Archivio del Tag ‘trasporti’
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Nuova sinistra, fai la guerra a questo sistema (o stai a casa)
Il patatrac del sistema elettorale finto tedesco, ah quanti guai in Italia a voler imitare la Germania, allontana la data delle elezioni. Questo forse depotenzierà l’urgenza della proposta di Anna Falcone e Tommaso Montanari, ma permetterà un confronto più rigoroso su di essa, senza l’assalto soverchiante di tutti quelli che “mamma mia, come superiamo il 5%?”. Non basta affermare che una proposta di sinistra unita debba essere nuova perché essa effettivamente lo sia. Dal 2008 queste proposte si susseguono, spesso con le stesse premesse e gli stessi risultati, catastrofici. Le liste della sinistra unita hanno sempre fallito il loro obiettivo elettorale tranne che alle elezioni europee, dove la lista Tsipras ha superato lo sbarramento, salvo poi frantumarsi un minuto dopo il voto, come le precedenti esperienze sconfitte. Quindi il primo elemento di novità della proposta dovrebbe essere quello di non ripetere le esperienze del passato e di porre condizioni e discriminanti affinché il nuovo sia davvero tale. Sinceramente, non trovo chiarezza sufficiente al riguardo nel testo di Falcone e Montanari.Si parte dalla Costituzione, anzi dalla sua anima sociale e antiliberista affermata meravigliosamente dall’articolo 3, e si sostiene che si deve prima di tutto rispondere a quel popolo di sinistra che in nome di quell’anima ha votato No il 4 dicembre. Benissimo, questo però significa esplicitare subito alcune discriminanti. Prima di tutto non possono essere interlocutori di questa proposta coloro che hanno votato Sì, per capirci sono fuori Giuliano Pisapia e Romano Prodi. Il problema si pone però anche verso chi ha votato No, ma prima ha sostenuto il Jobsact, la legge Fornero e soprattutto quella mina a orologeria contro i principi sociali della Costituzione, quale è il nuovo articolo 81 che obbliga al pareggio di bilancio in ottemperanza al mostruoso Fiscal Compact. Durante il governo Monti il Parlamento quasi unanime ha costituzionalizzato quella austerità che giustamente Falcone e Montanari vogliono rovesciare. E se non sono solo buoni propositi, la rottura con l’austerità significa soppressione immediata delle misure che emblematicamente la realizzano. Chi le ha votate naturalmente può ammettere di essersi sbagliato e sostenere un programma che proponga di cancellare quelle misure, ma lo deve fare con rigore e sofferenza e non per furbizia.Jeremy Corbyn ha riconquistato fiducia nel mondo del lavoro, dopo essere stato svillaneggiato dalle sinistre liberali e dai loro mass media, accettando il voto sulla Brexit e proponendo un programma secco di nazionalizzazioni. Questa parola da noi è tabù nei sindacati confederali e anche in buona parte della sinistra più radicale, eppure è proprio sul terreno delle privatizzazioni che si gioca la possibilità di arrestare e veder dilagare ancora le politiche economiche liberiste. Alitalia e Ilva sono i primi banchi di prova, poi seguiranno le Poste, le Ferrovie, Enel ed Eni e naturalmente ciò che resta del sistema bancario. O torna l’intervento pubblico diretto nell’economia, o da noi va tutto in mano alle multinazionali, visto che la grande borghesia italiana non esiste più come classe autonoma dai poteri della globalizzazione. O pubblico, o si svende ciò che resta del paese, questa è l’alternativa reale oggi e che scelta fa al riguardo la sinistra prefigurata da Falcone e Montanari?Lavoro con diritti, scuola pubblica e stato sociale, ambiente, territorio e beni comuni sono dichiaratamente al centro della proposta di nuova sinistra. Anche qui possiamo solo dire giustissimo, ma dobbiamo però aggiungere: che misure concrete si vogliono subito attuare, che leggi si vogliono cancellare, che nuovi atti si vogliono varare? Naturalmente ci sono programmi decennali da individuare, ma il buongiorno si vede dal mattino, per esempio dall’impegno a cancellare tutta la buona scuola e la controriforma della sanità, a quello a fermare tutte le grandi opere, a partire dalla famigerata Tav in valle Susa. Non è solo questo che basta, ma è questo che serve per capire se si vuol fare sul serio. Il bilancio delle spese militari dello Stato italiano è in continua ascesa e Gentiloni si è impegnato quasi a raddoppiarlo per raggiungere quel 2% del Pil posto dagli accordi Nato. Si ribalta questa scelta nel suo opposto con il taglio delle spese ed il ritiro dalle missioni all’estero, o ci si accontenta di partecipare alla sfilata del 2 giugno con la spilla della pace?Anche qui le scelte programmatiche, che Falcone e Montanari pongono giustamente come discriminanti, se sono vere individuano già di che pasta e di quali persone dovrebbe essere composta la nuova sinistra. Che alla fine dovrà misurarsi con la questione di fondo: le politiche del lavoro, dell’ambiente e dello stato sociale, in alternativa alla austerità e alle spese di guerra, sono realizzabili accettando i vincoli Ue e Nato? Noi che abbiamo costituito Eurostop pensiamo di no, che senza la rottura con quelle istituzioni nulla di buono sia possibile per i poveri e gli sfruttati. Noi pensiamo così, ma siamo disposti ad accettare la sfida di chi invece pensa che quelle istituzioni siano positivamente riformabili. Chi crede a questo però deve essere disposto a rompere se poi dovesse verificare che il suo programma posto è posto all’indice proprio da quelle istituzioni. E deve dirlo.Chi ha votato No il 4 dicembre non può dimenticare che tutta la governance europea si era spesa per il Sì. Né può ignorare che la Costituzione del 1948 e i trattati di Maastricht e Lisbona sono formalmente e concretamente incompatibili. Si può non volere la rottura con la Ue nel programma, ma si deve essere disposti a farla se le istituzioni comunitarie quel programma ti impediscono di realizzarlo. Tsipras tra il rispetto del referendum popolare e quello dei diktat della Troika ha scelto il secondo. La sinistra proposta da Falcone e Montanari è disposta a fare la scelta esattamente opposta? Siccome nel testo di Falcone e Montanari non ho trovato risposte chiare a domande per me decisive per capire cosa essi vogliano fare, mi sono permesso alcune di quelle domande di formularle io. Mi permetto di suggerire ai due estensori dell’appello di parlarne esplicitamente nell’assemblea del 18 giugno. Magari si affermi l’opposto di quanto scritto qui, ma per favore si faccia chiarezza. E non si parli d’altro per favore, sappiamo tutti che i nodi sono questi e non si sciolgono coprendoli di grandi valori e buoni propositi.(Giorgio Cremaschi, “Vorrei che Falcone e Montanari facessero chiarezza sulla loro idea di sinistra”, dal blog di Cremaschi sull’“Huffington Post” del 9 giugno 2017).Il patatrac del sistema elettorale finto tedesco, ah quanti guai in Italia a voler imitare la Germania, allontana la data delle elezioni. Questo forse depotenzierà l’urgenza della proposta di Anna Falcone e Tommaso Montanari, ma permetterà un confronto più rigoroso su di essa, senza l’assalto soverchiante di tutti quelli che “mamma mia, come superiamo il 5%?”. Non basta affermare che una proposta di sinistra unita debba essere nuova perché essa effettivamente lo sia. Dal 2008 queste proposte si susseguono, spesso con le stesse premesse e gli stessi risultati, catastrofici. Le liste della sinistra unita hanno sempre fallito il loro obiettivo elettorale tranne che alle elezioni europee, dove la lista Tsipras ha superato lo sbarramento, salvo poi frantumarsi un minuto dopo il voto, come le precedenti esperienze sconfitte. Quindi il primo elemento di novità della proposta dovrebbe essere quello di non ripetere le esperienze del passato e di porre condizioni e discriminanti affinché il nuovo sia davvero tale. Sinceramente, non trovo chiarezza sufficiente al riguardo nel testo di Falcone e Montanari.
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Prendi il telefono e scappa: abituarsi al terrore quotidiano
Come abituarsi al terrore quotidiano, verso una nuova (agghiacchiante) normalità, tra un attentato e l’altro. «Al terzo attacco terroristico in tre mesi Londra ha aperto le porte», scrive Giulia Zonca sulla “Stampa”: «Esiste ancora una reazione naturale davanti alla paura. La politica strilla trascinando l’ansia dentro le elezioni e la gente scrive, ancora oggi: divano disponibile, anzi #sofaforlondon». Era già successo a Parigi nella notte delle sparatorie attorno al Bataclan, e poi allo stadio di Dortmund quando la partita è stata rinviata per un agguato al pullman della squadra e i tifosi ospitanti si sono portati a casa quelli in trasferta. «A Londra sale il livello di allarme, del dibattito, dello spavento, però Facebook è considerato ancora una zona franca: il passaparola nella comunità virtuale regge mentre saltano gli schemi della quotidianità». Nella notte degli attentati a London Bridge e al Borought market, i residenti non si sono barricati in casa: «Hanno ospitato chi era stato evacuato dalla zona rossa durante il raid della polizia, un intero albergo sparso per i marciapiedi, qualcuno solo con i boxer e le infradito».Chi aveva un sacco a pelo in cantina lo ha steso in soggiorno, continua la “Stampa”: i locali appena fuori dall’area recintata hanno accolto fuggiaschi, «turisti sloggiati senza il tempo di prendere un giubbotto», e gli sfrattati dai b&b «hanno traslocato via app nel posto più vicino». Idem i trasporti: «I tassisti hanno girato gratuitamente raccogliendo chi era in giro, e Uber si è preso gli insulti perché ha raddoppiato le corse». Poi hanno risarcito chiunque abbia viaggiato in quella zona sabato notte: «Il sistema ha reagito alla domanda e, quando ci sono più richieste che auto in circolazione, il costo della corsa si alza seguendo l’algoritmo che lo muove». Ci hanno messo un po’ a intervenire, ma il sistema «ha risposto in automatico proprio come quello della rete di affittacamere che ha cercato nuove sistemazioni con un clic», ad esempio attraverso Facebook che «ha dato non solo una faccia, ma persino un profilo a chi cercava un tetto e qualche garanzia a chi lo voleva offrire».Secondo la giornalista del quotidiano torinese, «i social berciano parecchio» e addirittura «mandano in tilt la comunicazione con il veleno che schizza incontrollato da una nazione all’altra», dove forse per “veleno” si intendono le voci, immancabili sul web ma scarsissime sui media mainstream, riguardo le puntuali “stranezze” che contrassegnano sempre il neoterrorismo che spara nel mucchio: kamikaze già noti alle forze di sicurezza, a volte legati a elementi direttamente “coltivati” dall’intelligence, eppure lasciati liberissimi di muoversi, coordinarsi, armarsi e colpire. Più efficiente dell’antiterrorismo, a quanto pare, è il sistema dei social media: «Le app occupano persino la memoria del cervello, però offrono alternative», scrive Giulia Zonca. «Una rete tutt’altro che virtuale», offerta «a chi sta in mutande, perso in una notte di angoscia, senza soldi, documenti e riparo, e che guarda caso prima di scappare disperato ha afferrato solo una cosa: il telefono». Cittadini-soccorritori, gradualmente abituati alla strage sotto casa.Come abituarsi al terrore quotidiano, verso una nuova (agghiacchiante) normalità, tra un attentato e l’altro. «Al terzo attacco terroristico in tre mesi Londra ha aperto le porte», scrive Giulia Zonca sulla “Stampa”: «Esiste ancora una reazione naturale davanti alla paura. La politica strilla trascinando l’ansia dentro le elezioni e la gente scrive, ancora oggi: divano disponibile, anzi #sofaforlondon». Era già successo a Parigi nella notte delle sparatorie attorno al Bataclan, e poi allo stadio di Dortmund quando la partita è stata rinviata per un agguato al pullman della squadra e i tifosi ospitanti si sono portati a casa quelli in trasferta. «A Londra sale il livello di allarme, del dibattito, dello spavento, però Facebook è considerato ancora una zona franca: il passaparola nella comunità virtuale regge mentre saltano gli schemi della quotidianità». Nella notte degli attentati a London Bridge e al Borought market, i residenti non si sono barricati in casa: «Hanno ospitato chi era stato evacuato dalla zona rossa durante il raid della polizia, un intero albergo sparso per i marciapiedi, qualcuno solo con i boxer e le infradito».
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Crollano i ponti, l’Italia dell’euro non ha i soldi per ripararli
Tra le tante cose che crollano, nell’Italia ridotta in bolletta dal “patto di stabilità” imposto dall’Eurozona, ci sono anche i ponti. Nel 2015, ricorda il “Fatto Quotidiano”, toccò al viadotto Scorciavacche sulla Palermo-Agrigento, poi al ponte Himera sulla A19 e ancora ai cavalcavia di Annone in provincia di Lecco e a quello di Camerano vicino ad Ancona, venuto giù pochi mesi fa causando la morte di due coniugi. Fino al viadotto “La Reale” della tangenziale di Fossano, crollato lo scorso 18 aprile e per il quale sono sotto inchiesta 8 persone. In alcuni casi, ammette il presidente dell’Anas, Gianni Vittorio Armani, il cattivo stato di manutenzione è la concausa del crollo. «Pesano anche i vizi in fase di costruzione, gli errori di cantiere e, nel caso di Annone, i ripetuti trasporti eccezionali con carichi molto superiori alla portata della struttura», scrive Andrea Tundo sul “Fatto”. «Ma la manutenzione insufficiente un ruolo lo ha. Soprattutto perché i soldi per farla non bastano: servirebbero 2,5 miliardi l’anno, ma gli ultimi stanziamenti si fermano a 1,1 miliardi l’anno fino al 2019. Questo in un paese in cui, secondo gli esperti, la maggior parte dei ponti sta per arrivare alla fine del suo ciclo di “vita in sicurezza”».Lo stesso Armani riconosce che al primo posto tra le “priorità aziendali” dell’ente nazionale strade c’è il recupero del «rilevante gap manutentivo accumulato negli anni». Ma per gli oltre 26.000 chilometri di strade gestite dall’Anas (con un totale di 11.744 viadotti) servono molti soldi. E nonostante il sensibile aumento degli stanziamenti nel 2016 e un piano per il futuro che si preannuncia ancora più corposo, i fondi continuano a non bastare. L’Italia spende assai meno di quanto sarebbe necessario: «C’è ancora una distanza molto elevata tra il fabbisogno e quanto abbiamo a disposizione per la manutenzione straordinaria», conferma al “Fatto” l’ingegnere Fulvio Soccodato, responsabile dell’assetto rete di Anas: «Rileviamo un fabbisogno medio di 2,5 miliardi all’anno per la messa in sicurezza e il miglioramento della rete stradale, mentre il nuovo piano degli investimenti ne ha stanziati 1,1 l’anno per il triennio 2017-19». Una cifra «due anni fa inimmaginabile», ma che «non basta per coprire le necessità». Inoltre occorrono «imprese preparate, una normativa che ci aiuta e un know-how che va costruito anche nel mondo accademico, visto che le università insegnano a costruire i ponti, non a ripararli».L’Italia, aggiunge il “Fatto”, si sta avvicinando a un punto di rottura: «Buona parte della rete infrastrutturale di valenza nazionale è infatti stata concepita tra gli anni Settanta e Ottanta e il ritardo accumulato nella manutenzione non è smaltibile in breve tempo». Lo stesso Soccodato parla di «gap ventennale» che, nonostante il piano pluriennale degli investimenti preveda un recupero dell’arretrato, «è impossibile da smaltire in tre anni», anche se stanno aumentando gli interventi per individuare le criticità sulle quali intervenire. In altre parole, si cerca di uscire dalla fase di emergenza per entrare in quella di prevenzione: negli ultimi anni sono stati “risistemati” 600 ponti. Interpellato sempre dal “Fatto”, il professor Pier Giorgio Malerba, docente del Politecnico di Milano, riassume così la questione: «Tutte le opere hanno un ciclo di vita. Quello dei ponti viene generalmente definito in 100 anni, se soggetti a regolari attività di ispezione e manutenzione. Di fatto, nei maggiori paesi industrializzati si è rilevato che, a causa dell’esposizione agli agenti atmosferici, dell’aumento dei transiti e di manutenzioni carenti o inefficaci, la vita media in piena sicurezza è di circa 60 anni. Questo non vuol dire che al 61esimo anno il ponte crolla, ma che è meno affidabile».La maggior parte dei ponti italiani, continua Malerba, è stata costruita negli anni Settanta: quindi hanno raggiunto un’età critica, «che induce ad attente ispezioni e alle manutenzioni che si rendessero necessarie». Peccato però che negli anni Settanta l’Italia abbia potuto sviluppare enormemente le proprie infrastrutture ricorrendo in modo strategico alla spesa pubblica, grazie alla propria sovranità monetaria: operazione oggi proibitiva, con i vincoli sul deficit imposti da Bruxelles e addirittura l’introduzione nella Costituzione di una “follia” come il pareggio di bilancio, voluto dal governo Monti con il pieno appoggio del Pd bersaniano e di Berlusconi. Tra le dolenti note, quindi, oltre alle “buche nelle strade” che i Comuni non hanno più le risorse finanziarie per riparare, si aggiunge anche l’emergenza-ponti: mentre quelli ferroviari e autostradali sono oggetto di ispezioni e manutenzioni dallo standard che il professor Malerba definisce «molto elevato», il problema maggiore riguarda i ponti “sorvegliati” da Province e Comuni: «Non hanno i soldi, né il personale per queste attività. In molti casi non si dispone neppure di un catalogo aggiornato delle opere. Ancora una volta è un problema di fondi, ma è anche dimostrato che, per ponti di collegamento importanti, la perdita economica dovuta all’interruzione dei transiti di alcuni mesi può superare il costo del ponte stesso».Nei risvolti della pericolosa politica di rigore c’è dunque anche il problema della sicurezza, che si ripercuote sui cittadini, e non solo. In prima linea ci sono anche le aziende, che negli appalti sono colpite dall’imposizione di ribassi d’asta sempre più forti. «C’è chi, anche tra gli stessi costruttori, ha fatto un passo indietro», racconta sempre Tundo, sul “Fatto”. «È il caso di Massimo Ferrarese che con la sua Prefabbricati Pugliesi continua ad operare in altri settori, ma non partecipa più alle gare d’appalto per la costruzione di ponti e viadotti». Spiega l’imprenditore: «Non si può pensare di affidare lavori pubblici con il 40% di ribasso d’asta, perché questo determina un effetto a cascata su tutta la filiera, dall’impresa appaltante ai subappaltatori, fino ai fornitori». Ferrarese è stato anche presidente della Provincia di Brindisi e attualmente presiede Invimit, società di gestione del risparmio del ministero dell’economia. Protesta: «Così ci sono imprese che non svolgono i lavori come dovrebbero. Non si può lesinare sui materiali, io non l’ho mai fatto e non sono disponibile a fare cose del genere, ecco perché non costruisco più ponti con le mie aziende». Concorda il professor Malerba, pensando ai recenti crolli: «Il discorso del massimo ribasso è reale. Il costo va pensato sul ciclo di vita: se si spende bene prima, si risparmia dopo per la manutenzione». Mancano gli euro, i ponti crollano. Ma intanto si continuano a tener vivi super-cantieri faraonici, come quello per l’inutile ferrovia Tav Torino-Lione.Tra le tante cose che crollano, nell’Italia ridotta in bolletta dal “patto di stabilità” imposto dall’Eurozona, ci sono anche i ponti. Nel 2015, ricorda il “Fatto Quotidiano”, toccò al viadotto Scorciavacche sulla Palermo-Agrigento, poi al ponte Himera sulla A19 e ancora ai cavalcavia di Annone in provincia di Lecco e a quello di Camerano vicino ad Ancona, venuto giù pochi mesi fa causando la morte di due coniugi. Fino al viadotto “La Reale” della tangenziale di Fossano, crollato lo scorso 18 aprile e per il quale sono sotto inchiesta 8 persone. In alcuni casi, ammette il presidente dell’Anas, Gianni Vittorio Armani, il cattivo stato di manutenzione è la concausa del crollo. «Pesano anche i vizi in fase di costruzione, gli errori di cantiere e, nel caso di Annone, i ripetuti trasporti eccezionali con carichi molto superiori alla portata della struttura», scrive Andrea Tundo sul “Fatto”. «Ma la manutenzione insufficiente un ruolo lo ha. Soprattutto perché i soldi per farla non bastano: servirebbero 2,5 miliardi l’anno, ma gli ultimi stanziamenti si fermano a 1,1 miliardi l’anno fino al 2019. Questo in un paese in cui, secondo gli esperti, la maggior parte dei ponti sta per arrivare alla fine del suo ciclo di “vita in sicurezza”».
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Attacco hacker WannaCry, prove generali di cyber-golpe?
Siamo al primo attacco informatico globale: decine di migliaia di siti e server infettati (9.000 all’ora, di ben 99 paesi diversi) sia di comuni cittadini che di banche, ospedali, imprese di trasporto o istituzioni da parte di un virus denominato WannaCry. Il virus ha attaccato i pc con la richiesta di 300 dollari in bitcoin per poter essere sbloccato. Peraltro un giovanotto poco più che ventenne è riuscito in 24 ore a fornire il programma che ha neutralizzato (forse solo in parte) l’attacco. Di che si tratta? In apparenza, per l’ampiezza e la contemporaneità dell’attacco, sembrerebbe l’impresa di un gruppo di hacker particolarmente dotati. Non sono un esperto in materia e non so giudicare quanto sia stata tecnologicamente sofisticata l’azione (chiederò lumi ai miei amici), ma ad occhio e da profano, non mi sembra una cosa tanto comune, visto che è riuscito a neutralizzare molti dispositivi antivirus anche di qualche livello: fra gli infettati c’è stato anche il sito della banca centrale russa che, si immagina, abbia antivirus un po’ più potenti di quelli di un comune utente di Internet. Quindi, non sembrerebbe una cosa alla portata di qualsiasi hacker, ma di un gruppo particolarmente agguerrito; ma di cosa può trattarsi?L’apparenza farebbe pensare ad un’azione a scopo estorsivo, quindi un episodio, per così dire, di cybercriminalità comune. Può darsi, perché no? Ma la cosa convince poco, per diversi motivi. Logica vorrebbe che attacchi di questo tipo mirino ai grandi numeri di utenti comuni, per chiedere piccoli riscatti, oppure, al contrario (ma è molto più impegnativo) pochi siti importanti per chiedere riscatti ben più consistenti. Qui abbiamo una strana ammucchiata con la richiesta di poche centinaia di dollari, per di più in bitcoin, che non sappiamo se e come pensino di convertire in valuta ufficiale. Insomma: ti attrezzi per violare siti particolarmente protetti e che, dopo, scateneranno una reazione di potenti servizi segreti, il tutto per 300 dollari? Poi, che io sappia, è la prima volta che si chiede un riscatto in bitcoin che espone a rischi di tracciabilità ben più consistenti del comune denaro. Ne so poco, ma immagino che, se si segnano con inchiostri simpatici le banconote dei riscatti, sia ancora più realizzabile “marcare” l’algoritmo di un bitcoin in modo da renderlo riconoscibile e risalire a chi lo abbia speso. Poi sorprende la grande rapidità con cui l’attacco sia stato neutralizzato. Insomma, la cosa vi convince?Sarebbe più credibile l’ipotesi di una specie di “spot pubblicitario” di una qualche impresa che venda antivirus, anche se si tratterebbe di una cosa molto rischiosa. E, peraltro, la facilità con cui il virus è stato neutralizzato farebbe pensare ad un flop. L’ipotesi più consistente è quella dell’attacco di un servizio segreto statale e, infatti, due giganti della lotta al cybercrime come l’americano Symantec ed il russo Kaspersky hanno offerto elementi che indicano come possibile responsabile il servizio segreto nord-coreano. Sostanzialmente gli elementi sarebbero questi: l’attacco è avvenuto in concomitanza con il lancio del missile balistico a lungo raggio da parte del regime di Kim Jong-un; in secondo luogo, “WannaCry” avrebbe al suo interno codici che risalgono ad una precedente versione dello stesso virus usato in passato dal “Lazarus Group”, che opererebbe nella Corea del Nord, che proprio con questa precedente versione di “WannaCry” riuscì a depredare 81 milioni di dollari da una banca del Bangladesh. Resta da capire perché questa volta si accontenterebbero di soli 300 dollari in bitcoin.Intendiamoci: l’ipotesi ci sta tutta, perché è evidente che in un paese come la Nord Corea un gruppo hacker del genere non potrebbe operare se non fosse una costola dei servizi segreti; peraltro, Kim Jong-un è sospettabilissimo di qualsiasi cosa. Però, qui abbiamo solo indizi: la coincidenza con il lancio del missile potrebbe essere del tutto occasionale e la presenza di pezzi di un programma precedente non vuol dire molto, dato che potrebbero benissimo esser stati usati da altri, magari interessati proprio ad attaccare la Nord Corea. Dunque ipotesi possibile, ma sin qui non provata. C’è un’altra ipotesi che merita d’essere valutata: che questo colpo venga da un qualche servizio segreto statale, ma diverso dalla Nord Corea e magari di qualche grande potenza, che non proviamo neppure a identificare sulla base di questi dati. Con che scopo? E se fossimo in presenza di una sorta di grande prova? Come cantava Jannacci, qualcosa per “vedere di nascosto l’effetto che fa”. O anche un sasso lanciato in piccionaia per vedere che uccelli si alzano in volo. Fuor di metafora: per saggiare i punti vulnerabili e la reazione degli altri. Una sorta di grandi manovre “cyber”, in preparazione di qualcosa. Non è un segnale tranquillizzante, decisamente.(Aldo Giannuli, “L’attacco hacker WannaCry, bruttissimo segno”, dal blog di Giannuli del 17 maggio 2017).Siamo al primo attacco informatico globale: decine di migliaia di siti e server infettati (9.000 all’ora, di ben 99 paesi diversi) sia di comuni cittadini che di banche, ospedali, imprese di trasporto o istituzioni da parte di un virus denominato WannaCry. Il virus ha attaccato i pc con la richiesta di 300 dollari in bitcoin per poter essere sbloccato. Peraltro un giovanotto poco più che ventenne è riuscito in 24 ore a fornire il programma che ha neutralizzato (forse solo in parte) l’attacco. Di che si tratta? In apparenza, per l’ampiezza e la contemporaneità dell’attacco, sembrerebbe l’impresa di un gruppo di hacker particolarmente dotati. Non sono un esperto in materia e non so giudicare quanto sia stata tecnologicamente sofisticata l’azione (chiederò lumi ai miei amici), ma ad occhio e da profano, non mi sembra una cosa tanto comune, visto che è riuscito a neutralizzare molti dispositivi antivirus anche di qualche livello: fra gli infettati c’è stato anche il sito della banca centrale russa che, si immagina, abbia antivirus un po’ più potenti di quelli di un comune utente di Internet. Quindi, non sembrerebbe una cosa alla portata di qualsiasi hacker, ma di un gruppo particolarmente agguerrito; ma di cosa può trattarsi?
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Cremaschi: stanno svendendo l’Italia al miglior offerente
Se l’amministratore di un’impresa privata decidesse di regalare beni aziendali e poi regalasse soldi a chi accettasse di appropriarsene, questo amministratore difficilmente riuscirebbe ad evitare il confronto col codice civile e penale. Invece i nostri governanti, amministratori dei beni di tutti, così si comportano con le nostre proprietà e con quelle altrui che finanziano. Per lo Stato, nell’economia debbono valere regole di svantaggio rispetto a qualsiasi grande azienda privata, così vuole l’Unione Europea e così i governanti che ad essa ubbidiscono. Ovviamente con la massima soddisfazione degli imprenditori privati, che si vedono regalate le aziende e che quando le mandano in malora possono fuggire e scaricare di nuovo tutto sullo Stato. Con quanti nostri soldi lo Stato italiano ha finanziato le privatizzazioni? Decine e decine, forse centinaia sono i miliardi spesi per privatizzare il patrimonio produttivo pubblico, nel nome della riduzione di un debito che non si è mai realizzata e di un maggiore efficienza mai ottenuta. Quanti miliardi sono stati regalati a imprenditori e multinazionali che poi hanno sfasciato le aziende?Questa cifra non viene mai fornita ad una opinione pubblica martellata dalla campagna a favore delle svendite. Svendite come quella delle acciaierie di Piombino, che dopo una lunga trafila di fallimenti imprenditoriali, da Lucchini ai magnati russi, sono state regalate ad un imprenditore algerino che non si è mai fatto vedere. Quella che oggi è l’Ilva è stata regalata alla famiglia Riva dal governo e dall’Iri di Prodi. I Riva hanno accumulato per anni miliardi, poi sono crollati sotto il peso della crisi e dei danni ambientali. Lo Stato da allora finanzia l’azienda a fondo perduto, in attesa di svenderla a qualche multinazionale che saccheggerà ciò che è rimasto, farà un’ecatombe di licenziamenti e lascerà tutti i danni ambientali a carico della comunità e della spesa pubblica. Mentre fallivano in Ilva, i Riva venivano chiamati da Berlusconi a salvare l’Alitalia, assieme a Colaninno, Marcegaglia, Montezemolo e tanti altri bei nomi, tutti coordinati da Passera allora a capo di Banca Intesa. Tutta la crema della imprenditorialità e della finanza italiana ha mostrato il suo reale valore nella gestione della compagnia aerea. E il fallimento è stato totale, come quello del quotidiano che ufficialmente la rappresenta, il “Sole 24 Ore”.Le poche grandi privatizzazioni che, per ora, non sono fallite hanno consegnato le eccellenze del sistema produttivo italiano, dalla Telecom all’Ansaldo, alle multinazionali. Multinazionali a cui si affidano le aziende private medie, non appena i loro vecchi titolari pensino al futuro, Luxottica insegna. La Fiat della famiglia Agnelli è un’azienda americana con sede legale in Olanda, mentre l’Olivetti non esiste più, è stata sacrificata da De Benedetti per realizzare l’Omnitel, che oggi appartiene alla Vodafone. Le banche, che in gran parte erano pubbliche, o sono già in possesso o sono in attesa di un compratore estero, partner si dice nel mondo bene. Quel sistema industriale e finanziario che era stato in grado di collocare il nostro paese tra quelli più sviluppati, e che si reggeva proprio per il peso ed il ruolo del sistema pubblico, è stato smantellato e svenduto pezzo dopo pezzo. E dopo il fallimento indecoroso della classe imprenditoriale italiana, quel sistema è ora terreno di caccia per tutti i venditori di Colosseo che parlino inglese.Il vice di Renzi, Martina, ha sfacciatamente confessato che il governo non può nazionalizzare Alitalia, altrimenti dovrebbe fare altrettanto con tutte le aziende che dovessero chiudere. Che evidentemente sono tante per l’ingenuo ministro, che smentisce in tal modo l’ottimismo ufficiale del palazzo. Così, grazie alla fermezza autolesionista del governo, Lufthansa può far sapere di non essere interessata alla nostra compagnia aerea: deve solo aspettare la catastrofe finale dell’azienda e poi raccoglierne gratis i cocci. Lo stesso faranno le multinazionali dell’acciaio interessate all’Ilva: anch’esse devono solo attendere il disastro. Le privatizzazioni sono solo svendita di beni di tutti, una svendita pagata coi soldi di tutti. Non c’è nulla di più falso e in malafede che affermare che lo Stato non può più spendere i soldi dei cittadini per finanziare aziende in crisi. Perché la realtà dimostra che regalare le aziende pubbliche ai privati alla fine costa molto di più. Costa di più sul piano produttivo perché le aziende vanno peggio. Costa di più sul piano sociale per i nuovi disoccupati che si aggiungono ai tanti altri già esistenti. E costa di più perché il conto, per la spesa pubblica che deve riparare ai guasti del privato, è più alto oggi di quando le aziende erano in mano pubblica. Se l’amministratore di un condominio ruba si caccia lui, ma non si butta giù la casa. Le privatizzazioni han buttato giù la casa.Gli articoli 41e 42 della nostra Costituzione hanno definito i vincoli a cui sono sottoposte la proprietà e l’iniziativa privata e gli spazi riservato all’intervento pubblico. Decenni di politiche liberiste sotto dettatura della Unione Europea hanno rovesciato nel loro opposto questi e tanti altri articoli della nostra Carta. Il privato deve avere tutto e il pubblico lo deve finanziare a fondo perduto. Si regalano 20 miliardi alle banche perché i loro futuri acquirenti non trovino troppe sofferenze, se ne sono versati altri 60 in sede europea per lo stesso scopo. Gentiloni promette a Trump di pagare la bolletta Nato, ma salvare Alitalia, Ilva, Piombino non si può, lì o ci pensa il mercato o si chiude. L’ideologia liberista è già insopportabile in sé, quando poi diventa la giustificazione per lo spreco dei soldi pubblici e per la distruzione del patrimonio industriale diventa un costo insostenibile. Dobbiamo ringraziare i lavoratori Alitalia che con il loro No hanno respinto l’ennesimo regalo ai privati, questa volta concesso agli sceicchi di Etihad, che non sono certo privi di mezzi propri. La nazionalizzazione di Alitalia, dell’Ilva, delle altre aziende strategiche in crisi è la sola via realistica per sottrarsi ai danni dell’incapacità imprenditoriale nazionale e della rapina multinazionale. Il resto è solo servilismo verso i poteri e gli interessi che vogliono il nostro paese in vendita. Low cost.(Giorgio Cremaschi, “Nazionalizzare o svendere, l’economia italiana in mano ai migliori offerenti”, dall’“Huffington Post” del 28 aprile 2017).Se l’amministratore di un’impresa privata decidesse di regalare beni aziendali e poi regalasse soldi a chi accettasse di appropriarsene, questo amministratore difficilmente riuscirebbe ad evitare il confronto col codice civile e penale. Invece i nostri governanti, amministratori dei beni di tutti, così si comportano con le nostre proprietà e con quelle altrui che finanziano. Per lo Stato, nell’economia debbono valere regole di svantaggio rispetto a qualsiasi grande azienda privata, così vuole l’Unione Europea e così i governanti che ad essa ubbidiscono. Ovviamente con la massima soddisfazione degli imprenditori privati, che si vedono regalate le aziende e che quando le mandano in malora possono fuggire e scaricare di nuovo tutto sullo Stato. Con quanti nostri soldi lo Stato italiano ha finanziato le privatizzazioni? Decine e decine, forse centinaia sono i miliardi spesi per privatizzare il patrimonio produttivo pubblico, nel nome della riduzione di un debito che non si è mai realizzata e di un maggiore efficienza mai ottenuta. Quanti miliardi sono stati regalati a imprenditori e multinazionali che poi hanno sfasciato le aziende?
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Al popolo i profitti dei colossi economici: imparate da Putin
Siamo messi così male, oggi, da essere costretti ad applaudire i “dittatori” delle super-economie emergenti, Pechino e Mosca. Che fanno? Qualcosa di elementare e rivoluzionario, secondo Paolo Barnard: pretendono che i colossi economici finanzino lo Stato, dando modo al governo di sostenere il welfare, la crescita diffusa del benessere. «Io vedo che fra Eurozona, Partito Democratico Usa, e Ppps (le Public Private Partnerships) in Africa, Asia, Sud America, la democrazia che iniziammo a conoscere con Montesquieu nel diciottesimo secolo è diventata oggi una pustola che puzza da far vomitare». Infatti, «per trovare leader capaci ancora di atti che vagamente si avvicinano a qualcosa di democratico bisogna leggere i decreti legge dei “dittatori” delle moderne potenze, come Cina e Russia. Ma vi rendete conto?». Forse, aggiunge Barnard nel suo blog, «sarà perché la democrazia in Usa è nata da un tizio come James Madison, che riteneva che mai, ma veramente mai, il popolo avrebbe dovuto aver voce». O perché la democrazia in Europa «è stata dirottata da uno come Friedrich Von Hayek, che diceva che il welfare, e il voto, erano strumenti che andavano usati solo “per tenere le classi inferiori calme affinché non aggredissero fisicamente le élite meritevoli del comando”».Qualcuno, continua Barnard, si è mai reso conto che «la democrazia moderna è nata da gente vomitevole al 90%? (escludiamo uno come Calamandrei e pochi altri)». Barnard cita Konrad Adenauer, cancelliere tedesco della ricostruzione nel dopoguerra: lo definisce «partner degli autori della dittatura Ue di oggi come Schuman, Monnet e De Gaulle», il leader francese “macchiato” dal feroce post-colonialismo in Algeria. Barnard non assolve nemmeno John Fitzgerald Kennedy, in quanto «entusiasta sostenitore dei National Security States in America Latina che significarono, documenti declassificati alla mano, Auschwitz-Birkenau parlati in spagnolo per milioni di latinamericani», sottoposti al “trattamento” degli squadroni della morte. Altiero Spinelli, padre del federalismo democratico europeo? «Un rutto ideologico», che con la sinistra parlava di “Europa delle utopie” ma con la destra “fregava” gli operai della Fiat, con il Pci che «approvava i 100 miliardi di lire regalati agli Agnelli per aprire catene di montaggio a Mosca», destinate a «togliere il lavoro ai meridionali italiani». Per non parlare di Giorgio Napolitano, che “faceva il compagno” con gli italiani, ma alla Fondazione Rockefeller a Bellagio «prometteva profitti da sogno alle multinazionali americane».Conclude Barnard: infatti vedete tutti, oggi, in che razza di democrazie ci troviamo, «dove i referendum (Grecia 2015, Irlanda 2008 e 2009, Italia 2016) contano come peti di una capra». Al contrario, aggiunge, «le mosse per l’interesse pubblico più clamorose dalla storia contemporanea» le stanno facendo personaggi che la tradizione democratica non sanno neppure dove stia di casa, «ma le stanno facendo». Vladimir Putin, per esempio: oggi «ha fatto un passo che Gentiloni, la Merkel, la May, e neppure la Le Pen, avrebbero il coraggio di fare». Ovvero: «Ha semplicemente ordinato ai giganti pubblici russi come Alrosa, Gazprom, Rosneft, Aeroflot, di sborsare almeno la metà dei loro profitti agli investitori». Tradotto: «Putin dice ai super-manager statali di non fare i furbi e di distribuire i loro profitti come dice lui, senza trucchetti e tranelli. Vi sembrerà una cosa strampalata, ma chiedetevi quale percentuale di profitti i giganti statali italiani ridistribuirono allo Stato e ai cittadini investitori dagli anni ’60 a oggi e vi spaventerete. Oggi l’Eni incassa puliti 68,1 miliardi e passa allo Stato di Roma, di fatto l’azionista di maggioranza, meno di 900 milioni».No, dice Putin ai giganti russi: «Adesso cacciate i soldi per il governo e alla grande, poi anche agli investitori privati ma dopo, e il suo governo si aspetta d’incassare una bella cifra da 2,1 miliardi di dollari nel 2017 e poi a crescere, così da rimpolpare un po’ le casse dello Stato e conseguentemente la spesa pubblica». Già Gazprom e Rosneft hanno iniziato a storcere il naso, ma sanno che con Putin non si scherza. «Non sono certo un fan di Vladimir – assicura Barnard – ma immaginate se lo Stato italiano avesse mai imposto questa ridistribuzione a tutto il vecchio e ricchissimo comparto dell’Iri, Eni, Enel, invece di lasciare miliardi ai boiardi di Stato». Nel frattempo, conclude Barnard, «Xi-Jinping sega le gambe all’uomo più ricco della Cina, tal Yao Zhenhua, padrone del gigante assicurativo privato Baoneng, perché incassava troppo sulle spalle dei cittadini. E mentre vedo Putin bastonare i suoi giganti, vedo da noi dei flaccidi piselli, pentastellati inclusi, che certe mosse d’interesse di Stato un pelo drastiche neppure le pensano». Proprio vero: «Se ci tocca di ammirare i “dittatori” oggi, pensate dove è arrivata la democrazia in Occidente».Siamo messi così male, oggi, da essere costretti ad applaudire i “dittatori” delle super-economie emergenti, Pechino e Mosca. Che fanno? Qualcosa di elementare e rivoluzionario, secondo Paolo Barnard: pretendono che i colossi economici finanzino lo Stato, dando modo al governo di sostenere il welfare, la crescita diffusa del benessere. «Io vedo che fra Eurozona, Partito Democratico Usa, e Ppps (le Public Private Partnerships) in Africa, Asia, Sud America, la democrazia che iniziammo a conoscere con Montesquieu nel diciottesimo secolo è diventata oggi una pustola che puzza da far vomitare». Infatti, «per trovare leader capaci ancora di atti che vagamente si avvicinano a qualcosa di democratico bisogna leggere i decreti legge dei “dittatori” delle moderne potenze, come Cina e Russia. Ma vi rendete conto?». Forse, aggiunge Barnard nel suo blog, «sarà perché la democrazia in Usa è nata da un tizio come James Madison, che riteneva che mai, ma veramente mai, il popolo avrebbe dovuto aver voce». O perché la democrazia in Europa «è stata dirottata da uno come Friedrich Von Hayek, che diceva che il welfare, e il voto, erano strumenti che andavano usati solo “per tenere le classi inferiori calme affinché non aggredissero fisicamente le élite meritevoli del comando”».
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Paghiamo anche per la Francia l’inutile Tav Torino-Lione
Tav Torino-Lione, vero affare. Per chi? Non certo per l’Italia, che pagherebbe in gran parte anche la tratta in territorio francese dell’ipotetico euro-tunnel alpino, già noto come “la grande opera più inutile della storia”. Come da più parti ricordato – non ultimo, l’appello di 360 specialisti universitari italiani, rivolto a Palazzo Chigi e al Quirinale ma rimasto senza riposta – la linea Tav Torino-Lione non servirebbe assolutamente a nulla. Tralasciando il devastante impatto (ambientale, idrogeologico, sulla salute e sulla vivibilità del territorio), la nuova ipotetica ferrovia sarebbe un perfetto “doppione” della attuale linea internazionale Torino-Modane, che già attraversa la valle di Susa. L’autorità svizzera che monitora per conto dell’Ue il trasporto alpino conferma: la ferrovia valsusina è utilizzata al 10% delle sue possibilità per mancanza oggettiva di traffico merci. Potrebbe incrementare del 900% i volumi di traffico, sull’attuale infrastruttura. Tanto più che l’Italia ha appena speso 400 milioni di euro per adeguare il Traforo del Fréjus, oggi adatto a ospitare convogli carichi di container “navali”, della massima pezzatura. Nonostante ciò, si insiste nel voler procedere, a tutti i costi, con la nuova linea, super-costosa e super-inutile.
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Contro l’Eurasia, agli Usa resta solo una chance: la guerra
Siamo in pericolo, perché l’America sta perdendo terreno: per questo ormai è pronta a tutto, anche alla guerra con la Russia, per impedire che Mosca coinvolga l’Europa nel piano strategico che più converrebbe a entrambe, cioè l’integrazione economica in termini di Eurasia, fino alla Cina. Guai, quindi, se l’Europa mollasse gli Usa. E’ la visione che Mike Whitney disegna su “Counterpunch”, con un finale già scritto – il declino della superpotenza Usa – con la possibile variante, per noi catastrofica, della (inutile) guerra mondiale scatenata dall’élite americana nel tentativo, impossibile, di invertire il corso della storia. Ancora nel 2012, lo stesso Putin parlava della creazione di «uno spazio economico comune che vada dall’Atlantico al Pacifico», chiamato “l’Unione di tutta Europa”, con la Russia come perno di una “Nuova Asia” saldamente collegata all’Europa. «L’inarrestabile demonizzazione di Putin – scrive Whitney – è soltanto una parte della multiforme strategia di Washington per fare arretrare il potere russo in Asia centrale e mettere la parola fine al sogno di Putin di “Una più grande Europa”». Di qui l’incessante sforzo per liquidare il presidente russo come “bandito del Kgb”, o “dittatore”, colpevole addirittura dell’ipotetico hackeraggio per ingerire nelle presidenziali statunitensi, con la Russia presentata dai media come «un pericoloso aggressore seriale che pone una crescente minaccia alla sicurezza della Ue e degli Usa».Un «mattatoio mediatico», intensificatosi dopo l’elezione di Donald Trump e accompagnato da «pesanti sanzioni, attacchi asimmetrici ai mercati russi e alla valuta», nonché «dall’armamento e addestramento di antagonisti della Russia in Ucraina e Siria», dalla «soppressione calcolata dei prezzi del petrolio greggio» e dal «ripetuto tentativo di sabotare le relazioni commerciali russe in Europa». In breve, riassume Whitney in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, Washington sta facendo qualsiasi cosa in suo potere per prevenire il fatto che Europa e Russia possano «fondersi nella più grande area di libero scambio mondiale, che verrebbe inevitabilmente a rappresentare il centro della crescita e della prosperità mondiale per il prossimo secolo». Ecco il motivo per cui il Dipartimento di Stato si è unito alla Cia per rovesciare il governo ucraino nel 2014: annettendo un ponte terrestre vitale tra Ue e Asia, i manovratori di potere Usa volevano «riuscire a controllare i gasdotti fondamentali che stanno avvicinando sempre di più i due continenti in una alleanza che escluderà gli Stati Uniti».La prospettiva? E’ pessima, vista dall’America, perché «la Russia soddisferà i crescenti bisogni energetici europei, mentre il sistema di ferrovie ad alta velocità cinesi farà arrivare ancora più prodotti a basso costo». Tutto questo suggerisce l’idea che «il centro di gravità dell’economia mondiale si sta spostando rapidamente, e con esso l’irreversibile declino degli Usa». E quando il dollaro «verrà inevitabilmente cestinato come mezzo di scambio primario tra i partner commerciali in una emergente area di libero scambio Ue-Asia», a quel punto «il riciclaggio di ricchezza sotto forma di debito Usa crollerà rapidamente, precipitando i mercati Usa nell’abisso, mentre l’economia intera affonderà in una palude». Sicché, «impedire a Putin di creare una “armoniosa comunità di economie che vada da Lisbona a Vladivostok” non è un compito secondario per gli Usa, è una questione di vita o di morte». Lo diceva già uno stratega del calibro di Paul Wolfowitz: «Il nostro obbiettivo primario è prevenire l’emergere di un nuovo rivale, sia esso sul territorio della fu Unione Sovietica o in altro luogo». Imperativo categorico: «Prevenire che ogni potere ostile possa dominare una regione le cui risorse possano, sotto controllo consolidato, rivelarsi sufficienti a generare dominio globale».«La geografia è destino», scrive Whitney. «E la geografia russa contiene vastissime riserve di petrolio e gas naturale, delle quali l’Europa ha bisogno per riscaldare le sue case e fornire energia alla sua economia». Di più: «La relazione simbiotica tra fornitore e utilizzatore finale porterà a un certo punto all’abbandono delle barriere commerciali, l’abbassamento delle barriere tariffarie e al progressivo integrarsi delle economie nazionali in un mercato comune di tutta la regione. Questo potrebbe rappresentare il peggiore incubo di Washington, ma è anche la massima priorità strategica di Putin», che ha scommesso sui grandi gasdotti – il North Stream sotto il Mar Baltico e il South Stream sotto il Mar Nero – per fornire all’Europa energia pronto uso, a basso costo. «Negli ultimi 70 anni la strategia imperiale ha funzionato senza contrattempi, ma adesso la rinascita russa e l’esplosiva crescita cinese minacciano di liberarsi dal giogo dell’abbraccio costrittivo di Washington», aggiunge Whitney. «Gli alleati asiatici hanno iniziato a puntellare l’Asia e l’Europa con gasdotti e ferrovie ad alta velocità che uniranno insieme i vari staterelli distanti dispersi nelle steppe, attirandoli nell’Unione Economica Euroasiatica, collegandoli a un superstato prospero e in espansione, epicentro del commercio e dell’industria globale».La geografia è destino: il primo a saperlo, e a dirlo, è stato l’uomo della “grande scacchiera”, Zbigniew Brzezinski, che ha riassunto l’importanza dell’Asia centrale nel suo classico del 1997 sostendendo che «l’Eurasia è il maggiore continente del globo e la sua importanza geopolitica è assiale». E’ matematico: «Una potenza che domina l’Eurasia controllerebbe due tra le tre regioni più avanzate ed economicamente produttive. Circa il 75% della popolazione mondiale vive in Eurasia e la maggior parte della ricchezza fisica effettiva si trova anche essa in questa area, sia nelle sue imprese che nel suo suolo». L’Eurasia, scriveba Brzezinski, conta per il 60% del Pil mondiale e per circa tre quarti delle risorse energetiche del globo. «Se l’Europa vuole un socio affidabile in grado di soddisfare i suoi bisogni energetici, la Russia corrisponde alla descrizione», osserva Whitney. «Sfortunatamente, gli Usa hanno tentato ripetutamente di sabotare entrambi i gasdotti allo scopo di mettere a repentaglio i rapporti Europa-Russia. Washington preferirebbe che l’Europa riducesse drammaticamente il suo utilizzo di gas naturale o che si rivolgesse ad altre fonti più costose che non passano per la Russia. In altre parole, i bisogni naturali europei vengono sacrificati agli obiettivi geopolitici Usa, tra i quali il maggiore è prevenire la formazione di una “Più Grande Europa”».Ne vediamo gli effetti: la guerra di Washington contro la Russia è sempre più militarizzata. Di recente il Pentagono ha stanziato più truppe da combattimento in Siria e Kuwait, vuole riarmare milizie jihadiste per rovesciare il governo siriano e ricorrere a un uso più diretto della forza per conquistare l’Est della Siria. Cresce la violenza anche in Ucraina, dal momento che il presidente Trump sembra orientato a un approccio ancora più duro di quello di Obama. Anche la Nato ha stanziato truppe e armamenti sul fianco occidentale russo, mentre gli Usa hanno disseminato basi militari in Asia centrale. La Nato non ha mai smesso di spingere verso est, dal momento in cui il Muro di Berlino cadde, nel novembre 1989. «L’accumulo di mezzi bellici ostili sul perimetro occidentale della Russia è una fonte di crescente preoccupazione a Mosca, e per ottime ragioni», scrive Whitney: «I russi conoscono la loro storia». Al tempo stesso, gli Stati Uniti «stanno costruendo un sistema terrestre di difesa missilistica antiaerea in Romania (Star Wars), che integra l’arsenale missilistico Usa in un luogo a soli 900 km da Mosca. Il sistema missilistico Usa, che è stato “certificato per le operazioni” nel maggio 2016, cancella il deterrente nucleare russo e distrugge l’equilibrio strategico di potere in Europa».Putin ha risposto con appropriate contromisure. E spiega: «Gli americani sono ossessionati dall’idea di “assoluta invulnerabilità” per loro stessi. Ma l’assoluta invulnerabilità di una nazione significa assoluta vulnerabilità per tutti gli altri. Non possiamo assolutamente essere d’accordo». Ora, l’amministrazione Trump ha annunciato che impiegherà il sistema Terminal High Altitude Area Difense (Thaad) in Corea del Sud, citando la necessità di rispondere alle provocazioni da parte della Corea del Nord. «In realtà – obietta Whitney – gli Usa sfruttano il Nord come pretesto per poter minacciare Russia e Cina come “limiti assiali” dell’Heartland Eurasiatico, come mezzo per contenere la vasta massa di terre emerse che Sir Halford Mackinder ha chiamato “l’area fondamentale, che si estende tra il Golfo Persico e il fiume Yang Tze in Cina”. Washington spera che, controllando le rotte marine critiche, circondando la regione con basi militari e inserendosi aggressivamente dove necessario, possa riuscire a prevenire l’emergenza di un colosso economico che possa sminuire l’importanza degli Stati Uniti come superpotenza globale».Il futuro dell’America «dipende dalla sua capacità di far deragliare l’integrazione economica del centro del mondo e riuscire nel “grande gioco” nel quale tutti gli altri hanno fallito». Un estratto da un articolo di Alfred McCoy, “La geopolitica del declino globale americano”, aiuta a illuminare la natura della contesa in corso per il controllo della cosiddetta “Isola-Mondo”. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli Usa si sono ritrovati «prima potenza nella storia a controllare i punti strategici assiali di entrambe le estremità dell’Eurasia». Con la paura dell’espansione russa e cinese come “catalizzatore della collaborazione”, Washington hanno guadagnato bastioni strategici sia in Europa occidentale che in Giappone. Con questi punti assiali come ancoraggio, ha creato «un arco di basi militari basate sul modello marittimo precedente», quello della Gran Bretagna, «visibilmente concepite per circondare l’“Isola-Mondo”». Spogliata del suo rivestimento ideologico, osserva McCoy, la grande strategia di Washington del contenimento anti-comunista nella guerra fredda «non è stato molto altro che un processo di successione imperiale». Alla fine della guerra fredda, nel 1990, «l’accerchiamento della Cina comunista e della Russia richiedeva 700 basi in territori stranieri, una potenza aerea di 1.763 jet da combattimento, un vasto arsenale nucleare, oltre 1.000 missili balistici e una potenza navale di 600 navi, tra cui 15 portaerei nucleari, tutti unificati dall’unico sistema al mondo di comunicazione globale satellitare».Un nuovo impero globale sta ora gradualmente emergendo, in Asia Centrale. E, mentre l’impatto dell’integrazione economica dell’area non si è ancora realizzato, secondo McCoy «gli sforzi da parte degli Usa per fermare questa possibile alleanza nella sua fase embrionale appaiono sempre più inefficaci e disperati». L’iperbolica propaganda sul presunto “hacking russo” dell’elezione presidenziale Usa ne solo uno tra i numerosi esempi – un altro è l’armamento dei neonazisti a Kiev. «Il punto è che sia la Russia che la Cina si stanno servendo dello sviluppo dei mercati e della semplice ingenuità per avere la meglio su Washington, mentre Washington si basa quasi esclusivamente sull’inganno, attività occulte, forza militare bruta. In parole povere gli ex comunisti stanno stracciando i capitalisti nel loro stesso gioco». Ancora McCoy: «La Cina si sta affermando in modo profondo nell’‘Isola-Mondo’ in un tentativo di dare una forma completamente nuova ai fondamentali geopolitici del dominio globale. Per fare ciò sta usando una fine strategia che fino a questo momento ha eluso la comprensione da parte delle élites al potere in Usa».Il primo passo? E’ consistito «in un sensazionale progetto di creazione di una infrastruttura che assicuri l’integrazione economica del continente». Stendendo un elaborata e complessa rete di ferrovie ad alto volume ed alta velocità, come anche gasdotti ed oleodotti, nelle vaste distese eurasiatiche, «la Cina potrebbe rendere realtà l’intuizione di Mackinder in un modo imprevisto». Ovvero: «Per la prima volta nella storia, il rapido movimento transcontinentale di carichi di materie prime fondamentali – petrolio, minerali, prodotti – sarà possibile su una scala prima impensabile, unificando così potenzialmente la grandissima estensione di terre in questione in una unica zona economica che si estende per 6.500 miglia da Shangai a Madrid». In tal modo, conclude McCoy, «la leadership pechinese spera di spostare il baricentro del potere geopolitico via dalla periferia marittima e fin dentro all’Heartland continentale». Ma Washington, aggiunge Whitney, di certo non lascerà che il piano russo-cinese vada avanti: continuerà a combatterlo. E «se sanzioni economiche, attività occulte e sabotaggio economico non funzioneranno, i manovratori di potere Usa passeranno a strategie più letali». La peggiore delle ipotesi sta già andando in scena: lo dimostrano i recenti stanziamenti di truppe in Medio Oriente. Gli americani «ritengono che un confronto militare diretto possa essere la migliore opzione disponibile», pensando che «una guerra contro la Russia combattuta in Siria o in Ucraina non necessariamente potrebbe degenerare in una guerra nucleare a tutto campo». Ma sarebbe abbastanza per trascinare nel conflitto anche l’Europa, nel tentativo – disperato – di «abbattere definitivamente il piano russo di “integrazione economica” e immobilizzare la Russia in un lungo pantano che ne prosciugherebbe le risorse».Siamo in pericolo, perché l’America sta perdendo terreno: per questo ormai è pronta a tutto, anche alla guerra con la Russia, per impedire che Mosca coinvolga l’Europa nel piano strategico che più converrebbe a entrambe, cioè l’integrazione economica in termini di Eurasia, fino alla Cina. Guai, quindi, se l’Europa mollasse gli Usa. E’ la visione che Mike Whitney disegna su “Counterpunch”, con un finale già scritto – il declino della superpotenza Usa – con la possibile variante, per noi catastrofica, della (inutile) guerra mondiale scatenata dall’élite americana nel tentativo, impossibile, di invertire il corso della storia. Ancora nel 2012, lo stesso Putin parlava della creazione di «uno spazio economico comune che vada dall’Atlantico al Pacifico», chiamato “l’Unione di tutta Europa”, con la Russia come perno di una “Nuova Asia” saldamente collegata all’Europa. «L’inarrestabile demonizzazione di Putin – scrive Whitney – è soltanto una parte della multiforme strategia di Washington per fare arretrare il potere russo in Asia centrale e mettere la parola fine al sogno di Putin di “Una più grande Europa”». Di qui l’incessante sforzo per liquidare il presidente russo come “bandito del Kgb”, o “dittatore”, colpevole addirittura dell’ipotetico hackeraggio per ingerire nelle presidenziali statunitensi, con la Russia presentata dai media come «un pericoloso aggressore seriale che pone una crescente minaccia alla sicurezza della Ue e degli Usa».
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Taxi e Uber, tra servizio pubblico e caporalato digitale
Riferiscono in molti che, con il blocco dei taxi, le auto di Uber in circolazione hanno raddoppiato le tariffe. È la legge della domanda e dell’offerta. Ma è anche un’anticipazione di che cosa succederà se e quando Uber avrà vinto la sua guerra contro i tassisti. È una guerra che non riguarda solo l’Italia, ma ha dimensioni planetarie, combattuta con alterne vicende tra la multinazionale e i tassisti. I taxi sono un servizio pubblico non sovvenzionato (a differenza del trasporto di linea), sottoposto a regole precise: tariffe amministrate e gestite dal tassametro, controlli rigidi sui veicoli e gli autisti, obbligo di garantire il servizio giorno e notte e di coprire tutto il territorio comunale o comprensoriale definito dalla licenza; divieto di offrire il servizio fuori di esso. Uber è una multinazionale che ha pochissimi dipendenti e nessuna vettura; gestisce solo le prenotazioni e la cassa (incassi subito, pagamenti a 7 giorni) e si avvale, sia nella versione black (noleggio con conducente) che in quella pop (servizio erogato da chiunque abbia sottoscritto un accordo con l’azienda) di autisti e vetture reclutate al bisogno.
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Piovra invincibile? La teoria del complotto aiuta il potere
La teoria del complotto? E’ perfetta, per il potere: se il “nemico” è onnipotente, imbattibile, tanto vale lasciar perdere e non provare nemmeno a sfidarlo, sarebbe inutile. «C’è una corruzione semantica: si usa abilmente la parola complotto quando si dovrebbe usare il termine da sempre utilizzato, cioè sfruttamento», sostiene il blog “La Crepa nel Muro”. Chiaro, no? Del resto, la parola “complotto” «è più astratta, più ad effetto, più intrigante», quindi «devia la mente delle persone e in qualche modo le affascina, le fa sognare creando quel clima di suspence da romanzo giallo». Di fatto, «invita la gente a rincorrere le teorie più strampalate, più suggestive, costruite ad arte con le combinazioni più fantasiose che legano tra loro le coincidenze più distanti», evocate apposta, «con affettazione, per impressionare». Risultato, nessuno muove più un dito: «Si paralizzano in tal modo le azioni delle masse, che non sanno contro chi prendersela», e questo aiuta a «nascondere i furbi di ogni tempo», quelli che «sanno abilmente approfittare di questa situazione di degrado e ignoranza collettiva, alimentandola costantemente per avvantaggiarsene».Oggi, in realtà – scrive “Aramires Araras” – ci sono semplicemente gli approfittatori del sistema, quelli di sempre ma con armi più raffinate», che sono «i banchieri, i grandi finanzieri, i personaggi a capo delle multinazionali» che hanno in pugno «l’economia, la politica e tutti i poteri mondiali». Hanno un immenso potere, certo, «perché è la gente che glielo consegna». Siamo noi, «lavorando per loro incoscientemente», che riusciamo ad «alimentare il sistema dal basso». Non ci vorrebbe molto a capire il meccanismo, ma è meglio non farsi illusioni: «Questo risveglio è un’utopia, non avverrà mai», sostiene “Araras”, «innanzitutto perché l’ignoranza è una malattia congenita dalla quale la massa non potrà mai guarire». E poi, soprattutto, «perché la gente deve mangiare, deve vivere», quindi «ha bisogno del denaro, della finanza, del conto in banca, della carta di credito, delle transazioni on line». Ha necessità di «prendere l’aereo, andare in vacanza, fare la spesa al centro commerciale». E ha bisogno «dei prodotti per la casa, di pagare il mutuo, l’elettricità e gli altri consumi», ha “bisogno” «di guardare la televisione, di navigare in Internet, di parlare al cellulare, di andare in macchina, di fare sesso, di andare in discoteca, di riscaldarsi per l’inverno e rinfrescarsi per l’estate».Questa è la società, sintetizza il blog: «Senza queste cose crollerebbe». Ma tutto ciò «non può essere controllato dalla collettività», perché il sistema è troppo complesso per essere gestito da una moltitudine, «ed ecco allora che si crea la paralisi». Qualcuno prova a contrastarlo? Il sistema «dorme su dieci cuscini e se la ride di tutti coloro che, come noi, gli inveisce contro o grida impotente e puerilmente al complotto». Poi, certo, la crisi può deflagrare: «Quando il sistema, cioè la società che gira nel modo suddetto, entra in saturazione e non ce la fa più a ruotare, si scatenerà una guerra, sempre gestita dai suddetti signori, perché costoro hanno in mano anche gli apparati militari». Anche in caso di conflito armato, comunque, «ci sarà la manovalanza – costituita dai soldati che prendono lo stipendio – che puntualmente eseguirà gli ordini: e così la ruota ripartirà». Soluzioni? Guardarsi innanzitutto “dentro”. E maneggiare con cura le più ardite “teorie del complotto”, specie se troppo fantasiose: i famosi “rettiliani” di David Icke servono solo a screditare pubblicamente chi ci crede, nonché a consolidare l’immagine di un nemico mostruoso, dunque invincibile.La teoria del complotto? E’ perfetta, per il potere: se il “nemico” è onnipotente, imbattibile, tanto vale lasciar perdere e non provare nemmeno a sfidarlo, sarebbe inutile. «C’è una corruzione semantica: si usa abilmente la parola complotto quando si dovrebbe usare il termine da sempre utilizzato, cioè sfruttamento», sostiene il blog “La Crepa nel Muro”. Chiaro, no? Del resto, la parola “complotto” «è più astratta, più ad effetto, più intrigante», quindi «devia la mente delle persone e in qualche modo le affascina, le fa sognare creando quel clima di suspence da romanzo giallo». Di fatto, «invita la gente a rincorrere le teorie più strampalate, più suggestive, costruite ad arte con le combinazioni più fantasiose che legano tra loro le coincidenze più distanti», evocate apposta, «con affettazione, per impressionare». Risultato, nessuno muove più un dito: «Si paralizzano in tal modo le azioni delle masse, che non sanno contro chi prendersela», e questo aiuta a «nascondere i furbi di ogni tempo», quelli che «sanno abilmente approfittare di questa situazione di degrado e ignoranza collettiva, alimentandola costantemente per avvantaggiarsene».
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Tre naufragi identici in 160 anni. Unico superstite: Williams
Tre navi affondate, a 160 anni di distanza, tutte e tre nello stesso punto, nello stesso giorno, ed in tutti e tre i casi sono morti tutti i membri dell’equipaggio eccetto un superstite in ogni affondamento e, indovinate, come si chiamavano questi tre superstiti? Tutti e tre Hugh Williams. Sembra una storia ai limiti della realtà e sta circolando su Internet attraverso il video “The Strangest Coincidence Ever Recorded?”, che racconta la storia di 3 navi, tutte affondate nello Stretto di Menai, tra l’isola di Anglesey ed il Galles continentale, tra il 1664 ed il 1820. La prima nave in questione affondò nello stetto il 5 dicembre del 1664. Tutti gli 81 passeggeri perirono, eccetto uno, appunto di nome Hugh Williams. La seconda nave affondò nel 1785, sempre il 5 dicembre, sempre nello stesso stretto, e dei 60 passeggeri a bordo riuscì a salvarsi solo un uomo di nome Hugh Williams. Infine, nel 1820, sempre il 5 dicembre, sempre nello stesso stretto, un vascello affondò trascinando nelle acque i 25 passeggeri, meno, ovviamente, un superstite di nome Hugh Williams.Una storia incredibile che, se vera, darà qualche brivido ai passeggeri di nome diverso da Hugh Williams che navighino attraverso lo stretto di Menai il 5 dicembre di ogni anno. Per valutarne la veridicitò però bisogna analizzare i dettagli. Una prima versione della storia viene data dal libro di Cliffe, “Il libro del Nord del Galles”, pubblicato nel 1851, in cui, in una nota a pagina 155, viene riportata la storia degli affondamenti del 1664 e del 1785, con Hugh Williams il solo superstite. La storia per l’affondamento del 1820 poi cambia, lasciando sempre Hugh Williams come solo superstite, ma l’evento accadde secondo il libro il 5 di agosto e non di dicembre. La nota continua affermando che un’altra nave, il 20 maggio del 1842, ignorando i pericoli, stava navigando proprio vicino al punto del tragico evento del 1820, quando iniziò ad imbarcare acqua e andò a fondo, uccidendo tutti i 15 passeggeri eccetto uno, questa volta di nome Richard Thomas.Un altro libro di Francis Coghlan, “Guida al Nord del Galles”, del 1860, racconta gli stessi episodi. Sulla nave affondata nel 1785 poi c’è anche una prova documentata dal libro del reverendo William Bingley intitolato “Nord del Galles, includendo paesaggi, antiquariato ed usanze”, che narra la storia di come Hugh Williams si sia tratto in salvo il 5 dicembre del 1785. Andando avanti negli anni, un’altra storia narra di un peschereccio che il 10 luglio del 1940, venne distrutto da una mina tedesca, due soli uomini si salvarono, zio e nipote, entrambi chiamati Hugh Williams. In ogni caso, coincidenza o no, la storia sembra avere diversi fondamenti di verità, forse un po’ forzati come il fatto del 5 dicembre, che magari era il 5 di agosto, ma rimane il fatto che il nome Hugh Willams porterà qualche fortuna ai malcapitati nelle disgrazie navali (anche se purtroppo c’è un caso di una vittima chiamata Hugh Williams tra i passeggeri del Titanic) almeno nelle acque dello Stretto di Menai.Tra le varie spiegazioni per una simile coincidenza, rimane che in Galles, nei secoli scorsi, nomi come John, William e Thomas erano molto comuni, e c’era la tendenza per i figli di prendere come cognome il nome di battesimo dei loro padri. Ecco allora che il cognome Williams (e cioè “figlio di William”) non era così raro. Circa il luogo degli eventi, lo Stetto di Menai è famoso per essere “il Triangolo delle Bermuda” d’Europa, pericoloso per le sue correnti fortissime (incanalate tra il Mare del Nord e l’Oceano Atlantico) e le onde improvvise causate dalla collisione delle sue correnti. Per concludere, vera o no, la storia rimane un’incredibile leggenda dei mari, da narrare ai propri nipoti, magari rimanendo sulla terraferma o almeno lontani dallo stretto, ovviamente, a meno che uno non si chiami Hugh Williams.(“La storia incredibile dell’inaffondabile Hugh Williams: sarà vero o è solo una leggenda?”, da “Il Britannico” del 23 febbraio 2014, ripreso da “La Crepa nel Muro”).Tre navi affondate, a 160 anni di distanza, tutte e tre nello stesso punto, nello stesso giorno, ed in tutti e tre i casi sono morti tutti i membri dell’equipaggio eccetto un superstite in ogni affondamento e, indovinate, come si chiamavano questi tre superstiti? Tutti e tre Hugh Williams. Sembra una storia ai limiti della realtà e sta circolando su Internet attraverso il video “The Strangest Coincidence Ever Recorded?”, che racconta la storia di 3 navi, tutte affondate nello Stretto di Menai, tra l’isola di Anglesey ed il Galles continentale, tra il 1664 ed il 1820. La prima nave in questione affondò nello stretto il 5 dicembre del 1664. Tutti gli 81 passeggeri perirono, eccetto uno, appunto di nome Hugh Williams. La seconda nave affondò nel 1785, sempre il 5 dicembre, sempre nello stesso stretto, e dei 60 passeggeri a bordo riuscì a salvarsi solo un uomo di nome Hugh Williams. Infine, nel 1820, sempre il 5 dicembre, sempre nello stesso stretto, un vascello affondò trascinando nelle acque i 25 passeggeri, meno, ovviamente, un superstite di nome Hugh Williams.
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Se Trump spegnesse, con un tweet, anche il Sacro Tav
Più inafferrabile del Sacro Graal, più misterioso della Pietra Filosofale, più oscuro dei misteri di Rennes-le-Château su cui Dan Brown ha costruito il “Codice da Vinci”. Il progetto Tav Torino-Lione continua imperterrito la sua corsa ottusa e cieca, lunare, in un’Europa sempre più assurda e sempre più povera, emblema di un Occidente autistico, bellicoso e alle prese con rivolte ormai diffuse, elettorali, dalla Francia di Marine Le Pen alla Brexit, fino all’America di Trump, il presidente che con un tweet, in dieci secondi, ha messo fine persino al supremo tabù, l’intoccabile F-35, l’aereo più pazzo del mondo. Tutto cambia, velocissimamente, tranne una cosa: l’aristotelico Tav della valle di Susa, meno celebre dello stealth della Lockeed-Martin ma altrettanto ridicolo. Il Tav valsusino: “motore immobile”, dimostrazione tolemaica del fatto che, in fondo, la Terra è sempre stata piatta. Non gira attorno al sole, è il contrario. O meglio: può girare quanto vuole, la Terra, ma niente fermerà il sacro mostro ammazza-bilanci e sventra-montagne. Lo sanno tutti, da sempre: quel treno non servirà mai a nessuno, tranne ai Re Mida del denaro pubblico che forse, un giorno, costruiranno la linea ferroviaria più costosa e più inutile della storia dell’umanità.La mitologia del Tav occidentale resiste da decenni, inattaccabile come un dogma, anche se la sua surreale teologia è stata ripetutamente capovolta, relativizzata, rettificata, sminuita. Doveva essere una linea superveloce per passeggeri, con l’avvento dei voli low-cost è diventata una linea medio-veloce per merci, infine solo un tunnel (ma di 50 chilometri) per merci ormai estinte, che non esisteranno più, sulla dimenticata rotta transalpina tra Italia e Francia, nel ventre del Massiccio dell’Ambin gravido d’acque sommerse, rocce di amianto e vene di uranio. Anche i cinesi devastano intere province, ma almeno hanno uno scopo: costruire dighe idroelettriche. Lo scopo del Tav Torino-Lione va invece rintracciato nella metafisica, evidentemente, nella mistica del potere europeo, il potere reale ma impalpabile, fatto di moneta elettronica gestita da terminali alieni, da imperatori alieni come Mario Draghi, a sua volta agli ordini di invisibili Elohim biblici. La religione, appunto: è l’unica categoria che può spiegare, davvero, la natura più intima dell’oscuro potere europeo, da cui promana – anche – l’ostinata superstizione che protegge, ad ogni costo, la grande opera più screditata della storia italiana, bocciata senza appello (devastante, costosa, completamente inutile) da tutti gli esperti indipendenti della penisola, i tecnici, gli specialisti universitari d’ogni ordine e grado.Lo ripete, inutilmente, anche l’autorità elvetica delegata dalla Commissione Europea a monitorare i trasporti transalpini: la valle di Susa dispone già di una ferrovia internazionale Italia-Francia, quella del Fréjus, che è semi-deserta da anni per mancanza di utenza; sulla linea attuale, il traffico merci potrebbe tranquillamente essere incrementato del 900%. Inutile, dunque – per non dire folle, coi tempi che corrono – insistere nell’aprire un secondo traforo, che costerebbe decine di miliardi, a carico di contribuenti stremati dalla crisi. Le autorità svizzere però ragionano, ingenuamente, come Galileo e Copernico, ignorando cioè che l’astrofisica di Roma e Parigi, Bruxelles e Francoforte è ancora e sempre quella di Tolomeo. A motivare così tenacemente i grandi decisori non è scienza, è verità di fede: gli egemoni non si chinano sul volgare cannocchiale per scoprire com’è davvero il cielo, a loro basta e avanza la certezza incrollabile del dogma, che sorregge la visione magica su cui si fonda il presente feudalesimo illuminato, affidato a una schiera di eletti, secondo cui, semplicemente, quella ferrovia della malora si deve fare, punto. Dio lo vuole. E se la plebe protesta, tanto meglio: imparerà, a sue spese, che la voce del padrone non ammette repliche. Gli ordini non si discutono. La legge è una sola, quella dell’obbediente sottomissione.Ingenui come gli svizzeri, anche i valsusini hanno obiettato, appellandosi alla ragione, ancora confidando in Galileo. Promossero studi, scovarono prove, sfilarono in cortei. Brandendo Copernico, nel lontano 2005 si accamparono in massa sui prati destinati al primo cantiere. Intervenne il governo, che li disperse con la forza (spedendoli all’ospedale). Poi cambiò il governo, ma non la teologia: anche per Prodi, come per Berlusconi, la Terra era sempre piatta e assolutamente immobile. Seguirono ancora Berlusconi, poi Monti, poi Letta, poi Renzi. Tutti devoti alla religione di Tolomeo. Nel frattempo, la situazione non fece che peggiorare: fu introdotto stabilmente il germe dell’ostilità, per coltivare con profitto il carburante della rabbia, foriero di nefaste conseguenze – per la plebe, non certo per gli arconti, i re-sacerdoti, i custodi del Sacro Tav. Ogni tanto alla plebe viene concesso qualche effimero sollievo (il voto, persino il referendum), ma l’impianto teologale resta là, granitico, immutabile. E’ sempre lui, il Signore della Banca, a stabilire il prezzo dei sudditi, inclusi i servitori intermedi e le loro precarie carriere.Così, la Talpa tolemaica ancora scava la sua buia galleria – tunnel geognostico, lo chiamano. Fin dove arriverà, nel suo slancio metafisico? Un tempo, l’antica cosmogonia del Tav ne attestava l’origine divina: sarebbe stato il segmento alpino di un Sommo Disegno, chiaramente provvidenziale, destinato a unire l’Atlantico al Mar della Cina: non più semplici sudditi, gli abitanti dell’area interessata dai futuri cantieri, ma entusiasti neo-cittadini, viaggianti, di una nuova repubblica onirica, la Tratta Kiev-Lisbona. Forse c’è stato qualche contrattempo (provvidenziale, anche quello) se oggi il mezzo di trasporto più in voga è diventato il barcone, la scialuppa. Ma guai a sottovalutare il Disegno: la Talpa è inarrestabile, può raggiungere qualsiasi latitudine sotterranea, dal Celeste Impero al Cremlino. Può scavare anche il fondale oceanico e raggiungere le lontane Americhe. Purché non sbuchi, per errore, alla Casa Bianca – a quel punto, forse, con un tweet, persino il Sacro Tav potrebbe fare la fine dell’F-35. Ma l’America è lontana, cantava qualcuno. E, da questa parte dell’Atlantico, nessuno – nemmeno a Roma, tra i più accesi outsider del Parlamento – ha ancora osato sfidare, per davvero, la teologia di Tolomeo e il feudalesimo dei nuovi Elohim, che s’illuminano d’immenso davanti al terminale elettronico che decreta vita e morte, il destino di interi bilanci, la fortuna e la rovina di interi popoli, a lungo illusi da un sogno chiamato democrazia.Più inafferrabile del Sacro Graal, più misterioso della Pietra Filosofale, più oscuro dei misteri di Rennes-le-Château su cui Dan Brown ha costruito il “Codice da Vinci”. Il progetto Tav Torino-Lione continua imperterrito la sua corsa ottusa e cieca, lunare, in un’Europa sempre più assurda e sempre più povera, emblema di un Occidente autistico, bellicoso e alle prese con rivolte ormai diffuse, elettorali, dalla Francia di Marine Le Pen alla Brexit, fino all’America di Trump, il presidente che con un tweet, in dieci secondi, ha messo fine persino al supremo tabù, l’intoccabile F-35, l’aereo più pazzo del mondo. Tutto cambia, velocissimamente, tranne una cosa: l’aristotelico Tav della valle di Susa, meno celebre dello stealth della Lockeed-Martin ma altrettanto ridicolo. Il Tav valsusino: “motore immobile”, dimostrazione tolemaica del fatto che, in fondo, la Terra è sempre stata piatta. Non gira attorno al sole, è il contrario. O meglio: può girare quanto vuole, la Terra, ma niente fermerà il sacro mostro ammazza-bilanci e sventra-montagne. Lo sanno tutti, da sempre: quel treno non servirà mai a nessuno, tranne ai Re Mida del denaro pubblico che forse, un giorno, costruiranno la linea ferroviaria più costosa e più inutile della storia dell’umanità.