Archivio del Tag ‘Russia’
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Chomsky: ho paura, questa élite vuole ricorrere all’atomica
Donald Trump sa di non avere nessuna speranza di premiare i milioni di elettori che avevano creduto in lui. Per questo gioca l’ultima carta e indossa i panni dello sceriffo: per distrarre il pubblico, bombardando il mondo. Ma il gioco è pericoloso: tra una provocazione e l’altra, con il solito corredo di notizie false come le responsabilità di Assad sull’uso dei gas contro la popolazione siriana, la Russia stavolta potrebbe reagire. Mosca potrebbe sparare per prima i suoi missili a testata atomica contro l’America, prima che sia troppo tardi. Mai, nella sua storia, l’umanità ha corso un pericolo così grande. Lo afferma Noam Chomsky in un’intervista concessa al “Manifesto”, nella quale esprime la massima preoccupazione per i giorni che stiamo vivendo. La sua tesi: l’élite è semplicemente “impazzita”. E il terrore di perdere il potere può spingerla verso la catastrofe nucleare. Gli oligarchi sanno di non avere più alcuna possibilità di recuperare il consenso perduto, come dimostra il fallimento della loro ultima creazione illusionistica, Donald Trump. E allora premono sulla guerra: la vogliono davvero, come unica soluzione per mantenere il controllo totale sull’umanità.Ad aggravare il quadro, aggiunge Chomsky, intervistato da Patricia Lombroso, sarebbe la rottura dello storico equilibrio missilistico tra Usa e Russia, provocata dal colossale programma di riarmo nucleare varato anni fa da Barack Obama. Secondo il grande intellettuale americano, oggi la dotazione balistica degli Stati Uniti sarebbe superiore rispetto a quella di Mosca. E i russi, che sanno di essere minacciati, potrebbero decidere di sferrare per primi un attacco nucleare preventivo, prima che la loro deterrenza venga definitivamente cancellata dall’ipotetica supremazia atomica statunitense. Uno scenario da apocalisse, confermato da un altro acuto analista indipendente come Paul Craig Roberts, secondo cui i russi – che a suo parere non dispongono affatto di un arsenale inferiore a quello americano – potrebbero comunque scegliere di colpire per primi, dato che gli Usa e la Nato li stanno letteralmente assediando, in modo sempre più subdolo, ormai anche alle frontiere della Federazione Russa, sul Baltico e nell’Europa orientale.Altri osservatori, come il francese Thierry Meyssan, sono meno pessimisti: tendono a pensare che Trump stia essenzialmente “facendo teatro”. Per Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, l’eventuale bluff muscolare di Trump avrebbe lo scopo di illudere (e tacitare, a suon di commesse miliardarie) l’apparato militare-industriale che fa capo al potentissimo clan dei Bush. Lo stesso Carpeoro, tuttavia, non si nasconde la pericolosità del potere oligarchico mondiale ormai pronto a tutto, come dimostra l’auto-terrorismo targato Isis. Sullo sfondo, la situazione allarmante del pianeta: «Gli oligarchi sanno che le risorse terrestri si stanno esaurendo, a cominciare dalle fonti energetiche, e ciascun gruppo sgomita per prepararsi a imporre il suo Piano-B». Lo stesso Giulietto Chiesa teme gli effetti della doppia crisi in atto: la pericolosità di un’America in declino, arginata da Russia e Cina, in un mondo che non sa come affrontare né l’esplosione demografica, né l’incombente catastrofe climatica, che secondo l’Onu sta già innescando esodi mai visti prima, nella storia. Tante angolazioni diverse, molte analisi e una sinistra caratteristica comune: l’assenza di soluzioni, in vista.Nella sua visione, Chomsky si concentra sulla politica estera Usa: «Le aggressioni unilaterali da parte degli Stati Uniti in Siria e in Afghanistan – afferma – sono state preparate a tavolino da questa nuova amministrazione, incurante del crimine commesso, che viola tutte le norme del diritto internazionale». Obiettivo: nient’altro che «uno show rivolto all’opinione pubblica in attesa della promessa “America First”». Dietro la propaganda di Trump, Noam Chomsky vede un «progetto selvaggio di smantellamento, passo dopo passo, dell’intera legislazione federale istituita 70 anni fa per proteggere l’intera popolazione americana dalla logica dei profitti immediati e dalla massima concentrazione del potere». Operazione abilmente nascosta dallo “sceriffo” Trump, che prova a rassicurare gli americani «con questo messaggio diretto: i brillanti risultati conseguiti dai nostri uomini del Pentagono nelle ultime otto settimane sono superiori a quanto conseguito durante gli ultimi otto anni dalla presidenza Obama». E ancora: «Siamo in grado di effettuare operazioni coraggiose. Insomma, ecco il nuovo sceriffo che dimostra di essere l’uomo forte che voi volete. E che ha dato mano libera a chi voleva intraprendere le cosiddette azioni coraggiose. Come quella di sganciare la superbomba in Afghanistan senza aver neppure idea quale territorio abbiamo distrutto, né di quanti civili abbiamo ucciso».Paradossalmente – ma non è una novità – negli Stati Uniti «l’applauso è stato univoco e totale anche da parte dei democratici, visto che in Siria il nuovo sceriffo Trump ha inviato un messaggio alla comunità internazionale per dimostrare che l’America è ancora una superpotenza che sa reagire con la nuova forza dell’“America First”». Passo dopo passo, continua Chomsky, «dietro le quinte viene approvata una legislazione che toglie ogni speranza alla popolazione americana nel rivendicare i benefici di protezione sociale ed economica istituiti 70 anni fa». Per l’insigne linguista, «è questa l’organizzazione di potere più pericolosa nella storia del mondo». Una “cupola” che, «per continuare ad avere più profitti e sempre più potere, è capace anche di usare l’arma nucleare. Sino alla distruzione dell’umanità». Secondo Chomsky, grazie al riarmo nucleare finanziato in silenzio da Obama, oggi «l’arsenale atomico statunitense ha raggiunto un livello da strategia atomica avanzata e radicale, tale da poter annientare la deterrenza dell’arsenale atomico russo». E dato che Mosca non ne è certo all’oscuro, «con l’intensificarsi della tensione diretta, specialmente nei paesi baltici ai confini della Russia», tutto questo «determina il rischio di un confronto nucleare diretto con la Russia».Se così stanno le cose, secondo Chomsky, si sono «assottigliati i margini per la sicurezza mondiale» e ci stiamo pericolosamente avvicinando a una catastrofe nucleare provocata dalla “mutual destruction”, la distruzione reciproca. Si è infatti «messa in moto una situazione in base alla quale la Russia, con l’intensificarsi delle provocazioni degli Stati Uniti, possa decidere di sferrare un “preemptive strike”», un colpo preventivo nucleare, «nella speranza di sopravvivere, dal momento in cui non ha più la capacità di un arsenale deterrente». Per Chomsky, «ci troviamo in una situazione gravissima e pericolosa», dove «il rischio è dato dalle reazioni imprevedibili di Trump», sempre più debole sul piano della politica interna, e quindi preoccupatissimo. «Un Trump che, se non sarà in grado di mantenere le promesse di cambio fatte alla “working class” a cui si è riferito in campagna elettorale (e che sarà la prima vittima della sua presidenza), prima o poi seguirà un dilagare di accuse di terrorismo islamico verso gli immigrati per giustificare misure repressive eccezionali e nuovi bandi. Prefabbricando prove di un attacco all’America, tanto da giustificare il ricorso all’arma nucleare». I missili in Siria e la superbomba Moab sganciata in Afghanistan? «Sono l’esemplificazione dell’America di Trump pronta a ritorsioni militari che superano ogni più perversa immaginazione. Un disegno politico che è prassi storica, per questo paese, sin dai tempi della Guerra Fredda».Donald Trump sa di non avere nessuna speranza di premiare i milioni di elettori che avevano creduto in lui. Per questo gioca l’ultima carta e indossa i panni dello sceriffo: per distrarre il pubblico, bombardando il mondo. Ma il gioco è pericoloso: tra una provocazione e l’altra, con il solito corredo di notizie false come le responsabilità di Assad sull’uso dei gas contro la popolazione siriana, la Russia stavolta potrebbe reagire. Mosca potrebbe sparare per prima i suoi missili a testata atomica contro l’America, prima che sia troppo tardi. Mai, nella sua storia, l’umanità ha corso un pericolo così grande. Lo afferma Noam Chomsky in un’intervista concessa al “Manifesto”, nella quale esprime la massima preoccupazione per i giorni che stiamo vivendo. La sua tesi: l’élite è semplicemente “impazzita”. E il terrore di perdere il potere può spingerla verso la catastrofe nucleare. Gli oligarchi sanno di non avere più alcuna possibilità di recuperare il consenso perduto, come dimostra il fallimento della loro ultima creazione illusionistica, Donald Trump. E allora premono sulla guerra: la vogliono davvero, come unica soluzione per mantenere il controllo totale sull’umanità.
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Numbers Stations, trasmissioni misteriose: destinate a chi?
Le Numbers Stations sono stazioni radio ad onde corte che trasmettono numeri in sequenza apparentemente casuale. Il fenomeno dura da molti anni e ancora nessuno è riuscito a capire né la loro funzione né da dove provengano. Il mistero delle Numbers Stations, anche se non molto conosciuto, è uno dei più intriganti in circolazione e anche uno dei più recenti. Queste particolari stazioni radio esistono da svariati anni; se ne hanno tracce addirittura sin dalla Prima Guerra Mondiale, ma agli inizi degli anni ᾽90 il fenomeno è cresciuto a dismisura, diventando un vero e proprio caso internazionale e anche una sorta di leggenda metropolitana. Un messaggio “tipo” ha una durata media di 45 minuti ed è in genere composto da blocchi di numeri che vengono letti con un intervallo regolare di pochi secondi tra l’uno e l’altro; l’inizio di ogni trasmissione è sempre dichiarato con una o più parole, quindi un esempio può essere: “Atenciòn! 12345 – 45678 – 98765”, eccetera. La parola iniziale viene solitamente ripetuta più volte prima dell’inizio della trasmissione, presumibilmente per essere sicuri che chiunque sia il ricevente si trovi in ascolto, oppure per fare in modo che capisca determinate cose.In qualche caso, oltre alla consueta parola si possono sentire una serie di “bip” elettronici o di numeri ripetuti più volte prima che abbia inizio il messaggio vero e proprio. Secondo gli esperti, questi primi blocchi di numeri starebbero a indicare il totale dei blocchi di codice contenuti nel messaggio successivo, come ad esempio: “Count 204 – Count 204 – Achtung! 12345 – 45678 – 98765”, eccetera. Questi appena descritti sono i tipi messaggio più comuni di una Numbers Station. Tuttavia nel corso degli anni si sono registrati casi più particolari, in cui i messaggi iniziavano con una musica di carillon, oppure erano caratterizzati dalla presenza di strani effetti sonori come “gong” o sirene. Per quanto riguarda la lettura dei numeri, è quasi sempre una voce maschile o una voce sintetizzata al computer a leggere il messaggio. Ma anche qui non mancano le eccezioni: ci sono state trasmissioni dove chi leggeva il codice era apparentemente un bambino, oppure una voce con un accento di un paese straniero, forse per depistare eventuali ascoltatori indesiderati sulla provenienza del messaggio; ma, a detta di molti, queste simulazioni linguistiche non sono mai riuscite tanto bene…Altri tipi di Numbers Stations sono quelle che trasmettono codice Morse o rumore, ma questo particolare tipo di stazioni sono molto più rare rispetto a quelle classiche, anche se ultimamente sono in aumento. C’è un’ultima caratteristica da non sottovalutare: le trasmissioni iniziano sempre ad orari ben precisi, tipo le 16.00. Non è quasi mai successo che siano iniziate alle 16:13 o orari simili: questo, secondo molti, starebbe a indicare il fatto che questi messaggi siano indirizzati a qualcuno che ha una sorta di “appuntamento”. Prima di cercare capire cosa ci sia dietro a tutto questo, ricapitoliamo in breve le caratteristiche di un messaggio di una Numbers Station: trasmissione a onde corte; durata di circa 45 minuti; una o più parole prima dell’inizio; blocchi di codice ripetuti con intervalli regolari; orario di inizio sempre preciso. Probabili implicazioni governative? La convinzione popolare vuole le Numbers Stations come canali di trasmissione criptati usati da spie per trasmettere informazioni in codice. Secondo questa teoria, i messaggi sarebbero cifrati con un cifrario di Vernam per evitare ogni rischio di decifrazione da parte del nemico.A supporto di chi sostiene che le Numbers Stations sarebbero usate da spie internazionali, c’è il fatto che le stazioni avrebbero cambiato le modalità delle loro trasmissioni o effettuato operazioni fuori programma in concomitanza con grandi eventi politici, come la crisi costituzionale russa del 1993: solo un caso? Ad oggi, nessun ente governativo ha mai ammesso di aver fatto uso di Numbers Stations. Tuttavia, nel 1998 un portavoce del Department of Trade and Industry, un dipartimento del governo britannico che si occupa anche di comunicazioni, dichiarò al “Daily Telegraph” che le Numbers Stations non sono cose di pubblico uso e che la gente non dovrebbe essere suggestionata da esse. In Inghilterra, per l’appunto, l’ascolto delle Numbers Stations è considerato illegale; questa legge comunque è stata fatta presumibilmente per evitare casi di spionaggio da parte di altri governi, dato che il rintracciamento delle frequenze a onde corte delle Numbers Stations è abbastanza dispendioso, sia in termini di tempo che di denaro per un semplice radioamatore.A causa del metodo di trasmissione a onde corte, è molto difficile capire da dove provenga il segnale delle stazioni. Tuttavia, grazie a errori di trasmissione o alla propagazione delle onde radio, è stato possibile avere alcuni indizi; per esempio, grazie ad un presunto errore di trasmissione negli anni ‘90, si riuscì a capire che la stazione ribattezzata “Atencion” si trovasse a Cuba, dato che per un breve lasso di tempo la stazione “Radio Habana Cuba” venne trasmessa nelle frequenze di questa Numbers Station. Nel 2000 gli Usa riconobbero ufficialmente la provenienza cubana della stazione “Atencion”, che in seguito venne perseguita legalmente dalla giustizia statunitense. Tutti i governi sospettati di essere implicati con le Numbers Stations hanno sempre smentito di aver fatto uso di questi metodi di trasmissione; in effetti, se fossero effettivamente trasmissioni governative, un dubbio verrebbe naturale: perché svariati governi di tutto il mondo avrebbero fatto uso tutti dello stesso metodo di trasmissione segreto? Questo, a rigor di logica, non avrebbe senso. Considerando questo fatto, saremmo di nuovo al punto di partenza… ma allora a cosa servono, e che cosa sono queste misteriose stazioni radiofoniche?Altre possibili funzioni? Come abbiamo già detto in precedenza, l’ipotesi più gettonata sulle Numbers Stations è quella del metodo segreto di trasmissione tra spie governative, ma se consideriamo l’ultima riflessione del paragrafo precedente, si aprono altri scenari. Tra chi è convinto che la pista governativa sia falsa perché troppo sconveniente, c’è chi sostiene che le stazioni sarebbero utilizzate non da governi, ma bensì da organizzazioni internazionali segrete, delle quali non si conoscerebbero gli effettivi scopi. Oltre a quest’ultima sono state prodotte le più svariate teorie sulle Numbers Stations. Come al solito, in questi casi il web negli ultimi anni ha contribuito a far crescere il fenomeno e a far sì che ognuno potesse dire la sua; per questo motivo sarebbe impossibile riportare tutte le ipotesi fatte in merito. Quindi concludiamo osservando che la funzione di queste stazioni è un vero e proprio rompicapo da circa 50 anni ormai. E, data la difficoltà di captarle e di capire a cosa servano, questo mistero è destinato probabilmente a durare ancora per molto tempo.(“Number Stations, le stazioni radio misteriose”, post redatto da “Blackstar” sul blog “Il Sapere” l’8 aprile 2017. Il blog segnala inoltre la presenza sul web di siti Internet attraverso i quali scaricare Cd contenenti registrazioni di trasmissioni delle Numbers Stations captate via radio, e dà indicazioni sui cifrari utilizzati e sulle fonti disponibili per approfondire).Le Numbers Stations sono stazioni radio ad onde corte che trasmettono numeri in sequenza apparentemente casuale. Il fenomeno dura da molti anni e ancora nessuno è riuscito a capire né la loro funzione né da dove provengano. Il mistero delle Numbers Stations, anche se non molto conosciuto, è uno dei più intriganti in circolazione e anche uno dei più recenti. Queste particolari stazioni radio esistono da svariati anni; se ne hanno tracce addirittura sin dalla Prima Guerra Mondiale, ma agli inizi degli anni ᾽90 il fenomeno è cresciuto a dismisura, diventando un vero e proprio caso internazionale e anche una sorta di leggenda metropolitana. Un messaggio “tipo” ha una durata media di 45 minuti ed è in genere composto da blocchi di numeri che vengono letti con un intervallo regolare di pochi secondi tra l’uno e l’altro; l’inizio di ogni trasmissione è sempre dichiarato con una o più parole, quindi un esempio può essere: “Atenciòn! 12345 – 45678 – 98765”, eccetera. La parola iniziale viene solitamente ripetuta più volte prima dell’inizio della trasmissione, presumibilmente per essere sicuri che chiunque sia il ricevente si trovi in ascolto, oppure per fare in modo che capisca determinate cose.
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Guerra nel Pacifico: l’export dell’Asia non vuole più i dollari
I maggiori paesi asiatici si sono stancati di accettare “carta straccia” in cambio di merci, e stanno abbandonando il dollaro: per questo, stavolta, il rischio di guerra – nel Pacifico – è vicinissimo. Lo sostiene un analista economico come Alberto Micalizzi, allarmato dalla «necessità impellente» dell’America di sostenere la propria economia basata sul debito estero. «Qui non stiamo parlando di interessi strategici di natura politica, di giochi sul prezzo delle materie prime, di pipeline di gas o petrolio o di tatticismi di altro tipo. Stiamo parlando del fatto che gli Usa iniziano a incontrare difficoltà nel finanziare i circa 500 miliardi di dollari di deficit annuo generati dalla bilancia commerciale, cronicamente in passivo perché consumano più di quanto producono e qualcuno deve accettare di rifornirli in cambio di dollari». Tutto questo, sottolinea Micalizzi, sorregge da decenni il tenore di vita degli statunitensi. E la metà del debito estero Usa – precisamente 2.632 miliardi di dollari – è contratto verso quattro paesi dell’estremo oriente». Cina, Giappone, Taiwan e Hong Kong: sono i principali esportatori di merci verso gli Usa, «cioè quelli che finora hanno retto il gioco del disavanzo commerciale» che tiene in piedi l’asimmetrica economia statunitense. Il problema? I fornitori asiatici ci stanno “ripensando”.
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Buoni propositi: le velleità dei 5 Stelle su Ue, Nato, mondo
Ancora incerto, il programma dei 5 Stelle. Ma forse un po’ meno vago, dopo la consultazione online che, secondo il blog di Grillo, attraverso la piattaforma “Rousseau” ha coinvolto quasi 25.000 iscritti, impegnati a esprimersi sulle linee generali da seguire in politica estera. Un’apertura di credito proviene da una fonte critica come “Contropiano”, che si definisce “giornale comunista online” e mostra un cauto interesse per il verdetto dei grillini: «Sicuramente non è un programma che piacerà all’establishment, alla Nato e all’Unione Europea che ha ingranato la quarta sul piano delle spese militari». Visto così, secondo “Contropiano”, il mondo entro cui dovrebbe articolarsi la politica estera del M5S «appare in aperta controtendenza con quella con cui i governi italiani di destra o centro-sinistra hanno ingabbiato e reso subalterno il paese nei decenni scorsi». Beninteso: «La politica estera del M5S non annuncia rotture, né verso la Nato né verso l’Unione Europea», ovviamente. Eppure, «parla di “adeguamento” della prima e di “riforma” della seconda». Per il newsmagazine “comunista”, si tratta di «un velleitarismo moderato che in qualche modo alimenta l’idea che tali apparati possano essere “riformati” sulle base di buone ragioni».Sulla Nato, 4.547 grillini “votano” per un «adeguamento dell’alleanza atlantica al nuovo contesto multilaterale», cioè «in un’ottica esclusivamente difensiva». L’impegno è a sottoporre al Parlamento «un’agenda per il disimpegno dell’Italia da tutte le missioni militari della Nato in aperto contrasto con la lettera e lo spirito dell’articolo 11 della nostra Costituzione». In più, i grillini considerano il territorio italiano «indisponibile per il deposito e il transito di armi nucleari, batteriologiche e chimiche», nonché «per installazioni e addestramenti che ledano la salute degli italiani». Più popolare, nella consultazione interna, la mozione sull’Europa, scelta da 8.529 iscritti. Chiedono «un’Europa senza austerità», per la quale il Movimento 5 Stelle annuncia di voler farsi promotore «di un’alleanza con i paesi dell’Europa del Sud per superare definitivamente le politiche di austerità e rigore, facendo fronte comune per ottenere una profonda riforma dell’Eurozona e dell’Unione Europea».Si tratta di «argomentazioni non dissimili da quelle della sinistra europea», secondo “Contropiano”, che fa notare come «la Grecia di Tsipras le smentisce nei fatti, mentre il mondo non ha ancora notizia di un paese che sia riuscito a modificare la natura della Nato». Ecco il punto: «La vera incognita rimane quella della coerenza tra enunciazioni e fatti». E quello che s’è visto finora nel governo della capitale, da parte dei 5 Stelle, «non induce alla fiducia». Il problema è serio: «Sul piano locale come su quello internazionale, perseguire una rottura dell’esistente presuppone una solidità politica e personale e un impianto di idee consolidato che fino ad oggi non ha dato grandi prove di sé». In cima ai desiderata della base grillina, votato da oltre 10.000 attivisti, campeggia il capitolo “contrasto ai trattati internazionali come Ttip e Ceta” (in realtà il Ttip è tecnicamente defunto, sostituito dal Misds, di cui i 5 Stelle non parlano, così come del Ceta, l’insidioso trattato sulla privatizzazione dei servizi). Seguono il capitolo su “Europa senza austerità” e la voce “ripudio della guerra”. A seguire: “smantellamento della Troika”, “disarmo come premessa alla pace”, “Russia: un partner economico e strategico contro il terrorismo”. In coda: “riformare la Nato”, “risoluzione dei conflitti in Medio Oriente” e “nuovi scenari di alleanze per l’Italia”.In tema di sovranità, si parla di «cooperazione e dialogo tra le popolazioni», sorvolando però sulla forma più essenziale di sovranità, quella monetaria e finanziaria. Quallo allo “smantellamento della Troika”, il M5S sfodera toni bellicosi nella forma ma pletorici, innocui nella sostanza. Annuncia che «si opporrà in ogni modo a tutti quei ricatti dei mercati e della finanza internazionale travestiti da “riforme”», senza spiegare cosa opporrà, in concreto, al potere di ricatto della finanza privata. «In particolare», aggiunge la nota, il Movimento 5 Stelle «si impegnerà allo smantellamento del Mes (Fondo “Salva Stati”) e della cosiddetta “Troika”, organismi sovranazionali che hanno appaltato la democrazia delle popolazioni imponendo, senza nessun mandato popolare, le famigerate “rigorose condizionalità”», cioè le misure imposte dall’euro (di cui i 5 Stelle continuano a non parlare).Ai seguaci di Grillo, il menù “politica estera” è stato presentato direttamente dal leader, via web, mediante proposte già preconfezionate: solo su quelle era possibile pronunciarsi. Testi “facili” e infarciti di annunci poco impegnativi, del tipo: «Combatteremo in ogni sede possibile le pratiche oggi utilizzate dalle multinazionali per eludere il fisco mediante “triangolazioni internazionali”». Addirittura, i grillini aggiungono che “lavoreranno” «per la riforma dell’architettura finanziaria internazionale», aumentando a tal fine «la cooperazione con tutti quegli organismi, come il G7 più Cina, che si impegnano in questa direzione». Niente di pratico, insomma, per affrontare – per le corna – il toro della crisi europea, incarnato dalla privatizzazione della moneta. Nonostante la sua vaghezza, comunque, “Contropiano” non cestina la possibile agenda dei grillini, sforzandosi di scorgervi il bicchiere mezzo pieno: «Se su questo programma di politica estera il M5S mostrerà coerenza e conseguenza – scrive il newsmagazine – sarebbe indubbiamente un cambio di passo significativo per il dibattito pubblico sul nostro paese e le sue relazioni con il mondo».Ancora incerto, il programma dei 5 Stelle. Ma forse un po’ meno vago, dopo la consultazione online che, secondo il blog di Grillo, attraverso la piattaforma “Rousseau” ha coinvolto quasi 25.000 iscritti, impegnati a esprimersi sulle linee generali da seguire in politica estera. Un’apertura di credito proviene da una fonte critica come “Contropiano”, che si definisce “giornale comunista online” e mostra un cauto interesse per il verdetto dei grillini: «Sicuramente non è un programma che piacerà all’establishment, alla Nato e all’Unione Europea che ha ingranato la quarta sul piano delle spese militari». Visto così, secondo “Contropiano”, il mondo entro cui dovrebbe articolarsi la politica estera del M5S «appare in aperta controtendenza con quella con cui i governi italiani di destra o centro-sinistra hanno ingabbiato e reso subalterno il paese nei decenni scorsi». Beninteso: «La politica estera del M5S non annuncia rotture, né verso la Nato né verso l’Unione Europea», ovviamente. Eppure, «parla di “adeguamento” della prima e di “riforma” della seconda». Per il newsmagazine “comunista”, si tratta di «un velleitarismo moderato che in qualche modo alimenta l’idea che tali apparati possano essere “riformati” sulle base di buone ragioni».
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Craig Roberts: Putin si difenderà usando la bomba atomica
Fine del film: la Russia, insieme alla Cina, si sta preparando a subire un attacco nucleare da parte degli Usa. E non starà certo a guardare. E’ la conclusione cui giunge un allarmatissimo Paul Craig Roberts, di fronte all’escalation in atto: i missili sulla Siria, le minacce a Mosca e quelle rivolte alla Corea del Nord. «I dirigenti russi, che a differenza dei bugiardi occidentali dicono la verità, hanno dichiarato in modo chiaro che la Russia non combatterà più una guerra nel proprio territorio», scrive Craig Roberts. «I russi non potevano specificarlo più chiaramente: provocate una guerra, dicono, e vi distruggiamo nel vostro territorio». Aggiunge l’ex viceministro di Reagan: «Washington è così arrogante e perduta nella sua hybris, da non capire che anni di bugie cristalline sulle intenzioni e azioni della Russia e dei russi hanno convinto la Russia che Washington stia preparando le popolazioni degli Stati Uniti e dei popoli prigionieri di Washington, nell’Europa dell’Ovest e dell’Est, nonché in Canada, Australia e Giappone, a un primo colpo nucleare Usa contro la Russia». Bombe atomiche: «C’è l’Arnageddon nucleare all’orizzonte?».I già pubblicati piani di guerra degli Stati Uniti contro Pechino «hanno convinto la Cina della stessa cosa», scrive Craig Roberts sul suo blog, in un post tradotto da Pino Cabras per “Megachip”. «Se non è per la guerra, a che altro s’indirizza il cambiamento della dottrina di guerra negli Stati Uniti?». George W. Bush, ricorda l’analista americano, aveva abbandonato il ruolo “stabilizzatore” delle armi nucleari – l’equilibrio missilistico della deterrenza incrociata – per «spostarle da una funzione di rappresaglia a quella di un “primo attacco” nucleare». La nota teoria del “first strike”, un colpo missilistico a sorpresa. Poi, sempre Bush junior «si è tirato fuori dal trattato anti-missili balistici stipulato dal presidente Richard Nixon». Così, ora, «abbiamo siti missilistici Usa posizionati lungo i confini della Russia». In più, «raccontiamo ai russi la menzogna che i missili sono intesi a prevenire un attacco nucleare iraniano con missili balistici intercontinentali (Icbm) contro l’Europa». E questa menzogna, coninua Craig Roberts, «è raccontata e accettata dai burattini in Europa, nonostante il fatto, ben noto e incontestabile, che l’Iran non possieda né armi nucleari né Icbm». Ma i russi non lo accettano: «Sanno che è un’altra menzogna di Washington».Così, «quando la Russia ascolta queste flagranti, palesi, evidenti bugie, sa che Washington intende un attacco nucleare preventivo contro la Russia», scrive Craig Roberts. «La Cina ha raggiunto le stesse conclusioni». Quindi, ecco la situazione: «Due paesi con forze nucleari si aspettano che i pazzi furiosi che governano l’Occidente stiano per attaccarli con le armi nucleari». E cosa stanno facendo, Russia e Cina? «Si stanno preparando per distruggere il malefico Occidente, un assortimento di bugiardi e criminali di guerra, di cui il mondo non ne ha mai sperimentato di simili in precedenza». E sono gli Stati Uniti, cioè la “superpotenza” che «dopo 16 anni è ancora incapace di sconfiggere poche migliaia di Taliban armati di armi leggere in Afghanistan», a rischiare grosso. «Putin ha dimostrato straordinaria pazienza, riguardo alle menzogne e provocazioni di Washington». Ma, avverte Craig Roberts, il capo del Cremlino «non può rischiare la Russia fidandosi di Washington, di cui nessuno può fidarsi: né il popolo americano, né il popolo russo, né popolo alcuno». Allarme rosso, dunque, visto che i media mainstream – che Roberts chiama “presstitutes”, stampa prostituita al potere – sono tutti saltati «sul carro della propaganda dello Stato Profondo», insieme alla “sinistra” liberal-progressista, anch’essa «complice della marcia verso l’Armageddon».Perfettamente inutile aspettarsi qualche segnale positivo da parte di Donald Trump, che spedisce a Mosca il segretario di Stato, Rex Tillerson, con la faccia tosta di accusare la Russia dopo aver architettato l’attacco coi gas, in Siria, allo scopo di strappare Damasco alla tutela dei russi, vincitori sull’Isis armato dall’Occidente. «Un nuovo folle alla Casa Bianca ha sostituito il vecchio folle», conclude Craig Roberts. «Neanche 100 giorni in carica, e Trump è già un criminale di guerra insieme al resto del suo governo guerrafondaio». Stephen Cohen, «uno dei pochi americani rimasti informati sulla Russia», ha detto che Mosca si sta «preparando alla guerra calda», temendo che «i pazzi di Washington» intendano colpirla per primi con la bomba atomica. Insiste Craig Roberts: Russia e Cina spareranno i loro missili un minuto prima. E sarà la catastrofe. Pericolo massimo, anche e soprattutto perché nessuno ne parla. «Quando osservate il presidente e il governo a Washington, i governi europei (specie gli idioti a Londra), i governi canadese e australiano, potete solo meravigliarvi della totale stupidità della “leadership occidentale”. Stanno implorando la fine del mondo. E i puttanoni del giornalismo lavorano alacremente per trascinarci alla fine della vita». Craig Roberts è preoccupatissimo: «E’ in preparazione la scomparsa di enormi masse, tra i popoli occidentali. Ma non arrivano ad accorgersene, essendo protette dalla loro spensieratezza».Fine del film: la Russia, insieme alla Cina, si sta preparando a subire un attacco nucleare da parte degli Usa. E non starà certo a guardare. E’ la conclusione cui giunge un allarmatissimo Paul Craig Roberts, di fronte all’escalation in atto: i missili sulla Siria, le minacce a Mosca e quelle rivolte alla Corea del Nord. «I dirigenti russi, che a differenza dei bugiardi occidentali dicono la verità, hanno dichiarato in modo chiaro che la Russia non combatterà più una guerra nel proprio territorio», scrive Craig Roberts. «I russi non potevano specificarlo più chiaramente: provocate una guerra, dicono, e vi distruggiamo nel vostro territorio». Aggiunge l’ex viceministro di Reagan: «Washington è così arrogante e perduta nella sua hybris, da non capire che anni di bugie cristalline sulle intenzioni e azioni della Russia e dei russi hanno convinto la Russia che Washington stia preparando le popolazioni degli Stati Uniti e dei popoli prigionieri di Washington, nell’Europa dell’Ovest e dell’Est, nonché in Canada, Australia e Giappone, a un primo colpo nucleare Usa contro la Russia». Bombe atomiche: «C’è l’Arnageddon nucleare all’orizzonte?».
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5 Stelle (e strisce), come la Lega: oggi Grillo, ieri Bossi
Ogni fase politica della Repubblica italiana è stata scandita da un partito “di protesta”, funzionale agli interessi dell’establishment atlantico: si comincia con L’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini per terminare col Movimento 5 Stelle di Gianroberto Casaleggio, passando per il Partito Radicale di Marco Pannella e la Lega Nord di Umberto Bossi. Fino alla recente svolta nazionalista, filorussa e anti-euro, il Carroccio è infatti stato uno dei tanti prodotti di Washington e Londra, schierato su posizioni “thatcheriane” ed europeiste. E’ la tesi di Federico Dezzani, analista geopolitico, impegnato in una ricostruzione “non convenzionale” della storia recente del nostro paese. Nei primi anni ‘90, ricorda, la Lega Nord avrebbe dovuto essere lo strumento per attuare un ambizioso disegno geopolitico: la frantumazione dello Stato unitario e la nascita di una confederazione di tre “macroregioni”, così da cancellare l’Italia come attore del Mar Mediterraneo. Questo, secondo Dezzani, il vero ruolo della Lega Nord durante Tangentopoli, a cominciare dalla figura, allora determinante, del suo ideologo, il professor Gianfranco Miglio.«Non si muove foglia che Washington non voglia: anche in Padania». In politica, sostiene Dezzani nel suo blog, ogni segmento della domanda deve essere coperto, come in ogni altro settore di mercato: l’offerta deve essere costantemente rinnovata e nuovi prodotti possono essere lanciati grazie a un’adeguata campagna pubblicitaria. Basta considerare i partiti alla stregua di ogni altro prodotto di consumo. «L’abilità di chi tira i fili della democrazia consiste nel rifornire gli scaffali dalla politica dei partiti giusti, al momento giusto: ad ogni tornata elettorale, i votanti acquisteranno i loro prodotti preferiti, con grande soddisfazione di chi controlla il grande supermercato della democrazia». Negli ultimi anni, va crescendo la “specialità” dei partiti di protesta. Ma la loro origine non è recente, ricorda Dezzani: «Risale agli albori della Repubblica Italiana, quando Washington e Londra foggiarono per l’Italia una singolare democrazia, dove la seconda forza politica del paese, il Pci, era esclusa “de iure” dal governo», ovviamente per ragioni geopolitiche (la sua contiguità con l’Urss, avversaria della Nato).«Per ovviare a questo opprimente immobilismo, che un po’ stona con le logiche del mercato», in 70 anni sono state immesse diverse sigle per intercettare il malcontento dell’elettorato e la domanda di cambiamento: «Si comincia, prima delle elezioni del 1948, con l’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini e si termina oggi con il Movimento 5 Stelle di Davide Casaleggio». Annota Dezzani: «Sia Giannini che Casaleggio sono, incidentalmente, inglesi da parte materna». Tra i due estremi, l’analista annovera anche il Partito Radicale di Marco Pannella, «che prestò non pochi servigi all’establishment atlantico: la campagna per le dimissioni del presidente Giovanni Leone, quella per l’aborto e il divorzio, i referendum del 1993 contro “la partitocrazia” e “lo Stato-Padrone”». E poi c’è anche il caso della Lega Nord, nata e cresciuta nei travagliati primi anni ‘90, nutrendosi dei voti in uscita dal Psi e soprattutto dalla Dc. Ma come? Anche il folkloristico Carroccio, i raduni di Pontida, il “dio Po” e il leggendario Alberto da Giussano, sarebbero un prodotto dell’establishment atlantico? Ebbene sì, scrive Dezzani: «È una verità che probabilmente spiazzerà molti leghisti della prima ora», ma è indispensabile per capire, ad esempio, «perché Umberto Bossi, padre-padrone della primigenia Lega Nord, contesti la recente svolta nazionalista, anti-euro e filorussa di Matteo Salvini».Salvini appare deciso a trasformare (con esiti incerti) il Carroccio nella versione italiana del Front National? Non a caso, il redivivo Bossi oggi gli si oppone, chiedendo un congresso. «Bruxelles è sempre stata ed è tuttora il faro di Umberto Bossi, sebbene il suo obiettivo fosse agganciarsi all’Unione Europea non attraverso l’Italia, ma tramite la “Padania”, in ossequio a quella “Europa della macroregioni” tanto cara all’establishment atlantico», sostiene Dezzani. Il progetto: «Smembrare gli Stati nazionali per sostituirli, al vertice, con un governo sovranazionale e, alla base, con una costellazione di cantoni, regioni e feudi: l’oligarchia libera di comandare indisturbata su 500 milioni di persone ed i paesani appagati delle loro effimere autonomie». La storia della Lega Nord, continua l’analista, è indissolubilmente legata al crollo del Pentapartito. Cioè alle manovre, iniziate con la firma del Trattato di Maastricht, per traghettare l’Italia verso la nascente Unione Europea a qualsiasi costo: vergognose privatizzazioni, saccheggi del risparmio privato, attentati terroristici e giustizialismo spiccio. «Studiare l’origine della Lega Nord significa quindi completare l’analisi dell’infamante biennio 1992-1993 che travolse la Prima Repubblica e forgiò la Seconda, dove Umberto Bossi ha giocato un ruolo di primo piano».La Lega Nord nasce ufficialmente nel febbraio del 1991, come federazione della Lega Lombarda, della Liga Veneta, di Piemont Autonomista e dell’Union Ligure: «Chi volesse indagare sul periodo proto-leghista, scoprirebbe quasi certamente che anche questi movimenti autonomisti nascono nel medesimo humus massonico-atlantista da cui germoglierà poi il Carroccio». La Liga Veneta, quella più radicata e “antica”, compie i primi passi presso l’istituto privato linguistico Bertrand Russell di Padova, dove nel 1978 è istituito un corso di storia, lingua e civiltà veneta. «Chi volesse scavare più indietro ancora – ipotizza Dezzani – potrebbe riallacciarsi alla lunga serie di attentati destabilizzanti, di matrice autonomista e secessionista, che colpiscono tra gli anni ‘50 e ‘60 il Nord-Est dove, è bene ricordarlo, la concentrazione delle forze armante angloamericane è più alta che in qualsiasi altra parte dell’Italia continentale», come nel caso della caserma Ederle di Vicenza e della base di Aviano, fuori Udine. «L’idea di superare le leghe su base “etnica” e di federarle in un’unica Lega allargata all’intero Nord, ribattezzato all’occorrenza come “Padania”, è comunque ufficialmente attribuita ad Umberto Bossi». Ma il “senatur” ne è stato l’unico padre o è stato “aiutato” da una regia più ampia, «sofisticata e altolocata», come quella che starebbe dietro ai 5 Stelle?«Diversi elementi fanno propendere per la seconda ipotesi», continua Dezzani, «declassando Umberto Bossi al ruolo di capo carismatico di facciata, di semplice tribuno e di arringatore: la stessa funzione, per intendersi, svolta da Beppe Grillo nel M5S». Siamo infatti nel febbraio 1991, il Muro di Berlino è crollato da due anni e l’Unione Sovietica collasserà entro pochi mesi: «L’oligarchia atlantica ha già stilato i suoi piani per il “Nuovo Ordine Mondiale” che, calati nella realtà italiana, significano l’abbattimento della Prima Repubblica, l’archiviazione della Dc e del Psi, lo smantellamento dell’economia mista e, se possibile, anche un nuovo assetto geopolitico per la penisola», da attuare attraverso i movimenti indipendentisti. Segnale importante: «L’accoglienza che la grande stampa anglosassone riserva al neonato Carroccio, simile a quella che il Movimento 5 Stelle riceverà a distanza di 15 anni, non lascia adito a dubbi circa l’interessamento che Londra e Washington nutrono per la neonata formazione nordista: il 4 ottobre 1991 il “Wall Street Journal” definisce la formazione di Umberto Bossi come “il più influente agente di cambiamento della scena politica italiana”».Poco dopo, nel gennaio 1992, il settimanale statunitense “Time” definisce Bossi come il leader più popolare e temuto della politica italiana. E il 28 marzo, il settimanale inglese “The Economist”, megafono della City, accomuna la Lega Nord al Partito Repubblicano di Ugo La Malfa, definendolo come «l’unico fattore di rinnovamento nel decadente panorama politico italiano». Sono le stesse settimane in cui Mario Chiesa, esponente socialista e presidente del Pio Albergo Trivulzio, è arrestato a Milano per aver intascato una bustarella: è il primo atto di quell’inchiesta giudiziaria, Mani Pulite, destinata a travolgere il Pentapartito e la Prima Repubblica. «Non c’è dubbio che la Lega Nord debba “completare”, nei piani angloamericani, l’inchiesta di Tangentopoli», sostiene Dezzani: «Il pool di Mani Pulite è incaricato di smantellare la Dc ed il Psi, mentre il Carroccio ha lo scopo di intercettare i voti in fuga dai vecchi partiti prossimi al collasso». E il trait d’union tra il palazzo di giustizia milanese e la Lega Nord, sempre secondo Dezzani, è fisicamente incarnato dal console americano Peter Semler, cioè il funzionario statunitense che, alla fine del 1991, un paio di mesi prima dell’arresto di Mario Chiesa, “incontra” Antonio Di Pietro nei suoi uffici per discutere delle imminenti inchieste giudiziarie. E’ lo stesso funzionario che, «quasi contemporaneamente, “incontra” i dirigenti della Lega Nord».In una recente intervista a “La Stampa”, Semler ammette di aver pranzato con due dirigenti leghisti il 1° gennaio 1992: «Quello che mi colpì di più era un ex poliziotto, ex militare. Giocammo al golf club di Milano e mi dissero: “Cambierà tutto”». Rileva Dezzani: «C’è da scommettere che non siano stati i due leader della Lega Nord ad avvertire il console americano che tutto sarebbe cambiato, bensì l’opposto». Il Carroccio, infatti, all’epoca «è parte integrante della manovra angloamericana per smantellare il Psi e la Dc», con la sua corrosiva e talvolta violenta retorica contro la partitocrazia della Prima Repubblica, lo Stato clientelare ed assistenzialista (indimenticabile il cappio sventolato nel 1993 a Montecitorio, per “appendervi” i politici corrotti). Ma perché mai, continua Dezzani, l’attacco è sferrato “su base regionale”, attraverso una formazione che inneggia alla Padania onesta e laboriosa, contro la Roma corrotta e la ladrona, sede di “un Parlamento infetto”? Ovvero: perché la stessa funzione non è assolta da un partito di protesta “nazionale”, come è oggi il Movimento 5 Stelle?«Compito della Lega Nord – riprende Dezzani, parlano al presente storico – è anche quello di attuare il piano geopolitico che l’establishment atlantico ha in serbo per l’Italia in questa drammatica fase della vita nazionale: passare dall’Italia unita all’unione, o confederazione, di tre macroregioni», ovvero la Repubblica del Nord (o Padania), una repubblica del Centro e una del Sud: «E’ il periodo, infatti, delle “stragi mafiose” e Cosa Nostra ed il Carroccio sembrano lavorare all’unisono (d’altronde, la regia a monte è comune) per ritagliarsi ognuno il proprio feudo, cannibalizzando lo Stato nazionale». Da qui, Dezzani mette in luce l’entrata in scena di una figura-chiave del leghismo delle origini, il personaggio politico che avrebbe dovuto essere “la mente” del processo di secessione della Repubblica dal Nord: Gianfranco Miglio, classe 1918 (scomparso poi nel 2001). Allievo del filosofo liberale Alessandro Passerin d’Entrèves (a lungo docente all’Università di Oxford e quella di Yale) e del giurista Giorgio Balladore Pallieri (primo giudice italiano alla Corte europea dei diritti dell’uomo).Docente all’Università Cattolica di Milano, teorizzatore del decisionismo, studioso del federalismo e ascoltato consulente in materia di riforme costituzionali, vero e proprio “giacobino di destra”, Gianfranco Miglio è un intellettuale molto gettonato dai politici e dagli alti manager della Prima Repubblica in cerca di consigli. Miglio comincia coll’assistere l’uomo più potente d’Italia, Eugenio Cefis: presidente dell’Eni dal 1967, dopo la morte di Enrico Mattei, fino al 1971, e poi numero uno della Montedison dal 1971 al 1977. Secondo Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016, Cefis è stato il capo della Loggia P1, vero dominus delle strategie coperte per la manipolazione occulta dell’Italia. Carpeoro la chiama “sovragestione”: un intreccio di poteri fortissimi eterodiretti dagli Usa, reti massoniche e servizi segreti deviati. Un livello di potere assai più alto e protetto di quello rappresentato dalla P2 di Gelli, che infatti all’occorrenza fu sacrificato sull’altare dell’opinione pubblica, a differenza del potentissimo Cefis, che è anche l’uomo-ombra di “Petrolio”, il romanzo incompiuto sulla fine di Mattei che forse è costato la vita a Pasolini. Tornando alla ricostruzione di Dezzani sulle mosse di Miglio: dopo aver collaborato con Cefis, l’ideologo della Padania ha fatto anche da consulente al primo ministro Bettino Craxi.Nei tumultuosi anni che seguono la caduta del Muro di Berlino – scrive Dezzani – il professor Miglio compie una spettacolare e singolare metamorfosi: nel giugno del 1989, constata la precarietà delle finanze pubbliche e del panorama politico italiani, suggerisce nientemeno che «sospendere le prove elettorali per un certo periodo, dar vita a un lungo Parlamento, bloccare il ricambio parlamentare, che so, per 8-10 anni», affidando quindi poteri speciali al Pentapartito per fronteggiare le emergenze. Dopo nemmeno due anni, Miglio è invece diventato “l’ideologo” della costituenda Lega Nord, nonché il più severo e spietato censore della partitocrazia, dello Stato parassitario e della deriva mafiosa del Meridione: «E’ difficile spiegare questo repentino cambiamento e il suo “affiancamento” a Umberto Bossi, se non come un’operazione studiata a tavolino, concepita da quegli “ambienti liberali ed anglofoni” che Miglio frequenta sin dalla gioventù».Gianfranco Miglio, annota Dezzani, è l’architetto di quelle riforme costituzionali che dovrebbero scardinare l’assetto geopolitico dell’Italia, servendosi della Lega Nord e di Umberto Bossi come semplici grimaldelli. Esisterebbero, secondo il professore, due Italie: una europea, da agganciare alla nascente Unione Europea, e una mediterranea, da abbandonare alla deriva verso il Levante e il Nord Africa. Lo Stato unitario ha fatto il suo tempo e sulle sue macerie bisogna edificare uno Stato federale, o meglio ancora confederale, costruito da tre entità separate: una Repubblica del Nord, una del Centro e una del Sud. Al governo centrale della neo-costituita Unione Italiana, spetterebbero soltanto la difesa e parte della politica estera. «Il disegno sottostante alle ricette di Miglio è chiaro: sfruttare l’inchiesta di Tangentopoli che sta sconquassando la politica, il crollo del Pentapartito, la strategia della tensione e l’emergenza finanziaria, per cancellare l’Italia unitaria come soggetto geopolitico. Un’Italia che, con Enrico Mattei, Aldo Moro e le politiche filo-arabe di Bettino Craxi e Giulio Andreotti, ha dimostrato di poter infastidire gli angloamericani nello strategico bacino mediterraneo».Le elezioni politiche del 5 aprile 1992 vedono la Lega Nord raccogliere una discreta percentuale dei voti in uscita dalla Dc e dal Psi: in Lombardia il Carroccio raccoglie il 23% delle preferenze, ad un solo punto dai democristiani, ma si ferma all’8,65% a scala nazionale, mentre le varie leghe del Sud non decollano. «Non è andata così bene, dovevamo essere determinanti», ammette Bossi, ben sapendo che la secessione del Nord dal resto d’Italia implicherebbe una forza elettorale che la Lega dimostra di non avere. Bottino elettorale: 55 deputati e 25 senatori. Sono abbastanza, «per portare a compimento la demolizione della Prima Repubblica e il rapido smantellamento dell’economia mista, come auspicato dai croceristi del Britannia». Ecco il punto, per Dezzani: «Non c’è una singola mossa del Carroccio, infatti, che si discosti dall’agenda che l’establishment atlantico ha in serbo per l’Italia: la Lega è decisiva per bloccare l’elezione di Giulio Andreotti al Quirinale, si schiera contro l’ipotesi di una presidenza del Consiglio affidata a Bettino Craxi, è favorevole ad un aggressivo piano di privatizzazioni».«Gli economisti di Bossi credono nella Thatcher», titola la “Repubblica”, riportando che la Lega vuole «privatizzare tutte le imprese di Stato, dall’Iri all’Eni, all’Efim. Senza risparmiare le banche pubbliche come Bnl, Comit, Credito italiano, San Paolo di Torino. Largo ai privati anche per le Ferrovie, l’Enel e le Poste». La Lega di Bossi, aggiunge Dezzani, è fautrice di un “liberismo spinto” contrapposto allo Stato-padrone, definito ovviamente come «parassitario, bizantino, romano-centrico, corrotto, ladrone». Non solo, il Carroccio «gioca di sponda con le “menti raffinatissime” che stanno attuando una spietata strategia di destabilizzazione per meglio saccheggiare i risparmi degli italiani e l’industria pubblica: mentre i servizi segreti “deviati” piazzano bombe in tutt’Italia e gli squali dell’alta finanza si accaniscono sui Btp, la Lega Nord getta altra benzina sul fuoco, incitando allo sciopero fiscale, sconsigliando di comprare i titoli di Stato, evocando la separazione del Sud mafioso dal resto dell’Italia, gridando all’imminente secessione della Padania».«Ma se la casa crolla, il Nord deve andarsene», è un sintomatico titolo della “Repubblica” del 31 dicembre 1992. Nell’articolo, il professor Miglio dipinge un futuro a tinte fosche per l’Italia. E pronostica un imminente, drammatico peggioramento della situazione economica, anticamera della secessione della Repubblica del Nord: «Se si arrivasse a non riuscire a controllare più niente, se non si riuscisse più ad avere i servizi, se la sicurezza e le garanzie crollassero, è evidente che ciascuno penserebbe a se stesso. Probabilmente anche il Sud se ne andrebbe per conto suo». Bingo: per Dezzani, «le parole dell’ideologo del Carroccio sono musica per chi, a Washington e Londra, lavora per tenere l’Italia in costante fibrillazione». Poco dopo, nel 1993, l’inchiesta di Mani Pulite ha sortito gli effetti sperati: Dc e Psi, che l’analista definisce «i vincitori morali della Guerra Fredda», sono stati spazzati via dal pool di Milano. «L’unico grande partito risparmiato dalle inchieste giudiziarie è stato il Pci, riverniciato ora come Pds, cui gli angloamericani contano di affidare il governo facendo affidamento sulla sua ricattabilità», dato che «nella Russia allo sfascio si comprano gli archivi del Kgb a prezzo di saldo».Se dalle successive elezioni uscisse un Nord saldamente in mano al Carroccio e un Centro-Sud in mano alla sinistra, «si concretizzerebbe lo scenario di una secessione “de facto” della Padania dal resto dell’Italia». Per la Lega Nord non che resta, a questo punto, che «ricevere la benedizione “ufficiale” da parte dell’establishment atlantico, dopo lunghi rapporti reconditi ed opachi». Così, il 18 ottobre 1993 una delegazione del Carroccio si reca in visita al quartier generale della Nato a Bruxelles. E il 23 ottobre è la volta degli Stati Uniti: una prima tappa a New York, per incontrare il milieu dell’alta finanza e di Wall Street, e una seconda tappa a Washington, dove sono in programma pranzi di lavoro con deputati e senatori repubblicani ed esponenti della National Italian American Foundation. Ma ecco che accade qualcosa di inatteso: «La “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, annunciata nell’autunno del 1993, è un evento non previsto dall’establishment atlantico», che secondo Dezzani puntava sulla bipartizione Lega (Nord) e sinistra (Centro-Sud). In più, il Cavaliere vince: «La neonata Forza Italia si impone alle elezioni politiche del 27-28 marzo 1994, drenando buona parte dei voti in uscita dal Psi e dalla Dc e imponendosi come primo partito del Nord Italia».La Lega, ferma all’8% delle preferenze su scala nazionale, dimostra ancora di non avere una forza sufficiente per strappare la secessione della Padania e attuare gli ambiziosi cambiamenti costituzionali sognati da Gianfranco Miglio. Forte di 122 deputati e 59 senatori, il Carroccio dispone però di un manipolo di parlamentari sufficienti per staccare la spina al primo governo Berlusconi, di cui è entrata a far parte nella cornice del Popolo della Libertà. Per Dezzani, riemerge quindi la vera natura della Lega Nord «come strumento politico nelle mani di Londra e Washington». E quando Berlusconi, durante la conferenza mondiale dell’Onu contro la criminalità organizzata, riceve un invito a comparire dal pool di Milano, Umberto Bossi «completa l’operazione per disarcionare il Cavaliere, togliendogli la fiducia e avvallando il “ribaltone” che insedia l’ex-Bankitalia Lamberto Dini a Palazzo Chigi». Si marcia così rapidamente verso nuove elezioni, e «ancora una volta il Carroccio agisce in perfetta sintonia con l’establishment atlantico: scegliendo di correre da solo e di non rinnovare l’alleanza col Popolo della Libertà, spiana la strada ai governi di Romano Prodi e Massimo D’Alema: seguirà “il contributo straordinario per l’Europa”, la scandalosa privatizzazione della Telecom, “la marchant bank” di Palazzo Chigi, la liquidazione finale dell’Iri, il vergognoso cambio di 2.000 lire per ogni nuovo euro, l’avvallo alle operazioni militari della Nato contro la Serbia».E così, mentre «quel che rimane dell’economia mista è smantellato a prezzi di saldo e i risparmi degli italiani sono immolati sull’altare della moneta unica», Umberto Bossi continua a blaterare di secessione, di camice verdi, di milizie armate del Nord, di rivolta fiscale. Dezzani lo definisce «utile idiota manovrato dall’oligarchia atlantica». La Lega tornerà al governo solo dopo le elezioni del 2001, quando i giochi “europei” saranno ormai fatti. Morale: «Le vicende della Lega Nord, di Gianfranco Miglio e di Umberto Bossi sono legate a doppio filo alla nascita Seconda Repubblica, alla perdita di qualsiasi sovranità nazionale e all’avvento della moneta unica». Secondo Dezzani, il Senatùr ne è perfettamente cosciente. Intervistato recentemente dal “Corriere della Sera”, dichiara: «Se venisse giù l’euro, verrebbe giù tutto, una situazione che nessuno saprebbe gestire. Tra l’altro, pagheremmo di più le materie prime, cosa che per un paese di trasformazione come l’Italia sarebbe un disastro. Berlusconi parla di doppia moneta, il che è una presa per il culo. Ma non è che Berlusconi non sia in grado di capire le cose». Per Dezzani, «sono le ultime battute dell’ennesima “stampella del potere”», sia pure in camicia verde.Ogni fase politica della Repubblica italiana è stata scandita da un partito “di protesta”, funzionale agli interessi dell’establishment atlantico: si comincia con L’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini per terminare col Movimento 5 Stelle di Gianroberto Casaleggio, passando per il Partito Radicale di Marco Pannella e la Lega Nord di Umberto Bossi. Fino alla recente svolta nazionalista, filorussa e anti-euro, il Carroccio è infatti stato uno dei tanti prodotti di Washington e Londra, schierato su posizioni “thatcheriane” ed europeiste. E’ la tesi di Federico Dezzani, analista geopolitico, impegnato in una ricostruzione “non convenzionale” della storia recente del nostro paese. Nei primi anni ‘90, ricorda, la Lega Nord avrebbe dovuto essere lo strumento per attuare un ambizioso disegno geopolitico: la frantumazione dello Stato unitario e la nascita di una confederazione di tre “macroregioni”, così da cancellare l’Italia come attore del Mar Mediterraneo. Questo, secondo Dezzani, il vero ruolo della Lega Nord durante Tangentopoli, a cominciare dalla figura, allora determinante, del suo ideologo, il professor Gianfranco Miglio.
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Derby tra Mélenchon e Le Pen: un incubo, per i bankster Ue
«Jean-Luc Mélenchon cresce nei sondaggi», titola l’“Huffington Post”: «La paura della Francia per un ballottaggio con Marine Le Pen». Ma se la Le Pen e Mélenchon rappresentano la maggioranza dei francesi, chi è “la Francia” che ne avrebbe “paura”? Parziale spiegazione: «Più cresce nei sondaggi (gli ultimi lo danno tra il 18% e il 19%), più i mercati mandano segnali negativi». Ok, i “mercati”: non “la Francia”. Spaventati – fosse vero – per quello che (per loro) potrebbe rivelarsi un incubo: il derby per l’Eliseo affidato a due alfieri entrambi anti-Ue, la signora del Front National e l’ex socialista di sinistra, che rimprovera a Hollande di essersi piegato all’oligarchia finanziaria che domina l’Europa attraverso i trattati-capestro di Bruxelles. «L’astro del “comunista” Jean-Luc Mélenchon non cessa di brillare e inizia a impensierire gli altri candidati alla presidenza della Francia che si sfideranno al primo turno, previsto per domenica 23 aprile», scrive l’“Huffington”. «Tanto che nei media inizia a non essere escluso a priori un ballottaggio per l’Eliseo che avrebbe del clamoroso: il rosso Mélenchon contro la nera Marine Le Pen. Un incubo per i partiti tradizionali e per il favorito centrista Emmanuel Macron».Tra parentesi, il “centrista” Macron proviene dalla filiale francese della banca dei Rothschild, mentre l’altro candidato “istituzionale”, l’ex premier François Fillon, propone un supplemento di austerity con altri tagli al spesa pubblica e al welfare. Ancora qualcuno si stupisce se “la Francia” ha tutto, meno che “paura”, di Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon, entrambi ultra-critici sull’euro, la Nato e le sanzioni alla Russia? «Davanti a questo scenario – continua il “Post” – il presidente francese, Francois Hollande, ha rotto il silenzio: secondo il quotidiano “Le Monde” moltiplicherà gli appelli contro il pericolo “populista”». Ballottaggio tra il candidato della sinistra alternativa e la candidata del Front National? Uno scenario che secondo i media mainstream intimorisce i “mercati”, con l’innalzamento dei tassi sul debito pubblico francese. Senza spingersi fino a chiedere un voto per il candidato di “En Marche”, cioè Macron, l’incolore Hollande sembra invece scaricare in modo definitivo il candidato socialista (almeno sulla carta compagno di partito) Benoit Hamon. «L’emotività sta prevalendo sulla ragione», sentenzia Hollande, rivelatosi il presidente meno stimato di tutta la storia repubblicana francese.Anziché per il suo disastroso bilancio politico ed economico, l’Eliseo è preoccupato per la spettacolare impennata, nei sondaggi, del candidato della “France Insoumise”, che allarmerebbe i “bankster”, gli squali della finanza, al pari della Le Pen. Hollande però si guarda bene, per ora, dallo schierarsi con Macron: sa perfettamente che la mossa «potrebbe rivelarsi controproducente», dato il vasto discredito di cui gode il presidente uscente. Nel frattempo, al finto indipendente Macron e al gollista Fillon non resta che giocare di sponda per arginare Mélenchon. A Besançon, racconta l’“Huffington Post”, Macron si è scagliato contro «il rivoluzionario comunista che era giù senatore socialista quando io ancora andavo al college». Fillon, che sinora ha sempre avuto come bersaglio Macron e – seppur in minor misura – la Le Pen, ha inserito tra i suoi nemici anche Mélenchon. Ma il candidato della sinistra radicale ha contro “Le Figaro”, che lo definisce «il Chavez francese», mentre su “France Inter” si denuncia il “pericolo comunista”, fino al ridicolo: per il giornalista Patrick Cohen, «non siamo lontani dallo spauracchio dei carri armati russi del 1981».«Jean-Luc Mélenchon cresce nei sondaggi», titola l’“Huffington Post”: «La paura della Francia per un ballottaggio con Marine Le Pen». Ma se la Le Pen e Mélenchon rappresentano la maggioranza dei francesi, chi è “la Francia” che ne avrebbe “paura”? Parziale spiegazione: «Più cresce nei sondaggi (gli ultimi lo danno tra il 18% e il 19%), più i mercati mandano segnali negativi». Ok, i “mercati”: non “la Francia”. Spaventati – fosse vero – per quello che (per loro) potrebbe rivelarsi un incubo: il derby per l’Eliseo affidato a due alfieri entrambi anti-Ue, la signora del Front National e l’ex socialista di sinistra, che rimprovera a Hollande di essersi piegato all’oligarchia finanziaria che domina l’Europa attraverso i trattati-capestro di Bruxelles. «L’astro del “comunista” Jean-Luc Mélenchon non cessa di brillare e inizia a impensierire gli altri candidati alla presidenza della Francia che si sfideranno al primo turno, previsto per domenica 23 aprile», scrive l’“Huffington”. «Tanto che nei media inizia a non essere escluso a priori un ballottaggio per l’Eliseo che avrebbe del clamoroso: il rosso Mélenchon contro la nera Marine Le Pen. Un incubo per i partiti tradizionali e per il favorito centrista Emmanuel Macron».
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Fonti Usa: Siria, l’attacco coi gas è opera di Israele e sauditi
Il giornalista pluripremiato che indagò sul caso Iran-Contra, Robert Parry, sostiene che l’attacco con armi chimiche in Siria sia stato lanciato da una base congiunta saudita-israeliana per le operazioni speciali situata in Giordania, secondo quanto gli hanno riferito le sue fonti di intelligence. Gli analisti dei servizi segreti Usa hanno stabilito che un drone è stato responsabile dell’attacco e «alla fine sono giunti a ritenere che il volo sia stato lanciato in Giordania da una base per operazioni speciali saudita-israeliana a sostegno dei ribelli siriani», secondo la fonte. «La ragione sospettata per l’uso del gas velenoso era quella di creare un incidente che avrebbe rovesciato l’annuncio dell’amministrazione Trump di fine marzo sul fatto che non stesse più cercando la rimozione del presidente Bashar al-Assad», scrive Parry. Come evidenziammo già nel 2013, dopo un altro attacco con armi chimiche presso Al-Ghouta che venne attribuito ad Assad, i ribelli ammisero spontaneamente al corrispondente della “Associated Press” Dale Gavlak che erano stati riforniti delle armi dall’Arabia Saudita, ma avevano «maneggiato le armi in modo improprio e fatto partire le esplosioni».Il retroterra professionale di Parry conferisce credibilità alle informazioni. A suo tempo aveva dato copertura informativa allo scandalo Iran-Contra per l’“Associated Press” e per il settimanale “Newsweek” e successivamente fu insignito del premio George Polk per il suo lavoro sulle questioni di intelligence. La tesi secondo cui l’incidente ha costituito un’operazione “false flag” intesa a creare una giustificazione per degli attacchi aerei è stata ventilata anche dall’ex parlamentare Ron Paul così come da numerose altre voci di spicco, compreso lo stesso Vladimir Putin, che ha continuato a mettere in guardia sul fatto che i ribelli potrebbero ora mettere in scena un incidente simile a Damasco per pungolare gli Stati Uniti al rovesciamento di Assad. A chiunque si attribuisca la responsabilità dell’attacco, ciò non toglie nulla all’orrore di questo evento e al fatto che persone innocenti e bambini siano morti. Nel riscontrare quanto sia pesante nelle asserzioni ma priva di prove vere e proprie, Parry ha respinto la relazione di quattro pagine pubblicata dal Consiglio di Sicurezza Nazionale e diffusa dal presidente Trump, che accusa il governo siriano per l’attacco chimico.Il libro bianco afferma che «non possiamo rilasciare pubblicamente tutte le notizie di intelligence disponibili su questo attacco a causa della necessità di proteggere fonti e metodi», anche se, come sottolinea Parry, «in situazioni altrettanto tese in passato, i presidenti Usa hanno rilasciato dati sensibili di intelligence per dare man forte alle asserzioni del governo Usa, tra cui la divulgazione dei voli di spionaggio U-2 da parte di John F. Kennedy nel corso della crisi missilistica cubana del 1962 e la rivelazione di Ronald Reagan sulle intercettazioni elettroniche dopo l’abbattimento sovietico del volo 007 della Korean Airlines nel 1983». Parry ha sfidato l’amministrazione Trump a rendere le sue prove disponibili pubblicamente, ma ha anche chiesto lumi sul motivo per cui sia il direttore della Cia, Mike Pompeo, sia il direttore della National Intelligence, Dan Coats, non apparivano in una foto rilasciata dalla Casa Bianca, che mostra il presidente e una dozzina dei suoi consiglieri monitorare l’attacco missilistico del 6 aprile da una stanza nella sua tenuta di Mar-a-Lago in Florida. «Data la casistica sporadica in cui dal presidente Trump si ottengono i fatti correttamente, lui e la sua amministrazione dovrebbero fare uno sforzo in più per presentare prove inconfutabili a sostegno delle sue valutazioni, non solo insistendo sul fatto che il mondo deve “fidarsi di noi”», conclude Parry.(Paul Joseph Watson, “Fonti intelligence Usa: l’attacco chimico in Siria partito da base saudita”, da “Infowars” del 13 aprile 2017, tradotto e ripreso da “Megachip”).Il giornalista pluripremiato che indagò sul caso Iran-Contra, Robert Parry, sostiene che l’attacco con armi chimiche in Siria sia stato lanciato da una base congiunta saudita-israeliana per le operazioni speciali situata in Giordania, secondo quanto gli hanno riferito le sue fonti di intelligence. Gli analisti dei servizi segreti Usa hanno stabilito che un drone è stato responsabile dell’attacco e «alla fine sono giunti a ritenere che il volo sia stato lanciato in Giordania da una base per operazioni speciali saudita-israeliana a sostegno dei ribelli siriani», secondo la fonte. «La ragione sospettata per l’uso del gas velenoso era quella di creare un incidente che avrebbe rovesciato l’annuncio dell’amministrazione Trump di fine marzo sul fatto che non stesse più cercando la rimozione del presidente Bashar al-Assad», scrive Parry. Come evidenziammo già nel 2013, dopo un altro attacco con armi chimiche presso Al-Ghouta che venne attribuito ad Assad, i ribelli ammisero spontaneamente al corrispondente della “Associated Press” Dale Gavlak che erano stati riforniti delle armi dall’Arabia Saudita, ma avevano «maneggiato le armi in modo improprio e fatto partire le esplosioni».
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Massoni al potere? Magaldi: chiedete a Monti e Napolitano
«Dal punto di vista giuridico, ha detto bene il gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Stefano Bisi: non si capisce perché la commissione antimafia pretenda gli elenchi degli iscritti al Goi e non anche quelli dei partiti o dei sindacati. Sono tutte associazioni legali. E lo Stato di diritto, che si vuole garantire con la lotta alla mafia, si tutela anche con il rispetto della privacy di chi – i massoni ordinari e per lo più inoffensivi – troppo spesso in Italia sono stati oggetto di demonizzazione e caccia alle streghe». Così Gioele Magaldi, leader del Grande Oriente Democratico, interpellato da Fabrizio Caccia del “Corriere della Sera” sulla polemica tra la massoneria italiana e Rosy Bindi, che Magaldi – presidente del Movimento Roosevelt – accusa di guidare una «caccia alle streghe antimassonica» col pretesto della lotta alla mafia. «I mafiosi, peraltro, si possono annidare anche in organizzazioni religiose, cui però non si chiedono liste». Magaldi contrattacca: se proprio vuole saperne di più, riguardo ad affiliazioni massoniche, perché la Bindi non si rivolge a Monti e Napolitano?«Inviterei Rosy Bindi a chiedere conto al senatore a vita Mario Monti e all’ex presidente Giorgio Napolitano delle influenze nefaste che le loro rispettive superlogge di appartenenza, “Babel Tower” e “Three Eyes”, hanno avuto sulla vita istituzionale e socio-economica dell’Italia», dichiara Magaldi, che chiede alla commissione antimafia di acquisire, agli atti, il suo libro “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere), nel quale rivela il ruolo di 36 Ur-Lodges internazionali (logge madri) indicate come “grandi manovratrici” delle maggiori trame di potere, in tutti i paesi, fino al pesante condizionamento dei governi, incluso quello italiano. «Senatori (Laura Bottici in particolare) e deputati M5S hanno presentato interrogazioni parlamentari sugli inquietanti legami massonici sovranazionali di ispirazione neoaristocratica che hanno ispirato l’incarico di governo dato dal “fratello” Napolitano al “fratello” Monti nel 2011, inaugurando uno degli esecutivi più rovinosi della storia della repubblica», dichiara Magaldi al giornalista del “Corriere”.In Italia, ricorda Magaldi, le principali comunioni massoniche sono il Goi, la Gran Loggia d’Italia, la Gran Loggia Regolare d’Italia e la Camea, «guidata dal mio fraterno amico Roberto Luongo». Poi, aggiunge, vi sono una moltitudine di comunioni (obbedienze) minori, per un totale di qualche decina di migliaia di massoni “ordinari”. «Ma, in Italia, come altrove – precisa Magaldi – a contare davvero non sono più queste comunioni (federazioni di logge su base nazionale), bensì le reti delle superlogge sovranazionali (Ur-Lodges)», a cui è dedicato l’esplosivo saggio uscito a fine 2014, in uscita in Spagna e in via di pubblicazione anche in inglese, francese, tedesco, russo, cinese e arabo. Magaldi, che nel suo libro ha “messo in piazza” i nomi dei massimi responsabili della svolta autoritaria e “neo-aristocratica” della politica internazionale, dominata da un’élite super-massonica “reazionaria”, denuncia al tempo stesso «i pregiudizi italioti verso la massoneria», e nel suo libro ricorda che «i massoni delle reti sovranazionali», in passato, hanno «costruito la contemporaneità, le società aperte, libere e democratiche, laiche, tolleranti e fondate sullo Stato di diritto». I giornali cadono dalle nuvole, quando si parla di massoneria di potere? «Li invito alla lettura del mio libro – conclude Magaldi – il cui sottotitolo “Società a responsabilità illimitata” lascia intuire qualcosa su cui i media faranno bene a riflettere con minore superficialità di quella adottata sinora».«Dal punto di vista giuridico, ha detto bene il gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Stefano Bisi: non si capisce perché la commissione antimafia pretenda gli elenchi degli iscritti al Goi e non anche quelli dei partiti o dei sindacati. Sono tutte associazioni legali. E lo Stato di diritto, che si vuole garantire con la lotta alla mafia, si tutela anche con il rispetto della privacy di chi – i massoni ordinari e per lo più inoffensivi – troppo spesso in Italia sono stati oggetto di demonizzazione e caccia alle streghe». Così Gioele Magaldi, leader del Grande Oriente Democratico, interpellato da Fabrizio Caccia del “Corriere della Sera” sulla polemica tra la massoneria italiana e Rosy Bindi, che Magaldi – presidente del Movimento Roosevelt – accusa di guidare una «caccia alle streghe antimassonica» col pretesto della lotta alla mafia. «I mafiosi, peraltro, si possono annidare anche in organizzazioni religiose, cui però non si chiedono liste». Magaldi contrattacca: se proprio vuole saperne di più, riguardo ad affiliazioni massoniche, perché la Bindi non si rivolge a Monti e Napolitano?
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Buoni e Cattivi, la fiaba della guerra per il Fatto Quotidiano
«Uno spettro si aggira in Medio Oriente. E’ quello della tentazione. La tentazione, cioè, della guerra. Non più “prove di Terza Guerra Mondiale”, come è stato detto. Lo scenario è drammatico, i primi a capirlo sono i mercati finanziari che infatti hanno cominciato a soffrire». A scrivere è Leonardo Coen, sul “Fatto Quotidiano”, all’indomani del raid missilistico ordinato da Trump sulla base area siriana da cui, secondo gli Usa, sarebbero decollati aerei con bombe al gas Sarin destinate a far strage della popolazione di Idlib. Non ci sono ancora prove certe: per il “Fatto Quotidiano” non è importante? Poi, continua Coen, «ad inquietare e ricordare come certe situazioni di oggi assomiglino molto all’inanità del 1938 verso Hitler e alle sue mire d’espansione, c’è il silenzio di Cina ed Europa, che sembrano convitati di pietra». Suggestivo parallelismo: il giornalista del “Fatto” paragona nientemeno che Adolf Hitler, fondatore del nazismo e capo dell’allora maggior potenza militare europea, al presidente di un piccolo paese mediorientale come la Siria, che – come è a tutti noto (tranne che al “Fatto Quotidiano”?) – da cinque anni tenta di sopravvivere all’assalto di sanguinarie milizie terroriste finanziate e protette dall’Occidente.Cina ed Europa, i “convitati di pietra”, secondo Coen «si accontentano di formali condanne appellandosi ai diritti umani». Mosca e Washington? «Per ora si confrontano, ma ancora non si affrontano. Non possono. E’ un braccio di ferro troppo rischioso. E forse, sia per gli Stati Uniti, sia per la Russia, è venuto il tempo di liquidare il dittatore di Damasco e il suo regime criminale». Voilà: il presidente (eletto) diventa “dittatore”, naturalmente a capo di un “regime criminale”: nulla a che vedere con gli altri regimi, amici dell’Occidente, notoriamente campioni in tema di diritti umani: Giordania, Arabia Saudita, Qatar, Turchia e via inorridendo. Ma forse non è il caso di ricordarlo ai lettori del “Fatto”. Meglio il perfido Bashar Assad, che «per la Russia, è un alleato che la scredita e la impiomba». E per l’America, è «l’occasione buona per ricollocarsi in Medio Oriente, e dimostrare che non si è abbassata la guardia». Ricollocarsi in Medio Oriente? Viene da chiedersi dove fosse, Leonardo Coen, quando si scatenavano le “rivoluzioni colorate” in tutti i paesi arabi dopo lo storico discorso di Obama al Cairo. Dov’era, Coen, quando gli americani spianavano la Libia e facevano scannare Gheddafi? Non l’hanno vista, alla redazione del “Fatto”, la foto-ricordo di John McCain in Siria, in intimità con il “califfo” Al-Baghdadi?La narrazione che il “Fatto” offre in questo caso sembra di tipo lunare, genere fantasy. «Così, Trump minaccia. E agisce. Putin minaccia, ma non può agire. Entrambi, giocano una mano di poker: per capire chi bluffa di più. Il magnate americano rischia il salto nel buio. Putin sventola il pericolo del suo “ombrello” militare in Siria. La flotta del Mar Nero è in preallarme. Quella del Baltico, pure. I missili di Kaliningrad, l’enclave russa tra Polonia e Lituania – cioè in piena Unione Europea – sono puntati sulle capitali del Vecchio Continente. L’Alleanza Atlantica è già in allerta». E’ tutto vero, naturalmente. Ma è come spiegare la pioggia senza citare le nuvole. Primo round: nel 2013 gli Usa cercano di far cadere Assad per poter poi minacciare direttamente l’Iran, ma Putin glielo impedisce schierando la flotta russa a difesa della Siria. Secondo round: Washington “risponde” organizzando il golpe in Ucraina con l’intento di sfrattare Mosca dal Mar Nero, ma – di nuovo – Putin riesce a tenersi la Crimea. Terzo round: furioso per le sconfitte a catena, Obama dispone un mostruoso dispiegamento militare in Est Europa a ridosso della frontiera russa, senza precedenti nella storia recente. Al che, ai russi non resta – come contromossa difensiva – che la base missilistica di Kalilingrad. Missili russi puntati sull’Europa? Mai quanto quelli che l’America ha puntato contro la Russia, trasformando la Romania in una rampa di lancio. Possibile che ai lettori del “Fatto” non interessi?«In verità», continua Coen, «Trump ha riscoperto – o meglio, il Pentagono – il ruolo di gendarme globale degli Stati Uniti». Trump, il Pentagono: i Buoni. E Putin, il Cattivo? «E’ rimasto platealmente vittima delle sue ambizioni imperiali», scrive Coen, come se, evidentemente, le uniche “ambizioni imperiali” ammissibili – e davvero imperiali, lontane mille miglia dalle proprie frontiere – fossero quelle americane. Il presidente russo è rimasto addirittura «invischiato nelle complesse trame che ha tessuto per riassegnare al suo paese il ruolo di superpotenza perduto dopo la caduta del Muro di Berlino e lo sbriciolamento dell’Unione Sovietica». Non si premura di rammentare ai suoi lettori, il giornalista del “Fatto”, che – prima di mettere il naso fuori dalla Russia – Putin ha dovuto innanzitutto spegnere l’incendio della Cecenia, acceso dalla Cia, e poi quello dell’Ossezia del Sud, devastata dalla Georgia su mandato di George W. Bush. Due focolai micidiali: uno nella Federazione Russa, l’altro sulla porta di casa. Succedeva nel 2008: non così tanto tempo fa, specie se si hanno a cuore le fatali vicende del lontano 1938.“Il Fatto”, però, non è prodigo di spiegazioni. Sembra preferire il racconto lineare, unilaterale e semplificato, rassicurante. «In apparenza, dunque, l’imprevedibile Donald ha cambiato di colpo tattica nei confronti dell’amico Vladimir. E ha ritirato la mano tesa, che tanto aveva turbato i sonni dei patrioti Usa». I missili di Trump, continua Coen, «hanno sparigliato le carte della grande partita internazionale: il mondo si è diviso in due, come ai tempi della Guerra Fredda. “Sostegno totale” degli alleati degli Stati Uniti. Condanna dei suoi avversari. Le cancellerie hanno rispolverato il lessico dei blocchi contrapposti». Leonardo Coen sembra pefettamente al corrente dell’accaduto: «Assad, insistono i russi, è innocente (per forza: sono loro che l’armano e lo proteggono). I gas, una balla. I russi negano l’evidenza e le testimonianze: tutto il mondo ha visto gli effetti del gas. E questo li ha moralmente isolati». Ecco, infatti: tutto il mondo ha visto gli effetti dei gas, ma nessuno al mondo, per ora, può provare che li abbia sganciati Assad. Solo che, a quanto pare, l’identità del vero killer non è importante. Nemmeno se, come già accadde nel 2013, poi si scoprisse che l’assassino non è “il dittatore”, ma i suoi avversari?«Certo – concede Coen – la politica e la guerra se ne fregano dell’etica e della morale. Ma al tempo dell’informazione istantanea e globale, la menzogna tanto può essere utile – vedi in caso di elezioni – quanto può diventare micidiale, con le immagini cruente ed atroci dei bimbi sarinizzati». Vero, anche questo: tutto dipende però da chi la impugna, “la menzogna”. Quanto al «nuovo repentino cambio d’atteggiamento di Trump», anche su questo Leonardo Coen ha le idee chiarissime: il presidente americano «ha dovuto arrendersi allo stato delle cose: gli interessi geopolitici Usa non collimano con quelli russi». Perlomeno, «non fin quando al Cremlino ci sarà il clan putiniano, nemico della libertà d’opinione, e il potere resterà saldo in mano agli ex uomini del Kgb». E così l’album dei Cattivi è al completo. E se i russi – quasi 150 milioni di persone – sostengono all’85% un capoclan del Kgb, significa semplicemente che sono cretini? Centocinquanta milioni di cretini?Ma non è tutto: Coen informa i suoi lettori che «Trump ha cozzato contro il mondo reale: quello dei fatti, non delle verità truccate dal suo guru Stephen Bannon, ed ex direttore del sito dell’ultradestra suprematista Breitbart News, messo (finalmente) in un angolo». Bannon, altro membro d’onore del club dei Cattivi, era – per inciso – lo stratega della distensione con Mosca: via lui, infatti, ecco i missili (buoni, ovviamente). Ma, “sistemato” Bannon, l’offensiva (giornalistica) nei confronti di Putin non è ancora esaurita: «Pensava di essere il più astuto del reame, di poter contare per quel che riguardava la Siria di una certa libertà di manovra, forte anche del fatto che in Occidente c’erano movimenti estremisti anti-Ue a lui favorevoli. Invece – scrive Coen – è rimasto intrappolato dalla sua sicumera». Ben gli sta: «I gas che hanno ammazzato decine di bimbi a Khan Sheikhoun hanno dissipato in pochi minuti il paziente lavorìo militare e diplomatico del presidente russo». Non solo: «Persino il nuovo alleato turco Erdogan lo ha clamorosamente contraddetto, invocando addirittura la collera di Allah per l’ignobile azione attribuita ad Assad, o a qualche suo generale, il che non cambia la sostanza». Erdogan, cioè la Turchia (Nato) che ha protetto l’Isis nell’invasione della Siria: nemmeno questo ai lettori interessa?In più, Coen esibisce altre granitiche certezze sul bombardamento con i gas: «Gli americani avevano acquisito le prove – stavolta non inventate da Bush e Blair come al tempo della guerra in Iraq ma documentate dai satelliti – che l’attacco chimico proveniva da un aereo siriano». Le prove, ecco: ma dove sono? Ok, le hanno “acquisite gli americani”. Come le altre volte, in Siria e in Iraq? No, stavolta sono prove vere, “documentate dai satelliti”. Garantisce il “Fatto Quotidiano”. Che si diverte, ancora, a spese di Putin: mentre i Buoni “acquisivano le prove”, dunque, «lo zar si affannava a dire che si trattava di “fake news”, di balle». Chiosa Coen: «Beffardo contrappasso, l’ex tenente colonnello del Kgb che denuncia la disinformatija americana…». E ancora: «Assad è il responsabile di tutto ciò». Chi lo sostiene? Lo dicono «all’unisono» Hollande e la Merkel. Una garanzia: Hollande ha silenziato le indagini su Charlie Hebdo imponendo il segreto militare, dopo che erano emersi collegamenti tra il commando dell’Isis e i servizi francesi, mentre la Merkel, risultata coinvolta nel golpe neonazista di Kiev, ha approvato il piano Obama per militarizzare le frontiere europee con la Russia.«I missili Usa – scrive ancora Coen – sono “un avvertimento”, e pure una forma di “condanna” del “regime criminale” di Assad». La situazione: «Con Washington stanno Arabia Saudita e Giappone, Israele offre il suo “totale” sostegno, sperando che “questo messaggio forte” possa essere inteso da Teheran e da Pyongyang, ha dichiarato il premier Benyamin Netanyahu», campione del mondo in carica riguardo all’uso di armi di distruzione di massa sulla popolazione civile, il fosforo bianco sganciato su Gaza (oltre 1.300 morti, secondo l’Onu, inclusi donne e bambini). E la Turchia, cioè la base logistica settentrionale dell’operazione-Isis contro Damasco? «Ankara vorrebbe una zona “d’esclusione aerea” in Siria, considera che i missili siano stati una buona medicina». Meglio tornare al lessico calcistico: «Il Pentagono ha battuto il Cremlino? La “punizione” americana per la strage provocata dall’attacco chimico che ha un valore soprattutto dimostrativo, trova consenso nella pubblica opinione statunitense e anche in quella mondiale, scossa dall’atrocità del tiranno di Damasco. Assad si è scavato la fossa». Vinceranno i Buoni, è ovvio. E buonanotte, a tutti i lettori. Sogni d’oro.«Uno spettro si aggira in Medio Oriente. E’ quello della tentazione. La tentazione, cioè, della guerra. Non più “prove di Terza Guerra Mondiale”, come è stato detto. Lo scenario è drammatico, i primi a capirlo sono i mercati finanziari che infatti hanno cominciato a soffrire». A scrivere è Leonardo Coen, sul “Fatto Quotidiano”, all’indomani del raid missilistico ordinato da Trump sulla base area siriana da cui, secondo gli Usa, sarebbero decollati aerei con bombe al gas Sarin destinate a far strage della popolazione di Idlib. Non ci sono ancora prove certe: per il “Fatto Quotidiano” non è importante? Poi, continua Coen, «ad inquietare e ricordare come certe situazioni di oggi assomiglino molto all’inanità del 1938 verso Hitler e alle sue mire d’espansione, c’è il silenzio di Cina ed Europa, che sembrano convitati di pietra». Suggestivo parallelismo: il giornalista del “Fatto” paragona nientemeno che Adolf Hitler, fondatore del nazismo e capo dell’allora maggior potenza militare europea, al presidente di un piccolo paese mediorientale come la Siria, che – come è a tutti noto (tranne che al “Fatto Quotidiano”?) – da cinque anni tenta di sopravvivere all’assalto di sanguinarie milizie terroriste finanziate e protette dall’Occidente.
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Craig Roberts: Trump si è arreso, il prossimo sarà Putin?
«Trump si è arreso. Il prossimo sarà Putin?». Se lo domanda Paul Craig Roberts, uno dei più autorevoli osservatori indipendenti della scena internazionale, all’indomani del raid missilistico sulla Siria ordinato dal capo della Casa Bianca senza prima acquisire prove sulle responsabilità di Assad nell’attacco a Idlib con il gas Sarin. «L’establishment di Washington ha ripreso il controllo», scrive sul suo blog l’ex viceministro di Ronald Reagan. «Prima Flynn e ora Bannon», via le “colombe” che avevano trainato la campagna elettorale di Trump, lasciando intravedere il disgelo col resto del mondo. «Tutto ciò che hanno lasciato nell’amministrazione Trump – afferma Roberts – sono i sionisti e i generali impazziti che vogliono la guerra con la Russia, la Cina, l’Iran, la Siria e la Corea del Nord. E non c’è nessuno, alla Casa Bianca, capace di fermarli». Questo è il «bacio d’addio alla normalizzazione delle relazioni con la Russia: il conflitto siriano è impostato per essere riaperto». Incidente gravissimo, strategico: data «l’assenza di qualsiasi prova» sulle responsabilità di Assad, «è del tutto evidente che l’attacco chimico è un evento orchestrato da Washington».Il segretario di Stato americano Rex Tillerson ha messo in guardia la Russia: è scattata l’operazione per rimuovere Assad, e purtroppo Trump è d’accordo, continua Craig Roberts. Conseguenza: «La rimozione di Assad permette a Washington di imporre un altro burattino americano su popoli musulmani». Obiettivo sostanziale:«Rimuovere un altro governo arabo con una politica indipendente da Washington, per eliminare un altro governo che si oppone al furto di Israele della Palestina». Per Tillerson, storico patron della Exxon, far cadere il governo siriano significa anche «tagliare il gas russo destinato all’Europa con un gasdotto controllato degli Stati Uniti, che dal Qatar raggiunga l’Europa attraverso la Siria». Brutte notizie per Mosca, che – combattendo seriamente contro l’Isis – sperava davvero, con Trump, di raggiungere una partnership con Washington attraverso uno sforzo comune contro il terrorismo. Speranze che Craig Roberts oggi definisce «del tutto irrealistiche». Un’idea addirittura «ridicola», visto che «il terrorismo è l’arma di Washington». Un’accusa frontale, dunque: sono gli Usa i mandanti diretti dell’Isis, accusa l’ex stratega di Reagan.Una volta messa fuori gioco la Russia, continua Craig Roberts, «il terrorismo verrà poi diretto contro l’Iran su larga scala». E quando l’Iran dovesse a sua volta cadere, sempre il terrorismo “amico” della Cia, quello che oggi è targato Isis, «inizierà a lavorare sulla Federazione Russa e con la provincia cinese che confina con il Kazakhstan». Possibile? Senz’altro: «Washington ha già dato alla Russia un assaggio del terrorismo sostenuto dagli Usa in Cecenia. E il più è deve ancora arrivare». Craig Roberts rimprovera ai russi una sorta di fatale ingenuità: speravano, davvero in Donald Trump. Per questo, sostiene, hanno evitato di stravincere, dopo aver conquistato il cruciale ovest della Siria, paese che oggi è invece, ancora, a rischio di spartizione, dopo la brutale defenestrazione di Assad. I russi, «ipnotizzati dal sogno di cooperare con Washington, hanno messo la Siria (e se stessi) in una posizione difficile». Avevano «sorpreso il mondo», accettando di difendere la Siria dall’Isis, e allora «Washington era impotente». In pochi mesi, l’intervento russo ha sbaragliato l’Isis. «Poi, all’improvviso, Putin si è fermato: ha annunciato il ritiro, affermando, come Bush sulla portaerei: missione compiuta».Ma la missione non era compiuta, sottolinea Craig Roberts: la Russia è stata costretta a tornare in campo, «nella vana convinzione che Washington si sarebbe messa finalmente a collaborare con la Russia per eliminare l’ultima roccaforte Isis». Al contrario, invece, «gli Stati Uniti hanno inviato forze militari per bloccare i progressi russi sulla scena siriana». Il ministro degli esteri Lavrov ha protestato, ma – ancora una volta – la Russia «non ha usato il suo potere superiore sulla scena per battere le forze americane e portare a termine il conflitto». Ora Washington dà “avvertimenti” a Mosca, a suon di missili: riuscirà il Cremlino a capire che può scordarsi ogni cooperazione e, semmai, prenotarsi per un ruolo di vassallo? Si avvicina una trappola pericolosa, continua Craig Roberts: «La Russia non permetterà a Washington di rimuovere Assad», ma a Mosca esiste una “quinta colonna” «che è alleata con l’Occidente». Per Putin e l’indipendenza della Russia come potenza sovrana, si tratta del pericolo più insidioso, tale da metter fine al ruolo di Mosca come attore euroasiatico capace di imporre stabilità geopolitica, a cavallo dei due continenti.Collaboratori infedeli: spesso si è accennato, in quei termini, al gruppo che fa capo all’ex presidente Dmitrij Medvedev. Questa “quinta colonna”, sostiene Craig Roberts, «insisterà dicendo che la Russia potrà finalmente ottenere la collaborazione di Washington solo se “sacrificherà” Assad». Sarebbe un suicidio: l’acquiescenza di Putin «distruggerebbe l’immagine del potere russo», e sarebbe utilizzata «per privare la Russia di valuta estera dalle vendite di gas naturale verso l’Europa». Putin ha detto che la Russia non può fidarsi di Washington? «Si tratta di una deduzione corretta dai fatti», conclude Craig Roberts. E quindi, perché mai la Russia dovrebbe cedere, in cambio del miraggio della mitica cooperazione con Washington, cioè con il potere che sostiene sottobanco i terroristi dell’Isis? «La cooperazione ha un solo significato: significa arrendersi a Washington». Per il grande analista americano, Putin ha “ripulito” la Russia solo in parte: «Il paese rimane pieno di agenti americani, ed è straordinario vedere quanto poco, i media russi, capiscono il pericolo nel quale la Russia si trova». E dunque: «Sarà Putin il prossimo a cadere vittima dell’establishment di Washington, come è appena accaduto a Trump?».«Trump si è arreso. Il prossimo sarà Putin?». Se lo domanda Paul Craig Roberts, uno dei più autorevoli osservatori indipendenti della scena internazionale, all’indomani del raid missilistico sulla Siria ordinato dal capo della Casa Bianca senza prima acquisire prove sulle responsabilità di Assad nell’attacco a Idlib con il gas Sarin. «L’establishment di Washington ha ripreso il controllo», scrive sul suo blog l’ex viceministro di Ronald Reagan. «Prima Flynn e ora Bannon», via le “colombe” che avevano trainato la campagna elettorale di Trump, lasciando intravedere il disgelo col resto del mondo. «Tutto ciò che hanno lasciato nell’amministrazione Trump – afferma Roberts – sono i sionisti e i generali impazziti che vogliono la guerra con la Russia, la Cina, l’Iran, la Siria e la Corea del Nord. E non c’è nessuno, alla Casa Bianca, capace di fermarli». Questo è il «bacio d’addio alla normalizzazione delle relazioni con la Russia: il conflitto siriano è impostato per essere riaperto». Incidente gravissimo, strategico: data «l’assenza di qualsiasi prova» sulle responsabilità di Assad, «è del tutto evidente che l’attacco chimico è un evento orchestrato da Washington».
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Foa: c’era una volta Trump, si è arreso ai padroni di Obama
Verrebbe da dire: c’era una volta Trump. C’era, fino a poche settimane fa, un presidente che prometteva un’America diversa da quella di Obama ma anche di Bush, di Clinton, di Bush padre. Un’America intenzionata a rompere nettamente con la dottrina neoconservatrice, che in nome della lotta al terrorismo e di un mondo migliore ha ottenuto, dal 2001 ad oggi, esattamente l’opposto: più instabilità in tutto il Medio Oriente, più fondamentalismo islamico, la nascita dell’Isis e una serie di attentati nelle capitali europee. Quell’America si proponeva di non essere più il poliziotto del mondo e pareva ansiosa di fare la pace con Putin. Non fatevi ingannare dal rumore mediatico degli ultimi mesi: a disturbare l’establishment americano e quello Stato Profondo (Deep State) che in realtà governa l’America e che accomuna repubblicani e democratici, non era solo la persona di Donald Trump, quanto, soprattutto le sue idee, quel progetto di America. Quanto avvenuto la notte scorsa in Siria segna un cambiamento radicale nello spirito e nelle intenzioni di Trump. Cinque mesi di campagna martellante contro il presidente eletto hanno prodotto, evidentemente, gli effetti auspicati.E non mi riferisco solo alle manifestazioni di piazza, all’opposizione isterica della stampa, alle sentenze dei giudici (a proposito: ricordate l’articolo di Kupchan? Era profetico). Trump non è stato capace di resistere al boicottaggio che proveniva dall’interno delle istituzioni e dall’apparato dell’intelligence e della difesa. E chissà a quali altre pressioni e minacce. Si è lasciato avvinghiare, inghiottire da quel mondo che prometteva di combattere. Tutto in appena due mesi e mezzo dal giorno del suo insediamento. L’errore più grande lo ha commesso quando ha accettato che uno dei suoi consiglieri più fidati, Flynn, si dimettesse. Un commentatore acuto e davvero indipendente quale Paul Craig Roberts lo aveva capito subito: quel cedimento era devastante, perché spaccava il fronte dei fedelissimi ma soprattutto perché rompeva la posizione di Trump sul “caso Russia”, che poteva diventare così un caso nazionale. Della serie: se Flynn si dimetteva c’era qualcosa da nascondere. E allora via con le pressioni. Ancora oggi mancano prove concrete sulle ipotetiche collusioni con Mosca per condizionare il voto, ma il “Deep State” lo ha fatto diventare il Caso Nazionale con toni maccartisti, paventando persino un impeachment nell’arco di qualche mese. Un impeachment sul nulla, ma questo era secondario.Flynn era la mente della nuova politica estera e di sicurezza dell’amministrazione Trump. Un’amministrazione che si è via via riempita di ministri, consiglieri ed esperti appartenenti alla vecchia guardia. All’inizio quelle nomine, poco coerenti, parevano una concessione obbligata al partito repubblicano che controlla il Congresso, nella supposizione che le redini sarebbero rimaste nelle mani del presidente. Ma si è rivelata una falsa speranza. E quando, l’altro ieri, l’altro suo più fedele collaboratore, lo stratega politico Bannon è stato estromesso dal Consiglio di sicurezza nazionale, l’accerchiamento si è concluso. Il segretario di Stato Tillermann si è rapidamente allineato all’establishment e ora a guidare la politica estera e di difesa, a consigliare il presidente, sono gli esperti della Washington di sempre. E si vede: la distensione con il Cremlino appare sempre più lontana; anzi, proprio i ministri della nuova amministrazione alimentano la retorica antirussa con le stesse argomentazioni e lo stesso tono di Obama.Il Trump di qualche mese fa avrebbe preteso la verità sull’uso del gas in Siria, quello di oggi, invece, ha proclamato – senza ombra di dubbio – che molte linee rosse erano state superate. Proprio come Obama nel 2013. Peccato che allora, in seguito, si scoprì che a usare il Sarin erano stati i “ribelli” moderati per far cadere la colpa su Assad e provocare l’intervento della Nato. Sarin la cui consegna sarebbe stata autorizzata da Hillary Clinton. Ed è molto verosimile che anche la strage dell’altro giorno sia stata provocata dai “ribelli” per fornire agli Stati Uniti un pretesto per intervenire. Solo che nel 2013 Obama si fermò all’ultimo minuto, il Trump di oggi no. Ha fatto tutto in fretta, senza riscontri oggettivi sulle responsabilità di Assad, evidentemente mal consigliato (o consigliato benissimo, dipende dai punti di vista). Intanto l’Isis e i fondamentalisti islamici che combattono Assad ringraziano: la distruzione della base siriana avrà un solo effetto concreto, quello di indebolire l’esercito siriano e dunque di rimettere in discussione una vittoria che sembra certa. E’ così che si combatte lo Stato Islamico?Non ci prendano in giro: così lo si favorisce, perché l’obiettivo di Washington è il cambio di regime a Damasco anche a costo di vedere trionfare in Siria il peggior integralismo islamico. Non è un caso che a salutare l’interventismo della Casa Bianca siano stati proprio Hillary Clinton e John McCain. L’impressione è che l’agenda Trump sia già stata sconfessata a beneficio di quella irresponsabile e interventista portata avanti negli ultimi 15 anni dai neoconservatori. Se ciò fosse vero, significherebbe che Trump è stato “normalizzato”. E per la pace nel mondo sarebbe una pessima notizia. Resta una sola flebile speranza: che si tratti di un riposizionamento transitorio e non di una resa. Che l’uomo sia capace di riscattarsi. Ma probabilmente, a questo punto, più che una speranza è un’illusione.(Marcello Foa, “Attenti, hanno normalizzato Trump”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 7 aprile 2017).Verrebbe da dire: c’era una volta Trump. C’era, fino a poche settimane fa, un presidente che prometteva un’America diversa da quella di Obama ma anche di Bush, di Clinton, di Bush padre. Un’America intenzionata a rompere nettamente con la dottrina neoconservatrice, che in nome della lotta al terrorismo e di un mondo migliore ha ottenuto, dal 2001 ad oggi, esattamente l’opposto: più instabilità in tutto il Medio Oriente, più fondamentalismo islamico, la nascita dell’Isis e una serie di attentati nelle capitali europee. Quell’America si proponeva di non essere più il poliziotto del mondo e pareva ansiosa di fare la pace con Putin. Non fatevi ingannare dal rumore mediatico degli ultimi mesi: a disturbare l’establishment americano e quello Stato Profondo (Deep State) che in realtà governa l’America e che accomuna repubblicani e democratici, non era solo la persona di Donald Trump, quanto, soprattutto le sue idee, quel progetto di America. Quanto avvenuto la notte scorsa in Siria segna un cambiamento radicale nello spirito e nelle intenzioni di Trump. Cinque mesi di campagna martellante contro il presidente eletto hanno prodotto, evidentemente, gli effetti auspicati.