Archivio del Tag ‘schiavismo’
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Scuri come africani: ecco i nostri antenati europei
Occhi azzurri, ma pelle scura. Lo dice il Dna estratto dal dente di un maschio cacciatore e raccoglitore che sarebbe vissuto circa 7.000 anni fa nella regione delle Asturie, nel nord della Spagna. Lo riferisce il “Guardian”, su recenti indagini condotte da un pool di scienziati dediti allo studio dell’Homo Sapiens in Europa. Già in precedenza, ricorda Gary Leupp, gli studiosi avevano compreso che gli occhi azzurri erano il risultato di una mutazione genetica avvenuta tra 10.000 e 6.000 anni fa: prima di allora tutti gli uomini avevano gli occhi castani. Ma fino a pochi anni fa si era convinti che la pelle bianca fosse comparsa molto prima di allora: il pool genico europeo, con la sua tipica carnagione chiara, sembrava essersi completamente “differenziato” da quello dell’Asia orientale circa 50.000 anni fa, quando l’Homo Sapiens comparve per la prima volta in Europa e poi in Cina. Ma ora questa analisi temporale dev’essere rivista. Sembra infatti che il pallore europeo abbia avuto origini in tempi molto più recenti.Forse, 7.000 anni fa in Europa non esistevano uomini bianchi quando era in vita il cacciatore-raccoglitore dagli occhi azzurri, che nell’articolo del “Guardian” viene chiamato “bruno”. Secondo Leupp, storico della Tufts University, la nuova ricerca conferma la teoria secondo cui la diffusione dell’agricoltura in Europa, iniziata solo 6.000 anni fa, abbia favorito la sopravvivenza delle persone con una mutazione genetica, capace di generare la carnagione chiara. Tutto questo, sette millenni fa: «E’ un periodo davvero remoto, più di 2.000 anni prima della costruzione di Stonehenge o delle prime piramidi egizie, prima della divisione in classi, prima della nascita degli Stati e della scrittura», osserva Leupp in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. «L’agricoltura era agli albori nella valle del Nilo e nella valle del Fiume Giallo in Cina, mentre questi proto-scandinavi iniziavano nella parte più isolata d’Europa la loro attività di caccia e raccolta. Siamo ancora lontani millenni dall’apparizione storica delle grandi popolazioni europee dei greci, italiani, celti, popoli germanici e slavi».Ancora una volta, però, i tempi sembrano essere molto più dilatati del previsto: «Ci sono prove a supporto del fatto che gli abitanti della penisola scandinava discendessero da popolazioni che si erano insediate in quelle zone già da molto tempo. Se al contrario, così come i celti e i popoli germanici, discendessero dai cacciatori-raccoglitori con gli occhi azzurri delle Asturie, con la pelle scura di 7.000 anni fa, sarebbe opportuno rivalutare l’origine della pelle chiara, non credete?». Ne consegue un’ovvia affermazione: «Gli europei (caucasici) non sono l’unica popolazione bianca del pianeta». A partire dal loro primo contatto con il popolo giapponese nel 1.540 fino almeno all’inizio del 1.800, gli europei descrissero sia i giapponesi che i cinesi come “bianchi”. Marco Polo, alla fine del 1.200, descrisse i cinesi come “bianchi”. Categorizzazione poi sostituita intorno al 1.800 dalla nuova categoria “fulvo” o “giallo”, «che era percepito come un colore intermedio, appena sotto il bianco, in una gerarchia razziale che vede in cima i bianchi e i neri in fondo. Questo concetto, associato al “darwinismo sociale” è un primo approccio ideologico a sostegno del colonialismo e della schiavitù oltre che l’attuale fondamento del razzismo e dell’imperialismo».Le popolazioni dell’est asiatico, così come gli europei, hanno subito una mutazione genetica che li ha resi bianchi, continua Leupp. Mutazione avvenuta migliaia di anni prima rispetto ai nostri antenati nordici? Non possiamo più essere sicuri che fossero “bianchi” i nostri progenitori europei di 7.000 anni fa. Ma forse lo erano i giapponesi. «L’Homo Sapiens che visse nella valle del Fiume Giallo nella Cina del nord 7.000 anni fa, appartenente alla cultura Yangshao che avrebbe inventato a breve l’agricoltura, si pensa fosse “anatomicamente cinese”. I loro forse non lontani cugini giapponesi, i popoli Jomon, in Giappone da 14.000 anni, e il popolo Yayoi, che forma la gran parte del pool genetico giapponese, si crede fossero di pelle chiara». Se erano effettivamente di pelle chiara, conclude Leupp, potrebbero essere stati i primi “bianchi” sul pianeta, ben lontani «da quelli che si pensavano essere i fulcri da cui si è sviluppata la pelle chiara, come il Caucaso, la Scandinavia o la Germania». Le popolazioni di pelle chiara nell’Est asiatico potrebbero aver proliferato e aver raggiunto l’Europa attraverso la vasta steppa russa. «Il genetista Luigi Luca Cavalli-Sforza dell’università di Standford sostiene che due terzi dei geni europei arrivano dall’Asia, un terzo invece dall’Africa».Quand’è che l’uomo è diventato bianco? Dov’è accaduto? «Non ci è chiaro», ammette Leupp, «ma è successo piuttosto di recente e non per forza in Europa». Perché è importante saperlo? «Perché le nozioni di gerarchia razziale basate sul colore della pelle continuano a tormentarci e a perseguitare il nostro inconscio. Vivono nella mente collettiva nordamericana, per essere pronti all’uso ogni qual volta il regime consideri sia giunta l’ora di bombardare un altro Stato asiatico o africano, per portare la “nostra” civiltà bianca alle popolazioni indigene e per poter raffigurare qualsiasi possibile fatto spiacevole come “il fardello dell’uomo bianco”: si vedano ad esempio le lamentele degli uomini del Congresso su come gli iracheni o gli afghani siano stati poco riconoscenti nonostante gli enormi sforzi fatti per conquistarli». Per Leupp, «la comprensione e demistificazione delle vere origini della pelle bianca potrebbero aiutarci a superare la questione».Occhi azzurri, ma pelle scura. Lo dice il Dna estratto dal dente di un maschio cacciatore e raccoglitore che sarebbe vissuto circa 7.000 anni fa nella regione delle Asturie, nel nord della Spagna. Lo riferisce il “Guardian”, su recenti indagini condotte da un pool di scienziati dediti allo studio dell’Homo Sapiens in Europa. Già in precedenza, ricorda Gary Leupp, gli studiosi avevano compreso che gli occhi azzurri erano il risultato di una mutazione genetica avvenuta tra 10.000 e 6.000 anni fa: prima di allora tutti gli uomini avevano gli occhi castani. Ma fino a pochi anni fa si era convinti che la pelle bianca fosse comparsa molto prima di allora: il pool genico europeo, con la sua tipica carnagione chiara, sembrava essersi completamente “differenziato” da quello dell’Asia orientale circa 50.000 anni fa, quando l’Homo Sapiens comparve per la prima volta in Europa e poi in Cina. Ma ora questa analisi temporale dev’essere rivista. Sembra infatti che il pallore europeo abbia avuto origini in tempi molto più recenti.
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La grande truffa della storia, scritta dai vincitori
Alla fine bisogna sempre fare “i conti con la storia” e non sono mai conti facili: sono come gli esami che non finiscono mai. Quando Atene si liberò dei Trenta tiranni chiudendo uno dei periodi più foschi della sua storia (nel regolamento di conti che ne seguì Socrate fu messo a morte di fatto per collaborazionismo, altro che corrompere i giovani) fu promulgata una “legge bavaglio” che vietava di rivangare il passato, scriverne, rievocare. L’ordine regna ad Atene: il dibattito è chiuso – si stabilì – pena il collasso della società. Da noi, in Italia, non ci fu una legge, ma solo una canzone napoletana: “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto… Chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdammoce ‘o ppassato”. Quello di Atene dopo la dittatura dei Trenta è il più clamoroso esempio che Paolo Mieli porta nel suo ultimo libro “I conti con la storia” (Rizzoli) sul ventaglio di soluzioni possibili quando finisce un conflitto che riverbera odio, dolore e desiderio di vendetta.Ma davvero l’oblio è il medicamento da somministrare dopo ogni conflitto? No, si può fare anche il contrario, se i vincitori sono generosi patrioti. L’esempio è quello degli Stati Uniti che, dopo la fine della guerra civile a metà degli anni Sessanta del XIX secolo (proprio mentre l’Italia si unificava malamente), scelsero di includere i vinti, elevandoli al rango di co-fondatori della nuova nazione. Questo fatto, da noi poco noto, mi colpì molto quando vivevo negli Stati Uniti perché non ti aspetti quella quantità di monumenti, nomi di strade, memorial, che trasformano i nemici di un tempo in patrioti degni di onore. Sarebbe come se in Italia, dopo l’8 settembre 1943, i vinti repubblichini fossero stati promossi al rango di “patrioti avversari” co-fondatori della nuova Repubblica.Sappiamo come andò nella realtà. E a questo proposito Mieli affronta il caso di Giampaolo Pansa, famoso giornalista “di sinistra” che provocò una rottura verticale nel conformismo italiano, guidato dalla legge dell’oblio e, peggio, dalla legge della memoria asimmetrica dei vincitori. Ho sempre pensato che se la guerra l’avesse vinta la Germania, avremmo avuto poi infiniti musei e celebrazioni della memoria dei genocidi di Stalin e dei suoi campi di concentramento, e la Shoah sarebbe stata ignorata, o trattata come un fatto marginale su cui alcuni storici anticonformisti avrebbero sollevato il velo mezzo secolo più tardi. Il tabù infranto da Pansa vieta ai non fascisti di parlare del sangue dei vinti durante la guerra, ma poi anche delle esecuzioni pianificate per classe sociale nel “triangolo della morte” emiliano.Le imprese della Volante Rossa e le stragi successive alla Liberazione, che non furono lo strascico di «comprensibili vendette contro gli aguzzini», ma il passaggio dalla guerra contro tedeschi e fascisti repubblichini alle procedure per instaurare un regime comunista manu militari: ci volle il freddo realismo di Stalin e del suo impassibile portavoce Palmiro Togliatti per bloccare l’ondata insurrezionale, in nome del nuovo ordine nato a Yalta. La convenzione impose che di quei fatti nessuno dovesse più parlare e una lastra di piombo ateniese asfaltò ogni memoria e ogni verità. Nulla nelle scuole, nulla in tv. Degli effetti di quell’oblio sono stato io stesso testimone e vittima. Quando fui eletto nel giugno 2002 presidente della Commissione d’inchiesta sugli agenti russi in Italia (non soltanto le banali e oneste spie, ma anche agenti d’influenza) ebbi la candida idea di proporre ai post comunisti che occupavano la metà del nostro parlamentino un patto d’onore: sediamoci, dissi, intorno a un tavolo e lavoriamo insieme per voltare finalmente pagina, affrontando tutti i temi roventi del passato (la Commissione Mitrokhin era stata chiesta per primo da D’Alema quando la notizia di uno schedario russo reso pubblico fece impazzire la sinistra per le accuse reciproche di “collaborazionismo” sovietico).La condizione che pongo, aggiunsi, è che prima dobbiamo leggere tutti insieme e con accuratezza quella pagina, e poi voltarla. Ma avevo avuto torto: nessuno, da quella parte, aveva intenzione di condividere alcuna verità e di restituirla al Paese. La risposta che ebbi fu sprezzante: venne lanciata una campagna diffamatoria preventiva accusandomi di voler usare la Commissione «come una clava». La parola d’ordine lanciata da D’Alema sulla “clava” diventò una goccia cinese. I giornali russi fecero eco scatenando una campagna di derisione e di falsità contro la commissione del Parlamento italiano e i giornali si schierarono dalla parte della legge-bavaglio, certificando che io non potevo che essere un provocatore. Al mio informatore segreto Alexander “Sasha” Litvinenko fu inflitto il supplizio di Socrate con una pozione letale di moderna cicuta, l’isotopo Polonio 210. La legge di Atene dopo la cacciata dei Trenta era e resta in vigore. Per fortuna, Scotland Yard non ha mollato l’osso quanto a Litvinenko, ma questa è un’altra storia.E dunque, seguendo la linea de “I conti con la storia”, viene da chiedersi chi e che cosa scriverà fra un secolo, o fra cinquanta anni, sull’Italia di oggi, sui veleni della guerra civile a bassa intensità intorno a Berlusconi e all’antiberlusconismo. Ci penseranno gli storici? Secondo Mieli è possibile: la pratica dovrebbe essere gestita dagli storici nei tempi e modi necessari per spurgare le incandescenze emotive ed ideologiche a causa delle quali la storia è usata proprio come “una clava” dalla politica. Come dire che a un certo punto bisogna saper dire basta. L’Italia più di ogni altro Paese mostra quanto indigesto sia il proprio passato anche recente, su cui gli storici professionisti in fondo non possono granché: è un dato di fatto, ricorda, che la sua unità sia stata costruita su molte menzogne. I cittadini degli Stati preunitari dovettero rinnegare le loro identità precedenti raccontandosi a suon di urla e marcette militari di essere stati tutti da sempre ardenti patrioti italiani.Quando arrivò il momento, tutti diventarono entusiasti reduci della Grande Guerra, compresi i milioni che l’avevano avversata nelle piazze. Poi arrivò il momento in cui tutti si dichiararono fascisti da sempre e, subito dopo, antifascisti da sempre, quando si assistette all’improvvisa comparsa in ogni famiglia di indomabili zii e nonni anarchici, meglio se ferrovieri, che con eroica ostinazione avevano rifiutato la tessera del fascio. Nello stesso momento milioni di italiani dichiararono di aver salvato uno o più ebrei, che non erano più di cinquantamila. Alla caduta della Prima Repubblica non si trovava più un socialista craxiano o un democristiano del Caf a pagarlo oro: il camaleontismo opportunista continuerà ad essere l’elemento distintivo del carattere degli italiani, come aveva notato Leopardi. Quanti sono oggi i forconisti “da sempre”? E quelli che «mi ha telefonato Matteo» dopo anni in cui «mi ha telefonato Massimo» e l’ormai lontano «mi ha chiamato Bettino»?Si può davvero scrivere la storia con gente come questa fra i piedi? Mieli ne dubita. Tuttavia può capitare persino che gli storici, se possono alternare sulla testa il cappello dell’opinion leader oltre quello dello storico, abbiano l’opportunità di modificare il corso della storia come fece Mieli quando, direttore del “Corriere della Sera”, decise di pubblicare nel 1994 il famoso avviso di garanzia che provocò il ribaltone e la caduta del primo governo Berlusconi da cui fu generato il governo Dini, la conseguente sconfitta del centrodestra in Italia del 1996 costretto a una lunga apnea fino al 2001. Cito l’evento perché ho ragionevoli dubbi sulla neutralità degli storici. A complicare le cose ci si mettono pure figure retoriche e organismi reali che agiscono e interagiscono sui fatti come il “politicamente corretto”. L’ipocrisia ha poi perfezionato le sue armi con le agenzie delle Nazioni Unite e con i Tribunali internazionali a baricentro non occidentale che hanno come target finale Israele un po’ come la Procura di Milano punta a Berlusconi.Il “politicamente corretto” impedisce per esempio di dire che la tratta degli schiavi africani venduti, trasferiti in catene in America, dal Brasile ai Caraibi, dalla Martinica alle colonie britanniche, non fu fatta dai bianchi europei (mai dagli americani) ma dagli arabi che si servivano di tribù schiaviste di neri africani in un continente che praticava lo schiavismo da oltre mezzo millennio prima che arrivassero i bianchi a comperare insieme agli sceicchi. Ebbene, oggi ci sono Stati africani le cui leggi spediscono in galera chi osa dubitare che lo schiavismo africano sia stato un crimine dei bianchi colonialisti. Il libro di Mieli è una straordinaria e quasi infinita serie di narrazioni certificate autentiche e paradossali d’ipocrisie. È un libro fortemente anticonformista e sconvolgente.Se Calvino fa ardere vivo lo studioso della circolazione sanguigna Michele Serveto in combutta con l’Inquisizione spagnola (fascine verdi per il rogo e un collare di paglia cosparso di zolfo), che dire del grande cancelliere tedesco Bismarck (ammiratore del Risorgimento italiano) che ordinò di impiccare tutti gli abitanti maschi (compresi vecchi e bambini) della città di Ablis dove i francesi avevano catturato sessanta soldati tedeschi? L’ordine fu immediatamente eseguito senza che nessun avversario di Bismarck avesse nulla da ridire. La storia che Mieli viviseziona è quasi sempre falsificata dai vincitori: quando Hitler invase la Polonia nel 1939, il suo alleato e fervido ammiratore Stalin invase secondo gli accordi russo-tedeschi la Polonia da Est. L’Armata Rossa compì ogni sorta di violenza e crimini, senza contare lo scandalo della consegna reciproca fra svastica e falce e martello di rifugiati ebrei contro rifugiati anticomunisti sul ponte di Brest-Litovsk. Il risultato è che dopo la fine della guerra si conoscono solo i crimini tedeschi, non quelli sovietici.E ancora sui fatti di casa nostra: Mieli sostiene che i leghisti non hanno tutti i torti quando dicono che l’unità fu fatta in un modo che non aveva nulla a che fare con gli ideali risorgimentali che prevedevano un’Italia del Nord. Invece le cose andarono diversamente: gli inglesi mollarono il re di Napoli, la mafia e la camorra scesero in campo con Garibaldi e il re sabaudo, così come sarebbero scese in campo con gli americani che risalivano la penisola dalla Sicilia. Per due volte tenuti a battesimo dalla mafia, quale sorpresa di fronte a uno Stato in parte geneticamente mafioso? I conti con la storia non finiranno mai, è vero, ma bisogna pur cominciare a farli se vogliamo dare una mano non solo agli storici ma anche ai cittadini futuri per aiutarli, aiutarci, a guarire dalla genetica ipocrisia.(Paolo Guzzanti, “Dall’Unità a Berlusconi, la storia è un’arma politica”, da “Il Giornale” del 21 dicembre 2013. Il libro: Paolo Mieli, “I conti con la storia”, Rizzoli, 422 pagine, euro 19,50).Alla fine bisogna sempre fare “i conti con la storia” e non sono mai conti facili: sono come gli esami che non finiscono mai. Quando Atene si liberò dei Trenta tiranni chiudendo uno dei periodi più foschi della sua storia (nel regolamento di conti che ne seguì Socrate fu messo a morte di fatto per collaborazionismo, altro che corrompere i giovani) fu promulgata una “legge bavaglio” che vietava di rivangare il passato, scriverne, rievocare. L’ordine regna ad Atene: il dibattito è chiuso – si stabilì – pena il collasso della società. Da noi, in Italia, non ci fu una legge, ma solo una canzone napoletana: “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto… Chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdammoce ‘o ppassato”. Quello di Atene dopo la dittatura dei Trenta è il più clamoroso esempio che Paolo Mieli porta nel suo ultimo libro “I conti con la storia” (Rizzoli) sul ventaglio di soluzioni possibili quando finisce un conflitto che riverbera odio, dolore e desiderio di vendetta.
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Chomsky: liberarsi dagli Usa, lo Stato-canaglia impunito
Durante l’ultima puntata della farsa di Washington che ha stupito e divertito il mondo, un commentatore cinese ha scritto che se gli Usa non possono essere un membro responsabile del sistema mondiale, forse il mondo dovrebbe “de-americanizzarsi” – separarsi dallo Stato-canaglia che regna tramite il suo potere militare, ma sta perdendo credibilità in altri settori. La fonte diretta dello sfacelo di Washington è stato il forte spostamento a destra della classe politica. In passato, gli Usa sono stati talvolta descritti ironicamente – ma non erroneamente – come uno Stato avente un unico partito: il partito degli affari, con due fazioni chiamate democratici e repubblicani. Questo non è più vero. Gli Usa sono ancora uno Stato a partito unico, il partito-azienda. Ma hanno una sola fazione: i repubblicani moderati, ora denominati New Democrats (come la coalizione al Congresso Usa designa se stessa).Esiste ancora una organizzazione repubblicana, ma essa da lungo tempo ha abbandonato qualsiasi pretesa di essere un partito parlamentare normale. Il commentatore conservatore Norman Ornstein, dello Enterprise Institute, descrive i repubblicani di oggi come «una rivolta radicale – ideologicamente estrema, sdegnosa dei fatti e dei compromessi, che disprezza la legittimità della sua opposizione politica»: un grave pericolo per la società. Il partito è al servizio dei più ricchi e delle imprese. Siccome i voti non possono essere ottenuti a quel livello, il partito è stato costretto a mobilitare settori della società che per gli standard mondiali sono estremisti. Pazza è la nuova norma tra i membri del Tea Party e una miriade di altri gruppi, al di là della corrente tradizionale. La classe dirigente repubblicana e i suoi sponsor d’affari avevano previsto di usarli come ariete nell’assalto neoliberista contro la popolazione – privatizzare, deregolamentare e limitare il governo, pur mantenendo quelle parti che sono al servizio della ricchezza e del potere, come i militari.La classe dirigente repubblicana ha avuto un certo successo, ma ora si accorge che non riesce più a controllare la sua base, con sua grande costernazione. L’impatto sulla società americana diventa così ancora più grave. Un esempio: la reazione virulenta contro l’Affordable Care Act (Atto sulla Salute Conveniente, è il piano nazionale per la sanità, più noto in Italia come ObamaCare, ndt) e il quasi shutdown del governo federale. L’osservazione del commentatore cinese non è del tutto nuova. Nel 1999, l’analista politico Samuel Huntington avvertiva che, per gran parte del mondo, gli Usa stavano diventando «la superpotenza canaglia», visti come «la più grande minaccia esterna per le loro società». A pochi mesi dall’inizio del mandato di Bush, Robert Jervis, presidente della American Political Science Association, avvertiva che «agli occhi di gran parte del mondo, il primo Stato-canaglia oggi sono gli Stati Uniti». Sia Huntington che Jervis hanno avvertito che un tale corso è imprudente. Le conseguenze per gli Stati Uniti potrebbero essere deleterie.Nell’ultimo documento emanato da “Foreign Affairs”, uno dei principali giornali, David Kaye esamina un aspetto dell’allontanamento di Washington dal mondo: il rifiuto dei trattati multilaterali, «come se si trattasse di sport». Kaye spiega che alcuni trattati vengono respinti in modo definitivo, come quando il Senato degli Stati Uniti «ha votato contro la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità nel 2012 e il Comprehensive Nuclear – Test Ban Treaty (il trattato sulla messa al bando del nucleare – Ctbt), nel 1999». Per altri trattati si preferisce non agire, se riguardano «temi come il lavoro, i diritti economici e culturali, le specie in pericolo di estinzione, l’inquinamento, i conflitti armati, il mantenimento della pace, le armi nucleari, la legge del mare, la discriminazione contro le donne». Il rifiuto degli obblighi internazionali è cresciuto in modo così radicato, scrive Kaye, che «i governi stranieri non si aspettano più la ratifica di Washington o la sua piena partecipazione nelle istituzioni create dai trattati. Il mondo va avanti; le leggi vengono fatte altrove, con limitato (quando c’è) coinvolgimento americano».Anche se non è nuova, la pratica si è effettivamente consolidata in questi ultimi anni, insieme con la tranquilla accettazione, all’interno della nazione, della dottrina secondo cui gli Usa hanno tutto il diritto di agire come uno Stato-canaglia. Per fare un esempio, un paio di settimane fa le forze speciali Usa hanno preso un sospetto, Abu Anas al-Libi, dalle strade della capitale libica Tripoli, portandolo su una nave da guerra per l’interrogatorio, senza avvocato o diritti. Il segretario di Stato americano John Kerry ha informato la stampa che quelle azioni sono “legali” perché sono conformi con il diritto americano, senza suscitare alcun particolare commento. I principi sono validi solo se sono universali. Le reazioni sarebbero un po’ diverse, manco a dirlo, se le forze speciali cubane avessero rapito il prominente terrorista Luis Posada Carriles a Miami, portandolo a Cuba per l’interrogatorio e il processo in conformità alla legge cubana.Tali azioni sono limitate agli Stati-canaglia. Più precisamente, a quegli Stati-canaglia abbastanza potenti da agire impuniti, in questi ultimi anni, fino a svolgere aggressioni a volontà e terrorizzare le grandi regioni del mondo, con gli attacchi dei droni e molto altro. E a sfidare il mondo in altri modi, ad esempio persistendo nel suo embargo contro Cuba, nonostante l’opposizione di lunga durata di tutto il mondo, oltre a Israele, che ha votato con il suo protettore quando le Nazioni Unite hanno condannato ancora una volta l’embargo nel mese di ottobre. Qualunque cosa il mondo possa pensare, le azioni degli Usa sono legittime perché diciamo così. Il principio fu enunciato dall’eminente statista Dean Acheson nel 1962, quando diede istruzioni alla Società americana di diritto internazionale, in base alle quali nessun problema giuridico si pone quando gli Stati Uniti rispondono a una sfida per il loro «potere, posizione e prestigio». Cuba ha commesso quel delitto quando ha sconfitto un’invasione proveniente dagli Stati Uniti e poi ha avuto l’ardire di sopravvivere a un assalto progettato per portare «i terroristi della terra» a Cuba, nelle parole dello storico Arthur Schlesinger, consigliere di Kennedy.Quando gli Stati Uniti hanno ottenuto l’indipendenza, hanno cercato di unirsi alla comunità internazionale del tempo. E’ per questo che la Dichiarazione d’Indipendenza si apre esprimendo la preoccupazione per il “rispetto delle opinioni dell’umanità”. Un elemento cruciale fu l’evoluzione da una confederazione disordinata verso un’unica «nazione degna di stipulare trattati», secondo l’espressione storica del diplomatico Eliga H. Gould, che osservava le convenzioni dell’ordine europeo. Con il raggiungimento di questo status, la nuova nazione otteneva anche il diritto di agire a suo piacimento a livello nazionale. Poteva quindi procedere a liberarsi della popolazione indigena e ad espandere la schiavitù, una istituzione così “odiosa” che non poteva essere tollerata in Inghilterra, come l’illustre giurista William Murray, conte di Mansfield, stabilì nel 1772. L’evoluzione del diritto inglese era un fattore che spingeva la società schiavista a sfuggire alla sua portata. Il diventare una “nazione degna di stipulare trattati” conferì molteplici vantaggi: il riconoscimento da parte degli altri Stati e la libertà di agire senza interferenze a casa propria. Il potere egemonico fornisce l’opportunità di diventare uno Stato-canaglia, sfidando liberamente il diritto internazionale e le sue norme, mentre affronta una crescente resistenza all’estero e contribuisce al proprio declino attraverso ferite auto-inflitte.(Noam Chomsky, “De-americanizzare il mondo”, intervento pubblicato su “Truth Out” il 5 novembre 2013 e ripreso da “Come Don Chisciotte”).Durante l’ultima puntata della farsa di Washington che ha stupito e divertito il mondo, un commentatore cinese ha scritto che se gli Usa non possono essere un membro responsabile del sistema mondiale, forse il mondo dovrebbe “de-americanizzarsi” – separarsi dallo Stato-canaglia che regna tramite il suo potere militare, ma sta perdendo credibilità in altri settori. La fonte diretta dello sfacelo di Washington è stato il forte spostamento a destra della classe politica. In passato, gli Usa sono stati talvolta descritti ironicamente – ma non erroneamente – come uno Stato avente un unico partito: il partito degli affari, con due fazioni chiamate democratici e repubblicani. Questo non è più vero. Gli Usa sono ancora uno Stato a partito unico, il partito-azienda. Ma hanno una sola fazione: i repubblicani moderati, ora denominati New Democrats (come la coalizione al Congresso Usa designa se stessa).
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Priebke, gli schiavi di Auschwitz e quelli di Bruxelles
«La lugubre pagliacciata allestita attorno al cadavere di Priebke ha sortito l’effetto di attribuire anche a un personaggio del genere l’alone di vittima e di martire». Isterismo che ha fornito il pretesto per «reintrodurre in grande stile, nella legislazione, la criminalizzazione delle opinioni». Vero obiettivo: colpire ben altre convizioni, «come quelle di chi non crede alla versione ufficiale sull’11 Settembre». L’aspetto paradossale della vicenda, rileva il blog “Comidad”, sta nel fatto che «l’eredità del nazismo storico è stata raccolta proprio dal sistema di dominio vigente oggi in Europa, cioè da quella Unione Europea insignita del Premio Nobel per la Pace». I nazisti di allora? Pionieri di un esperimento sociale senza anestesia: applicare anche all’Europa i metodi più disumani fino ad allora sperimentati dal colonialismo solo in Africa, in America e in Australia. Là dove i camerati di Priebke fallirono, oggi regnano i commissari europei. E, come quella di Hitler, la loro legge non è democratica né sindacabile, anche se produce un genocidio economico.Ammiratore incondizionato del colonialismo anglosassone, osserva “Comidad”, lo stesso Hitler teorizzò nel suo “Mein Kampf” l’impiego di pratiche coloniali come la deportazione, la concentrazione e lo sterminio delle popolazioni dell’Europa dell’Est. Sino ad allora si pensava che queste tecniche fossero praticabili nelle società tribali, non certo nell’Europa dei lumi. «A guardar bene, il copyright del colonialismo nazista era ancora una volta di origine anglosassone, poiché il primo a resuscitare e usare un mito etnico a fini di destabilizzazione interna agli Stati nazionali era stato nel 1917 il ministro degli esteri britannico Balfour, allorché aveva inviato al banchiere Rothschild una lettera in cui si concedeva ai sionisti la possibilità di stabilire in Palestina un loro “focolare” nazionale», in riconoscimento di quanto gli ebrei stavano facendo per aiutare Gran Bretagna e Francia a vincere la Prima Guerra Mondiale contro la Germania. «La lettera si basava su un falso, dato che in quel periodo la stragrande maggioranza degli ebrei europei combatteva e moriva tra le file tedesche ed austro-ungariche, ma il falso funzionò al punto che in Germania molti imputarono la sconfitta nella prima guerra mondiale agli ebrei».Ma nel “Mein Kampf”, aggiunge “Comidad”, l’Ebreo diventa qualcosa di più di una razza o etnia “perfida e ostile”, dato che va a rappresentare un paradigma emergenziale che può essere riapplicato a chiunque e in ogni situazione. «Il Trattato di Maastricht del 1992 – con la sua appendice del Trattato di Lisbona del 2007 – ha ereditato e continuato questo sperimentalismo nazista, poiché ancora una volta si è trattato di trapiantare in Europa un colonialismo brutale e sbrigativo, identico a quello che il Fondo Monetario Internazionale aveva praticato per decenni in Africa, e che sino ad allora si credeva applicabile soltanto a Stati e società fragili, privi di tradizione amministrativa». Così, caduto il Muro di Berlino, anche l’Europa occidentale si è dovuta piegare alle stesse forche caudine – privatizzazioni e liquidazione del welfare – come se anch’essa fosse stata sconfitta al termine della Guerra Fredda. «Come l’antisemitismo, anche l’anticomunismo non si indirizzava solo contro un nemico definito, ma si rivelava un paradigma generale ed onnicomprensivo, a cui nessuno poteva sfuggire e che imponeva a tutti un percorso di “redenzione”».La colonizzazione dell’Europa dell’Est è diventata per il Fmi uno strumento per colonizzare anche l’Europa dell’Ovest, e i modelli di riferimento erano già stati tracciati dalle multinazionali tedesche durante la Seconda Guerra Mondiale. «Nel secondo dopoguerra», continua “Comidad”, «l’oligarchia industrial-finanziaria della Germania era riuscita a riciclarsi pressoché in blocco, scaricando per intero le responsabilità di quanto accaduto sul “tiranno” Hitler. Il ruolo fondamentale svolto dal lobbying delle multinazionali tedesche – e dei loro partner americani – per quanto conosciuto e documentato è rimasto invece in ombra. Come è noto, il campo di concentramento di Auschwitz “ospitò” il più grande stabilimento chimico d’Europa, appartenente alla multinazionale tedesca Ig Farben, un cartello di imprese di cui faceva parte anche la Bayer. La Ig Farben era a sua volta in partnership con la Standard Oil dei Rockefeller. Al finanziamento del campo di Auschwitz in Polonia partecipò, manco a dirlo, anche la onnipresente Deutsche Bank».La Ig Farben di Auschwitz «rappresentò un esempio avveniristico di “relocation” aziendale, in cui lavoravano deportati, ma anche “volontari” fatti arrivare da tutta Europa, compresa la Francia; perciò – conclude “Comidad” – lo schiavismo palese era integrato con altre forme di reclutamento del lavoro che già anticipavano aspetti del modello attuale». Che ancora oggi la Polonia costituisca una delle mete privilegiate delle rilocalizzazioni aziendali «costituisce una macabra ironia della storia». Una logica aziendale estremizzata ad Auschwitz, nella sua spaventosa chiarezza genocida: «Grazie alle deportazioni di massa, la “materia prima umana” veniva a costare meno del pasto che l’avrebbe dovuta mantenere». Da qui, «per mere ragioni di budget», la sottoalimentazione dei lavoratori e l’eliminazione sistematica degli inabili al lavoro. Se nell’economia il lavoro costituisce la variabile “flessibile” per eccellenza, «certe conseguenze criminali sono ovvie e inevitabili: al punto in cui sono arrivati attualmente i giochi, non è più necessario nemmeno un Hitler, basta un Marchionne qualsiasi».Erano invece le tanto vituperate “rigidità” a conferire qualche simmetria, e quindi anche quel po’ di equilibrio, ai rapporti aziendali. Il nazismo, «di solito fatto passare per un nazionalismo estremo», al contrario «anticipò i tempi anche nello spezzare le rigidità nazionali, configurando il modello che il Trattato di Maastricht avrebbe poi pienamente realizzato», rileva “Comidad”. «Tutto dev’essere “flessibile” in Europa, tranne i Trattati, perché la loro rigidità esprime gli interessi del lobbying multinazionale». Se il parallelismo può suscitare perplessità, data la distanza storica, «resta il fatto che l’avvento di strumentazioni come il denaro elettronico apre nuove possibilità di spezzare le antiche rigidità sociali, nazionali e territoriali. Ciò rende possibile anche il controllo e lo sfruttamento della pseudo-migrazione, cioè la forma moderna di deportazione di massa».«La lugubre pagliacciata allestita attorno al cadavere di Priebke ha sortito l’effetto di attribuire anche a un personaggio del genere l’alone di vittima e di martire». Isterismo che ha fornito il pretesto per «reintrodurre in grande stile, nella legislazione, la criminalizzazione delle opinioni». Vero obiettivo: colpire ben altre convizioni, «come quelle di chi non crede alla versione ufficiale sull’11 Settembre». L’aspetto paradossale della vicenda, rileva il blog “Comidad”, sta nel fatto che «l’eredità del nazismo storico è stata raccolta proprio dal sistema di dominio vigente oggi in Europa, cioè da quella Unione Europea insignita del Premio Nobel per la Pace». I nazisti di allora? Pionieri di un esperimento sociale senza anestesia: applicare anche all’Europa i metodi più disumani fino ad allora sperimentati dal colonialismo solo in Africa, in America e in Australia. Là dove i camerati di Priebke fallirono, oggi regnano i commissari europei. E, come quella di Hitler, la loro legge non è democratica né sindacabile, anche se produce un genocidio economico.
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Berardi: guerra civile europea, solleviamoci per fermarla
Potremo ritrovare la libertà solo grazie a una «sollevazione europea», partendo dalla grande manifestazione del 19 ottobre a Roma, evitando le fiammate rabbiose, «una trappola cui potrebbe seguire depressione e disgregazione». Energia popolare, da trasformare «in un processo diffuso e permanente di autonomia solidale». Per Franco “Bifo” Berardi, il popolo “ribelle” che ha sfilato a Roma è quello più consapevole, che vuole «sottrarre la società al cappio mortale del finanzismo, il capitalismo finanziario che sta portando l’Europa verso il nazismo». E’ il regime che ha tradito persino le aspettative della tecnologia, la promessa di liberare tempo-lavoro per destinarlo alla cura e all’educazione. Al contrario, la tecnologia globalizzata si traduce in disoccupazione e miseria, ulteriore sfruttamento, con sempre nuovi tagli alle spese per la scuola e la sanità. Attenzione: «Il sistema politico non può nulla contro la devastazione finanzista», perché la nostra democrazia «è stata cancellata»: come dice Draghi, «sommo sacerdote della teologia finanzista», il “patto di stabilità” procede con il pilota automatico, contro di noi.Secondo Berardi, autore di un intervento su “Micromega”, «soltanto una sollevazione generale, che non si limiti a riempire le piazze per un giorno, ma che occupi in maniera permanente la vita quotidiana, può liberare la società dalla trappola del finanzismo». La sollevazione, precisa “Bifo”, non è un’azione militare, e neppure una ribellione momentanea, ma «il dispiegamento della corporeità sociale, il rifiuto permanente di pagare un debito che non abbiamo contratto, l’autonomia delle forme di vita di sapere e di produzione». Niente black-bloc, per intenderci: «Un’evoluzione violenta del movimento anticapitalista oggi sarebbe poco intelligente, perché nessuno crede alla possibilità di sconfiggere le forze armate degli Stati, ultimo residuo del loro potere nazionale». Ci sono state «esplosioni di violenza precaria» come quelle del 2011 in Inghilterra, scatenate dalle giovani generazioni che «si vedono promesse a un futuro di miseria e di schiavismo», seguite dall’“acampada” spagnola, da Occupy Wall Street e dalle rivolte giovanili in Tunisia e in Egitto. L’Italia? E’ rimasta ai margini, «perché molti ingenui credevano che il problema fosse riducibile al potere di un vecchio caimano mafioso». Ma ora che Berlusconi pare al tramonto, «nulla cambia se non in peggio, e la società si trova in una stretta ogni giorno più soffocante».Lo spettacolo che ci assedia è scoraggiante: «Fiaccata dall’attacco finanzista, l’Unione Europea è un morto che cammina. Un sentimento di rancore impotente si esprime in forme di nazionalismo e di razzismo». Il Mediterraneo è «trasformato in una fossa comune», mentre «campi di concentramento razziali» sorgono «in ogni territorio dell’Unione». Sulla Grecia incombe “Alba Dorata”, in Spagna riemerge il conflitto tra nazionalismo e indipendentismo catalano, in Ungheria si affacciano «la dittatura e il razzismo». Quanto alla Francia, Berardi non crede alla sincerità democratica di Marine Le Pen, leader del Front National che ormai si presenta come forza di maggioranza. Per “Bifo”, la Bce «sta consegnando ai nazionalisti il governo del paese senza il quale “Europa” non significa niente». Il patto di pace franco-tedesco «si sta sgretolando, e crollerà quando il Front National sarà partito di maggioranza». A quel punto, «l’agonia dell’Unione lascerà il posto alla guerra civile». Fondamentale, quindi, il ruolo della “sollevazione permanente europea” in nome della democrazia solidale, a partire dal bilancio della manifestazione di Roma.Potremo ritrovare la libertà solo grazie a una «sollevazione europea», partendo dalla grande manifestazione del 19 ottobre a Roma, evitando le fiammate rabbiose, «una trappola cui potrebbe seguire depressione e disgregazione». Energia popolare, da trasformare «in un processo diffuso e permanente di autonomia solidale». Per Franco “Bifo” Berardi, il popolo “ribelle” che ha sfilato a Roma è quello più consapevole, che vuole «sottrarre la società al cappio mortale del finanzismo, il capitalismo finanziario che sta portando l’Europa verso il nazismo». E’ il regime che ha tradito persino le aspettative della tecnologia, la promessa di liberare tempo-lavoro per destinarlo alla cura e all’educazione. Al contrario, la tecnologia globalizzata si traduce in disoccupazione e miseria, ulteriore sfruttamento, con sempre nuovi tagli alle spese per la scuola e la sanità. Attenzione: «Il sistema politico non può nulla contro la devastazione finanzista», perché la nostra democrazia «è stata cancellata»: come dice Draghi, «sommo sacerdote della teologia finanzista», il “patto di stabilità” procede con il pilota automatico, contro di noi.
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I morti di Lampedusa e la festa dei politici mascalzoni
Nel Canale di Sicilia centinaia di migranti «sono morti affogati dalla legge Bossi-Fini e da una classe politica di mascalzoni», accusa Franco “Bifo” Berardi. Coincidenze: Lampedusa precipita l’Italia nel lutto proprio mentre «Letta, Alfano e Napolitano festeggiano la sconfitta di Berlusconi». Ma quei politici dimenticando un particolare: «Il programma con cui Berlusconi venne sulla scena politica nel 1993 si è integralmente realizzato». Il Cavaliere «voleva che dopo Tangentopoli i democristiani continuassero a governare» e, non trovando un “moderato” capace di realizzare il suo progetto, se ne dovette occupare personalmente. Missione compiuta: vent’anni dopo, sulla scena politica sono rimasti solo democristiani. «Ma soprattutto l’uomo di Mediaset e della P2 voleva distruggere la forza dei lavoratori, ridurre i salari alla metà e costringere i lavoratori a sottomettersi al ricatto infinito della precarietà».Obiettivo pienamente raggiunto, sostiene Berardi su “Micromega”, «grazie ai governi di centrosinistra e a quelli di centrodestra che si sono succeduti in perfetta coerenza e continuità». L’analista traccia un drammatrico parallelo tra Lampedusa e il resto d’Italia: «Nel Canale di Sicilia c’è una fossa comune nella quale per sempre giacciono migliaia di uomini, donne e bambini che le guerre armate dalla follia economica e religiosa cacciano dalle loro case a cercare lavoro e a trovare morte», mentre nelle varie regioni della penisola «decine di migliaia di migranti soffrono in campi di concentramento nazisti inventati dai democratici Turco e Napolitano e rinforzati dai non meno democratici Bossi e Fini con l’istigazione all’omicidio che si chiama “respingimento”». La caduta del Cavaliere sfidato da Alfano? «Un giorno di festa per una classe politica di mascalzoni e di servi».Per Berardi, gli inaffondabili esponenti del Palazzo «festeggiano la ritrovata forza di governo che permetterà loro di distruggere definitivamente la società italiana e di generalizzare a tutta la forza lavoro il decreto schiavista firmato per i lavoratori dell’Expo, che prevede l’imposizione di lavoro gratuito. Festeggiano l’unità che permetterà loro di eseguire i dettati degli speculatori che hanno sottomesso il progetto europeo agli interessi delle grandi banche, e passo passo stanno conducendo l’Europa verso la guerra civile». Intanto, dalle acque di Lampedusa si ripescano cadaveri, che finiscono dentro buste di plastica azzurra. «Quanti altri migranti devono uccidere ancora gli assassini in festa – conclude Berardi – prima che qualcuno cancelli l’infamia della loro legge?Nel Canale di Sicilia centinaia di migranti «sono morti affogati dalla legge Bossi-Fini e da una classe politica di mascalzoni», accusa Franco “Bifo” Berardi. Coincidenze: Lampedusa precipita l’Italia nel lutto proprio mentre «Letta, Alfano e Napolitano festeggiano la sconfitta di Berlusconi». Ma quei politici dimenticando un particolare: «Il programma con cui Berlusconi venne sulla scena politica nel 1993 si è integralmente realizzato». Il Cavaliere «voleva che dopo Tangentopoli i democristiani continuassero a governare» e, non trovando un “moderato” capace di realizzare il suo progetto, se ne dovette occupare personalmente. Missione compiuta: vent’anni dopo, sulla scena politica sono rimasti solo democristiani. «Ma soprattutto l’uomo di Mediaset e della P2 voleva distruggere la forza dei lavoratori, ridurre i salari alla metà e costringere i lavoratori a sottomettersi al ricatto infinito della precarietà».
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Salvare l’Italia? Dimentichiamoci Letta, Renzi e Berlusconi
La parola d’ordine è una sola: vincere. Così Mussolini dal fatale balcone, tanti anni fa. Oggi che il Duce non c’è più, resta comunque una parola d’ordine – un’altra: sopravvivere – ed è sempre l’indizio di un gioco truccato. Chi parla per proclami, oggi più di ieri, sta barando: sa benissimo che la verità è lontana anni luce dalle parole. Non solo non si può “vincere”, ma non si può più nemmeno sopravvivere. E’ matematico, pallottoliere alla mano: se non hai più moneta da creare e quindi da spendere, e se ormai è lo straniero a gestire addirittura la tua borsa, le speranze di continuare a galleggiare – lavoro, consumi, servizi – sono ridotte a zero. La beffa suprema è che la verità seguita e restare fuori dalla porta, oscurata con zelo dai mattatori della disinformazione, oscuri manovali e pallidi eredi del Solista del Balcone. Agli ordini delle grandi lobby che dominano le comparse della democrazia – cartelli elettorali e semi-leader, sindacati e ras industriali complici della finanza – giornali e televisioni parlano di Letta, Napolitano e Berlusconi come di autorità politiche in grado di gestire davvero la crisi italiana, senza mai neppure domandarsi da dove venga, questa maledetta crisi.
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Cardini: giustizia, la rivoluzione che l’umanità attende
Il generale malessere del mondo, la crisi europea, le strane “primavere arabe” e il ritorno di potenze come la Francia, pronte a strumentalizzare i movimenti islamisti. E poi le rivolte in Egitto e in Turchia, che hanno messo i media di fronte a una domanda drammatica: di fronte a tanta ingiusizia, l’unica via d’uscita sarà una rivoluzione necessariamente globale? Ebbene sì, risponde lo storico Franco Cardini: serve una rivoluzione mondiale basata sulla giustizia e sulla redistribuzione della ricchezza, capace di trasformare i consumi salvaguardando il rapporto con l’ambiente. La «rivoluzione del futuro», inutile non vederla, ormai «ci sta davanti», sospinta dalla potenza formidabile del Bric, il cartello dei grandi paesi emergenti: Brasile, Russia, India e Cina, cui domani potrebbe aggiungersi anche l’Iran. «Questa rivoluzione potrà anche non verificarsi, oppure fallire: ma allora saremo tutti condannati».
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Barbari sociopatici: profilo dell’élite che domina il mondo
Dal tunnel della crisi c’è una sola uscita di sicurezza. Non è l’economia, ma qualcosa di ancora più importante: si chiama democrazia. «L’alternativa alla società ordinata dal principio economico è la società ordinata dal principio politico». Quindi, «l’alternativa al capitalismo non è una nuova forma economica, ma una nuova forma politica: l’alternativa al capitalismo è la democrazia». Se infatti il capitalismo è in tilt, è solo dalla democrazia che potrà nascerà la nuova funzione economica: «E’ solo dalla civiltà, dalla civis, che può provenire l’emancipazione dalla barbarie». E’ la conclusione a cui perviene Pierluigi Fagan, esplorando la “fenomenologia dello spirito barbaro” che alimenta il pensiero liberale. Punto di partenza: il carattere antisociale di maxi-criminali finanziari come Bernard Madoff o di uomini super-potenti come Lloyd Blankfein, “ceo” di Goldman Sachs. C’è chi li ritiene casi umani, patologici, affetti da sindrome Adp, ovvero “disturbo antisociale della personalità”.
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Benvenuti all’inferno: oggi Bangladesh, domani Italia
Chi produce gli indumenti che indossiamo lavora per due dollari l’ora. Anzi, lavorava: perché ormai quei due dollari sono “troppi” persino in Cina, dove si fatica senza contributi, senza sanità e senza protezioni ambientali. Così, annuncia Paolo Barnard, le maggiori multinazionali mondiali del manifatturiero se ne stanno andando, dalla Cina: «Vanno in Vietnam, o altrove, dove il costo del lavoro è la metà», perché il margine di profitto delle grandi catene americane ed europee si è ridotto all’1-2%. «Pagando all’origine 2 dollari all’ora per i cinesi, non ci stanno più dentro. Dopo il Vietnam andranno in Sudan, poi faranno lavorare i bambini africani a 50 centesimi al giorno, poi i prigionieri di guerra e i carcerati gratis, poi le anime dell’inferno, e poi dovranno inventarsene un’altra». E’ un fronte spaventoso, le cui ultime notizie arrivano dal Bangladesh: almeno 300 operai sono morti nel crollo di Rana Plaza, una fabbrica fatiscente del sobborgo Dhaka di Savar, dove si confezionavano abiti per Benetton e per catene come Wal-Mart.
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Bob Dylan: l’America è fondata sulla schiena degli schiavi
Quattro anni di saccheggi, sciacallaggio ed omicidi che han costruito lo “stile americano”. È incredibile quello che si legge in quegli articoli di giornale. Tipo la “Gazzetta di Pittsburgh”, dove avvertivano i lavoratori che, se gli Stati del Sud l’avessero avuta vinta, avrebbero preso il potere nelle nostre fabbriche, ripristinato lo schiavismo al posto delle nostra forza lavoro e messo fine al nostro stile di vita. Cose di questo tipo, c’è di tutto. E questo, prima ancora che si sparasse il primo colpo. Non stavano cercando di mandar via gli schiavi. Volevano solo evitare che lo schiavismo si diffondesse. È l’unico diritto che veniva contestato. Lo schiavismo non forniva un salario alla gente. Se quel sistema economico fosse stato autorizzato a diffondersi, la gente del Nord avrebbe preso in mano le armi.
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Pietà per l’orso: una nuova religione che salvi noi cannibali
Quando Berlusconi è caduto, sotto il Quirinale suonava l’orchestra della Resistenza Musicale Permanente, uno dei tanti movimenti antiberlusconiani, il cui coro ha cantato l’Alleluia di Händel. Poi Monti è stato accolto col consenso quasi generale della popolazione, senza che si conoscesse il suo programma: lui, del resto, era il salvatore. «L’accoglienza che gli è stata fatta – scrive il poeta Carlo Bordini – mi ha fatto pensare all’accoglienza che fece Roma a Hitler nel 1938», riservando «un entusiasmo delirante» al messia del nazismo. Ammettiamolo: il mondo è a pezzi. La soluzione? Semplice: abolire la proprietà privata. Mission impossibile, naturalmente, per colpa del socialismo storico: l’orrore scatenato dal totalitarismo sovietico ha frenato ogni possibile evoluzione libertaria, lasciando campo libero alla ferocia schiavistica del capitalismo.