento e il degrado del pianeta, le migrazioni di popolazioni. Ne subiamo le conseguenze, senza poter agire sulle cause». E la classe dirigente? «Non dirige un bel niente», accusa Gustavo Zagrebelsky. «Non tenta di mettere la testa fuori. Per far questo, occorrerebbe avere idee politiche e almeno tentare di metterle in pratica». Così, resta solo «il formicolio della lotta per occupare i posti migliori nella rete dei piccoli poteri oligarchici», un formicolio «che allontana e disgusta la gran parte che ne è fuori». Pura «autoconservazione del sistema di potere e dei suoi equilibri». Dietro ai tweet di Matteo Renzi, il giurista torinese vede «il blocco d’una politica che gira a vuoto, funzionale al mantenimento dello status quo».
    Una volta, ricorda Zagrebelsky, Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani definirono “razza padrona” un certo equilibrio oligarchico del potere. «Oggi, piuttosto riduttivamente, la chiamiamo “casta”. Un’interpretazione è che un sistema di potere incartapecorito e costretto sulla difensiva, avesse bisogno di rifarsi il maquillage. Se questo è vero, è chiaro che occorrevano accessori, riverniciature: il renzismo mi pare un epifenomeno». La classe dirigente italiana? «E’ decaduta a un livello culturale imbarazzante. La ragione è semplice: di cultura politica, la gestione del potere per il potere non ha bisogno. Sarebbe non solo superflua, ma addirittura incompatibile», dice il presidente onorario della Consulta alla giornalista Silvia Truzzi del “Fatto Quotidiano”. Sgomenta la memoria degli uomini che gestirono la ricostruzione del paese nel dopoguerra: Parri, Nenni, De Gasperi, Einaudi, Togliatti. «Non è che avessero le stesse idee, ma ne avevano: e le idee davano un senso politico alla loro azione».
    Le cose che oggi vengono dette e fatte dai politici «sono pezze, rattoppi d’emergenza necessari per resistere, non per esistere. Non è politica. Nella migliore delle ipotesi, se non è puro “potere per il potere”, è gestione tecnica». Attenzione: «La tecnica guarda indietro, la politica dovrebbe guardare avanti». Esempio, il governo Monti, cioè «la tecnica come surrogato della politica: un’illusione». Lancinante, l’assenza di politica, proprio nei momenti di massima crisi. «Basta essere nuovi e giovani? No. Quello che conta è la struttura dei poteri cui si fa riferimento e di cui si è espressione». Oggi, «in questo vuoto politico-sociale che cosa esiste e prospera? La rete degli interessi più forti. È questa rete che esprime i dirigenti attraverso cooptazioni. La democrazia resiste come forma, ma svuotata di sostanza. Se la si volesse rinvigorire, occorrerebbe una società capace di auto-organizzazione politica, ciò che una volta sapevano fare i partiti. Oggi, invece, sono diventati per l’appunto, canali di cooptazione, per di più secondo logiche di clan e di spartizione dei posti. Così, non si promuove il tanto necessario e sbandierato rinnovamento, ma si “allevano” giovani uguali ai vecchi».
    Ecco la parola: «Il rinnovamento sembra molto spesso un “allevamento”. Il resto è apparenza: velocità, fattività, decisionismo, giovanilismo, futurismo, creativismo. Tutte cose ben note e di spiegabile successo, soprattutto in rapporto con l’arteriosclerosi politica che dominava. Ma la novità di sostanza dov’è? La “rottamazione” a che cosa si riduce?». Magari al consueto refrain della necessità di modificare l’assetto costituzionale. «Le istituzioni possono sempre essere migliorate e rese più efficienti, ma mi pare che siano diventate il capro espiatorio di colpe che stanno altrove», sottolinea Zagrebelsky. Il vero problema: «Le difficoltà che incontra un aggregato di potere che sempre più difficoltosamente riesce a mediare e tenere insieme il quadro delle compatibilità, in presenza di risorse pubbliche da distribuire sempre più scarse». Ai tempi di Berlusconi, continua Zagrebelky, l’insofferenza nei confronti della Costituzione derivava «dalle esigenze di un potere aggressivo». Oggi, invece, «l’atteggiamento è piuttosto difensivo», perché i fautori delle “ineludibili” modifiche costituzionali dicono: c’è bisogno di cambiamenti per governare meglio, con più efficienza. Ma il vero scopo è difendersi dai cittadini, dalla democrazia: «Il terrore delle elezioni, la vanificazione dei risultati elettorali, i “congelamenti” istituzionali in funzione di salvaguardia vanno nella stessa direzione».
    Gli italiani avevano archiviato il Cavaliere? Ecco che Renzi l’ha prontamente riesumato. La Consulta ha definito il Parlamento illegittimo, eletto dall’incostituzionale Porcellum? Pazienza, si fa finta di niente. E proprio a parlamentari così “nominati” si chiede di manomettere la Costituzione. Larghe intese, quindi, per paura di Grillo. «Le larghe intese sono la negazione della dimensione politica», continua Zagrebelsky. «Sono il regime della paralisi, della stasi». Sicché, oggi «sembra che si viva in un eterno presente, in cui una posta di natura politica non esiste. Se non ci sono scelte, non c’è politica, e se non c’è politica non c’è democrazia, ma solo conflitti personali, di gruppo o di clan per posti, favori e, nel caso peggiore, garanzie d’immunità». Quindi siamo senza futuro? Sì, «finché la palude non viene smossa». Sfiducia, astensionismo. «Perché i cittadini vanno sempre meno a votare? Una volta si diceva “son tutti uguali”, intendendo “sono tutti corrotti”. Ma oggi è peggio, si pensa: “tanto non cambia nulla”. È un effetto della stasi politica».
    Il Movimento 5 Stelle, riconosce Zagrebelky, è nato col dichiarato intento di “smuovere la palude”, addirittura di «investirla con una burrasca che rovesci tutto», anche se la politica «deve contenere anche un intento costruttivo», perché «la tabula rasa e la rete non sono programmi. Non lo è nemmeno la lotta alla corruzione che, di per sé, rischia d’essere solo una competizione per la sostituzione d’una oligarchia nuova a una vecchia». Contro la corruzione «devono valere le istituzioni di controllo e l’intransigenza dei cittadini», perché «in difetto di politica, alla corruzione non c’è limite». Di fronte a noi, c’è un’oligarchia che si arrocca, pronta a tutto – anche a rottamare democrazia e Costituzione. L’Italicum: «Mi colpisce che la legge elettorale sia decisa dagli accordi d’interesse di tre persone (Berlusconi, Renzi, Alfano) invece che dalle ragioni della democrazia, cioè dalle ragioni di tutti i cittadini elettori. Mi colpisce tanta arroganza, mentre con un Parlamento delegittimato come l’attuale, si tratterebbe di fare la legge più neutrale possibile. Mi colpisce che si sospenderà il diritto alle elezioni, perché la contraddizione tra le due Camere impedirà di scioglierle».

    Pessima trovata, abolire il Senato. Segno di una politica senza idee, che ha paura degli elettori. E tenta di rifarsi il trucco per nascondere la sua incapacità di affrontare i veri problemi che abbiamo di fronte: «La concentrazione del potere economico e gli andamenti della finanza mondiale, l’impoverimento e il degrado del pianeta, le migrazioni di popolazioni. Ne subiamo le conseguenze, senza poter agire sulle cause». E la classe dirigente? «Non dirige un bel niente», accusa Gustavo Zagrebelsky. «Non tenta di mettere la testa fuori. Per far questo, occorrerebbe avere idee politiche e almeno tentare di metterle in pratica». Così, resta solo «il formicolio della lotta per occupare i posti migliori nella rete dei piccoli poteri oligarchici», un formicolio «che allontana e disgusta la gran parte che ne è fuori». Pura «autoconservazione del sistema di potere e dei suoi equilibri». Dietro ai tweet di Matteo Renzi, il giurista torinese vede «il blocco d’una politica che gira a vuoto, funzionale al mantenimento dello status quo».

  • Mai più sudditi: dal Veneto alla Le Pen, monito all’Ue

    Scritto il 25/3/14 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    La crisi innescata dall’adesione all’euro ha “bruciato” vent’anni di crescita, riportando il Veneto ai valori del 1995. Una catastrofe: la regione ha perso il 13,8% di Pil. Secondo la Cna, i settori più colpiti sono l’edilizia (-30%) e l’industria (-20%), seguiti da agricoltura e servizi. Ed ecco spiegato il clamore suscitato dal referendum popolare sull’indipendenza del Veneto, che secondo i promotori – i movimenti autonomisti – si è rivelato un plebiscito, consacrato da due milioni di elettori, proprio mentre Marine Le Pen spaventa l’Unione Europea col successo del Front National alle amministrative francesi. Su “Repubblica”, Ilvo Diamanti invita a prendere sul serio la consultazione veneta, perché la tendenza espressa è confermata da un sondaggio Demos: il 55% del campione chiede che il Veneto diventi “una repubblica indipendente e sovrana”. L’idea piace soprattutto al cuore sociale dell’economia veneta: imprenditori e operai, lavoratori dipendenti e autonomi della piccola impresa. “Traditi”, dopo gli anni del boom, dalla super-tassazione imposta da Bruxelles, dalla crisi del credito e dalle delocalizzazioni imposte dalla globalizzazione selvaggia.
    Il Pil veneto, rileva il newsmagazine “L’indipendenza”, nel 2013 è precipitato a 26.000 euro per abitante: «In altre parole, la crisi ha “bruciato” 18 anni di crescita economica». Lo rivela l’ultima analisi del centro studi Cna di Mestre: il quadro che ne emerge «è la triste conferma di quanto imprese, lavoratori e famiglie sanno già e vivono sulla propria pelle quotidianamente». La flessione del Pil si è inevitabilmente riversata sulla competitività del sistema economico regionale. Lo conferma uno studio della Commissione Europea: il Veneto ha perso 20 posizioni nella classifica delle regioni europee. Colpa delle manovre finanziarie varate dall’estate 2010: per il 2013, i veneti verseranno allo Stato 1,4 miliardi di euro, ben 387 milioni in più rispetto all’anno precedente. Per il 2014 si supererà il miliardo e mezzo di euro, anche per «un ulteriore inasprimento del Patto di Stabilità», che dovrebbe tradursi in una nuova stretta alla spesa pubblica, pari a 75 milioni di euro.
    «La rivendicazione autonomista appare fondata e largamente maggioritaria», riconosce Diamanti, che vi legge una assoluta trasversalità nell’elettorato. Indipendenza, precisa l’analista, non significa necessariamente secessione: la popolazione vuole autonomia, autogoverno, politici migliori. Certo, il test ha incuriosito la stampa internazionale, nei giorni in cui tiene banco la secessione della Crimea: la protesta del Veneto richiama quella della Catalogna contro Madrid, della Scozia contro Londra. E’ il sintomo di un’Europa smarrita, che ripudia i governi nazionali ormai chiaramente percepiti come succubi di Bruxelles e delle politiche di rigore dell’asse Ue-Bce. Piaga comune: i tagli alla spesa pubblica, che rimbalzano sul settore privato. Il ritorno immediato alla moneta sovrana è il principale cavallo di battaglia di Marine Le Pen, il cui braccio destro Steeve Briois è appena diventato sindaco di Hénin-Beaumont, una località di 26 mila abitanti. E a Marsiglia, la seconda città francese, il Fn ha superato i socialisti, con un risultato superiore al 20%.
    In una grande città del Sud come Perpignan, segnala il blog di Gad Lerner, i lepenisti sono arrivati in prima posizione superando il sindaco uscente dell’Ump col 34%. Un risultato che potrebbe portarli anche ad una clamorosa vittoria: per la prima volta, è a portata di mano la conquista di una città con più di centomila abitanti. «In molte altre località popolose il Fn ha superato il 30%, così confermando il ruolo di terza forza del sistema politico francese, in modo ormai strutturato. Un successo concentrato in particolare al Sud, ma che non si è limitato alle solite roccaforti della formazione lepenista». Come rimarca “Le Monde”, a questo tornata amministrativa il Fn ha scontato la sua debolezza organizzativa, con un basso reclutamento che però non nasconde la forte avanzata nelle comunali dove erano presenti liste lepeniste. Le amministrative sono state caratterizzate da un livello record di astensione (un francese su tre non ha votato) e dalla débacle dei socialisti al governo. L’Ump, nonostante le sue lotte interne, ha superato nettamente la gauche nel voto locale, tanto che “Le Monde” parla di una disfatta per Hollande.
    E mentre l’establishment italiano condanna il Fn bollandolo come “estrema destra xenofoba”, Napolitano si ostina a difendere l’europeismo dell’Ue – cioè la fonte della “guerra civile economica” in corso – come storica frontiera di pace. Stavolta se ne distacca persino Vendola: il successo della Le Pen, dice il leader di Sel, è tutto “merito” di politici come Hollande, cioè della sinistra che ha fatto solo e sempre politiche di destra. E’ la storia degli ultimi vent’anni: un filo diretto collega i socialisti francesi al New Labour di Blair, fino alla Spd delle larghe intese con la Merkel e naturalmente al Pd, che semmai – con Renzi e il suo ultra-liberista Jobs Act, tutto flessibilità e niente più diritti – ora sembra “scavalcare a destra” persino Forza Italia, senza più neppure tentare di apparire una forza politica di sinistra. Il Veneto, a quanto pare, non gradisce. E probabilmente sforna un antipasto delle imminenti europee. Il copione non cambia: anche nel 2013 il mainstream tentò di sbarrare la strada a Grillo, criminalizzandolo come “populista”, per poi subire – sbigottito – il trionfo del Movimento 5 Stelle.

    La crisi innescata dall’adesione all’euro ha “bruciato” vent’anni di crescita, riportando il Veneto ai valori del 1995. Una catastrofe: la regione ha perso il 13,8% di Pil. Secondo la Cna, i settori più colpiti sono l’edilizia (-30%) e l’industria (-20%), seguiti da agricoltura e servizi. Ed ecco spiegato il clamore suscitato dal referendum popolare sull’indipendenza del Veneto, che secondo i promotori – i movimenti autonomisti – si è rivelato un plebiscito, consacrato da due milioni di elettori, proprio mentre Marine Le Pen spaventa l’Unione Europea col successo del Front National alle amministrative francesi. Su “Repubblica”, Ilvo Diamanti invita a prendere sul serio la consultazione veneta, perché la tendenza espressa è confermata da un sondaggio Demos: il 55% del campione chiede che il Veneto diventi “una repubblica indipendente e sovrana”. L’idea piace soprattutto al cuore sociale dell’economia veneta: imprenditori e operai, lavoratori dipendenti e autonomi della piccola impresa. “Traditi”, dopo gli anni del boom, dalla super-tassazione imposta da Bruxelles, dalla crisi del credito e dalle delocalizzazioni imposte dalla globalizzazione selvaggia.

  • Gallino: il nemico è la democrazia autoritaria dell’Ue

    Scritto il 24/3/14 • nella Categoria: idee • (1)

    La democrazia teorizzata e realizzata dai neoliberali è una cattiva imitazione della democrazia. I popoli europei sono stati ingannati dai loro governi. È mancata una spiegazione intellettualmente onesta della crisi, delle sue cause profonde. Gli economisti ci hanno lasciato solo concetti paludati di formule, incomprensibili ai più. Credo si possano tuttavia pensare nuove forme di democrazia diretta, non fosse altro per il fatto che quella rappresentativa non gode davvero di buona salute. Bisognerebbe però operare su più livelli. A livello di Unione Europea, il Parlamento è l’unico organo che attualmente eleggiamo. Quest’ultimo, però, pur disponendo del potere di veto, tende a non utilizzarlo a sufficienza e conta ancora davvero poco. Serve dunque una democrazia rappresentativa più strutturata.
    La candidatura di Tsipras ha il merito di riportare la nostra attenzione al nesso tra crisi economica e crisi della democrazia. E di farlo ponendo dinanzi ai nostri occhi un esempio concreto come la Grecia, che meglio rappresenta il dramma del fallimento delle politiche di austerità. Dove, secondo l’ultimo rapporto della rivista di medicina “Lancet”, molte famiglie non hanno più nemmeno i soldi per curare i propri bambini. Dobbiamo esserne consapevoli, ciò che è successo ad Atene potrebbe avvenire anche in altri paesi dell’area euromediterranea. Questi sono i costi di una democrazia autoritaria affidata alle tecnocrazie. L’Europa è una grande dimensione politica, che non possiamo permetterci in alcun modo di affossare. Dobbiamo recuperarne l’originario spirito federalista e pretendere che si sviluppi su ben altre direttrici.
    Quella che oggi si chiama socialdemocrazia farebbe rivoltare nella tomba non pochi dei suoi illustri esponenti del passato. Se penso a quella tedesca, non dimentico che nella seconda metà del secolo scorso si è dimostrata in grado di introdurre grandi innovazioni in senso progressista. Poi però è arrivata l’Agenda 2010 e l’influenza del pensiero economico neoliberale ha preso il sopravvento. Nei primi anni duemila sono state approvate leggi che avevano come unico obiettivo quello di ridimensionare i capitoli principali della spesa sociale, così come sono state adottate politiche attive del lavoro che partivano dal presupposto secondo il quale se qualcuno era disoccupato lo era per propria responsabilità. Gli effetti sono stati quelli di una drastica segmentazione del mercato del lavoro tedesco e una forte moderazione salariale.
    Oggi in Germania si contano 7,3 milioni di cosiddetti mini-jobbers che lavorano 15 ore alla settimana per guadagnare 450 euro al mese e solo i più fortunati riescono a sommare più lavori. Altri 7,5 milioni di lavoratori hanno sì un contratto a tempo indeterminato ma lavorano per meno di 6 euro all’ora. Basterebbero questi dati a farci capire che negli ultimi due decenni i socialdemocratici in realtà hanno smesso di tutelare i più deboli. Martin Schulz? Ho letto che si è detto contrario alle modalità con cui si sta costruendo l’Unione bancaria e qualche giorno fa la Commissione affari economici di Strasburgo ha approvato una mozione su questo. Non solo, la stessa commissione ha approvato anche una risoluzione che chiede la costituzione di un Fondo Monetario Europeo che rimpiazzi la Troika. Mi sembra si tratti di decisioni in controtendenza rispetto agli orientamenti dell’attuale ministro dell’economia tedesco, Wolfang Schäuble, con il quale la Spd governa. Fatti non trascurabili, ma ancora insufficienti.
    Nel mio ultimo libro ho teorizzato un “colpo di stato” da parte di banche e governi. Ci sono molti studi che arrivano a questa conclusione. Si parla in un’involuzione autoritaria in cui decisioni di grande importanza, in questi anni, sono state prese da un numero ristretto di tecnici. Ciò che è avvenuto ricalca quello che la teoria politica definisce a tutti gli effetti un “colpo di Stato”, dove parti dello Stato che non ne avrebbero il diritto si arrogano poteri fondamentali attinenti alla sovranità costituzionale dello Stato medesimo. Il sistema finanziario ha preso il potere, in nome di una presunta eccezionalità, imponendosi ai governi nazionali e alla politica. Nuove forme di democrazia a livello locale da cui ripartire? Un terreno potrebbe essere quello della lotta alle privatizzazioni dei servizi di pubblica utilità. Molte analisi ormai lo affermano senza alcun timore di sorta: sono operazioni inefficienti dal punto di vista economico.
    Come sosteneva Hannah Arendt, la democrazia senza partecipazione non conta niente. Quello che conta maggiormente è il luogo democratico dove si forma l’agenda politica di una comunità, sia essa un comune, una regione, una nazione o un continente. Pensando agli enti locali di maggior prossimità, ci vorrebbero dei consigli comunali dove il primo obiettivo fosse quello di favore la discussione, il confronto aperto tra visioni diverse della società. Luoghi dove estrapolare e aggregare la conoscenza locale. La questione di fondo però è che i cittadini organizzati danno fastidio e la velocità dei processi economici considera i procedimenti democratici più un ostacolo che un’opportunità. Stiamo assistendo dunque a un’involuzione autoritaria. Non ci si può stupire allora che la cancelliera tedesca Angela Merkel, ma anche Van Rompuy e Olli Rehn, auspichino una democrazia “market conform”.
    (Luciano Gallino, dichiariazioni rilasciate a Mattia Ciampicacigli per l’intervista “Il nostro nemico è la democrazia autoritaria” pubbicata da “Il Manifesto” e ripresa il 7 marzo 2014 dal sito “Lista Tsipras”).

    La democrazia teorizzata e realizzata dai neoliberali è una cattiva imitazione della democrazia. I popoli europei sono stati ingannati dai loro governi. È mancata una spiegazione intellettualmente onesta della crisi, delle sue cause profonde. Gli economisti ci hanno lasciato solo concetti paludati di formule, incomprensibili ai più. Credo si possano tuttavia pensare nuove forme di democrazia diretta, non fosse altro per il fatto che quella rappresentativa non gode davvero di buona salute. Bisognerebbe però operare su più livelli. A livello di Unione Europea, il Parlamento è l’unico organo che attualmente eleggiamo. Quest’ultimo, però, pur disponendo del potere di veto, tende a non utilizzarlo a sufficienza e conta ancora davvero poco. Serve dunque una democrazia rappresentativa più strutturata.

  • L’euro-pirla che offre alla Merkel lo scalpo degli italiani

    Scritto il 18/3/14 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Se scodinzoli di fronte al boia, c’è qualcosa che non torna. Tradotto da Matteo Salvini, Lega Nord: «A Berlino abbiamo assistito allo show di un euro-pirla. Renzi, amico della Germania e nemico dell’Italia. Solo un cretino può pensare che possiamo essere alleati». Infatti, «se la Merkel è contenta e gli fa gli auguri, vuol dire che ha capito che continua a guadagnarci: basti pensare che da quando siamo entrati nell’euro la Germania è cresciuta del 30% mentre l’Italia è calata del 20%». Cifre impietose, osservando gli indicatori-chiave, Pil e disoccupazione: l’Eurozona ha lanciato Berlino, massacrando l’Italia. Anche il neo-premier si genuflette: niente sforamento del 3%, rigorosa applicazione della mannaia del patto fiscale europeo. «Non battiamo ciglio quando ci viene detto che dovremo tirar fuori, da quest’anno, 50 miliardi l’anno per il Fiscal Compact, ma ci sembrano chissà quale elargizione gli 80 euro in busta paga per un quinto degli italiani», annota Debora Billi.
    «Eppure, a fare un piccolo conto – scrive la Billi nel suo blog – scopriamo che appena 10 milioni di persone riceveranno 1.000 euro a fine anno, mentre tutti i 50 milioni di cittadini i 1.000 dovranno pagarli proprio per il Fiscal Compact». Saldo negativo: «Conto paro per alcuni, meno 1.000 euro per tutti gli altri». Ma poco importa, aggiunge la blogger: «Tutti si affannano col mantra del “meglio che niente”, ovvero quell’elemosina dei potenti che da sempre tiene buono il popolino nei momenti di magra o di scontento. Che qualcuno regali soldi sembra ai più un miracolo, mentre il fatto che ci rapinino ogni giorno è ormai dato normale e acquisito. L’eccezione, si sa, fa notizia. Che gli 80 euro “facciano girare l’economia” poi è hard fantasy». Continua la Billi: «Alzi la mano chi non ha una multa arretrata, una cartella Equitalia, un aumento di tasse comunali o regionali o Tarsu o Taris o quel che l’è da pagare. Gli 80 euro torneranno nelle tasche dello Stato più veloci della luce, e pochi saranno quelli che riusciranno a spenderli al negozietto in affanno».
    Il succo? Stanno cercando di comprarci il voto: «Una vecchia usanza dei politici italiani, che credono da sempre di aver a che fare con dei pezzenti che si vendono per poche lire. Grazie per la stima, ragazzi. Se ci aggiungete due paia di calze e un sacco di carbone magari vi voto anch’io, che qua fa freddo e Putin è cattivo». Nel 1999, riassume Paolo Barnard, l’Italia era la quinta potenza mondiale, una delle maggiori economie d’Europa secondo “Standard & Poor’s”: «Esportavamo più della Germania e avevamo il Pil pro capite più alto d’Europa». Vent’anni dopo, eccoci tra i Piigs: «Siamo i “maiali d’Europa”, abbiamo il 23esimo reddito dell’Ocse, la disoccupazione maggiore da 40 anni». Ogni anno, il nostro Pil perde 800 miliardi, mentre «falliscono oltre 300.000 aziende all’anno e si suicidano più imprenditori che operai per la prima volta nella storia». Inontre, dal 1992 al 2012 l’Italia ha fatto avanzo primario. «Vuol dire che se dai conti dello Stato si tolgono le sue spese per pagare gli interessi sui titoli come i Btp o i Cct, lo Stato ha sempre incassato più tasse di quanto ci desse di denaro. Ci dava 100 e ci tassava 110. Così per 20 anni».
    E’ la catastrofe della finanza pubblica “privatizzata”, cioè affidata agli “investitori” internazionali che acquistato i titoli del debito pubblico da quando, nel 1981, Bankitalia divorziò dal Tesoro e cessò di essere il “bancomat del governo”, emettendo denaro a costo zero per finanziare i servizi. Poi, con l’euro, il colpo da ko: impossibilità di fare retromarcia, con lo Stato costretto a rivolgersi alle banche private, uniche destinatarie della non-moneta emessa dalla Bce. E quindi, per restare a galla, più tasse. «Se lo Stato spende 100 e tassa 80, al settore di cittadini e aziende rimane al netto 20», ragiona Barnard. «Se spende 100 e tassa 100, rimane 0, se spende 100 e tassa 120 – cioè se lo Stato fa l’avanzo primario – vuol dire che il settore privato deve andare in rosso di 20 ogni volta». Così per vent’anni.
    Ed ecco come s’è ridotto il settore privato italiano. Oggi, «quasi la metà dei titoli di Stato italiani sono in mani straniere, per cui quasi la metà di quel reddito se n’è andato via dall’Italia. Sono cifre enormi, miliardi su miliardi». Danni limitati, «se questa emorragia di denaro fosse stata giustamente compensata da maggiore spesa pubblica nell’interesse pubblico italiano». Invece, «montagne di denaro» sono volate per pagare interessi stranieri, mentre lo Stato «ci tassava per più di quello che ci dava, privandoci di miliardi su miliardi di spesa essenziale allo sviluppo della nazione». Ora siamo all’inevitabile: economia ko, mutui che saltano, banche che non concedono credito, super-tassazione e “spending review”, privatizzazioni, servizi pubblici in agonia. E’ in arrivo anche il Fiscal Compact, la maxi-tassa europea? Niente paura, Renzi assicura che pagheremo anche quello. Per la gioia della Merkel. Felice, finalmente, del programma di “riforme strutturali” (amputazione definitiva dello Stato, morte economica del paese) che Mario Monti ed Elsa Fornero non erano riusciti a completare.

    Se scodinzoli di fronte al boia, c’è qualcosa che non torna. Tradotto da Matteo Salvini, Lega Nord: «A Berlino abbiamo assistito allo show di un euro-pirla. Renzi, amico della Germania e nemico dell’Italia. Solo un cretino può pensare che possiamo essere alleati». Infatti, «se la Merkel è contenta e gli fa gli auguri, vuol dire che ha capito che continua a guadagnarci: basti pensare che da quando siamo entrati nell’euro la Germania è cresciuta del 30% mentre l’Italia è calata del 20%». Cifre impietose, osservando gli indicatori-chiave, Pil e disoccupazione: l’Eurozona ha lanciato Berlino, massacrando l’Italia. Anche il neo-premier si genuflette: niente sforamento del 3%, rigorosa applicazione della mannaia del patto fiscale europeo. «Non battiamo ciglio quando ci viene detto che dovremo tirar fuori, da quest’anno, 50 miliardi l’anno per il Fiscal Compact, ma ci sembrano chissà quale elargizione gli 80 euro in busta paga per un quinto degli italiani», annota Debora Billi.

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