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Archivio del Tag ‘sudditi’

  • Tolstoj: se paghi le tasse, finanzi il sistema che ti domina

    Scritto il 06/1/18 • nella Categoria: Recensioni • (9)

    C’è un bel saggio di Tolstoj – il Tolstoj vecchio, quello più pericoloso – che in Italia è stato tradotto solo nel 1989, pensate: un terzo della produzione di Tolstoj non tradotta in Italia fino all’89 perché troppo pericolosa. Impressionante. Quindi, le biografie italiane di Tolstoj – compresa quella, famosa, di Citati, ancora nelle librerie – sono fatte su due terzi dell’opera di Tolstoj: manca un terzo, che sono i suoi saggi terribili, popolarissimi prima della Prima Guerra Mondiale, che hanno determinato un sacco di guai, per i regimi del tempo. C’era una vignetta interessante su “Le Figaro”, dove si vedeva lo Zar Nicola II piccolino così, spaventato, che scappava, e Tolstoj (enorme) che voleva dargli una pacca sulla testa, per punirlo – pensate che fama aveva. Ecco, è un saggio del 1908, che si intitola “Di chi è la colpa”. Era un periodo brutto, per la Russia: Nicola II era quasi impazzito, a quel tempo, e permetteva ai cosacchi di fare di tutto – dai pogrom alle sciabolate durante le manifestazioni, esecuzioni capitali ogni giorno. E Tolstoj fa un brevissimo elenco di 7-8 righe su quello che è terribile, in Russia, in quel periodo, e dice: quante pene di morte ci sono al giorno? Nove, dieci. Quanta gente viene deportata?
    Proprio Nicola II aveva cominciato a fare le deportazioni forzate. Tutta la popolazione di una regione viene presa e viene messa in fondo alla Siberia, in un posto che ha sempre l’isobara di gennaio totalmente negativa. Capitava alle sètte religiose. C’era quella dei Molochany, quella dei Duchobory – Molochany vuol dire “bevitori di latte”, perché erano ultra-vegetariani, mentre i Duchobory aborrivano le armi: si rifiutavano di usare persino i coltelli. Gruppi ritenuti pericolosi per la società russa, quindi deportati in massa. E Tolstoj, arrabbiato contro questo, scrive un libro, “Resurrezione”. Gli fanno dei contratti pazzeschi, in tutto il mondo. Tutti i soldi che prende da “Resurrezione”, Tolstoj li usa per comprare una nave e un pezzo di Canada. Dopodiché manda i suoi figli a raccogliere tutti i Duchobory lungo la strada della deportazione, li carica sulla nave nel Mar Nero e li porta in Canada, dove vivono ancora adesso i loro discendenti, che tuttora parlano russo. Tutto ciò, con “Resurrezione”: una cosa grandiosa. Era un pericolo vivente, Tolstoj: non potevano ammazzarlo, né arrestarlo, perché troppo famoso. E in Italia di questo s’è saputo pochissimo, tra l’altro, fino agli anni ‘90.
    Il saggio “Di chi è la colpa” dice: le cose in Russia vanno male. Di chi è la colpa? Tutti quanti dicono: dello Zar. Ma lo Zar – dice Tolstoj, che era un nobile russo dell’alta società – è un ometto piccolo così, che gioca a tennis e a cricket tutto il tempo. Lui scrive diari, la Zarina segue Rasputin. Come fa, uno così, a dominare 180 milioni di russi? Non può essere tutta colpa sua, la colpa sarà della corte. Ci sono tremila persone, a corte, che fanno i loro maneggi – allora non c’erano le multinazionali, c’erano le corti. Colpa loro, quindi? Ma io, dice Tolstoj, sono vissuto in mezzo a questi fin da bambino: è gente che si fa gli affari suoi, che cerca vantaggi personali anche piccoli; sono tutti indebitati, si sono rovinati con il gioco tutti quanti, bevono come spugne. Come volete che facciano, queste duemilacinquecento persone, a dominare 180 milioni di russi? Allora la colpa è del governo, della Duma, del Parlamento. Inclusi sottosegretari e uscieri, sono settemila persone. Può darsi che sia colpa loro, dice Tolstoj. Però, aggiunge, sono settemila, mentre i russi sono 180 milioni. Come fanno, ’sti settemila, a imporre il loro dominio su 180 milioni di persone?
    Dicono che esiste il potere, ragiona Tolstoj, che ha sempre odiato questa parola. Cos’è il potere? Nessuno l’ha mai definito. Napoleone sposta cinquecentomila uomini, dalla Francia alla Russia, e ne muoiono 480.000. Napoleone, si dice, aveva un grande potere. Ma era un turacciolo, spinto da una marea di francesi che – chissà perché – volevano andare in Russia e sono morti tutti lì. Il potere? Io non ci credo, dice Tolstoj. E poi questi parlamentari, fisicamente, cosa fanno? Vanno dal russo e gli dicono “tu mi obbedisci”? Se vanno dal Mugik, quello li uccide: li mangia, se non c’è nessuno che guarda. Quindi il problema non sono quei tremila. Chi può essere, allora? L’esercito. Qui ragioniamo, dice: sono quattro milioni di persone. E quello russo era l’esercito più potente del mondo. Ma cos’è un esercito? E’ un insieme di soldati. Va bene, e cos’è un soldato? Questa era il modo di ragionare di Tolstoj, affascinante: sembra un bambino, che fa domande su domande. Dunque, che differenza c’è tra un soldato e un normale cittadino? Le armi: il soldato ha le armi. Le ha comprate lui? No. Gliele ha pagate lo Zar? No. Il governo? No. La corte? Nemmeno. Le armi gliele hanno pagate le tasse. E quindi: chi ha pagato le armi, che fanno diventare un uomo un soldato? E’ chiaro che sei stato tu, perché le tasse le hai pagate tu. E allora: tu perché le paghi, le tasse?
    E’ chiaro che questo libro qui non poteva uscire negli anni Trenta, non poteva uscire negli anni Settanta e non può uscire oggi. Io l’ho fatto nell’89, questo librone (“Perché la gente si droga”, sono 800 pagine di saggio di Tolstoj). Era un periodo buono, quello. L’Ottantanove, poco prima di Berlusconi. Lì è uscito, il libro. E’ andato molto bene, poi è sparito. E non lo ripubblicano più, perché è troppo pericoloso. Se tu metti una pagina di quel libro lì su Internet, su Facebook, il giorno dopo ricevi una comunicazione della questura, perché è un reato. Oggi, fare questo discorso è un reato: perché è un’esortazione a non rispettare una legge della nazione. Non pagare le tasse? Grave: ti trovi subito nei guai. Tolstoj poteva, a quel tempo. E l’idea è questa: se tu paghi le tasse, perché le paghi? Cosa ti spinge a pagarle? La psicologia del dominio, in realtà, è tutta qua. E’ vero: il dominio non è l’esercizio di un potente, è l’esercizio di un potente condizionato all’approvazione del suddito. Anche la multinazionale può manipolarti, ma si regge sugli acquisti: e tu puoi smettere, di comprare. Sartre diceva: l’uomo è condannato a essere libero; se è servo, è perché ha scelto lui di esserlo.
    (Igor Sibaldi, estratto della conferenza nell’ambito del seminario “Psicologia del dominio”, svoltosi il 3 dicembre 2017 con Salvatore Brizzi, Giorgio Galli e Calogero Falcone, ripreso su YouTube).

    C’è un bel saggio di Tolstoj – il Tolstoj vecchio, quello più pericoloso – che in Italia è stato tradotto solo nel 1989, pensate: un terzo della produzione di Tolstoj non tradotta in Italia fino all’89 perché troppo pericolosa. Impressionante. Quindi, le biografie italiane di Tolstoj – compresa quella, famosa, di Citati, ancora nelle librerie – sono fatte su due terzi dell’opera di Tolstoj: manca un terzo, che sono i suoi saggi terribili, popolarissimi prima della Prima Guerra Mondiale, che hanno determinato un sacco di guai, per i regimi del tempo. C’era una vignetta interessante su “Le Figaro”, dove si vedeva lo Zar Nicola II piccolino così, spaventato, che scappava, e Tolstoj (enorme) che voleva dargli una pacca sulla testa, per punirlo – pensate che fama aveva. Ecco, è un saggio del 1908, che si intitola “Di chi è la colpa”. Era un periodo brutto, per la Russia: Nicola II era quasi impazzito, a quel tempo, e permetteva ai cosacchi di fare di tutto – dai pogrom alle sciabolate durante le manifestazioni, esecuzioni capitali ogni giorno. E Tolstoj fa un brevissimo elenco di 7-8 righe su quello che è terribile, in Russia, in quel periodo, e dice: quante pene di morte ci sono al giorno? Nove, dieci. Quanta gente viene deportata?

  • Il Sole 24 Ore: votate pure, intanto lo Stato non esiste più

    Scritto il 29/11/17 • nella Categoria: idee • (21)

    In un paese come l’Italia, anestetizzato e abbindolato dalla propaganda e dalla disinformazione, non si è ancora capito in quale baratro ci hanno portato. E – per quanto possa sembrare incredibile – non lo hanno capito nemmeno quelli che ci hanno trascinato quaggiù. Intendo la classe politica. Infatti, alla vigilia della corsa elettorale, sui giornali si leggono annunci di programmi mirabolanti che stanno per essere sfornati dai diversi schieramenti: dal taglio delle tasse alle pensioni, dal reddito di cittadinanza ai finanziamenti allo stato sociale, dai fondi per la scuola a quelli per lottare contro la disoccupazione fino al ritorno del famoso articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Bene. C’è solo un problema: le chiavi e il portafoglio di casa nostra sono ormai in mano ad altri. In Italia non governano più gli italiani. In maniera molto chiara – quasi brutale – lo ha fatto presente Sergio Fabbrini in un inciso del suo editoriale pubblicato dal “Sole 24 Ore”, dove si legge: «I politici italiani continuano a pensare come se fossero all’interno di uno Stato sovrano indipendente». Attenzione, non sono parole pronunciate da un “pericoloso” sovranista, ma da un commentatore che – come il suo giornale – aderisce all’ideologia dell’Unione Europea. Rileggete quelle parole perché sono vere e drammatiche, sebbene quel commentatore – come la gran parte degli editorialisti dei giornali – ritenga tutto questo un gran progresso.
    Bisognerebbe domandare agli italiani: a voi è mai stato detto che non siamo più «uno Stato sovrano indipendente»? Vi è mai stata chiesta una chiara autorizzazione a disfarsi della nostra sovranità? Vi sono mai state spiegate le conseguenze? Ci rendiamo conto che siamo praticamente sudditi della “Grande Germania” chiamata Unione Europea? Per la verità alcune voci inascoltate lo hanno gridato ai quattro venti, ma sono state fulminate sui giornali con continue accuse di sovranismo, di populismo e di nazionalismo. Oggi, in questa Italia, un Enrico Mattei verrebbe considerato un pericolo sovranista e nazionalista. Perché costruì l’Eni avendo come bussola il nostro interesse nazionale. Nel 2017 gli sarebbe impossibile. Il giornale della Confindustria ieri c’informava del «radicale cambiamento» che si è verificato ovvero che «lo Stato nazionale non esiste più in Europa» (sic!). Ripeto: non sono parole di Salvini o della Meloni, ma degli stessi europeisti. È la realtà dei fatti. Certo, in teoria è ancora in vigore l’articolo 1 della Costituzione secondo cui “la sovranità appartiene al popolo” italiano. Ma nella realtà non è più così. Lo abbiamo visto nel 2011 quando è stato rovesciato l’ultimo governo scelto dagli italiani e lo vediamo continuamente con la sottomissione alla Ue.
    Quelli del centrosinistra sono stati così zelanti da andare perfino oltre ciò che l’Europa (o meglio: la Germania) chiedeva, attribuendo alle norme europee valore costituzionale. Giulio Tremonti in una intervista a “Libero” ha spiegato che «la sinistra italiana, tra il 2000 e il 2001» ha introdotto «non richiesta, nell’articolo 117 della Costituzione la formula della nostra sottomissione quando si afferma che il potere legislativo dello Stato è subordinato “ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”, intendendo per ordinamento comunitario non solo i trattati, ma anche i regolamenti e le direttive europee». È un’ idea così geniale che ovviamente gli altri Stati d’ Europa si sono ben guardati dal farsela venire. I volenterosi governanti italiani sono i soli ad averla escogitata. Così siamo obbligati a recepire tutto, bail-in compreso e non importa se contraddice l’articolo 47 della nostra Costituzione sulla tutela del risparmio. Ovviamente la decisiva perdita di sovranità c’ è stata anzitutto quando abbiamo rinunciato alla nostra moneta, errore che paghiamo salatamente.
    Eppure eravamo stati avvertiti anche da premi Nobel per l’ economia, come Paul Krugman, che nel 1999, sul “New York Times”, scriveva: «Adottando l’euro, l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera con tutti i danni che ciò implica». Ecco la vera questione: non siamo più uno Stato sovrano e indipendente, non abbiamo più una moneta e ci vengono imposte delle politiche e delle norme che fanno l’interesse nazionale altrui, non il nostro. Ci hanno ridotto a un “fake Stato”. Una colonia. La classe politica che ci ha portato a questo punto, e che adesso fischietta distrattamente facendo finta che esista ancora uno Stato italiano sovrano e indipendente, deve rendere ragione di questa follia, alla luce dei risultati devastanti di questi anni. Se le elezioni non affrontano questo problema saranno soltanto un altro modo per prendere in giro un popolo che è stato impoverito, ingannato, tradito ed espropriato perfino della sua sovranità.
    (Antonio Socci, “In Italia non governano più gli italiani ma l’Europa, e non fa il nostro interesse”, dal quotidiano “Libero” del 21 novembre 2017).

    In un paese come l’Italia, anestetizzato e abbindolato dalla propaganda e dalla disinformazione, non si è ancora capito in quale baratro ci hanno portato. E – per quanto possa sembrare incredibile – non lo hanno capito nemmeno quelli che ci hanno trascinato quaggiù. Intendo la classe politica. Infatti, alla vigilia della corsa elettorale, sui giornali si leggono annunci di programmi mirabolanti che stanno per essere sfornati dai diversi schieramenti: dal taglio delle tasse alle pensioni, dal reddito di cittadinanza ai finanziamenti allo stato sociale, dai fondi per la scuola a quelli per lottare contro la disoccupazione fino al ritorno del famoso articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Bene. C’è solo un problema: le chiavi e il portafoglio di casa nostra sono ormai in mano ad altri. In Italia non governano più gli italiani. In maniera molto chiara – quasi brutale – lo ha fatto presente Sergio Fabbrini in un inciso del suo editoriale pubblicato dal “Sole 24 Ore”, dove si legge: «I politici italiani continuano a pensare come se fossero all’interno di uno Stato sovrano indipendente». Attenzione, non sono parole pronunciate da un “pericoloso” sovranista, ma da un commentatore che – come il suo giornale – aderisce all’ideologia dell’Unione Europea. Rileggete quelle parole perché sono vere e drammatiche, sebbene quel commentatore – come la gran parte degli editorialisti dei giornali – ritenga tutto questo un gran progresso.

  • E Dio salvò la regina (dal populismo della turbolenta Diana)

    Scritto il 19/11/17 • nella Categoria: idee • (5)

    Alla fine di agosto di vent’anni fa, le cronache rosa del mondo si tinsero di nero: morì in un misterioso incidente stradale la star di quegli anni, Lady Diana Spencer. Già in vita Lady D. era circondata da un alone di simpatia e di sostegno mediatico, anche perché era vista come la donna che metteva in crisi i compassati protocolli e rituali della monarchia, si presentava come donna libera, principessa da favola e da rotocalco, ma anche da impegno umanitario e da crociate buoniste nel mondo. Per questo la sua morte tragica e precoce fu subito sospettata di essere stata un assassinio per levare di mezzo una bomba a orologeria per la monarchia britannica. In quei giorni e poi nelle indagini che seguirono, nella ridda di voci che si susseguirono riempendo le copertine dei settimanali e le prime colonne dei quotidiani, si ebbe la percezione che la monarchia inglese non sarebbe sopravvissuta al ciclone Diana. La regina Elisabetta pareva piegata sotto il fuoco degli attacchi e delle insinuazioni, il principe Carlo godeva di antipatia globale, aggravata poi dall’unione con Camilla; la monarchia era rimessa in discussione come un arnese anacronistico, ipocrita e crudele.
    E Lady D. diventava una specie di Mito Globale, affiancata a Madre Teresa di Calcutta; la sua morte fu vista come un atto di accusa alla Tradizione nel nome della libertà al femminile. Tralascio le storie e le dicerie sulla leggerezza di Lady D, sui suoi amori, sulle sue vicende che gettavano un’ombra di discredito sulla Corona e che rivelavano quanto lei fosse inadeguata al ruolo e agli obblighi che comporta. E mi soffermo invece sulle sue conseguenze: ripensando al lutto planetario per la sua morte, alla ricca letteratura pop che la celebrava come una santa, un’eroina e una martire del femminismo contro la tradizione e l’assurdo mondo dei re, noto che il tempo, alla fine, abbia mostrato la sua saggezza. Oggi quella vecchia regina che sembrava sulla via del declino se non della destituzione, è ancora viva e vegeta e ha festeggiato i 65 anni del suo regno, circondata da rispetto e simpatia. E quella vecchissima monarchia, che sembrava eclissarsi dietro le orecchie a sventola di Carlo, ha ritrovato una sua vitalità e un grande consenso.
    Di Lady D, e del suo alone romantico, è rimasta la simpatia trasferita sui figli e sui nipoti; ma stavolta la loro figura non sono viste fuori e contro la dinastia ma perfettamente dentro, integrate nel segno della monarchia e della continuità dinastica. Perché la gente ama la continuità, si affida alle tradizioni come alla paternità e alla maternità di un popolo, e ama la magnificenza, la lontananza, la regalità dei sovrani. Non solo perché ama sognare, e dunque nello splendore di una Casa Reale proietta i suoi sogni infantili e i suoi desideri di gloria. Ma perché vede riflessa in quell’immagine, in quei castelli da favola, in quelle residenze che vissero grandi eventi, quel filo di continuità con la propria storia, col passato di una nazione, di un impero, di una civiltà. Ciò non toglie nulla alla modernità, alla libertà e alla democrazia, ma li compensa, generando equilibrio tra novità e tradizione, tra popolo e sovranità, tra sacralità e profanità, tra rito e pratica quotidiana.
    Sulla questione Lady D. non sappiamo i veri contorni della vicenda, della sua vita e soprattutto della sua morte. Ma sappiamo che un’istituzione secolare, millenaria, non può piegarsi ai capricci e alle volontà pur comprensibili di una singola persona. Noblesse oblige, c’è un protocollo da rispettare, la regalità ha oneri e onori e tra i primi c’è quello di rinunciare ai suoi piaceri privati quando è in gioco la dinastia. Da principe godi di tanti privilegi ma devi sapere che quel che fai non risponde solo ai tuoi desideri e alle tue pur umane inclinazioni, ma rientra in un cerimoniale, in una simbologia, in una ritualità, in uno stile che danno il senso della regalità. La monarchia risponde a un altro metro, a un altro criterio rispetto alla leadership popolare. In una cerimonia pubblica, Re Luigi XVI di Borbone, il sovrano poi ghigliottinato dai rivoluzionari, doveva raggiungere l’altare allestito all’aperto ma cominciò a piovere a dirotto all’improvviso e il Re non volle bagnarsi, rinunciando a raggiungere l’altare. Quarantanni dopo, il re borghese Luigi Filippo d’Orleans in una cerimonia pubblica, rifiutò di essere riparato da un ombrello perché volle bagnarsi come i suoi sudditi. Col metro democratico moderno, condanniamo il primo ed elogiamo il secondo. Ma non si considera che un Re non può farsi vedere come uno qualunque, sotto la pioggia, magari con la parrucca e il trucco disfatti dall’acqua, reso quasi ridicolo nel suo sfarzo e nella sua solennità.
    Un Re deve mantenere il suo decoro, la sua regalità, e se non riesce a compiere la sua cerimonia conservando la sua immunità dai fattori climatici, è meglio che preservi la sua distanza. Luigi Filippo, invece, aveva già aperto le porte al presidenzialismo, alla democrazia repubblicana, se non al populismo. E pur di strappare il consenso e il plauso dei suoi sudditi si improvvisava uno di loro; ben sapendo però – e qui è l’ipocrisia delle monarchie borghesi e poi dei leader popolari – che re sarebbe rimasto a tutti gli effetti e con tutti i privilegi, magari quando non lo vedeva nessuno… Con Lady D e la Regina Elisabetta avvenne una cosa del genere: fece simpatia l’umanità di Lady D., la sua voglia di vivere, le sue trasgressioni, i suoi amori, il suo sguardo dolce da cerbiatto, il suo populismo mediatico con le sue performance progressiste. Ma la dignità di una storia, di una dinastia, di una tradizione furono salvaguardate dalla severa coerenza di una regina che regna sovrana ancora oggi. Dio salvò la Regina, non la turbolenta principessa.
    (Marcello Veneziani, “E Dio salvò la Regina”, da “Il Tempo” del 30 agosto 2017).

    Alla fine di agosto di vent’anni fa, le cronache rosa del mondo si tinsero di nero: morì in un misterioso incidente stradale la star di quegli anni, Lady Diana Spencer. Già in vita Lady D. era circondata da un alone di simpatia e di sostegno mediatico, anche perché era vista come la donna che metteva in crisi i compassati protocolli e rituali della monarchia, si presentava come donna libera, principessa da favola e da rotocalco, ma anche da impegno umanitario e da crociate buoniste nel mondo. Per questo la sua morte tragica e precoce fu subito sospettata di essere stata un assassinio per levare di mezzo una bomba a orologeria per la monarchia britannica. In quei giorni e poi nelle indagini che seguirono, nella ridda di voci che si susseguirono riempendo le copertine dei settimanali e le prime colonne dei quotidiani, si ebbe la percezione che la monarchia inglese non sarebbe sopravvissuta al ciclone Diana. La regina Elisabetta pareva piegata sotto il fuoco degli attacchi e delle insinuazioni, il principe Carlo godeva di antipatia globale, aggravata poi dall’unione con Camilla; la monarchia era rimessa in discussione come un arnese anacronistico, ipocrita e crudele.

  • Veneto e Lombardia: liberi da Roma ma schiavi di Bruxelles

    Scritto il 24/10/17 • nella Categoria: idee • (6)

    Super-autonomia di Veneto e Lombardia? Già, ma autonomia da cosa? Si sono dimenticati, Zaia e Maroni, di essere “sudditi” dell’Unione Europea? Non vendano facili illusioni, i governatori leghisti del Nord-Est, che oggi cantano vittoria per l’esito dei referendum consultivi indetti per chiedere lo statuto autonomo per le due Regioni: l’Italia non è più un paese sovrano, a prescindere dai margini regionali di autogoverno relativo. «Vogliamo tenerci il 90% delle tasse», annuncia Luca Zaia, forte del quasi-plebiscito appena incassato da quasi sei veneti di dieci. Minore l’affluenza in Lombardia, appena sopra il 38%, ma Maroni considera comunque un successo l’aver portato alle urne tre milioni di lombardi, lasciando capire che il governo Gentiloni sarebbe pronto a concessioni inedite. «Ma siamo sicuri che sia una cosa seria?». Se lo domanda Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, convinto di assistere a una sorta di recita che rischia di assomigliare a una farsa, proprio mentre «accadono cose surreali in Catalogna», dove il confronto tra Barcellona e Madrid appare «ben più gravido di conseguenze immediate», in una situazione nella quale «non si capisce chi abbia sbagliato di più, e chi soffi sul fuoco di chi».
    La sfida spagnola, dichiara Magaldi a “Colors Radio”, «è una vicenda talmente grossa che va riletta alla luce degli smottamenti più che sospetti che in tutta Europa si stanno verificando, in questo momento davvero cruciale». Di fronte a ciò, l’autonomismo del Lombardo-Veneto appare «stucchevole, strumentalizzabile». E poi: «Qual è la sua dimensione reale? Quali saranno le effettive conseguenze del voto?». Di una cosa, Magaldi è sicuro: «Stiamo perdendo il senso del reale, perché non è certo di più autonomie e statuti speciali che l’Italia ha bisogno». Un tempo, ammette Magaldi, «lo Stato centrale aveva competenze esorbitanti». Ma ora la situazione è completamente cambiata: «Lo Stato ha perso sovranità esattamente come l’ha persa il popolo, non solo in Italia ma in tutta l’Unione Europea: non si capisce più dove sia, oggi, la sovranità». E quindi, sostiene, anziché rifugiarsi nella dimensione regionalistica (e vale anche per Barcellona, probabilmente) sarebbe il caso di affrontare di petto l’intero problema della sciagurata governance europea: quindi non conta tanto «chi ha le prerogative per gestire», quanto «se lo fa nell’interesse della sovranità del popolo» oppure, come avviene ora, «per interessi che con il popolo hanno poco a che vedere».
    E chi dovrebbe aprirla, la vertenza vera – quella con Bruxelles? La politica, ovviamente: e qui arrivano le dolenti note. Rosatellum alla mano, l’immediato futuro non prospetta nient’altro che personaggi come Minniti o Gentiloni, ovvero «un qualche pesce lesso che vada bene sia per il centrodestra e che per il centrosinistra, verso l’ennesimo governo di bassissimo profilo». Renzi? Non l’ha ancora capito, ma si è auto-affondato: «E’ stato un grande bluff, ha capovolto l’iniziale simpatia in antipatia, che oggi diventa risentimento». Ha venduto una sorta di rivoluzione, ma poi ha partorito solo il Jobs Act, «che ha mostrato la faccia dura della precarizzazione del lavoro», e infine ha abortito una pessima riforma costituzionale. «Nel frattempo l’Italia continua a essere in discesa libera, con una burocrazia sempre asfissiante, una tassazione inverosimile e invereconda. E una disoccupazione crescente». Bilancio nero: «Non vedere questo è la follia di Renzi, e questa follia lo perderà, la discesa sarà rovinosa: non ha più alcuna chance di tornare a Palazzo Chigi».
    Intorno, comunque, il nulla, tra Salvini che serra i ranghi tornando sotto l’ala dell’inclassificabile Berlusconi, e i 5 Stelle che «non ci hanno ancora spiegato come vorrebbero davvero governare l’Italia». I “cespugli” attorno al Pd? Peggio che andar di notte: «Renzi, quantomeno, non ha sulle spalle le responsabilità di D’Alema, che ha governato male, né quelle di Bersani, incapace di farsi regista di un’alleanza coi 5 Stelle e, prima ancora, colpevole di aver supportato il governo Monti». Magaldi è tra i promotori di un nuovo progetto politico ancora in divenire (il Pdp, Partito Democratico Progressista) ma prende atto del fatto che, in Italia, sembra mancare il lessico fondamentale per voltare davvero pagina. Esempio: fa notizia che rinunci a candidarsi un uomo come Piercamillo Davigo, magistrato della Cassazione e già segretario dell’Anm, bandiera della lotta anti-corruzione dai tempi del pool milanese di Mani Pulite. «Non credo che la corruzione – che i magistrati come lui fanno bene a perseguire – sia il peggiore dei problemi italiani», precisa Magaldi, che aggiunge: «Sulla grande retorica della corruzione è stata distrutta una classe politica che era molto migliore di quella che l’ha sostituita».
    Nei giorni scorsi, la polemica su Tangentopoli ha vissuto l’ennesima fiammata nello scontro tra il filosofo Diego Fusaro e Antonio Di Pietro: il primo accusa il secondo di esser stato lo strumento di un “golpe bianco” per abbattere la Prima Repubblica, mentre per il leader dell’Italia dei Valori «il problema erano i politici ladri, non i magistrati». Politici che, secondo un altro esponente del Movimento Roosevelt, Gianfranco Carpeoro, andavano comunque tolti di mezzo, ma non certo per ragioni morali: «A decapitare la Prima Repubblica non fu un colpo di Stato, ma un complotto internazionale». Il movente? Si voleva un’Italia completamente indifesa rispetto al progetto oligarchico dell’euro e dell’Unione Europea. Magaldi concorda: «Rispetto a questa traballante e pessima Seconda Repubblica, sarà sempre meglio una classe politica diversa, magari con sacche di corruzione, ma con un progetto chiaro». L’Italia era una potenza industriale tra le prime al mondo, con indicatori tutti in crescita. Poi, negli ultimi 25 anni, il declino. Atto d’inizio: la «macelleria politica fatta da Tangentopoli, con un risultato fallimentare: oggi abbiamo un’altra Repubblica, ugualmente corrotta, ma – a differenza della prima – senza più un progetto sovrano per il paese». E ora, data per persa l’Italia, c’è chi pensa davvero di rifugiarsi tra Brescia e Verona?

    Super-autonomia di Veneto e Lombardia? Già, ma autonomia da cosa? Si sono dimenticati, Zaia e Maroni, di essere “sudditi” dell’Unione Europea? Non vendano facili illusioni, i governatori leghisti del Nord-Est, che oggi cantano vittoria per l’esito dei referendum consultivi indetti per chiedere lo statuto autonomo per le due Regioni: l’Italia non è più un paese sovrano, a prescindere dai margini regionali di autogoverno relativo. «Vogliamo tenerci il 90% delle tasse», annuncia Luca Zaia, forte del quasi-plebiscito appena incassato da quasi sei veneti di dieci. Minore l’affluenza in Lombardia, appena sopra il 38%, ma Maroni considera comunque un successo l’aver portato alle urne tre milioni di lombardi, lasciando capire che il governo Gentiloni sarebbe pronto a concessioni inedite. «Ma siamo sicuri che sia una cosa seria?». Se lo domanda Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, convinto di assistere a una sorta di recita che rischia di assomigliare a una farsa, proprio mentre «accadono cose surreali in Catalogna», dove il confronto tra Barcellona e Madrid appare «ben più gravido di conseguenze immediate», in una situazione nella quale «non si capisce chi abbia sbagliato di più, e chi soffi sul fuoco di chi».

  • Nasce il Pdp: rianimare l’Italia, via il pareggio di bilancio

    Scritto il 07/10/17 • nella Categoria: segnalazioni • (15)

    Via la vergogna del pareggio di bilancio, inserito nella Costituzione dal governo Monti con l’appoggio di Berlusconi e Bersani. Fine dell’austerity e ritorno al futuro (virtuoso) dei decenni del benessere, interrotti con i tagli sanguinosi alla spesa pubblica, motivati solo con il dogma neoliberista dello “Stato minino”. Imperativo morale: ribaltare lo scenario cronico di crisi con un’iniezione di fiducia (e di carburante) nel sistema-Italia. E quindi: meno tasse e più investimenti, per un’economia nuovamente espansiva. Obiettivo: piena occupazione per tutti, al posto dell’elemosina del “reddito di sopravvivenza” per chi non lavora. E inoltre, stop al cancro della speculazione finanziaria illimitata, con la separazione netta, per legge, degli istituti di credito: le banche d’affari separate da quelle al servizio del risparmio e dell’economia reale di famiglie e aziende. Sono i primissimi pilastri su cui si fonderà la proposta politica del Pdp, Partito Democratico Progressista, in via di avanzata gestazione su iniziativa del gruppo che fa capo a Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” (che denuncia le trame della supermassoneria oligarchica) nonché fondatore del Movimento Roosevelt, entità meta-partitica nata per “risvegliare” la politica italiana in senso democratico e sovranista.
    Caduti nel vuoto i ripetuti appelli lanciati da Magaldi – non ultimo, quello ai 5 Stelle per le elezioni di Roma, con la proposta di candidatura del prestigioso economista Nino Galloni – Magaldi ora punta direttamente alla costruzione di un partito «realmente progressista», di fronte al desolante scenario dell’offerta politica italiana: nessuo dei tre poli affronta a viso aperto il vero nodo della crisi, che è strettamente europeo e legato all’imposizione delle politiche di rigore che l’élite finanziaria internazionale fa imporre agli Stati, attraverso la nomenklatura tecnocratica di Bruxelles. «Finora, Matteo Renzi ha solo finto di opporsi al sistema che opprime l’Italia: mentre abbaiava contro i gestori dell’euro-rigore, bussava ripetutamente alle porte dei circuiti della peggiore supermassoneria internazionale reazionaria, sperando di essere accolto». Berlusconi? Anacronistico, e comunque fallimentare: «Non è riuscito neppure a varare le riforme liberali che aveva proposto». I grillini? «Ancora devono spiegarci come governerebbero l’Italia, magari evitando lo spettacolo che stanno dando a Roma». Morale: dalle prossime elezioni uscirà un Parlamento inevitabilmente balcanizzato e costretto alle solite larghe intese. E cioè: ancora una volta un governo debole, “suddito” dei super-poteri manovrati da Bruxelles.
    E’ esattamente di fronte a questo panorama che il nascente Pdp (assemblea costitutiva il 4 novembre a Roma) si propone di aprire una crepa, provando a rovesciare il paradigma della crisi: non è vero che l’economia italiana è condannata al declino. Basta solo (si fa per dire) trovare il coraggio di dire no agli oligarchi dell’Ue, stracciando il pareggio di bilancio e la falsa “teologia” da cui è nato. E avere il fegato di sfidare direttamente i mandanti, i dominus della grande finanza, sottraendo le banche popolari alle grinfie della speculazione: sarebbe la fine delle varie “bancopoli” innescate, a cascata, in tutto l’Occidente, da quando Bill Clinton cancellò il Glass-Steagall Act, la “diga” innalzata da Roosevelt più di mezzo secolo prima per proteggere l’economia americana dagli squali di Wall Street. Magaldi, Galloni e soci sono fra quanti sognano un riscatto democratico dell’Italia, partendo dalla guarigione economica. Il traguardo è ambizioso: mobilitare energie trasversali, intellettuali e politiche, per riabilitare lo Stato come arbitro autorevole e schierato con i cittadini, altrimenti in balia del potere neoliberista delle multinazionali, oggi protagoniste assolute della grande privatizzazione globalizzata. Primo mattone: una piattaforma di idee, da cui partire: per smontare il grande imbroglio che il potere europeo chiama semplicemente “crisi”.

    Via la vergogna del pareggio di bilancio, inserito nella Costituzione dal governo Monti con l’appoggio di Berlusconi e Bersani. Fine dell’austerity e ritorno al futuro (virtuoso) dei decenni del benessere, interrotti con i tagli sanguinosi alla spesa pubblica, motivati solo con il dogma neoliberista dello “Stato minino”. Imperativo morale: ribaltare lo scenario cronico di crisi con un’iniezione di fiducia (e di carburante) nel sistema-Italia. E quindi: meno tasse e più investimenti, per un’economia nuovamente espansiva. Obiettivo: piena occupazione per tutti, al posto dell’elemosina del “reddito di sopravvivenza” per chi non lavora. E inoltre, stop al cancro della speculazione finanziaria illimitata, con la separazione netta, per legge, degli istituti di credito: le banche d’affari separate da quelle al servizio del risparmio e dell’economia reale di famiglie e aziende. Sono i primissimi pilastri su cui si fonderà la proposta politica del Pdp, Partito Democratico Progressista, in via di avanzata gestazione su iniziativa del gruppo che fa capo a Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” (che denuncia le trame della supermassoneria oligarchica) nonché fondatore del Movimento Roosevelt, entità meta-partitica nata per “risvegliare” la politica italiana in senso democratico e sovranista.

  • Oltre l’agonia: potere totalitario, ma non vincerà per sempre

    Scritto il 05/9/17 • nella Categoria: Recensioni • (5)

    «Quando saremo completamente sottomessi, non ci renderemo neanche più conto di avere perduto la nostra dignità». Eppure, i grandi poteri non riusciranno a piegarci: nel suo ultimo saggio, “Oltre l’agonia”, Marco Della Luna spiega «come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari». Avvocato, Della Luna esercita da anni la professione forense. Laureato in psicologia a Padova, è un attento studioso degli strumenti psicologici, economici e giuridici di dominazione sociale. Collabora con riviste come “Tema”, “Il Consapevole”, “Nexus”, “Il Popolo”. Tra i suoi volumi più recenti, “Euroschiavi”, “Polli da Spennare”, “Basta con questa Italia”. «Il capitalismo finanziario – afferma – sta diventando sempre più un potere politico assoluto e totalitario», dal momento che «oltre a trasformare l’uomo in merce, degrada la società in due maniere: le infligge ricorrenti crisi e riduce tutti a sudditi senza diritti». Con il pretesto di dover rassicurare i “mercati”, questo super-potere invisibile «giustifica il controllo sociale attraverso nuovi mezzi elettronici e organici che tracciano e violano l’uomo con tecniche di manipolazione neurale e biologica, applicando gli strumenti della psicologia aziendale».
    Prima di spingere lo sguardo “oltre l’agonia”, Della Luna punta al cuore di tenebra del mostro che sta sfigurando l’Italia, mezza Europa e il resto del mondo: «Con il pretesto di dover assicurare a tutti i costi la governance richiesta dagli stessi mercati che hanno destabilizzato la società», il neo-totalitarismo finanziario «crea la giustificazione per controllare la vita sociale attraverso nuovi strumenti elettronici e biologici, che tracciano, violano e manipolano l’uomo fin nella sua integrità neurofisiologica». Socché, questa “società gestita”, pilotata dall’alto, «è il risultato dell’applicazione degli strumenti della psicologia aziendale», potenziati con tecniche di manipolazione derivati dalle neuroscienze. Questa raffinata tecnologia «ha dato ai governanti non solo un potere di controllo e intervento su tutti noi prima impensabile, ma anche una nuova struttura del potere stesso». Una struttura «delocalizzata e politicamente irresponsabile, in cui l’automazione e la smaterializzazione degli strumenti di governo e di arricchimento hanno privato le persone del potere di contrattazione e della partecipazione ai processi decisionali, relegandole al margine dei circuiti produttivi e decisionali».
    Questo processo ha generato «un ordine contrario ai bisogni dell’uomo e della biosfera, cementato da un catechismo ideologico “politicamente corretto” che criminalizza, censura e inibisce chi ne critica i fondamenti». Di fatto, «siamo piegati dalle crisi incalzanti e dalle loro imposizioni, e così accettiamo che la sopravvivenza del sistema produttivo da cui dipendiamo necessiti di un maggior controllo sociale, di una crescente riduzione delle sicurezze personali, delle relazioni comunitarie e delle libertà». Il capitalismo finanziario, poi, «alimenta il falso dogma della scarsità della moneta e sta diventando sempre più una guida politica assoluta». Oltre a mercificare l’uomo, questo super-potere apolide «disgrega e degrada la società in due maniere: le infligge ricorrenti crisi e dissolve le sue basi morali in una logica di competizione individualistica». Nel libro, Della Luna descrive questo minaccioso passaggio epocale, in cui l’umanità sta rischiando tutto. Per contro, l’autore indica una possibile via di uscita dall’incombente dominio tecnocratico: risiede, per forza di cose, «nella stessa insondabile e incoercibile complessità del mondo, della psiche, dell’Essere».
    (Il libro: Marco Della Luna, “Oltre l’agonia. Come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari”, Arianna Editrice, 160 pagine, euro 9,80).

    «Quando saremo completamente sottomessi, non ci renderemo neanche più conto di avere perduto la nostra dignità». Eppure, i grandi poteri non riusciranno a piegarci: nel suo ultimo saggio, “Oltre l’agonia”, Marco Della Luna spiega «come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari». Avvocato, Della Luna esercita da anni la professione forense. Laureato in psicologia a Padova, è un attento studioso degli strumenti psicologici, economici e giuridici di dominazione sociale. Collabora con riviste come “Tema”, “Il Consapevole”, “Nexus”, “Il Popolo”. Tra i suoi volumi più recenti, “Euroschiavi”, “Polli da Spennare”, “Basta con questa Italia”. «Il capitalismo finanziario – afferma – sta diventando sempre più un potere politico assoluto e totalitario», dal momento che «oltre a trasformare l’uomo in merce, degrada la società in due maniere: le infligge ricorrenti crisi e riduce tutti a sudditi senza diritti». Con il pretesto di dover rassicurare i “mercati”, questo super-potere invisibile «giustifica il controllo sociale attraverso nuovi mezzi elettronici e organici che tracciano e violano l’uomo con tecniche di manipolazione neurale e biologica, applicando gli strumenti della psicologia aziendale».

  • E se poi, un bel giorno, scopri che non era vero niente?

    Scritto il 26/2/17 • nella Categoria: segnalazioni • (11)

    Perché l’oro è così importante? L’oro, non il ferro, l’argento, altri metalli. Perché si è scoperto che l’oro, incorruttibile, può isolare al 100% da radiazioni pericolose, provenienti da tecnologie avanzate. Lo affermano i controversi studiosi della cosiddetta paleo-astronautica, che si interrogano sul singolare interesse manifestato, per l’oro, da tutti gli “dèi” dell’antichità, chiamati Viracochas sulle Ande nel regno Inca, Túatha Dé Dànann in Irlanda, Elohim in Palestina, Annunaki in Mesopotamia, Theòi in Grecia, Vimana in India. E ancora: Kachinas in Arizona, Muxul nello Yucatan presso i Maya, Dogu in Giappone, Wakinyan in Nord America presso i Lakota Sioux, Nommo in Mali presso i Dogon. Una cosa è sicura: a un certo punto, nella storia, l’oro viene improvvisamente apprezzato e ricercato, estratto, lavorato, tesaurizzato, utilizzato come valore di scambio. Tutti quegli esseri appassionati all’oro, spesso chiamati Figli delle Stelle perché comparsi a bordo di formidabili mezzi volanti, raffigurati in sculture e altorilievi ancora oggi visibili un po’ in tutto il mondo, instaurarono dominazioni di tipo coloniale, imponendo sempre – alle popolazioni assoggettate – lo stesso “sacrificio” quotidiano: bruciare, per loro, il grasso (inizialmente dei neonati primogeniti, poi solo di agnelli) presente in prossimità di certi organi, fegato e reni.
    Grasso che, una volta bruciato, produce un fumo inebriante e “calmante”, come spiegano nella Bibbia i sudditi di Jahwè, uno degli Elohim dell’area palestinese, divenuto celebre attraverso il drammatico racconto biblico – Jahwè (o anche Jeohwà o Jihwì, a seconda delle vocalizzazioni convenzionali introdotte solo nel medioevo dai biblisti ebrei della scuola masoretica) era il dispotico, temutissimo padrone della famiglia di Giacobbe-Israele, poi successivamente trasformato, dalla teologia, addirittura in “Dio unico”. Nell’antica Roma, quello stesso grasso era chiamato “omentum”. Stesse disposizioni: era la parte “sacra”, cioè riservata esclusivamente agli “dèi”, perché fosse bruciata (quindi “sacrificata”) solo per loro, pena la morte dei trasgressori. Quel particolare grasso che sovrasta gli organi interni non è come l’adipe, provvisorio e accumulato con l’alimentazione, ma è un grasso stratificato fin dall’infanzia, addirittura dalla nascita. Se bruciato, confermano i chimici, produce un fumo che sprigiona molecole pressoché identiche a quelle delle endorfine, fortemente psicotrope, il cui odore ricorda il profumo appetitoso che si libera dal barbecue durante una grigliata.
    L’astronauta italiana Samantha Cristoforetti, di ritorno dallo spazio, ha dichiarato che, lassù, aleggia un odore di carne bruciata. Gli scienziati spiegano che quell’odore si diffonde, anche in un’astronave, man mano che si prolunga la missione, perché le condizioni ambientali all’interno del veicolo spaziale accelerano la morte di milioni di cellule epiteliali – morte che, appunto, produce quell’odore. Di recente, poi, ricercatori hanno scoperto che il vino rosso contiene una sostanza particolarissima, il resveratrolo, che protegge le ossa da svariate complicazioni, inclusa la “friabilità” che colpisce lo scheletro negli astronauti esposti a lunghi soggiorni orbitali. La Bibbia racconta che Jahwè beveva vino spesso e volentieri (fece impiantare una vigna a Noè, subito dopo lo sbarco dall’Arca), mentre i testi sumero-accadici riferiscono che gli Annunaki gradivano molto la birra. Elohim, Vimana e tutti gli altri: Figli delle Stelle? “Vimàn” era il nome di una compagnia aerea del Bangladesh, ricorda Mauro Biglino. “In India voliamo da tremila anni”, era uno slogan pubblicitario dell’Air India. El-Al è invece il nome della celebre compagnia israeliana.
    Se la tradizione rabbinica racchiusa nel Talmud ammette con assoluta tranquillità la presenza della manipolazione genetica nella Genesi – basta vedere come vennero al mondo Adamo ed Eva, disse il professor Safran, rabbino e docente universario di etica medica in Israele, all’epoca della clonazione della pecora Dolly – è davvero impossibile trascurare gli studi più recenti dei genetisti, che mettono in crisi l’evoluzionismo darwiniano: è come se fosse intervenuto qualcosa a “correggere” l’evoluzione, accelerandola – non solo per il Sapiens, ma anche per la pecora e la mucca, la patata, il grano. Cioè gli animali e i vegetali che popolavano il Gan Eden di cui parla la Bibbia, da cui i primi ibridi – Adamo ed Eva, appunto – furono allontanati preventivamente, prima cioè che potessero approfondire “le pratiche dell’albero della vita”, acquisendo cioè le medesime conoscenze, dunque il medesimo potere, dei loro “creatori”, gli Elohim, veri specialisti in genetica sperimentale, a quanto sembra.
    Emerge un’altra verità, dunque, sui cosiddetti “testi sacri”, da cui discende un impianto di pensiero – e di potere – almeno bimillenario. Non stupisce, quindi, il grande successo dei bestseller di Biglino, pubblicati anche da Mondadori, né l’entusiasmo delle centinaia di persone che affollano le sue frequentissime conferenze. Di Biglino si può apprezzare innanzitutto la correttezza, nella sua impostazione preliminare: non metto in discussione l’esistenza di Dio, ripete, perché non ho le certezze degli atei; mi limito a dimostrare che quella della Bibbia non è una divinità ma solo un Elohim, di cui la stessa Bibbia nomina almeno 20 “colleghi”, di equivalente status, senza peraltro mai spiegare il significato della parola Elohim, che nessuno al mondo conosce. Inoltre, nella Bibbia non sono presenti, mai, i concetti-chiave del monoteismo: creazione, eternità, immortalità, divinità. Il verbo tradotto con “creare” è Baraa, che significa dividere, separare (i cieli dalle acque, le acque dalle terre – Genesi). E della parola Olàm, ancora e sempre tradotta con “eternità”, e che in realtà significa “tempo molto lungo”, i dizionari raccomandano: non tradurla mai con il termine “eternità”.
    Lo scorso marzo, Biglino è stato protagonista, a Milano, di un importante confronto con eminenti teologi: un importante sacerdote e docente di teologia dell’università cattolica, un arcivescovo ortodosso, il rabbino capo della comunità ebraica di Torino e un insigne biblista, pastore valdese, co-autore di alcuni tra i più importanti dizionari di ebraico e aramaico antico. Nessuno ha messo in discussione le sue tesi. Tutti, al contrario, hanno ammesso che la Bibbia è stata ampiamente travisata. Ma lì si fermano: non denunciano, cioè, il fatto che venga ancora oggi regolarmente travisata. Dice Biglino: nel 95% dei casi, chi professa e propaga le grandi religioni monoteiste che si pretendono originate da quel libro (e quindi: Papi, vescovi, parroci, catechisti, pastori) non conosce neppure la lingua in cui quel libro è scritto. Pretende di “far dire” a quel libro determinate verità, per di più “sacre”, ma non conosce – alla lettera – il testo, nella lingua originaria. Senza contare, poi, che la Bibbia resta una raccolta (non uniforme) di testi di epoche diverse, tutti senza fonte: non è possibile risalire con certezza neppure a un autore; nessuno dei testi biblici ha una chiara paternità – tantomeno i libri più famosi e celebrati, come quello attribuito all’ipotetico profeta Isaia.
    Anche per questo, mezzo secolo fa, i biblisti ebraici hanno varato il “Bible Project” con il compito, entro 200 anni, di ricostruire una Bibbia più attendibile. L’unica certezza, dicono, è che la Bibbia di oggi – riveduta e corretta per l’ultima volta dai masoreti all’epoca di Carlomagno – non è l’originale. Inoltre mancano una decina di libri, pure citati qua e là: quei libri sono scomparsi. E le incongruenze sintattiche presenti nella versione masoretica dimostrano il grado di manipolazione cui quei testi sono stati sottoposti, nel corso dei secoli. Biglino dice: mi si rimprovera di offrire una lettura letterale del testo, anziché allegorica, simbologica, esoterica, teologica. Va bene, teniamo pure conto di tutte le interpretazioni possibili. Ma aggiunge: perché privarci della versione letterale, sia pure di un testo che sappiamo essere così pesantemente rimaneggiato? Non si sa neppure in che lingua fosse scritto, l’originale: all’epoca della prima stesura della Genesi, per esempio, la lingua ebraica non esisteva ancora. Dunque non sappiamo in che lingua fosse scritto, quel libro, né tantomeno come venissero pronunciate, le parole in esso contenute. Poi intervenne la traduzione in ebraico, ma con le sole consonanti; le vocali furono introdotte solo fra il VI e l’XVIII secolo dopo Cristo, quando appunto “Yhw” divenne finalmente “Jahwè” (ma aJahwènche “Jihwì” e “Jeohwah”).
    Nonostante tutto ciò, insiste Biglino, perché non provare a leggere il testo così com’è, dando per buona – per un attimo – l’idea che racconti fatti realmente accaduti? Si scoprirebbe, conclude, che la storia narrata – vera o falsa che sia – non è priva di coerenza. Ed è, tra l’altro, la fotocopia perfetta di molti altri libri antichi preesistenti, “sacri” e non, come la trilogia fondativa di un popolo geograficamente contiguo a quello ebraico, i sumero-babilonesi. Quei testi mesopotamici sono l’Atrahasis, l’Enuma Elish e l’Epopea di Gilgamesh. Raccontano tutti la stessa storia: e cioè l’arrivo (da cielo?) di individui potentissimi ma non onnipotenti, molto longevi ma non immortali, in possesso esclusivo di tecnologie fantascientifiche, decisi a colonizzare territori imponendo la loro legge (i comandamenti di Jahwè non sono 10, ma oltre 600) e stabilendo alleanze con singole tribù, in lotta perenne tra loro per la spartizione di piccoli territori. Il patto: voi lavorate per me (mi servite, mi nutrite, mi bruciate quel famoso grasso e mi obbedite in tutto) e io vi aiuto a conquistare “terre promesse”. Se disobbedite, vi stermino. Jahwè, è scritto nella Bibbia, arrivò a uccidere in massa 24.000 sudditi disobbedienti.
    Quello che Biglino contesta è che, nonostante le evidenze e le conferme provenienti dagli ambiti di studio più disparati (dall’esegesi ebraica all’autorevole École Biblique dei domenicani di Gerusalemme) le traduzioni erronee continuino a essere presenti nelle Bibbie attualmente stampate. In sintesi, il primo problema è Dio. Nella Bibbia, semplicemente, non c’è, dice Biglino. C’è Jahwè, che però è sempre in compagnia dei “colleghi” Milkòm, Kamòsh, e tanti altri. Viene tradotto con “Altissimo” il nome Eliòn, che invece è un individuo «chiaramente indicato come il capo degli Elohim: è scritto nel testo biblico che ne presiede un’assemblea, nientemeno». E addirittura è tradotto coi termini “eterno” e “onnipotente” il nome El Shaddai, letteralmente “signore della steppa”, cioè l’Elohim nel quale si imbatté Abramo. Allo stesso modo, altri termini vengono sempre tradotti in modo consapevolmente inappropriato e fuorviante: Kavod, per esempio. Il contesto biblico lo presenta come un’arma da guerra, un oggetto volante e pericoloso, dotato di armanenti micidiali. Viene tradotto: “gloria”. Così, il “Kavod di Jahwè” diventa la “gloria di Dio”.
    Quando appare, il Kavod solleva un gran vento, il Ruach – che viene tradotto “spirito”. Sotto il Kavod sono fissati 4 Cherubini. Mezzi meccanici volanti, secondo i rabbini: robot, monoposto. Per l’esegesi teologica cristiana, invece, i Cherubini sono “angeli”, così come gli altri “angeli”, incorporei e alati, che la Bibbia invece chiama Malachìm, presentandoli come individui in carne e ossa, di cui gli umani hanno paura – sono soldati, ufficiali degli Elohim, portaordini pericolosi, molesti, inquietanti. «L’angelo apparve alla vista di Gedeone, volando con leggerezza», e poi «scomparve», scrive la traduzione cristiana della Bibbia, che invece nell’originale, in ebraico, scrive che «il Malach» si fece vedere da Gedeone, e poi «se ne andà camminando». Pura invenzione, il volo, così come l’attraversamento miracoloso del Mar Rosso: «Nel testo c’è scritto che Mosè e i suoi attraversarono solo uno Yam Suf, un canneto. Nessun mare, tantomeno Rosso».
    Quanto agli “angeli”, più tardi, il fondatore del cristianesimo, Paolo di Tarso, raccomanda alle giovani donne di coprirsi il capo con il velo, se partecipano ad assemblee, e di farlo «a motivo degli angeli», poiché sono sessualmente eccitabili e poco raccomandabili, violenti. Biglino “corregge” anche l’interpretazione della comparsa dell’Arcangelo Gabriele, quello dell’Annunciazione: «Gabriele non è un nome proprio ma solo un termine comune, funzionale: deriva da Ghevèr-El, e essere “il Ghevèr di un El”, per di più “arcangelo”, significa essere un potente ufficiale di alto grado». Dallo studio condotto da Biglino appare evidente la fabbricazione artificiale di un culto, la cui radice viene attribuita a un libro debitamente leggendario, in quanto antico, scritto in una lingua sconosciuta ai più. Lo studioso contesta chi ritiene obbligatoria una lettura necessariamente cifrata: «Quando furono scritti, i testi biblici, a saper leggere e scrivere erano in pochissimi: che motivi avrebbero avuto per dover nascondere il loro racconto sotto il velo simbolico-allegorico?».
    La prima versione della Bibbia divulgata nel Mediterraneo oltre la Palestina, detta “Bibbia dei Settanta”, fu tradotta in greco ad Alessandria d’Egitto, secondo Biglino ricorrendo a una massiccia interpolazione interpretativa ispirata dal pensiero platonico, che – a differenza della Bibbia – contempla le nozioni filosofiche di trascendenza, divinità, creazione, eternità. Gli ebrei considerano la “Bibbia dei Settanta”, letteralmente, «una tragedia per l’umanità». Eppure, sottolinea lo stesso Biglino, è proprio quella Bibbia in greco ad aver poi originato quella in latino, che è alla base della teologia cattolica e quindi delle Bibbie in italiano per le famiglie. Il lavoro del ricercatore torinese non mette in crisi solo la teologia ufficiale su cui si basano le istituzioni religiose, ma anche l’esegesi alternativa fornita dall’esoterismo, acutamente suggestiva, fondata sulla lettura allegorica e simbolica del testo – lettura che, come quella cattolica, non mette mai in discussione la presenza della divinità nell’Antico Testamento. Diversa ancora l’interpretazione offerta dalla Cabala, che dal testo originario ricava essenzialmente relazioni, assai criptiche, tra valori numerico-simbolici, come se la Bibbia fosse in realtà una complessa trama numerica, velata dalla narrazione superficiale di eventi di per sé non così importanti quanto invece il tessuto ermetico sottostante.
    Certo è singolare la produzione, negli ultimi anni, di una tale quantità di informazioni, ormai di pubblico dominio, che riguardano in particolare l’interpretazione della storia antica, sacra e non, ma anche una radicale rilettura dell’approccio scientifico alla conoscenza, rivalutando sia i testi sacri, fondativi delle grandi religioni, sia l’opera di esoteristi particolarmente illuminanti – filosofi, medici, artisti, alchimisti, proto-scienziati – che tendono a fornire chiavi di interpretazione delle “leggi universali” i “leggi di natura” molto simili a quelle cui oggi pervengono i settori più avanzati della scienza stessa, a cominciare dalla fisica, dall’astrofisica, dalla geofisica, dalla meccanica quantistica, con le recenti indagini sulla reale consistenza della materia, in cui si suppone che il visibile e l’invisibile rispondano alle stesse leggi, essendo costituiti della medesima energia. Da qui le riflessioni sulla percezione del tempo e della vita stessa, sulla cosiddetta Energia Oscura, sulla Materia Bianca cerebrale di cui i neurologi ammettono di non sapere praticamente nulla.
    Fisici come Vittorio Marchi e Giuliana Conforto sostengono che la realtà sensibile non sia altro che rappresentazione, e che il nostro cervello non percepisca che il 2% di quanto ci circonda, sulla Terra – per non parlare dell’universo, di cui sappiamo ben poco, al di là del nostro minuscolo sistema solare. Un numero sempre maggiore di storici e antropologi sospetta che la storia sia interamente da riscrivere: a quanto pare non furono gli egizi a erigere le piramidi; quelle scoperte in Bosnia sono più antiche e più grandi di quelle dell’Egitto. Né tantomeno conosciamo la storia misteriosa dei Sumeri, che sorsero all’improvviso come civiltà già formata, in possesso di conoscenze evolute (architettura, agricoltura, scrittura). Forse, ipotizza Biglino sempre prendendo la Bibbia alla lettera, i Sumeri erano la discendenza di Caino, che – essendo cresciuto nel Gan Eden – era stato formato e istruito dagli Elohim.
    L’esegesi ebraica ritiene ormai in modo unanime che Abramo, storicamente, non sia mai  esistito. Quantomeno, il personaggio biblico rispondente a quel nome era evidentemente un sumero, spinto dagli Elohim a vagare “lungi dalla casa di padre mio”, viaggiando fino in Palestina. Poi, i Sumeri scomparvero di colpo, in coincidenza con la distruzione delle città ribelli di Sodoma e Gomorra, operata dagli Elohim impiegando “l’arma dei terrore”, che sprigionò nell’atmosfera una nube letale – i venti dovettero sospingerla fino alla regione di Babilonia, dove è documentata la strage della popolazione (con sintomi da contaminazione nucleare) e la fuga precipitosa degli “dèi” locali, gli Annunaki, che presero il largo a bordo dei loro “carri celesti”, in tutto simili al Kavod di Jahwè.

    Perché l’oro è così importante? L’oro, non il ferro, l’argento, altri metalli. Forse perché si suppone che l’oro, incorruttibile, possa isolare al 100% da radiazioni pericolose, provenienti da tecnologie avanzate? Lo affermano i controversi studiosi della cosiddetta paleo-astronautica, che si interrogano sul singolare interesse manifestato, per l’oro, da tutti gli “dèi” dell’antichità, chiamati Viracochas sulle Ande nel regno Inca, Túatha Dé Dànann in Irlanda, Elohim in Palestina, Annunaki in Mesopotamia, Theòi in Grecia, mentre Vimana è il nome che in India designa le antiche, ipotetiche astronavi dei Veda. E ancora: i semi-dei “venuti dal cielo” prendono il nome di Kachinas in Arizona, Muxul nello Yucatan presso i Maya, Dogu in Giappone, Wakinyan in Nord America presso i Lakota Sioux, Nommo in Mali presso i Dogon. Una cosa è sicura: a un certo punto, nella storia, l’oro viene improvvisamente apprezzato e ricercato, estratto, lavorato, tesaurizzato, utilizzato come valore di scambio. Tutti quegli esseri appassionati all’oro, spesso chiamati Figli delle Stelle perché comparsi a bordo di formidabili mezzi volanti, raffigurati in sculture e altorilievi ancora oggi visibili in diverse parti del mondo, instaurarono dominazioni di tipo coloniale, imponendo sempre – alle popolazioni assoggettate – lo stesso “sacrificio” quotidiano: bruciare, per loro, il grasso (inizialmente dei neonati primogeniti, poi solo di agnelli) presente in prossimità di certi organi, fegato e reni.

  • Bersani non andrà da nessuna parte, ma nemmeno Renzi

    Scritto il 21/2/17 • nella Categoria: idee • (8)

    Non andranno da nessuna parte, gli scissionisti del Pd: sono figure logore, nonché largamente compromesse con il peggior potere, quello che ha imposto all’Italia il regime dell’austerity. Beninteso: non andranno lontano nemmeno gli altri, i renziani, così come i berlusconiani. I grillini? Domani chissà, ma oggi – di fatto – non hanno vero un Piano-B per ribaltare l’economia italiana cambiando le regole del gioco. E’ la tesi di Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere), che illumina gli imbarazzanti retroscena del “back office” del potere mondiale, con 36 superlogge internazionali che “orientano” le grandi decisioni dei governi, attraverso il controllo della finanza e delle istituzioni “paramassoniche” come Fmi e Banca Mondiale, Bilderberg e Trilaterale, think-tanks e lobby che, di fatto, “dettano” direttive, leggi, tendenze. Una su tutte: la supremazia neoliberista del mercato a danno dello Stato, neutralizzato dai tecnocrati e disabilitato nelle sue capacità di spesa pubblica e investimento economico e sociale.
    «Si può dire anche molto male di Matteo Renzi, ma è pur sempre meglio di Pier Carlo Padoan, il ministro dell’economia, che – attraverso la Ur-Lodge “Three Eyes”, roccaforte storica della destra internazionale – è il terminale italiano dei super-poteri che predicano la privatizzazione universale». Ai microfoni di “Colors Radio”, Magaldi osserva con scetticismo lo spettacolare smottamento in corso nello scenario politico italiano, non solo nella cosiddetta sinistra, ma anche sul fronte opposto, dove – accanto a Salvini e Giorgia Meloni – emergono pulsioni “sovraniste” dalla ex destra sociale di Alemanno e Storace. Meglio di niente, sembra concludere Magaldi, che è progressista e ha fondato in Italia il Movimento Roosevelt, associazione meta-partitica con l’obiettivo di “inoculare il virus del risveglio”, liberando i partiti dalla loro sudditanza rispetto ai poteri forti. Magaldi ora va anche oltre, annunciando l’apertura di un cantiere politico per dare vita a un nuovo soggetto. Non l’ennesimo partitino, assicura, ma – sulla carta – l’unico strumento su cui far convergere un vero e proprio rovesciamento di valori e priorità, sulla scorta dell’esperienza condotta per la candidatura dell’economista keynesiano Nino Galloni al Comune di Roma.
    Tradotto: prima viene il recupero della sovranità finanziaria, anche monetaria, e soltanto dopo è possibile ridisegnare leggi e governi, con alle spalle una struttura (pubblica) capace di investire denaro per l’economia reale, quella delle aziende e delle famiglie. Nulla di tutto ciò è in vista, nel campo della sinistra italiana tradizionale: che magari sbatte la porta in faccia a Renzi, ma poi non osa alzare la voce con i veri potenti, cioè i guardiani dell’ortodossia ordoliberista incarnata dall’Unione Europea a trazione tedesca. «Non capisco come facciano, Bersani e compagni, a rinfacciare a Renzi la mancanza di una politica sociale, di sinistra, che parta dalle istanze del popolo, quando loro sono stati i primi, con D’Alema e anche Veltroni, a plaudire al governo Monti, progettato dai grandi poteri con l’aiuto di Napolitano». Dove pensano di andare, Bersani e Speranza? Alla loro sinistra si è accampata Sinistra Italiana, cioè la reincarnazione di Sel, il partito di Vendola, ben lungi – al netto della retorica – dall’aver affrontato il nodo vero della questione: la sovranità democratica dei governi europei, resi “sudditi” da Bruxelles, a danno della comunità nazionale.
    Più interessante il campo opposto, dove si registra quantomeno la vitalità di Salvini e Meloni, con il limite però di dover fare sempre i conti con l’eterno Berlusconi, che in vent’anni – reso vulnerabile dal ricatto incombente sulle sue aziende – non è riuscito a dire un solo “no” ai nemici dell’Italia. Restano i 5 Stelle: se non l’attuale dirigenza “grillo-replicante”, almeno la sincera disponibilità democratica della base. Per Magaldi, il ogni caso, il Pd è finito: «Marcirà, si estinguerà per putrefazione. Mentre l’Italia ha un disperato bisogno di rigenerazione, attraverso la rinascita del campo progressista», adeguata allo scenario di oggi: un rinascimento politico, che parta dalla battaglia (storica) per denunciare gli abusi dell’oligarchia europea e restituire piena sovranità finanziaria all’economia nazionale, condizione imprescindibile per poi riscrivere le leggi in senso democratico, ridisegnando il paese, dopo aver rimesso al potere politici legittimi, non più maggiordomi dell’élite.

    Non andranno da nessuna parte, gli scissionisti del Pd: sono figure logore, nonché largamente compromesse con il peggior potere, quello che ha imposto all’Italia il regime dell’austerity. Beninteso: non andranno lontano nemmeno gli altri, i renziani, così come i berlusconiani. I grillini? Domani chissà, ma oggi – di fatto – non hanno vero un Piano-B per ribaltare l’economia italiana cambiando le regole del gioco. E’ la tesi di Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere), che illumina gli imbarazzanti retroscena del “back office” del potere mondiale, con 36 superlogge internazionali che “orientano” le grandi decisioni dei governi, attraverso il controllo della finanza e delle istituzioni “paramassoniche” come Fmi e Banca Mondiale, Bilderberg e Trilaterale, think-tanks e lobby che, di fatto, “dettano” direttive, leggi, tendenze. Una su tutte: la supremazia neoliberista del mercato a danno dello Stato, neutralizzato dai tecnocrati e disabilitato nelle sue capacità di spesa pubblica e investimento economico e sociale.

  • Dacci oggi la nostra Europa quotidiana, che affama i sudditi

    Scritto il 20/2/17 • nella Categoria: idee • (41)

    Sono sempre loro, e non mollano. Giuliano Amato, Anthony Giddens. Cioè «esponenti di punta della “terza via” blairiana e del pensiero unico ordoliberista». Hanno firmato l’ennesimo appello (sul “Corriere della Sera”, l’11 febbraio) per il “rilancio dell’integrazione europea”, sostenuto da 300 intellettuali. Strillano: oggi l’Unione Europea è sotto attacco «sebbene abbia garantito pace, democrazia e benessere per decenni». Esaltano «l’economia sociale di mercato», affermando che può funzionare solo grazie a una governance multilivello e al principio di sussidiarietà. E rivendicano il ruolo di un’Europa «cosmopolita» nella costruzione di una «governance globale democratica ed efficiente». Il tutto, scrive Carlo Formenti su “Micromega”, condito dall’invito a legittimare la Ue attraverso elezioni in cui i cittadini del continente possano finalmente sceglierne i vertici. Peccato, dice Formenti, che le affermazioni dell’appello siano integralmente false. L’Europa avrebbe garantito pace, democrazia e benessere? «Dai Balcani all’Ucraina, passando per la Libia, l’Europa è stata un costante fattore di guerra». Quanto alla democrazia, «chiedete cosa ne pensa il popolo greco». E il citato benessere? Non pervenuto.
    Per Formenti, quel “benessere” è soltanto «un miraggio, per quei milioni di cittadini che hanno visto peggiorare drasticamente i livelli salariali e di occupazione, oltre a perdere gran parte dei diritti conquistati prima dell’avvio del processo di unificazione». Seconda considerazione: «Associare l’economia sociale di mercato all’allargamento della democrazia è una contraddizione in termini». Dietro questo slogan «si nasconde infatti quel progetto neoliberista che si è costantemente impegnato a sottrarre il compito della legittimazione al quadro costituzionale-parlamentare per affidarlo a organismi non eletti, che rispondono esclusivamente agli imperativi del mercato». Inoltre, agiunge Formenti, la sussidiarietà di cui si parla «è consistita nella proliferazione di enti, agenzie e autorità deputati a gestire localmente i bisogni sociali – proliferazione che è proceduta di pari passo con lo smantellamento del welfare e con l’assunzione dell’impresa privata quale modello universale di regolazione sociale, in base al principio secondo cui non bisogna ostacolare chi potrebbe erogare un servizio migliore del servizio pubblico».
    E’ quello che Colin Crouch ha definito «la spoliticizzazione del servizio pubblico attraverso la riduzione del cittadino a cliente». Infine le reti multilivello, presentate come un modello di integrazione della società civile nella governance, «sono di fatto servite a indebolire quei gruppi intermedi di pressione che rappresentavano e difendevano gli interessi delle classi subordinate», osserva Formenti. «Per il dogma ordoliberista, infatti, questi gruppi sono un ostacolo alla concorrenza che impedisce la libera formazione dei prezzi (a partire da quello della forza lavoro, che va tenuto il più basso possibile per evitare tensioni inflazionistiche)». Sempre secondo quel dogma, “sacro” a chi comanda l’Europa – Germania, Ue, Bce – vanno contrastate tutte quelle richieste di “elargizioni clientelari” che provocano un aumento della spesa pubblica in materia di previdenza e salute. Al contrario dei liberisti classici, scrive Formenti, per gli ordoliberisti «il ruolo dello Stato è fondamentale: sia in quanto garante dell’ordine giuridico che deve garantire il corretto funzionamento del mercato (che non è in grado di autoregolarsi), sia in quanto garante di un ordine sociale “post ideologico” in cui tutti i cittadini devono venire convinti di essere “imprenditori di se stessi” e di vivere nel migliore dei mondi possibili».
    Il riferimento alla natura cosmopolita dell’Europa, del resto «smentito dai muri e dalle altre pratiche di contrasto ai flussi migratori, come il vergognoso accordo con il regime autoritario turco», per Formenti «va letto infine come “internazionalismo” delle élite, da contrapporre alle resistenze locali dei vari popoli europei alla colonizzazione da parte del capitale globale». Come conciliare tutto questo con la proposta di legittimare l’oligarchia di Bruxelles sottoponendola al vaglio degli elettori? «Non è difficile immaginare quali alchimie giuridico-istituzionali verrebbero escogitate per garantirsi a priori il trionfo di una grande coalizione europea “anti populista”, visto che, come spiega l’articolo di Goffredo Buccini nel taglio basso sotto l’appello», sul “Corriere”, occorre «guardarsi le spalle da quel popolo bue che insiste a votare movimenti come l’M5S, in barba alle prove di volgarità, ignoranza e incompetenza offerte dai suoi dirigenti».

    Sono sempre loro, e non mollano. Giuliano Amato, Anthony Giddens. Cioè «esponenti di punta della “terza via” blairiana e del pensiero unico ordoliberista». Hanno firmato l’ennesimo appello (sul “Corriere della Sera”, l’11 febbraio) per il “rilancio dell’integrazione europea”, sostenuto da 300 intellettuali. Strillano: oggi l’Unione Europea è sotto attacco «sebbene abbia garantito pace, democrazia e benessere per decenni». Esaltano «l’economia sociale di mercato», affermando che può funzionare solo grazie a una governance multilivello e al principio di sussidiarietà. E rivendicano il ruolo di un’Europa «cosmopolita» nella costruzione di una «governance globale democratica ed efficiente». Il tutto, scrive Carlo Formenti su “Micromega”, condito dall’invito a legittimare la Ue attraverso elezioni in cui i cittadini del continente possano finalmente sceglierne i vertici. Peccato, dice Formenti, che le affermazioni dell’appello siano integralmente false. L’Europa avrebbe garantito pace, democrazia e benessere? «Dai Balcani all’Ucraina, passando per la Libia, l’Europa è stata un costante fattore di guerra». Quanto alla democrazia, «chiedete cosa ne pensa il popolo greco». E il citato benessere? Non pervenuto.

  • Illusioni e delusioni, lo show del Magus sul ring del potere

    Scritto il 14/1/17 • nella Categoria: idee • (21)

    Incoerenza e fellonia conclamata anche da parte dei 5 Stelle, il cui vertice si schiera sottobanco con l’establishment euro-economicida tentando, ancora, di raccontare ai follower e agli elettori italiani la favola bella della rivoluzione gentile a colpi di democrazia diretta via Casaleggio Associati? Se c’è un capolavoro assoluto e perfetto, a cura del potere che ci manipola incessamente da decenni, per un outsider “guerrigliero” come Paolo Barnard è proprio questo: aver storicamente tolto, agli elettori, ogni possibilità di incidere realmente nei destini della comunità, nazionale e internazionale, facendo semplicemente piazza pulita di qualsiasi reale oppositore, di qualsiasi vero antagonista di un sistema che è teleguidato dalla grande finanza paramassonica ma gode del pieno consenso della gran parte del pubblico, sempre passivo, ridotto a massa composita di ex cittadini trasformati in docili spettatori, in semplici consumatori, cui la relativa libertà del web consente di coltivare l’illusione della partecipazione, affidata ai social media e alle riserve indiane, i blog della cosiddetta controinformazione complottistica.
    Per Barnard, la politica occidentale è stata scientificamente colonizzata dal potere economico, a partire dagli anni ‘70, sulla scorta del Memorandum Powell tradotto in tutte le lingue, attraverso la Trilaterale dei Kissinger e dei Rockefeller, e declinato in manuali di propaganda che hanno fatto storia, fino alla “Crisi della democrazia” celeberata nel Vangelo di Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki, per arrivare ai Chigaco Boys di Milton Friedman e al Nobel per l’Economia assegnato al grande stratega europeo del governo “illuminato” dell’élite, l’austriaco Friedrick von Hayek. Università, editoria, informazione: un unico grande coro, per dire che il mercato ha sempre ragione, che “non c’è alternativa” (Thatcher), che bisogna rimuovere ogni ostacolo alla finanza speculativa (Bill Clinton). E’ così che la destra economica si è imposta anche sulla sinistra, colonizzando partiti, sindacati e leader, da Massimo D’Alema a Gerhard Schroeder, da Tony Blair a Romano Prodi, per affermare l’onnipotenza “storica” nel neoliberismo, fino all’ordoliberismo dei super-massoni Angela Merkel, Mario Draghi, Wolfgang Schaeuble, Giorgio Napolitano, Jacques Attali, Jens Weidmann, François Hollande.
    Cade Grillo, perdendo la sua residua “credibilità antisistema” proprio mentre si affaccia sugli Usa e sul mondo il nuovo regno del presidente Trump, presentatosi come alfiere del “popolo” contro l’oligarchia? Illusioni ottiche, sostiene l’avvocato Gianfranco Carpeoro, massone e scrittore, esperto di simbologia e studioso del potere come «schema astratto, che “fabbrica” persone utili si suoi scopi». Il super-potere apolide ha rottamato per via giudiziaria la Prima Repubblica italiana, gremita anche di personaggi come Craxi e Andreotti, scomodi per il nuovo vertice europeo che si doveva imporre? Vero, ma i partiti di Craxi e Andreotti «facevano i congressi con i morti, gestendo pacchetti di voti di militanti defunti da tempo». E i cittadini dov’erano? A casa, come sempre. Rassegnati alla “fine della storia” celebrata dall’ultimo cantore della Trilaterale, Francis Fukuyama. Persuasi della “morte delle ideologie”. Una liberazione? Al contrario: «L’ideologia – sottolina Carpeoro – contiene il futuro: è l’idea di come vorremmo la società fra trent’anni. C’è qualche politico, oggi, che pensa a un orizzonte che vada oltre i sei mesi?».
    Carpeoro è uno studioso dei Rosacroce, misteriosi antesignani dell’anarchismo socialista utopico e pre-marxista, le cui prime parole d’ordine sono probabilmente contenute nel manifesto “Fama Fraternitatis”, che nel 1614 chiedeva l’abolizione della proprietà privata e dei confini tra le nazioni. Un mondo migliore, liberato dalla logica del dominio, la cui comparsa sulla Terra uno studioso come Francesco Saba Sardi fa risalire addirittura al neolitico, con la scoperta dell’agricoltura e l’improvvisa necessità di possedere terre, gestirle, difenderle, conquistarle. Proprio l’esigenza di sudditi, destinati a lavorare e combattere, secondo Saba Sardi partorì “l’invenzione” della religione, da parte del re-sacerdote, come pretesto per l’obbedienza e la sottomissione, da cui – per successiva e ulteriore degenerazione – nacque il Magus, l’uomo del potere che utilizza la conoscenza per manipolare la comunità.
    E’ una storia lunga 12.000 anni, con di mezzo imperi e dominazioni, millenni di evoluzione, grandiosi progressi, guerre, rivoluzioni. Per Carpeoro, però, siamo ancora e sempre prigionieri del cerchio magico tracciato da Magus di turno: all’interno del cerchio vivono promesse di miracoli, fuori dal cerchio ci minaccia il Nemico. «Rompere il cerchio significa imparare a chiedersi perché, il perché delle cose». Ovvero: «Perché questo sistema prevede che, perché noi stiamo meglio, altri devono per forza stare peggio?». Il Magus ha una caratteristica invariabile: non rischia mai, davvero. Durante la sanguinosa fase storica della decolonizzazione, nel secondo ‘900, l’ideologia comunista ha partorito personaggi come Patrick Lumumba, Ernesto Che Guevara, Thomas Sankara. Hanno tutti pagato, con la vita, il prezzo delle loro idee. Loro la vedevano, eccome, la proiezione nel tempo della società ideale. Oggi invece – altra epoca, altro millennio – i più restano a casa, con idee a portata di click, limitandosi ad assistere alla caduta del Magus di turno, senza mai mettere in discussione – nella vita quotidiana – il potere che l’aveva creato, per accomodare il pubblico nel suo rassicurante cerchio magico. Poi il cerchio esplode, come una bolla di sapone, nel lutto degli adepti. Il potere invece se la ride, sta già fabbricando il Magus che verrà.

    Incoerenza e fellonia conclamata anche da parte dei 5 Stelle, il cui vertice si schiera sottobanco con l’establishment euro-economicida tentando, ancora, di raccontare ai follower e agli elettori italiani la favola bella della rivoluzione gentile a colpi di democrazia diretta via Casaleggio Associati? Se c’è un capolavoro assoluto e perfetto, a cura del potere che ci manipola incessamente da decenni, per un outsider “guerrigliero” come Paolo Barnard è proprio questo: aver storicamente tolto, agli elettori, ogni possibilità di incidere realmente nei destini della comunità, nazionale e internazionale, facendo semplicemente piazza pulita di qualsiasi reale oppositore, di qualsiasi vero antagonista di un sistema che è teleguidato dalla grande finanza paramassonica ma gode del pieno consenso della gran parte del pubblico, sempre passivo, ridotto a massa composita di ex cittadini trasformati in docili spettatori, in semplici consumatori, cui la relativa libertà del web consente di coltivare l’illusione della partecipazione, affidata ai social media e alle riserve indiane, i blog della cosiddetta controinformazione complottistica.

  • Avevamo Olof Palme, poi sull’Europa hanno spento la luce

    Scritto il 23/12/16 • nella Categoria: idee • (3)

    Nessuno sceglie, nessuno parla, nessuno denuncia. Nessuno decide: come se non fosse tempo di determinazioni importanti. Ciascuno, nel frattempo, gioca la sua partita, nelle retrovie, lontanissimo dal match decisivo. Gentiloni, Renzi, Grillo e tutti gli altri. Capitani e comparse, chi è di scena? Di chi è il turno? Beppe Sala? Virginia Raggi? I padri nobili del referendum che doveva salvare l’Italia o affossarla? Dopo esser riuscito solo in parte a esaudire i desideri del grande potere, fingendo di risollevare le sorti del paese, il piazzista Renzi prova a stilare il calendario del suo glorioso ritorno – ma senza smettere di scherzare, senza nemmeno provare a mettersi dalla parte giusta, quella degli italiani stritolati dalla morsa dell’oligarchia che ha affidato l’Europa (e l’Italia in paticolare) alle amorevoli cure della Bce e dalla Commissione Europea. Al governo non ci sono politici: c’è il Fiscal Compact, c’è il pareggio di bilancio inserito nella Costituzione da Mario Monti con il voto bipartisan di Berlusconi e del silente Bersani, l’uomo secondo cui, misteriosamente, il Pd sarebbe qualcosa di diverso dal supremo potere cui obbedisce la nomenklatura di Bruxelles che taglia sovranità e democrazia, rottama e privatizza gli Stati, riduce i cittadini a sudditi.
    Gli italiani votano No al referendum, e prontamente viene sistemato a Palazzo Chigi l’ectoplasma del governo appena battuto, inutilmente bocciato dagli elettori. Nel frattempo un calendario provvidenziale scatena le tempestive bufere giudiziarie che scuotono le due città più importanti, dirompenti e chiassose, quasi come gli attentati dinamitardi che insanguinano la tenebrosa Turchia di Erdogan, sponsor Nato dell’Isis, o le bombe russe e siriane cadute su Aleppo, dove giornali e televisioni scoprono che una guerra devastante si è trasformata in un martirio di popolazioni, ma si guardano bene dal ricordare al pubblico chi l’ha iniziata, quella guerra, chi l’ha finanziata e armata, chi – dalla Casa Bianca – l’ha protetta con la menzogna quotidiana, con l’intelligence e i missili, con la disinformazione più cieca. L’Italia (governo) ha tifato per Hillary e Obama, ha fatto la òla per il Ttip, ha approvato le sanzioni alla Russia, ha belato ininterrottamente a Bruxelles, ha lasciato che la Germania macellasse la Grecia. E alla fine ha provato persino a recitare il copione della diversità, invocando – ma solo per finta, per scherzo – un allenamento dell’austerity, cioè della norma fisiologica adottata dal regime Ue per depotenziare l’Europa, riducendola a comparsa internazionale, nel momento in cui – caduto il Muro di Berlino – poteva finalmente giocare la protagonista.
    Il peccato originale? Fu commesso trent’anni fa, il 1° marzo 1986, con l’assassinio di Olof Palme in Svezia. Lo scrive Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. Nella sua ricostruzione, Palme fu ucciso da un complotto rimasto oscuro, del quale però alcune tracce – anche scritte – portano a un certo Licio Gelli e al suo “principale”, il politologo americano Michael Ledeen, ancora in circolazione e più che mai influente, anche nel retrobottega del governo Renzi. Olof Palme, leader socialdemocratico, era il padre del moderno welfare europeo, il massimo profeta della filosofia politica dell’interesse pubblico, la promozione del benessere diffuso, l’estensione dei diritti, la democrazia avanzata in cui si coniugano libertà e socialismo, lavoro e dignità, pari opportunità per tutti. Era il prototipo, Olof Palme, di un’Europa diversa: un’Europa amica, autorevole, giusta. Un’Europa che non abbiamo mai visto, che mai avrebbe sprofondato gli Stati nella catastrofe della crisi, lasciandoli in balìa di incursoni e predoni, con mano libera nei palazzi del potere locale grazie a una piccola casta di governatori asserviti, di vassalli obbedienti, di mediocri traditori travestiti da algidi burocrati o, all’occorrenza, da sulfurei masanielli dal roboante eloquio (ma dall’innocuo agire). L’infima Italia del 2016, il paese dove nessuno propone vere vie d’uscita, sembra la fotografia perfetta di questa Europa pericolosamente in avaria.

    Nessuno sceglie, nessuno parla, nessuno denuncia. Nessuno decide: come se non fosse tempo di determinazioni importanti. Ciascuno, nel frattempo, gioca la sua partita, nelle retrovie, lontanissimo dal match decisivo. Gentiloni, Renzi, Grillo e tutti gli altri. Capitani e comparse, chi è di scena? Beppe Sala? Virginia Raggi? I padri nobili del referendum che doveva salvare l’Italia o affossarla? Dopo esser riuscito solo in parte a esaudire i desideri del grande potere, fingendo di risollevare le sorti del paese, il piazzista Renzi prova a stilare il calendario del suo glorioso ritorno – ma senza smettere di scherzare, senza nemmeno provare a mettersi dalla parte giusta, quella degli italiani stritolati dalla morsa dell’oligarchia che ha affidato l’Europa (e l’Italia in particolare) alle amorevoli cure della Bce e dalla Commissione Europea. Al governo non ci sono più politici: c’è il Fiscal Compact, ormai; c’è il pareggio di bilancio inserito nella Costituzione da Mario Monti con il voto bipartisan di Berlusconi e del silente Bersani, l’uomo secondo cui, misteriosamente, il Pd sarebbe qualcosa di diverso dal supremo potere cui obbedisce la nomenklatura di Bruxelles che taglia sovranità e democrazia, rottama e privatizza gli Stati, riduce i cittadini a sudditi.

  • Se Trump spegnesse, con un tweet, anche il Sacro Tav

    Scritto il 13/12/16 • nella Categoria: idee • (14)

    Più inafferrabile del Sacro Graal, più misterioso della Pietra Filosofale, più oscuro dei misteri di Rennes-le-Château su cui Dan Brown ha costruito il “Codice da Vinci”. Il progetto Tav Torino-Lione continua imperterrito la sua corsa ottusa e cieca, lunare, in un’Europa sempre più assurda e sempre più povera, emblema di un Occidente autistico, bellicoso e alle prese con rivolte ormai diffuse, elettorali, dalla Francia di Marine Le Pen alla Brexit, fino all’America di Trump, il presidente che con un tweet, in dieci secondi, ha messo fine persino al supremo tabù, l’intoccabile F-35, l’aereo più pazzo del mondo. Tutto cambia, velocissimamente, tranne una cosa: l’aristotelico Tav della valle di Susa, meno celebre dello stealth della Lockeed-Martin ma altrettanto ridicolo. Il Tav valsusino: “motore immobile”, dimostrazione tolemaica del fatto che, in fondo, la Terra è sempre stata piatta. Non gira attorno al sole, è il contrario. O meglio: può girare quanto vuole, la Terra, ma niente fermerà il sacro mostro ammazza-bilanci e sventra-montagne. Lo sanno tutti, da sempre: quel treno non servirà mai a nessuno, tranne ai Re Mida del denaro pubblico che forse, un giorno, costruiranno la linea ferroviaria più costosa e più inutile della storia dell’umanità.
    La mitologia del Tav occidentale resiste da decenni, inattaccabile come un dogma, anche se la sua surreale teologia è stata ripetutamente capovolta, relativizzata, rettificata, sminuita. Doveva essere una linea superveloce per passeggeri, con l’avvento dei voli low-cost è diventata una linea medio-veloce per merci, infine solo un tunnel (ma di 50 chilometri) per merci ormai estinte, che non esisteranno più, sulla dimenticata rotta transalpina tra Italia e Francia, nel ventre del Massiccio dell’Ambin gravido d’acque sommerse, rocce di amianto e vene di uranio. Anche i cinesi devastano intere province, ma almeno hanno uno scopo: costruire dighe idroelettriche. Lo scopo del Tav Torino-Lione va invece rintracciato nella metafisica, evidentemente, nella mistica del potere europeo, il potere reale ma impalpabile, fatto di moneta elettronica gestita da terminali alieni, da imperatori alieni come Mario Draghi, a sua volta agli ordini di invisibili Elohim biblici. La religione, appunto: è l’unica categoria che può spiegare, davvero, la natura più intima dell’oscuro potere europeo, da cui promana – anche – l’ostinata superstizione che protegge, ad ogni costo, la grande opera più screditata della storia italiana, bocciata senza appello (devastante, costosa, completamente inutile) da tutti gli esperti indipendenti della penisola, i tecnici, gli specialisti universitari d’ogni ordine e grado.
    Lo ripete, inutilmente, anche l’autorità elvetica delegata dalla Commissione Europea a monitorare i trasporti transalpini: la valle di Susa dispone già di una ferrovia internazionale Italia-Francia, quella del Fréjus, che è semi-deserta da anni per mancanza di utenza; sulla linea attuale, il traffico merci potrebbe tranquillamente essere incrementato del 900%. Inutile, dunque – per non dire folle, coi tempi che corrono – insistere nell’aprire un secondo traforo, che costerebbe decine di miliardi, a carico di contribuenti stremati dalla crisi. Le autorità svizzere però ragionano, ingenuamente, come Galileo e Copernico, ignorando cioè che l’astrofisica di Roma e Parigi, Bruxelles e Francoforte è ancora e sempre quella di Tolomeo. A motivare così tenacemente i grandi decisori non è scienza, è verità di fede: gli egemoni non si chinano sul volgare cannocchiale per scoprire com’è davvero il cielo, a loro basta e avanza la certezza incrollabile del dogma, che sorregge la visione magica su cui si fonda il presente feudalesimo illuminato, affidato a una schiera di eletti, secondo cui, semplicemente, quella ferrovia della malora si deve fare, punto. Dio lo vuole. E se la plebe protesta, tanto meglio: imparerà, a sue spese, che la voce del padrone non ammette repliche. Gli ordini non si discutono. La legge è una sola, quella dell’obbediente sottomissione.
    Ingenui come gli svizzeri, anche i valsusini hanno obiettato, appellandosi alla ragione, ancora confidando in Galileo. Promossero studi, scovarono prove, sfilarono in cortei. Brandendo Copernico, nel lontano 2005 si accamparono in massa sui prati destinati al primo cantiere. Intervenne il governo, che li disperse con la forza (spedendoli all’ospedale). Poi cambiò il governo, ma non la teologia: anche per Prodi, come per Berlusconi, la Terra era sempre piatta e assolutamente immobile. Seguirono ancora Berlusconi, poi Monti, poi Letta, poi Renzi. Tutti devoti alla religione di Tolomeo. Nel frattempo, la situazione non fece che peggiorare: fu introdotto stabilmente il germe dell’ostilità, per coltivare con profitto il carburante della rabbia, foriero di nefaste conseguenze – per la plebe, non certo per gli arconti, i re-sacerdoti, i custodi del Sacro Tav. Ogni tanto alla plebe viene concesso qualche effimero sollievo (il voto, persino il referendum), ma l’impianto teologale resta là, granitico, immutabile. E’ sempre lui, il Signore della Banca, a stabilire il prezzo dei sudditi, inclusi i servitori intermedi e le loro precarie carriere.
    Così, la Talpa tolemaica ancora scava la sua buia galleria – tunnel geognostico, lo chiamano. Fin dove arriverà, nel suo slancio metafisico? Un tempo, l’antica cosmogonia del Tav ne attestava l’origine divina: sarebbe stato il segmento alpino di un Sommo Disegno, chiaramente provvidenziale, destinato a unire l’Atlantico al Mar della Cina: non più semplici sudditi, gli abitanti dell’area interessata dai futuri cantieri, ma entusiasti neo-cittadini, viaggianti, di una nuova repubblica onirica, la Tratta Kiev-Lisbona. Forse c’è stato qualche contrattempo (provvidenziale, anche quello) se oggi il mezzo di trasporto più in voga è diventato il barcone, la scialuppa. Ma guai a sottovalutare il Disegno: la Talpa è inarrestabile, può raggiungere qualsiasi latitudine sotterranea, dal Celeste Impero al Cremlino. Può scavare anche il fondale oceanico e raggiungere le lontane Americhe. Purché non sbuchi, per errore, alla Casa Bianca – a quel punto, forse, con un tweet, persino il Sacro Tav potrebbe fare la fine dell’F-35. Ma l’America è lontana, cantava qualcuno. E, da questa parte dell’Atlantico, nessuno – nemmeno a Roma, tra i più accesi outsider del Parlamento – ha ancora osato sfidare, per davvero, la teologia di Tolomeo e il feudalesimo dei nuovi Elohim, che s’illuminano d’immenso davanti al terminale elettronico che decreta vita e morte, il destino di interi bilanci, la fortuna e la rovina di interi popoli, a lungo illusi da un sogno chiamato democrazia.

    Più inafferrabile del Sacro Graal, più misterioso della Pietra Filosofale, più oscuro dei misteri di Rennes-le-Château su cui Dan Brown ha costruito il “Codice da Vinci”. Il progetto Tav Torino-Lione continua imperterrito la sua corsa ottusa e cieca, lunare, in un’Europa sempre più assurda e sempre più povera, emblema di un Occidente autistico, bellicoso e alle prese con rivolte ormai diffuse, elettorali, dalla Francia di Marine Le Pen alla Brexit, fino all’America di Trump, il presidente che con un tweet, in dieci secondi, ha messo fine persino al supremo tabù, l’intoccabile F-35, l’aereo più pazzo del mondo. Tutto cambia, velocissimamente, tranne una cosa: l’aristotelico Tav della valle di Susa, meno celebre dello stealth della Lockeed-Martin ma altrettanto ridicolo. Il Tav valsusino: “motore immobile”, dimostrazione tolemaica del fatto che, in fondo, la Terra è sempre stata piatta. Non gira attorno al sole, è il contrario. O meglio: può girare quanto vuole, la Terra, ma niente fermerà il sacro mostro ammazza-bilanci e sventra-montagne. Lo sanno tutti, da sempre: quel treno non servirà mai a nessuno, tranne ai Re Mida del denaro pubblico che forse, un giorno, costruiranno la linea ferroviaria più costosa e più inutile della storia dell’umanità.

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