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Trotsky e Cia, rivoluzione e golpe: da Kiev alla rivolta Usa
Auto rovesciate da una massa brulicante di manifestanti inferociti, edifici che vomitano denso fumo nero dai vani vuoti delle finestre, manipoli di rivoltosi che al crepuscolo si riscaldano attorno ai copertoni in fiamme, saccheggi dei negozi al calare della notte, pungente odore di lacrimogeni, anonimi poliziotti equipaggiati come truppe d’assalto, decine di arresti e minaccia di incarcerazione di massa per chi occupa i luoghi pubblici. Kiev, Ucraina, novembre 2013? No, Missouri, Stati Uniti, novembre 2014. C’è un parallelismo tra le due rivolte? C’è la possibilità che negli Stati Uniti, come in Ucraina, la piazza arrivi a rovesciare un governo eletto? Oppure gli Usa, il cui establishment è protetto da una pletora di polizie e agenzie segrete, sono ancora troppo opulenti, troppo policés, per cadere sotto i colpi della sollevazione popolare?Altro autunno caldo, quello russo del 1917. Si scontrano due visioni di come portare a compimento la rivoluzione: quella di Vladimir Lenin e quella di Leon Trotsky. Il primo si affida alle circostanze russe in quel preciso momento storico per rovesciare il governo Kerenskij e instaurare la dittatura del proletariato. Il secondo, vera mente grigia della rivoluzione d’ottobre, sostiene che sarebbe in grado di abbattere un governo indifferentemente a Londra, Berna o Amsterdam: le condizioni sociali del paese passano in subordine rispetto alla corretta tecnica di colpo di Stato. Serve una élite di rivoluzionari, vere truppe d’assalto, che colpiscano i gangli dello Stato: la miglior polizia del mondo non potrebbe nulla contro un colpo di mano che esuli dal mantenimento dell’ordine pubblico ed attacchi il sistema nervoso della cosa pubblica. Vince Trotsky, che, espugnato il Palazzo d’Inverno, è premiato con il comando della neonata Armata Rossa: il suo potere crescerà a tal punto da costringere la troika (quella originale, con l’omonimo direttorio neo-sovietico di Bruxelles) a esiliarlo.Morirà nel 1940, ucciso in Messico da un agente sovietico. I suoi insegnamenti continuano però ad essere studiati e siamo certi che alla Cia, dove sono stati coltivate in vitro le rivoluzioni di Libia, Siria, Egitto, Tunisia ed Ucraina, le tecniche del vecchio Trotsky siano ancora accuratamente sviscerate. Torniamo alla domanda di prima: le rivolte che infuocano il Missouri e la periferie della grandi città americane sono i prodromi di una potenziale rivoluzione americana, seguita a ruota da un regime change in stile ucraino? La risposta è sì. La differenze sostanziale è che nel caso di Euromaidan, qualcuno (Washington e Berlino) ha applicato correttamente i vecchi principi di Trotsky, investendo denaro, mezzi e uomini. Nel caso del Missouri, manca una potenza straniera o un partito politico autoctono che abbia la volontà e la capacità di giocare fino in fondo la partita, espugnando la Casa Bianca. Con il denaro e gli uomini giusti, tutto è però possibile, anche l’impensabile. Ci cimenteremo quindi in una partita di fantacalcio sui generis e proveremo a rovesciare il presidente Barack Obama e ad instaurare un governo rivoluzionario, amico delle minoranze colorate e rispettoso della nostra sfera di influenza sullo scacchiere internazionale. Emuleremo quanto fatto dalla Cia in Ucraina, ricordando però che il maestro in materia, diamo a Cesare quel che è di Cesare, rimane sempre Leon Trotsky.Euromaidan e le rivolta di Ferguson: l’antefatto. Ogni rivoluzionario, ieri come oggi, ha come obbiettivo il rovesciamento dell’ordine vigente e dei suoi rappresentanti che, giustamente, si difendendo con le unghie e con i denti prima di soccombere. Di norma i rivoluzionari, se escono vivi e vittoriosi dall’avventura, abbelliscono con un manto di costituzionalità il neonato sistema, ma la loro azione è sempre illegale, finché non assurgono loro stessi a legislatori. Ciascun rivoluzionario, invece, opera in un contesto storico, politico e geografico ben preciso. Vediamo i casi dell’Ucraina e del Missouri. In Ucraina il terreno di coltura per l’insurrezione è rappresentato dalle tensioni tra ucrainofoni dell’ovest e russofoni dell’est, mentre lo scopo della rivoluzione è il posizionamento di Kiev nell’orbita Ue-Nato, sottraendola all’influenza di Mosca e alla nascente Unione Euroasiatica. Il 28 novembre 2013 il presidente ucraino Viktor Yanukovich rifiuta di siglare l’accordo di associazione con l’Unione Europea, firmando così la sua condanna: a Washinton si decide di rovesciarlo contando sulla complicità del governo tedesco guidato da Angela Merkel. Nella piazza centrale di Kiev, ribattezzata Euromaidan dall’emittente radiofonica americana “Radio Free Europe”, compaiono i primi assembramenti. La tensione, giorno per giorno, sale.In Missouri il fattore scatenante della rivolta è l’omicidio dell’afroamericano Michael Brown, ucciso a Ferguson il 9 agosto del 2014 da un agente di polizia bianco dopo un presunto furto di sigari. La morte di Brown riaccende tensioni da sempre latenti negli Usa: la segregazione razziale, il Southern Manifesto, l’assassinio di Martin Luther King, il disagio sociale, etc. Le proteste richiedono un primo intervento delle forze speciali per sedare la rivolta: l’ordine pubblico è “militarizzato”. Poi riesplodono dopo la controversa decisione del gran giurì della contea di St. Louis di non processare il poliziotto per l’omicidio di Michael Brown: i disordini si diffondono a macchia d’olio nelle periferie delle principali città americane ed agli afroamericani si uniscono gli indigenti bianchi. Lo scopo della nostra rivoluzione sarà rovesciare l’establishment americano e istaurare un governo che smantelli la rete di basi americane in giro per il mondo e dirotti sulla spesa sociale le risorse assorbite dal complesso militare-industriale. Sarà una rivoluzione al grido di “più burro e meno cannoni!”Euromaidan e Missouri-maidan: lo svolgimento. Se il congresso dei Soviet avesse fatto affidamento su Lenin e sull’ineluttabilità della dittatura del proletariato, oggi la coppia più glamour sarebbero senza dubbio il rampollo di casa Romanov e un’hostess di San Pietroburgo. Le rivoluzioni non cascano dall’albero come pere mature e, perché siano coronate da successo, insegna Leon Trotsky, servono veri esperti della sovversione. Vediamo come la Cia si è mossa in Ucraina e come agiremo noi negli Usa. Prima regola: niente soldi, niente rivoluzione. Creare un nucleo di professionisti della rivoluzione, pagare loro uno stipendio, studiare e diffondere la propaganda, spostare e istruire gli attivisti, distribuire telefoni, radio, armi ed esplosivo, costa. E tanto. Il Dipartimento di Stato americano, per ammissione di Victoria Nuland, e la “Open Society Foundation”, un’organizzazione Cia di cui probabilmente George Soros è solo un prestanome, hanno investito diversi miliardi di dollari nelle due rivoluzione ucraine: quella arancione del 2004, poi abortita, e quella contro Yakunovich del 2013.Se l’obiettivo della rivoluzione ucraina è disarcionare gli oligarchi filorussi per sostituirli con oligarchi filoamericani, ai media compiacenti e all’opinione pubblica si vende merce più appetibile: lotta contro la corruzione, la cleptocrazia e la brutalità del regime oppressore, poco importa se legittimamente eletto. Quindi, impostata l’insurrezione sulla dialettica “libertà vs. oppressione”, bisogna esacerbare lo scontro di piazza, provocando le forze dell’ordine o addossando loro efferati crimini. Per quest’operazione la Cia si serve dei nazionalisti di “Settore Destro” e degli hooligans con un lungo curriculum di guerriglia alle spalle: i cecchini che aprono il fuoco sulla folla nel febbraio del 2014 e preparano il terreno per la precipitosa fuga di Yakunovich provengono dalle file dei movimenti di estrema destra. Ne parlano in una telefonata intercettata Catherine Ashton ed il ministro degli esteri estone Urmas Peat.Ora, prendiamo in mano la caotica rivolta dei sobborghi afro-americani e trasformiamola in una coesa ed efficiente macchina rivoluzionaria. Dobbiamo per prima cosa dare loro qualche spicciolo per fare la guerriglia. Come il mecenate della Leopolda renziana, David Serra, apriamo una società finanziaria alla Cayman, oppure a Singapore o Abu Dhabi, dove dirottiamo le risorse che il nostro governo destina ai paesi del terzo mondo e alla cooperazione economica. Quindi apriamo tre Ong in altrettanti Stati africani (Etiopia, Sudan, Angola) su cui convogliano i fondi. Le Ong sono scatole vuote e a rappresentarle ci sarà un solo impiegato, seduto in un modesto ufficio, che risponda al telefono e gestisca il sito Internet. Le organizzazioni, infatti, denominate “Amici africani del Missouri”, “Fratelli Etiopi per l’America” e “Marxisti-leninisti d’Africa”, sono solo il paravento dietro cui occulteremo il trasferimento di soldi alla protesta afro-americana negli Usa.I nostri attivisti iniziano quindi una capillare opera di sensibilizzazione e proselitismo tra le minoranze di colore americane: fondazioni, convegni, manifestazioni, giornate della memoria, spettacolari azioni di protesta, campagne virali su Internet, inserzioni pubblicitarie, etc. Due sono i punti su cui ci focalizziamo: la discriminazione delle minoranze e la rapacità del governo federale che, con le insostenibili spese militari, sottrae soldi al welfare. La fascia più ampia possibile della popolazione deve famigliarizzare con il nostro messaggio, in modo che non ci sia ostile quando entreremo in azione, mentre nel frattempo selezioneremo una minoranza che sia politicamente attiva. Quindi, ricordando la massima che la rivoluzione non è un pranzo di gala, ci occorre l’equivalente del “Settore Destro” in Ucraina: la truppa d’assalto che faccia il lavoro sporco. Nel nostro caso, mentre la Cia ha pescato nell’estremismo di destra, noi faremo affidamento sugli eredi dei “Black Panthers”, un movimento di ispirazione socialista che abbracciò anche la lotta armata per difendere i diritti dei negri negli anni ’60 e ‘70. La punta di diamante sarà il redivivo “Black Liberation Army”, il superclan dentro i “Black Panthers”: i nostri istruttori militari ne addestreranno i membri nei campi allestiti in Venezuela e Bolivia. Tutte le pedine sono al loro posto: Viktor Yakunovich e Barack Obama, tremate!Euromaidan e Missouri-maidan: l’epilogo. I colpi di Stato bonapartisti (Napoleone che circondato dai granatieri scioglie il Direttorio, oppure Benito Mussolini che riceve dal Re la guida dell’esecutivo sull’onda della Marcia su Roma) si addicono ormai solo ai dei paesi in via di sviluppo, dove per il presidente di turno controllare l’aeroporto internazionale è ancora di gran lunga più importante che controllare l’account Twitter. In Occidente, oggi, i colpi di Stato si giocano sul concetto di legittimità: il governo in carica può disporre delle forze armate al loro completo, controllare centrali elettriche, acquedotti, snodi ferroviari e stradali, telecomunicazioni e dorsali Internet, ma non può approntare nessuna difesa se la rivoluzione lo ha delegittimato. Privato dell’autorevolezza, il governo è svuotato di ogni potere e, come un novello Cesare, cade senza reagire sotto le pugnalate dei congiurati. Come la Cia ha rovesciato Viktor Yakunovich creando una situazione dove la difesa di un governo democraticamente eletto è resa impossibile da un’opinione pubblica indignata dalle presunte brutalità della polizia, così noi rovesceremo Barack Obama. Serve a poco disporre della Swat, della Sesta Flotta o degli F-35, se l’opinione considera criminale qualsiasi azione compiuta dal governo: la delegittimazione è l’arma del nuovo rivoluzionario occidentale.Nel dicembre del 2013 Viktor Yakunovich, spaventato dai moti di piazza di Kiev, torna sui propri passi e si dice pronto a firmare l’accordo di associazione con la Ue: Washington giudica la mossa un semplice diversivo e procede con il rovesciamento del presidente. A gennaio volano le molotov, si contano i primi morti tra i manifestanti e l’opposizione “politicamente presentabile” chiede le immediate dimissioni di Yakunovich. Il presidente dispiega le teste di cuoio, i Berkut, in Piazza dell’Indipendenza, dove fronteggiano assalti sempre più aggressivi. Il crescendo rossiniano culmina con l’azione dei cecchini che aprono il fuoco sui manifestanti e sulle forze di polizia: è il 20 febbraio. Il 21 febbraio Yakunovich lascia Kiev e il 22 il Parlamento nomina un presidente ad interim, filoamericano, ça va sans rien dire. La tecnica dei cecchini che aprono il fuoco sulla folla è stata largamente impiegata anche in Tunisia, Libia, Egitto e Siria durante la “primavera araba” targata Cia.Vediamo ora come concludere il nostro regime change americano. Per tutto il mese di dicembre la tensione è mantenuta alta attraverso la protesta: i manifestanti reclamano la fine della discriminazione razziale, pari opportunità di lavoro, investimenti per le periferie e più controlli sulla condotta della polizia. Negli Stati dove la presenza di afro-americani è più forte la tensione sale: dal Missouri alla Florida, dal Texas a New York gli scontri con le forze dell’ordine avvengono a cadenza giornaliera. La nostra rete è due volte attiva: da una parte organizza le proteste e alza il tono dello scontro, dall’altro documenta con dovizia di particolari la reazione della polizia, esasperandone l’aspetto brutale e repressivo. Si diffonde il malcontento tra le forze dell’ordine e si ricorre con meno remore alla violenza. Verso la fine di dicembre c’è il salto di qualità: un nostro agente della “Black Liberation Army” piazza una bomba in una stazione di polizia di Atlanta. Si contano decine di morti e gli ambienti politici più oltranzisti evocano misure straordinarie per riportare l’ordine. Il presidente Obama, già politicamente debole, precipita nei sondaggi: pusillanime per i repubblicani e incapace di leggere la realtà per i “liberal”.Quindici gennaio 2015: una grande folla marcia per le vie di Atlanta commemorando la nascita di Martin Luther King. Il corteo è seguito passo a passo dalle forze dell’ordine. La tensione è palpabile. Scoppia un tafferuglio e si sentono spari: i cecchini della “Black Liberation Army” hanno abbattuto due agenti di polizia che si accasciano esanimi al suolo. Le forze dell’ordine, prese dal panico, rispondono al fuoco. È strage. La situazione negli Stati Uniti è fuori controllo. La Casa Bianca è circondata da una folla inferocita che esige giustizia e degne condizioni di vita: la rivolta da razziale è diventata sociale, e alle minoranze di colore si sono aggiunti i giovani disoccupati e il popolo dei padri di famiglia costretti a un lavoro part-time. A Barack Obama, rifugiatosi a Camp David, sottopongono l’ordine esecutivo per la proclamazione della legge marziale. Qualche giorno dopo, un solitario visitatore, camminando negli ambienti spogli e vandalizzati della ex-villa presidenziale, trova sul pavimento l’ordine esecutivo con la firma in calce del presidente. Missouri-maidan si è conclusa con successo. Euromaidan è realtà, Missourimaidan è finzione. Ma come la Cia ha pilotato la “primavera araba” e la cacciata di Yakunovich, non abbiamo nessuno dubbio che un efficiente servizio segreto saprebbe guidare una rivoluzione anche negli Usa. Leon Trotsky insegna che non sono le circostanze a rendere il terreno fertile alla rivoluzione, ma i bravi rivoluzionari che sanno coltivare anche il terreno meno fertile.(Federico Dezzani, “Missouri-Maidan”, da “Come Don Chisciotte” del 27 novembre 2014).Auto rovesciate da una massa brulicante di manifestanti inferociti, edifici che vomitano denso fumo nero dai vani vuoti delle finestre, manipoli di rivoltosi che al crepuscolo si riscaldano attorno ai copertoni in fiamme, saccheggi dei negozi al calare della notte, pungente odore di lacrimogeni, anonimi poliziotti equipaggiati come truppe d’assalto, decine di arresti e minaccia di incarcerazione di massa per chi occupa i luoghi pubblici. Kiev, Ucraina, novembre 2013? No, Missouri, Stati Uniti, novembre 2014. C’è un parallelismo tra le due rivolte? C’è la possibilità che negli Stati Uniti, come in Ucraina, la piazza arrivi a rovesciare un governo eletto? Oppure gli Usa, il cui establishment è protetto da una pletora di polizie e agenzie segrete, sono ancora troppo opulenti, troppo policés, per cadere sotto i colpi della sollevazione popolare?
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Contro Usa e Israele: il Mandela che non osano citare
«Se c’è un paese che ha commesso atrocità indicibili nel mondo, questi sono gli Stati Uniti d’America. A loro non importano gli esseri umani». Parola di Nelson Mandela. Mentre il mondo ricorda l’eredità di “Madiba” in veste di primo presidente nero del Sudafrica e icona anti-apartheid, va ricordato che fu anche profondamente scettico nei confronti della potenza americana, criticata all’epoca dell’invasione dell’Iraq. Inoltre, Mandela era un sostenitore cruciale dell’Olp di Arafat. «Qui di seguito», annuncia “Rt” in un servizio ripreso da “Megachip”, «potrete leggere le sette citazioni del leader che hanno meno probabilità di essere pubblicate, anche laddove si sta rendendo onore alla sua vita e si commemora la sua morte nei media mainstream». Prima dell’invasione Usa dell’Iraq, Mandela sferzò duramente gli Stati Uniti: al Forum Internazionale delle Donne a Johannesburg, dichiarò che il movente principale dell’allora presidente Bush era «il petrolio». Rincarò la dose intervistato da “Newsweek”: «L’atteggiamento degli Stati Uniti d’America è una minaccia per la pace nel mondo».Mandela è stato da lungo tempo sostenitore dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, offrendosi come mediatore politico tra Israele e i suoi vicini. «Israele dovrebbe ritirarsi da tutte le aree che ha conquistato a danno degli arabi nel 1967, e in particolare dovrebbe ritirarsi completamente dalle Alture del Golan, dal sud del Libano e dalla Cisgiordania», dichiarò Mandela, come riferì Suzanne Belling dell’agenzia “Jewish Telegraph”. Storico l’incontro con Fidel Castro nel 1991, insieme a cui tenne un discorso intitolato “Quanto lontano siamo andati noi schiavi”. Il paese stava commemorando il 38° anniversario della presa della caserma Moncada da parte dei castristi, e Mandela salutò il «posto speciale» di Cuba nel cuore della gente dell’Africa. «Fin dai suoi primi giorni, la rivoluzione cubana è stata anche una fonte di ispirazione per tutte le persone che amano la libertà. Ammiriamo i sacrifici del popolo cubano nel mantenere la propria indipendenza e sovranità di fronte alla malvagia campagna imperialista orchestrata per distruggere l’impressionante miglioramento realizzato nel corso della rivoluzione cubana».Sempre il leader sudafricano invitò a porre fine alle dure sanzioni imposte dall’Onu alla Libia nel 1997, e promise il suo sostegno a Gheddafi, a sua volta un suo sostenitore di lunga data. «È nostro dovere dare sostegno al leader fratello, soprattutto per quanto riguarda le sanzioni, che non stanno colpendo solo lui ma stanno colpendo la massa della gente qualunque, i nostri fratelli e sorelle africani», dichiarò Mandela. In occasione della Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese, il 4 dicembre 1997, Mandela assemblò un gruppo «in qualità di sudafricani, di palestinesi nostri ospiti e di umanisti, per esprimere la nostra solidarietà nei confronti del popolo della Palestina». Nel discorso, fece appello affinché le fiamme metaforiche della solidarietà, della giustizia e della libertà fossero tenute accese. «L’Onu ha preso una posizione forte contro l’apartheid, e nel corso degli anni è stato costruito un consenso internazionale, che ha contribuito a porre fine a questo sistema iniquo. Ma sappiamo fin troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi».«Se c’è un paese che ha commesso atrocità indicibili nel mondo, questi sono gli Stati Uniti d’America. A loro non importano gli esseri umani». Parola di Nelson Mandela. Mentre il mondo ricorda l’eredità di “Madiba” in veste di primo presidente nero del Sudafrica e icona anti-apartheid, va ricordato che fu anche profondamente scettico nei confronti della potenza americana, criticata all’epoca dell’invasione dell’Iraq. Inoltre, Mandela era un sostenitore cruciale dell’Olp di Arafat. «Qui di seguito», annuncia “Rt” in un servizio ripreso da “Megachip”, «potrete leggere le sette citazioni del leader che hanno meno probabilità di essere pubblicate, anche laddove si sta rendendo onore alla sua vita e si commemora la sua morte nei media mainstream». Prima dell’invasione Usa dell’Iraq, Mandela sferzò duramente gli Stati Uniti: al Forum Internazionale delle Donne a Johannesburg, dichiarò che il movente principale dell’allora presidente Bush era «il petrolio». Rincarò la dose intervistato da “Newsweek”: «L’atteggiamento degli Stati Uniti d’America è una minaccia per la pace nel mondo».
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Giulietto Chiesa: ma il nemico è Bruxelles, non l’Europa
«Voglio un’Europa democratica e solidale, giusta e pacifica, forte abbastanza per contare nell’arena mondiale», nonché «libera da ogni alleanza militare». Problema: «Nessuno dei nemici giurati dell’Europa e dell’euro dice queste cose: e questa è la ragione principale che mi fa diffidare di loro – di tutti, siano essi di destra o di sinistra». Giulietto Chiesa avverte: questa Unione Europea è indifendibile, ma il coro che sta salendo – in vista delle decisive elezioni europee del maggio 2014 – rischia di confondere le acque, promuovendo nazionalismi isterici e pericolose xenofobie. E’ il capolavoro finale dell’euro, moneta non più a disposizione degli Stati ed emblema di un sistema oppressivo. Nel suo “Manifesto per l’Europa”, firmato da grandi economisti come Bruno Amoroso, il laboratorio politico “Alternativa” propone un deciso ritorno alla sovranità finanziaria, attraverso la conquista di un governo finalmente democratico del continente: abolire il potere della Commissione Europea, da sostituire con un esecutivo legittimo, eletto dal Parlamento Europeo. Senza questo ripristino della legalità democratica, ogni scorciatoia può diventare pericolosa.
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Travaglio: viva Napolitano, e la stampa si copre di ridicolo
Il “Foglio” e “Libero” – il primo in modo spiritoso, il secondo con le mèches – smentiscono quel che abbiamo scritto negli ultimi giorni e di cui facciamo ammenda: cioè che tutti i media siano genuflessi ai piedi di Sua Castità e del suo governissimo. Essi anzi manifestano una sbarazzina tendenza alla critica che rasenta il vilipendio. Per esempio il “Corriere”, che assume la guida dell’opposizione con il commento al vetriolo di Antonio Polito: «Discorso breve, severo ma intriso di commozione: una lezione di virtù repubblicana». E di Paolo Valentino: «Ci sono discorsi che cambiano la storia di un Paese. Come quello di Abraham Lincoln nel 1863 a Gettysburg… O come Lyndon Johnson, che nel 1964 pronuncia il celebre we shall over come e chiude la segregazione razziale… Il discorso di Giorgio Napolitano ha la forza retorica, l’altezza d’ispirazione e la dirompenza politica che lo rendono già un’opera prima… ha aperto una nuova pagina, restituendo dignità alla parola e regalandoci un testo di etica pubblica senza precedenti nella storia repubblicana. In un altro Paese, lo farebbero studiare nelle scuole».
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Orwell: il futuro è uno scarpone che ci calpesta, per sempre
Televisione, manipolazione, social media. Fobie, terrorismo psicologico, crisi economica mondiale e disinformazione martellante: “La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza”. «Non è affatto una coincidenza che oggi ci vengano dette queste stesse cose, e di continuo». Le scrisse nel lontano 1948 lo scrittore inglese George Orwell: «Lo Stato orwelliano del Grande Fratello è tra noi, ora, con un Programma volto a imporre soppressione e controllo in dosi sempre più massicce, fino all’instaurazione delle tecniche più estreme», sotto gli slogan che dominano un mondo ridotto a puro incubo totalitario. Sono passati più di sessant’anni da quando Orwell pubblicò il suo romanzo profetico, “1984”. E alla luce degli eventi odierni, sostiene il blog “Informare per Resistere”, non c’è momento migliore per ricordare a noi stessi che ci stiamo rapidamente dirigendo verso l’allucinazione così magistralmente descritta in quel libro.
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Bianco, l’odore razzista della paura
Nella terra di un “dio senza perdono”, tutto può cambiare in una notte: in cui si trova il coraggio di affrontare un passato di odio, violenza e segregazione razziale, che gli occhi non avevano mai voluto vedere. E’ la chiave di “Bianco”, romanzo-rivelazione del giovane riminese Marco Missiroli. «Non sono un critico letterario – scrive Gad Lerner su “Vanity Fair” - ma credo di saper riconoscere una scrittura potente, capace di entrarmi dentro