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Greta, Sala e Salvini: Trio-Apocalisse della neo-Inquisizione
Vietato respirare, senza il permesso dell’autorità. Nel 2020, due politici italiani gareggiano nel nuovissimo sport: il sindaco di Milano declassa il fumatore al rango di quasi-delinquente, mentre il capo della Lega dà dello spacciatore al ragazzo della porta accanto. Due pagine eroiche della nuova politica italiana che riscrive le leggi in giornata, a colpi di sondaggi, calpestando diritti e libertà. Due crociate – contro la sigaretta e “la droga” – che si trasformano in capitoli della nuova Inquisizione. Bersaglio: il cittadino, un tempo convinto di essere tutelato dall’ordinamento repubblicano. «Il problema di Palermo è il traffico», dice Benigni nel film “Johnny Stecchino”. Per Sala, analogamente, sono i fumatori a rendere irrespirabile l’aria di Milano. Su “Libero”, Vittorio Feltri lo smonta in tre parole: «Prima di vietare il fumo, si spengano le caldaie che soffocano la cittadinanza e impongono il blocco della circolazione solo d’inverno: infatti, quando in primavera si fermano, lo smog non c’è più». Quanto a Salvini, che a Bologna citofona a un giovane tunisino chiedendogli se è vero che sia uno spacciatore, «il gesto è così paradossale che conviene persino augurarsi che quel ragazzo sia davvero uno spacciatore, perché ormai la citofonata rende inutile la verità».Lo afferma Vincenzo Muscatiello, docente di diritto penale all’università di Bari, intervistato dal “Sole 24 Ore”: quel gesto, dice il professore, ha travolto i principi della nostra civiltà. Diffamazione, calunnia, violazione della privacy? «Quello che colpisce – afferma Muscatiello – è l’inutilità giuridica di un gesto che, nella “costruzione del nemico”, contiene l’indifferenza al vero e al giusto, e soprattutto l’idea, spesse volte ripetuta, che la sanzione mediatica debba abitare forme sbrigative e superficiali, aperte al pregiudizio, chiuse alle prove contrarie». Se a Bologna il nemico è “lo spacciatore” (vero, presunto o immaginario, non importa), a Milano il nuovo pericolo pubblico è il fumatore, cui si vieta di accendere sigarette all’aperto, per ora solo nei luoghi affollati. “Greta colpisce ancora”, verrebbe da dire, considerando il gretinismo mediatico universale che ormai attribuisce solo all’uomo la responsabilità del surriscaldamento terrestre, in barba alla storia del pianeta (glaciazioni e periodi torridi) e ignorando gli scienziati che, a centinaia, ripetono che i modelli matematici su cui si basa il neo-millenarismo gretino sono pieni di falle, non superando mai i limiti di una climatologia solo teorica. Ma il punto è un altro: a chi importa, la verità?Il messaggio è inequivocabile: siamo colpevoli. Noi, non i grandi avvelenatori. Noi fumatori, noi cittadini: tutti. E’ un atto di dolore, quello che si pretende: un atto medievale di sottomissione. Non importa se Greta è un idolo delle Sardine, se il rude securitario Salvini è la loro bestia nera, e se Sala (in quota al formidabile Pd) passa per governatore progressista e illuminato. Tutti e tre fanno lo stesso mestiere, e in fondo stanno dalla stessa parte: grazie a loro siamo tutti virtuali colpevoli, anziché presunti innocenti. Greta, Sala e Salvini compiono la stessa operazione: pescano a piene mani in materie complesse e utilizzano vere e proprie tragedie, proponendo non-soluzioni immediate e illusorie, ingiuste e grottesche. Il risultato è identico: vessazioni, per tutti. Nessuno può più sentirsi al sicuro. Altro vantaggio: ancora una volta, il polverone consente di eludere i problemi, quelli veri. E’ il massimo dell’ipocrisia: si condanna senza processo il fumatore (di sigarette o cannabis, a questo punto è uguale) mentre si impongono vaccini polivalenti in batteria, senza spiegarne la necessità né dimostrarne la sicurezza. E si tace sull’allarme medico-scientifico per la diffusione ormai incombente del wireless 5G. Il giorno che Greta, Sala e Salvini si metteranno a parlare di vaccini e 5G, allora saranno più credibili.Vietato respirare, senza il permesso dell’autorità. Nel 2020, due politici italiani gareggiano nel nuovissimo sport: il sindaco di Milano declassa il fumatore al rango di quasi-delinquente, mentre il capo della Lega dà dello spacciatore al ragazzo della porta accanto. Due pagine eroiche della nuova politica italiana che riscrive le leggi in giornata, a colpi di sondaggi, calpestando diritti e libertà. Due crociate – contro la sigaretta e “la droga” – che si trasformano in caposaldi della nuova Inquisizione. Bersaglio: il cittadino, un tempo convinto di essere tutelato dall’ordinamento repubblicano. «Il problema di Palermo è il traffico», dice Benigni nel film “Johnny Stecchino”. Per Sala, analogamente, sono i fumatori a rendere irrespirabile l’aria di Milano. Su “Libero“, Vittorio Feltri lo smonta in tre parole: «Prima di vietare il fumo, si spengano le caldaie che soffocano la cittadinanza e impongono il blocco della circolazione solo d’inverno: infatti, quando in primavera si fermano, lo smog non c’è più». Quanto a Salvini, che a Bologna citofona a un giovane tunisino chiedendogli se è vero che sia uno spacciatore, «il gesto è così paradossale che conviene persino augurarsi che quel ragazzo sia davvero uno spacciatore, perché ormai la citofonata rende inutile la verità».
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Giampaolo Pansa, l’ultimo gigante del giornalismo italiano
Giampaolo Pansa, ovvero: quando il giornalismo in Italia esisteva ancora, sfidava il potere, cercava risposte e incideva sulla cultura del paese. Pesava persino sulla storia politica, registrandone l’attività sismica profonda: come quando il venerato capo dei comunisti italiani, Enrico Berlinguer, scelse proprio lui, Pansa, per annunciare al mondo (cioè agli Usa e all’Urss) che si sarebbe sentito più al sicuro sotto l’ombrello della Nato piuttosto che all’ombra dei carri armati del Patto di Varsavia che avevano invaso l’Ungheria e soffocato la Primavera di Praga. Memorabile, l’intervista concessa al “Corriere della Sera” l’11 giugno 1976: «Di là, all’Est, forse vorrebbero che noi costruissimo il socialismo come piace a loro», gli disse Berlinguer, aggiungendo: «Ma di qua, all’Ovest, alcuni non vorrebbero neppure lasciarci cominciare a farlo, anche nella libertà». Pansa l’avrebbe ribattezzato Re Enrico, chiamando Elefante Rosso il suo partito, contrapposto all’eterna Balena Bianca andreottiana. Un “bestiario” memorabile, il suo, ogni settimana aggiornato su “L’Espresso”. «Sono soltanto alcuni lemmi di un suo personalissimo lessico – ricorda Simonetta Fiori, su “Repubblica” – con cui ha svecchiato la cronaca politica italiana, scrutata con il suo leggendario binocolo ai congressi di partito». In occasione di quello craxiano del ‘91 a Bari, Pansa ribattezzò il veemente Giuliano Ferrara “Cicciopotamo, il socialista islamico”.E’ difficile immaginare il giornalismo italiano senza Giampaolo Pansa, scrive “Repubblica”: è stato protagonista di oltre mezzo secolo di carta stampata. Scomparso a Roma il 12 gennaio all’età di 84 anni, era nato nel 1935 a Casale Monferrato e aveva esordito a 26 anni alla “Stampa”, frequentando poi le redazioni delle testate più autorevoli, «lasciando ovunque una traccia della sua forte personalità: impetuosa, travolgente, anche generosa». La sua firma è legata ai capitoli più importanti della storia italiana, a cominciare dal disastro del Vajont. Sul “Giorno” di Italo Pietra si dedicò a fotografare le trasformazioni dell’Italia del boom, con le contraddizioni del passaggio all’età industriale. Tornato alla “Stampa”, nel 1969 fu incaricato da Alberto Ronchey di scrivere della strage di piazza Fontana. Pochi anni più tardi, al “Corriere”, firmò con Gaetano Scardocchia l’inchiesta che contribuì a svelare lo scandalo Lockeed. Nel 1977 l’approdo a “Repubblica” e l’inizio del suo lungo sodalizio con Eugenio Scalfari, ferocemente anticraxiano. Pietra miliare nell’attività saggistica di Pansa, il bestseller “Carte false” con cui, nel 1986, inquadrò profeticamente i maggiori vizi del giornalismo italiano “dimezzato”, al servizio del potere politico ed economico.In anni più recenti, la sua attività di storico lo ha posto al centro di furiose polemiche con volumi come “Il sangue dei vinti”, che smaschera i retroscena meno eroici della Resistenza: «Storie di stupri e di torture, di cadaveri irrisi e violati, di fucilazioni di massa e crimini gratuiti». Dopo tante pagine scritte «sulla Resistenza e sulle atrocità commesse dai “repubblichini”», disse Pansa a “Repubblica”, «mi è sembrato giusto vedere l’altra faccia della medaglia, ossia quel che accadde ai fascisti dopo il crollo della Repubblica sociale». Alla passione storiografica, Pansa affiancava la felicità di una scrittura narrativa di rara limpidezza. Sul fascismo, Pansa non ha mai cambiato idea: ha definito la Resistenza partigiana la sua «patria morale». Lo ha ricordato ad Aldo Cazzullo, che l’ha intervistato per il “Corriere” nel 2018. La Resistenza come patria morale? «Lo dico ancora. Ma non la Resistenza di chi voleva una dittatura agli ordini di Mosca». L’accusa: «La storia della Resistenza come la conosciamo è quasi del tutto falsa, e va riscritta da cima a fondo». Ancora: «Gli storici professionali ci hanno mentito. Settantatré anni dopo, è necessario essere schietti: molte pagine del racconto che viene ritenuto veritiero in realtà non lo è».Le guerre civili furono due, ricordava Pansa: «Oltre a quella contro i nazifascisti, ci fu la guerra condotta dai comunisti contro chi non la pensava come loro». In pratica: «Gli altri partiti non esistevano, a cominciare dai moderati. Stavano nei Comitati di Liberazione, ma non contavano nulla. Invece i comandanti partigiani non comunisti contavano, e spesso molto. Ma quando iniziavano a opporsi alla supremazia del Pci contavano sempre di meno». L’ottantenne Pansa probabilmente non scorse appieno – neppure voltandosi indietro – la grande manipolazione attorno a Mani Pulite che gambizzò l’Italia spazzando via l’intera classe politica italiana proprio alla vigilia della infelice stagione neo-europea, fatale per il nostro paese. Tendeva a liquidare sotto il peso delle loro colpe i campioni della Prima Repubblica, formidabilmente raccontati soprattutto nei loro difetti, fino a farne caricature magistrali (divertenti, e divertite). La penna acuminata di Pansa, tuttavia, restava lontana mille miglia dallo squadrismo post-giornalistico di oggi, che evita di farsi domande e si limita a colpire gli obiettivi indicati, di volta in volta, dai padroni del mainstream.Formatosi nella sinistra culturale italiana, era giunto a fustigare in modo impietoso sia la sinistra “baronale” dell’ex Pci, sbiadita nell’ossequio al neoliberismo, sia il populismo grillo-leghista, di cui Pansa temeva la possibile deriva fascistoide e xenofoba. Dell’antica classe politica che aveva contribuito a “picconare”, probabilmente Pansa rimpiangeva lo stile. E dopo aver fatto infuriare l’Anpi e la propaganda resistenziale egemonizzata dai post-comunisti, Pansa ricordava con immenso rispetto – anche di recente, sul “Corriere” – la sua storica intervista con il capo del Pci. «Durante tutte le tre ore del nostro colloquio, Berlinguer era rimasto teso come una corda di violino», scriveva, il 2 novembre 2019. «Prima di iniziare invece mi aveva accolto come un parente che incontra un lontano cugino. Mi aveva chiesto di mio padre, di mia madre, dei loro sacrifici per farmi studiare e, infine, della mia laurea all’università di Torino con una tesi dedicata alla guerra partigiana tra Genova e il Po. Mi aveva ascoltato con un’affettuosa attenzione». Alla fine, Berlinguer gli disse: «L’Italia ha bisogno di giovani come lei. Non perda entusiasmo per la cultura, continui a studiare e alla fine avrà reso un servizio al suo paese, la nostra povera Italia».Giampaolo Pansa, ovvero: quando il giornalismo in Italia esisteva ancora, sfidava il potere, cercava risposte e incideva sulla cultura del paese. Pesava persino sulla storia politica, registrandone l’attività sismica profonda: come quando il venerato capo dei comunisti italiani, Enrico Berlinguer, scelse proprio lui, Pansa, per annunciare al mondo (cioè agli Usa e all’Urss) che si sarebbe sentito più al sicuro sotto l’ombrello della Nato piuttosto che all’ombra dei carri armati del Patto di Varsavia che avevano invaso l’Ungheria e soffocato la Primavera di Praga. Memorabile, l’intervista concessa al “Corriere della Sera” l’11 giugno 1976: «Di là, all’Est, forse vorrebbero che noi costruissimo il socialismo come piace a loro», gli disse Berlinguer, aggiungendo: «Ma di qua, all’Ovest, alcuni non vorrebbero neppure lasciarci cominciare a farlo, anche nella libertà». Pansa l’avrebbe ribattezzato Re Enrico, chiamando Elefante Rosso il suo partito, contrapposto all’eterna Balena Bianca andreottiana. Un “bestiario” memorabile, il suo, ogni settimana aggiornato su “L’Espresso”. «Sono soltanto alcuni lemmi di un suo personalissimo lessico – ricorda Simonetta Fiori, su “Repubblica” – con cui ha svecchiato la cronaca politica italiana, scrutata con il suo leggendario binocolo ai congressi di partito». In occasione di quello craxiano del ‘91 a Bari, Pansa ribattezzò il veemente e debordante Giuliano Ferrara “Cicciopotamo, il socialista islamico”.
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Chi era Soleimani e perché l’Iran lo amava: ditelo, a Salvini
All’italica repubblica delle banane, popolata di politici ridicoli, ne mancava giusto uno – Matteo Salvini – che si mettesse a insultare un’intera nazione, festeggiando il vile assassinio del suo leader più amato, Qasem Soleimani. Parlano da sole le immagini delle esequie del carismatico comandante dei Pasdaran: «Il lutto per la morte del generale si può considerare il primo atto di ritorsione dell’Iran, uno straordinario funerale di Stato durato quattro giorni, non uno, e in due paesi diversi», dice la scrittrice iraniana Azadeh Moaveni. Secondo Rasmus Elling, studioso dell’Iran all’università di Copenhagen, le «storiche» immagini trasmesse da Teheran mostrano una forte unità nazionale, più vasta del mero supporto ideologico alla teocrazia degli ayatollah. Per Engel Rasmussen del “Wall Street Journal”, una partecipazione così oceanica non può che essere spontanea: «Una folla così è molto più grande di qualsiasi cosa che lo Stato possa “organizzare”». Come si spiega l’enorme partecipazione al funerale di Soleimani nella capitale dell’Iran, paese che alle ultime elezioni aveva premiato il fronte più moderato guidato dal presidente Hassan Rohani a scapito di quello più conservatore e aggressivo, al quale Soleimani era legatissimo?La risposta la trova “Il Post”, in una ricognizione sulla popolarità del generale Soleimani in Iran. Come ricorda sul “New Yorker” Dexter Filkins, il primo importante giornalista non iraniano a raccontare Soleimani (con un ritratto lungo e completo, nel 2013), l’importanza del generale in patria e in tutto il Medio Oriente era ormai nota da tempo. «La prima cosa da tenere a mente è che Soleimani era molto popolare in Iran», scrive il “Post”. «Aveva servito il paese fin dalla guerra tra Iran e Iraq durata dal 1980 al 1988, cioè il conflitto grazie al quale si era consolidata la rivoluzione khomeinista del 1979», evento che è ricordato ancora oggi come uno dei momenti più importanti della storia recente iraniana: «Basta andare nelle strade di Teheran per rendersene conto, con gli slogan e i murales che ricordano i soldati uccisi nel conflitto, i “martiri”». Negli ultimi anni, aggiunge il “Post”, il regime iraniano aveva reso Soleimani una sorta di figura “leggendaria”: era il comandante che era riuscito a mantenere al sicuro il paese, soprattutto dalla minaccia dell’Isis, che la brigata Al-Quds del generale aveva combattuto in Iraq insieme all’esercito iracheno, e poi in Siria accanto ai russi e ai miliziani libanesi di Hezbollah, in appoggio all’esercito regolare siriano.Da allora, la popolarità di Soleimani era cresciuta esponenzialmente. Nonostante fosse un ultra-conservatore, noto per la spietata durezza dei suoi metodi militari e per la sua vicinanza personale all’ayatollah Alì Khamenei, “guida suprema” dell’Iran dopo Khomeini, nel corso degli anni Soleimani non si era mai schierato apertamente da una parte o dall’altra della politica iraniana. Richiesto di mettersi in gioco, aveva risposto con una lettera a Khamenei: grazie, ma resto al mio posto tra i miei soldati. Ariane Tabatabai, esperta di Iran per la Rand Corporation, dichiara al “New York Times”: «Soleimani aveva una profonda e ampia rete di relazioni nel sistema iraniano, che gli permetteva di lavorare con tutti gli attori chiave». Aveva per esempio rapporti molto stretti con il ministro degli esteri Javad Zarif, considerato un moderato, e allo stesso tempo con Khamenei, a cui riferiva direttamente sul suo operato. La stessa Azadeh Moaveni, che oltre a essere scrittrice è anche analista per l’International Crisis Group, spiega che Soleimani «era diventato un patriarca, per un paese alla deriva», cui i milioni di iraniani presenti ai funerali hanno sicuramente “perdonato” i duri eccessi della temibile forza militare che comandava.Il generale Soleimani «aveva reso sicuro il territorio in un tempo di massacri dello Stato Islamico», aggiunge la Moaveni: per questo, «era visto come un uomo d’onore e di merito, in mezzo a politici che non erano nessuna delle due cose». Negli ultimi anni – aggiunge il “Post” – oltre alla popolarità di Soleimani era cresciuto anche il nazionalismo iraniano, «dovuto soprattutto all’atteggiamento sempre più ostile verso l’Iran mostrato dal presidente Donald Trump e culminato con il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare, faticosamente raggiunto nel 2015 grazie all’impegno dell’allora presidente americano Barack Obama e del governo iraniano guidato dal moderato Rohani». La decisione di Trump «aveva dato nuovi argomenti alla fazione ultraconservatrice, che all’accordo si era sempre opposta, e aveva rafforzato quel sentimento anti-americano che era già presente in ampi settori della società iraniana, e che arrivava da lontano». La morte di Suleimani – aggiunge il “Post” – è stata descritta come un fatto riprovevole, praticamente da tutte le fazioni politiche iraniane, inclusi i giornali meno legati all’élite conservatrice, che hanno parlato di «dolore inconcepibile». «È questo il destino di tutti gli illustri discendenti di questa terra, al di là del loro pensiero e della loro appartenenza?», si domanda lo scrittore Mahmoud Dowlatabadi, spesso censurato dal regime. Dowlatabadi descrive Suleimani come l’uomo che «ha costruito una diga potente contro i massacri dell’Isis e ha reso sicuri i nostri confini dalle brutalità di quel gruppo».All’italica repubblica delle banane, popolata di politici ridicoli, ne mancava giusto uno – Matteo Salvini – che si mettesse a insultare un’intera nazione, festeggiando il vile assassinio del suo leader più amato, Qasem Soleimani. Parlano da sole le immagini delle esequie del carismatico comandante dei Pasdaran: «Il lutto per la morte del generale si può considerare il primo atto di ritorsione dell’Iran, uno straordinario funerale di Stato durato quattro giorni, non uno, e in due paesi diversi», dice la scrittrice iraniana Azadeh Moaveni. Secondo Rasmus Elling, studioso dell’Iran all’università di Copenhagen, le «storiche» immagini trasmesse da Teheran mostrano una forte unità nazionale, più vasta del mero supporto ideologico alla teocrazia degli ayatollah. Per Engel Rasmussen del “Wall Street Journal”, una partecipazione così oceanica non può che essere spontanea: «Una folla così è molto più grande di qualsiasi cosa che lo Stato possa “organizzare”». Come si spiega l’enorme partecipazione al funerale di Soleimani nella capitale dell’Iran, paese che alle ultime elezioni aveva premiato il fronte più moderato guidato dal presidente Hassan Rohani a scapito di quello più conservatore e aggressivo, al quale Soleimani era legatissimo?
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La “teoria del chiasso” oscura la verità sul clima terrestre
Sulla questione climatica, oramai, si sente soltanto chiasso. Chiasso mediatico, chiasso rabbioso, chiasso interessato, genuino, ispirato, malevolo… ma sempre e solo chiasso. Perché il chiasso è il fenomeno che più s’oppone al ragionamento e alla meditazione, unica via per giungere alla sintesi di qualsiasi evidenza naturale, per trovarne una soluzione o, almeno, comprenderne la genesi. Potremmo definire il chiasso come l’antitesi vera e propria della ricerca scientifica. A parte il chiasso, quali sono i dati in nostro possesso? La percentuale di CO2 nell’atmosfera terrestre nel 1975 era di 320 ppm (parti per milione), oggi abbiamo superato le 390 ppm: in 45 anni è aumentata del 22%. Nello stesso periodo, la temperatura media globale è aumentata di circa 0,5 gradi Celsius e i mari sono saliti di circa 40 millimetri. Possono indicarci qualcosa questi pochi dati certi? Il rapporto fra questi dati è provato e riproducibile in laboratorio: se in un laboratorio, a temperatura e illuminazione costanti, immettiamo in un recipiente di vetro una miscela di aria e CO2 ed aumentiamo la CO2, otteniamo un aumento di temperatura, perché l’anidride carbonica (e altri gas) riflettono la radiazione infrarossa che, dal suolo, viene riflessa verso il cielo e la proiettano nuovamente verso terra. Insomma, come in una serra, non la lasciano sfuggire.Il terzo dato necessita di una comparazione; ossia due recipienti, come sopra, con del ghiaccio alla medesima temperatura e peso: in quello a maggior temperatura, nella stessa unità di tempo, si scioglierà una maggior quantità di ghiaccio. Ciò che possiamo provare scientificamente è tutto qui: il resto richiede la preparazione di modelli matematici, poiché un conto è operare un esperimento in laboratorio, un altro espanderlo a livello della biosfera, dove intervengono miliardi d’interazioni delle quali non conosciamo interamente i rapporti, e per questo li indaghiamo con modelli matematici i quali, come ogni modello prodotto dall’uomo, è passibile di critica. Perché il chiasso? Il primo obiettivo dei fautori del chiasso è disperdere la concentrazione, effettuando un’operazione di per sé semplice, soprattutto nei confronti di coloro che non sono molto avvezzi nell’epistemologia delle scienze sperimentali: assegnare il medesimo valore d’inesistenza inerente fra la critica dei modelli matematici e l’evidenza dei dati scientifici. E’ un chiasso un poco furbetto e sempliciotto: in altre parole, se dimostro che il modello matematico è imperfetto, lo saranno anche i dati scientifici che lo alimentano. Il che è pietosamente falso: sarebbe come sostenere, nella costruzione di due grattacieli, che essendo errato in uno dei due il calcolo delle masse e delle relative pressioni, sono errati i concetti fisici di massa e pressione.Più interessante, invece, la critica proveniente dagli ambienti del “complotto”. Si sostiene che, siccome il sistema politico-economico è una piovra che tutto controlla e decide, allora l’evidenza di nuovi ed enormi profitti conduce ad esaltare la necessità di compiere questi interventi, finalizzati ad un maggior profitto per gli azionisti. Nulla da eccepire sotto l’aspetto della critica: nessuno di noi ha mai pensato che le holding economiche del pianeta siano istituti di beneficienza sociale. Il nesso, però – inconsistente – è fra le nuove tecnologie energetiche e l’intervento finanziario. Prima del secolo XVIII, era la nobiltà ad assumersi oneri ed onori per quanto riguardava gli interventi, ma la macchina a vapore sconvolse questi equilibri: troppo grandi gli interventi richiesti, estesi sui cinque continenti, in continua evoluzione. La ferrovia fu il canto del cigno per il potere economico della nobiltà, la quale – anche per altri fattori storici – si vide relegata in un angolo del potere finanziario ed economico. Precisando il fenomeno, nel secolo XIX, per la macchina a vapore e il carbone, furono le banche ad investire e a fare profitti, sorrette dal patrimonio azionario dell’espansione borghese, mentre nel XX secolo s’affermarono mezzi di finanziamento ancor più evoluti, quali fondi d’investimento, fondi pensione, fondi sovrani.Ricapitolando, c’è da operare una distinzione fra sviluppo e ricerca tecnologica e mezzi di finanziamento: mentre i primi possono essere anche frutto di ricerche e sviluppi nati nell’ambito pubblico – gli istituti universitari, ad esempio – i secondi sono quasi interamente rivolti agli investitori privati, siano essi banche o strutture finanziarie. Aprendo una breve parentesi, si può notare come in Italia si sia generato un fenomeno che dire “assai strano” è ancora riduttivo: il sistema autostradale, costruito col finanziamento pubblico, è diventato una gestione privata, in cambio – diciamolo chiaro – di un piatto di lenticchie. E la dimostrazione, lampante, è dei nostri giorni e di cosa sta accadendo. Quindi, è assolutamente normale che il sistema finanziario s’adoperi per entrare e guadagnare nel comparto delle nuove tecnologie energetiche: compito della parte pubblica sarà, invece, definire il quadro degli investimenti per fare in modo che questi interventi non siano “a gamba tesa”. Alternative? Ancor più ampio, come prospettive, è la definizione del sistema economico di riferimento: non si può tacere sul fatto, evidente, che la maggior potenza economica in forte ascesa sia la Cina – la Cina popolare, che si dice ancora comunista, qualsivoglia sia il significato che i dirigenti cinesi assegnano oggi a quel termine (sarebbero, però, analisi che richiederebbero ben altro spazio di un articolo).Il ministro del petrolio saudita, molti anni fa, ebbe a pronunciare una frase profetica: «L’Era della Pietra non terminò certo per la mancanza di pietre, e l’Era del Petrolio potrebbe terminare molto prima dell’esaurimento del petrolio». E se così non fosse, sarebbe un dramma. Oggi, a nostro favore, abbiamo la ricerca tecnologica, la quale è passata da un processo combustione>energia meccanica>energia elettrica alla più semplice captazione diretta dell’energia elettrica, vuoi con la captazione eolica, vuoi con quella fotovoltaica. E molto rimane ancora da esplorare, sul fronte delle energie dalle correnti sottomarine e dal moto ondoso, sull’eolico d’alta quota, sul geotermico, sullo sfruttamento delle biomasse di scarto, sull’idroelettrico da grandi masse e modeste cadute e quanto, sicuramente, ci segnaleranno nel futuro scienza e tecnologia. Perché rifiutare? Non sappiamo cosa significhino quelle 390 ppm di CO2 nell’atmosfera, come non sappiamo cosa ci porterà quel mezzo grado in più, né quei 40 millimetri in più d’acqua negli oceani. Possiamo solo dire che quei miseri 40 millimetri d’innalzamento del livello di mari e oceani significano circa 14.500 miliardi di tonnellate d’acqua in più negli oceani. Non cambierà nulla? Lo cambierà? Non lo sappiamo.Sappiamo però che, qualsiasi mutamento questo quadro porterà, sarà fuori dalle capacità umane, in futuro, porvi rimedio: l’unico atteggiamento da assumere, oggi, è l’elementare principio di prudenza, cercando di salvaguardare un equilibrio che ben conosciamo e nel quale siamo vissuti per migliaia di anni. I mezzi li abbiamo tutti: sarà solo l’ennesima transizione della civiltà umana verso sistemi più evoluti: dalla trazione animale a quella meccanica, alla trazione elettrica. Dall’energia muscolare a quella meccanica, a quella elettrica fino a quella nucleare, che non ha dato i risultati sperati, poiché basta un solo errore (e ce ne sono stati ben due) per condannare intere regioni all’inesistenza per la vita umana. Ci sono gli aspetti economici e finanziari, ma questo non è un principio immutabile – come le leggi della fisica – bensì soltanto un metodo costruito dall’uomo per governare l’economia delle società umane. Se dovesse risultare un errore, un obbrobrio oppure un ostacolo per l’evoluzione umana, basterà rimuoverlo o modificarlo. Questo lo possiamo fare: basta averne consapevolezza.(Carlo Bertani, “Teoria del chiasso”, dal blog di Bertani del 1° gennaio 2020).Sulla questione climatica, oramai, si sente soltanto chiasso. Chiasso mediatico, chiasso rabbioso, chiasso interessato, genuino, ispirato, malevolo… ma sempre e solo chiasso. Perché il chiasso è il fenomeno che più s’oppone al ragionamento e alla meditazione, unica via per giungere alla sintesi di qualsiasi evidenza naturale, per trovarne una soluzione o, almeno, comprenderne la genesi. Potremmo definire il chiasso come l’antitesi vera e propria della ricerca scientifica. A parte il chiasso, quali sono i dati in nostro possesso? La percentuale di CO2 nell’atmosfera terrestre nel 1975 era di 320 ppm (parti per milione), oggi abbiamo superato le 390 ppm: in 45 anni è aumentata del 22%. Nello stesso periodo, la temperatura media globale è aumentata di circa 0,5 gradi Celsius e i mari sono saliti di circa 40 millimetri. Possono indicarci qualcosa questi pochi dati certi? Il rapporto fra questi dati è provato e riproducibile in laboratorio: se in un laboratorio, a temperatura e illuminazione costanti, immettiamo in un recipiente di vetro una miscela di aria e CO2 ed aumentiamo la CO2, otteniamo un aumento di temperatura, perché l’anidride carbonica (e altri gas) riflettono la radiazione infrarossa che, dal suolo, viene riflessa verso il cielo e la proiettano nuovamente verso terra. Insomma, come in una serra, non la lasciano sfuggire.
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Operaio accusa: così Mittal perde (apposta) le commesse
«I commerciali di ArcelorMittal hanno avuto un anno di tempo per “passeggiare” nel nostro pacchetto clienti: se sono in gamba, non ci rimarranno neanche le lacrime per piangere». Così parla “Giovanni”, operaio dell’ex Ilva, in un video girato dal Movimento Roosevelt il 10 dicembre. Ha il viso schermato dalla sciarpa, la voce camuffata: «Tutti, qui, hanno paura a dire certe cose». Una, in particolare: ArcelorMittal lascia le maestranze senza i mezzi necessari per lavorare. Risultato: le commesse vanno a farsi benedire. Sembra un suicidio programmato: «Mancano le attrezzature più elementari, e così il lavoro si ferma». E’ più che un sospetto: sembra il modo per avere poi il pretesto per chiudere Taranto e gli altri stabilimenti del gruppo. «Per un ordine di magazzino ci vogliono 6 autorizzazioni. Immaginate quante telefonate, poi magari il materiale arriva 2-3 mesi dopo. E nel frattempo? E’ così che fermi la produzione: non facendo niente». Durante l’amministrazione Riva, dice “Giovanni”, «chiedevi 2 e ti davano 4: il magazzino aveva anche più del necessario». Per questo, all’epoca, «le linee non si fermavano mai, funzionavano 24 ore su 24». Motivo: «C’era un interesse, che adesso evidentemente non c’è più».Roberto Hechich, dirigente del Movimento Roosevelt, ricorda un’analisi di “Micromega”: «Ci si augura – scriveva la rivista – che il governo italiano non stia davvero considerando l’opzione ArcelorMittal come exit strategy da Taranto, e non “per” Taranto: sarebbe l’inizio di un’era di difficoltà ancora maggiori per la città, per i lavoratori e per la popolazione». Scriveva profeticamente lo stesso Hechich: «Consegnare Taranto al gruppo ArcelorMittal vorrebbe dire la fine della città: la sola ragione per la quale un imprenditore spregiudicato come Mittal potrebbe accollarsi uno stabilimento come quello dell’Ilva, obsoleto e al centro di una questione giudiziaria, sarebbe voler acquisire le commesse Ilva e poi chiudere, così come Mittal ha fatto nel resto d’Europa». In effetti, in Francia, Belgio e Bulgaria, la multinazionale indiana ha acquisito stabilimenti per poi chiuderli, trasferendo la produzione dove il lavoro costa meno (ma mantenendo i prezzi elevati, dato che il prodotto è diventato più scarso). Per Taranto, ricorda Hechich, ArcelorMittal ha battuto una cordata semi-pubblica con Leonardo Del Vecchio di Luxottica e Cdp, la Cassa Depositi e Prestiti.«Nessuno dei nostri dirigenti si aspettava che vincesse Mittal», dice oggi “Giovanni”. «E’ vero, la cordata di Del Vecchio prospettava il sacrificio di più dipendenti, ma anche un cambio di paradigma: per Taranto si parlava di nuove tecnologie». Spiega sempre l’operaio: «Ci può stare, che si tagli il personale, perché – per cambiare sistema – l’altoforno lo devi fermare. Però guardi avanti: con gli anni, sarebbe potuta crescere anche l’occupazione». E invece, siamo in balia di una crisi al buio. «L’acciaio resta strategico per l’Italia», sottolinea Hechich: «Senza l’Ilva ci tocca comprare quello tedesco a prezzi più cari, oppure quello indiano (di qualità inferiore)». a Mittal conviene, chiudere l’Ilva, portandosi via i clienti e facendo produrre l’acciaio in India. «Il prezzo aumenta, se cresce la domanda e cala la disponibilità del prodotto», dice “Giovanni”, pensando all’impatto della crisi sul sistema-paese. «Senza più l’Ilva, tutta l’industria metalmeccanica italiana verrebbe a risentirne». Spiega: «La nostra base industriale è fatta di piccole e medie imprese: immaginiamo cosa voglia dire comprare acciaio dall’estero. Noi in Italia viviamo di meccanica e manifattura, e siamo stati anche i migliori al mondo, in questo campo».Con ArcelorMittal, continua la testimonianza dell’operaio, si è avuto un decadimento completo del lavoro, dopo un periodo di amministrazione straordinaria tutt’altro che facile. Tradotto: meno soldi e meno materiali. Carenza di accessori anche elementari: guanti, tubi, saldatrici. Penuria di lavoro e magazzini vuoti. «Speravamo che con ArcelorMittal tutto questo finisse, e invece ci siamo tristemente resi conto che dall’inizio dell’anno si andava avanti come prima, se non peggio». I dirigenti ripetevano: serve tempo, perché sono cambiati i fornitori. «E intanto i mesi passavano. Siamo arrivati a giugno, e questa penuria continuava». Così è tuttora: «Fermi-macchina di più di un mese perché manca l’abc della lavorazione, anche solo un bullone». Storie allucinanti: «A volte i nostri capireparto sono andati a comprare dei siliconi speciali di tasca loro, viceversa si sarebbero fermate le linee», racconta “Giovanni”. «A volte si è andati avanti grazie a noi operai: ci siamo sempre inventati di tutto e di più, pur di non smettere di lavorare. Adesso però non basta più. Ma così si fermano, le cose: facendo finta di niente». L’amministrazione straordinaria? «Aveva comunque comprato attrezzature, anche costose. Ora invece uno stabilimento è in cassa integrazione da 4 mesi per un guasto a una semplice centralina».L’operaio, portavoce dei colleghi, illumina un quadro desolante: «Gli ordinativi c’erano, ma noi non potevamo produrre perché mancavano i materiali necessari. E così, pian piano, le commesse hanno cominciato a venir meno». Una convinzione: «Secondo me c’era, fin dall’inizio, la volontà di non evadere le commesse», proprio per aggravare la crisi e consentire ad ArcelorMittar di accampare alibi per abbandonare l’Italia. «Un anno fa firmavamo con Arcelor, e accanto al contratto c’era il codice etico: dovevamo denunciare disfunzionalità, se le avessimo notate. Ora invece non c’è più nulla che funzioni. Bella presa in giro: una pantomima». Non solo: «Mittal si è lamentata del costo del nostro acciaio, proveniente dal minerale puro e non da rottami, e ne ha abbassato la qualità». E adesso? Appunto: la paura è che tutto finisca, dopo aver costretto gli operai a interrompere il lavoro, lasciandoli senza la strumentazione necessaria. «E’ incredibile sentire come il vissuto quotidiano sia molto più semplice di come viene presentato sugli schermi televisivi e politici», dice Marco Moiso, vicepresidente del Movimento Roosevelt, anche lui in collegamento video con “Giovanni”. «Ci sono persone disposte quasi a morire, per un lavoro che si sa che fa male (a chi lavora, e alla città di Taranto). Eppure, di lavoro c’è bisogno».«E’ chiaro che lo Stato deve tornare a giocare un ruolo, nell’economia. L’Italia è ancora il settimo produttore mondiale di acciaio, perdere l’Ilva avrebbe costi economici insostenibili». Per l’economista Nino Galloni, altro vicepresidente “rooseveltiano”, nel caso dell’ex Ilva «ci sono le condizioni perché lavoratori e management si uniscano, allo scopo di prendere in gestione l’azienda evadendo le commesse e salvaguardando la produzione». Secondo Galloni, «un volano finanziario può esser dato dalla capitalizzazione degli ammortizzatori sociali per circa 400 milioni all’anno». La scommessa, aggiunge, sarà sul mantenimento dei livelli competitivi internazionali: «Se poi la sfida su quei mercati non funzionasse, si aprirebbe l’alternativa tra la nazionalizzazione e forme protezionistiche». Galloni però resta «ottimista sulle nostre capacità tecnologiche di stare al passo coi tempi». Il problema, infatti, è politico: servono soldi. Ristrutturare Taranto con la tecnologia all’idrogeno, come a Linz in Austria? «Costerebbe 4-500 milioni per ogni milione di tonnellate prodotte», sintetizza l’operaio “Giovanni”. «Noi produciamo 8 milioni di tonnellate l’anno, quindi servirebbero 4 miliardi. In cambio avremmo un polo siderurgico all’avanguardia, non pericoloso per gli operai e non più inquinante per la città. Con un impianto del genere, poi, la facoltà di ingegneria di Taranto sfornerebbe fior di tecnici. Ma chi metterebbe quei 4 miliardi?».Lo Stato, risponde Roberto Hechic: non esistono alternative. «L’unica possibilità è che lo Stato ristrutturi gli impianti e risolva il problema ambientale. Poi si può anche rivendere l’acciaieria, ma le partecipate che funzionano bene (Fincantieri, Leonardo) mantengono comunque una quota statale, una “golden share”». Nel frattempo, gli operai soffrono. «A Taranto – dice ancora “Giovanni” – oggi si va avanti come negli anni ‘50, pure col senso di colpa: la fabbrica inquina la città, ma il lavoro manda avanti le famiglie. Vi sembra giusto, insistere con un metodo di produzione che uccide? E vi pare giusto che agli operai non si offrano alternative? E’ logorante, ve lo assicuro». La cosa è ancora più indisponente, chiosa Marco Moiso, se si pensa che «ci siamo appena impegnati per 120 miliardi con il Mes». E dunque, «non spendiamo 4 miliardi per una risorsa assolutamente strategica come il nostro acciaio, che oltretutto è tra i migliori al mondo?».«I commerciali di ArcelorMittal hanno avuto un anno di tempo per “passeggiare” nel nostro pacchetto clienti: se sono in gamba, non ci rimarranno neanche le lacrime per piangere». Così parla “Giovanni”, operaio dell’ex Ilva, in un video girato dal Movimento Roosevelt il 10 dicembre. Ha il viso schermato dalla sciarpa, la voce camuffata: «Tutti, qui, hanno paura a dire certe cose». Una, in particolare: ArcelorMittal lascia le maestranze senza i mezzi necessari per lavorare. Risultato: le commesse vanno a farsi benedire. Sembra un suicidio programmato: «Mancano le attrezzature più elementari, e così il lavoro si ferma». E’ più che un sospetto: sembra il modo per avere poi il pretesto per chiudere Taranto e gli altri stabilimenti del gruppo. «Per un ordine di magazzino ci vogliono 6 autorizzazioni. Immaginate quante telefonate, poi magari il materiale arriva 2-3 mesi dopo. E nel frattempo? E’ così che fermi la produzione: non facendo niente». Durante l’amministrazione Riva, dice “Giovanni”, «chiedevi 2 e ti davano 4: il magazzino aveva anche più del necessario». Per questo, all’epoca, «le linee non si fermavano mai, funzionavano 24 ore su 24». Motivo: «C’era un interesse, che adesso evidentemente non c’è più».
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Pino Aprile: truccati gli archivi, nascosto il genocidio del Sud
Come nasce la storiografia italiana? Nasce con un atto del 1830 da un piccolo, ristrettissimo gruppetto – parliamo di 2-3 famiglie: nessuno di loro aveva mai scritto o insegnato storia. Persone di buona cultura, normalmente di ambiente cattolico molto tradizionalista, alla De Maistre; individui nobili, possidenti terrieri, di strettissima osservanza sabauda. Le regole sono: vanno distrutti tutti i documenti che gettano ombre sulla dinastia. Quelli che non vengono distrutti devono essere classificati e collocati in un archivio segreto, inviolabile. Un’altra parte deve finire in archivi controllati da loro. Quella mostrata dev’essere una piccola parte. Saranno gli archivisti a scegliere a chi far vedere i documenti, controllando (in corso d’opera) come li usano. E chi poi scriverà di quei documenti dovrà prima sottoporre ai controllori l’elaborato, in modo che si decida se potrà essere pubblicato oppure no. Tutto questo è documentato dall’Istituto Studi Storici del Risorgimento (la massima autorità, il professor Umberto Levra, già docente all’università di Torino e presidente dell’associazione dei docenti di storia risorgimentale). Viene documentato come il Re in persona, per “aggiustare” la storia, strappasse documenti e lettere dei suoi familiari.
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Moiso: l’illusione del sovranismo, funzionale al neoliberismo
E’ grazie agli amici sovranisti che, oggi, si sente parlare di neoliberismo: dalle parti della sedicente sinistra non si sono proprio accorti di cosa sta succedendo nel mondo. Soprattutto non hanno visto la relazione che c’è tra democrazia ed economia, e come certi modelli economici possano ostacolare i processi democratici. Ma è interessante anche vedere l’analisi che gli amici sovranisti fanno del neoliberismo. Cos’è il neoliberismo? E’ una dottrina economica che poi diventa ideologia, con dogmi quasi religiosi, e – a cascata – una serie di conseguenze a livello valoriale e sociale. E’ una teoria che nasce dall’austriaco Friedrich von Hayek nel dopoguerra. Von Hayek ha un interesse nobile: non ritiene che la politica e gli Stati possano evitare le guerre. Cerca di dare questa responsabilità a dei processi economici: vuole una teoria economica che si sostituisca ai governi nel garantire la pace tra gli Stati. Ma non fa i conti con quello che questo comporta a livello di democrazia, di sovranità popolare sostanziale. Il suo erede sarà Milton Friedman, dell’università di Chicago. Al neoliberismo di von Hayek si oppone un altro pensiero economico: quello liberale tradizionale, dell’inglese John Maynard Keynes (uno dei suoi maggiori allievi è stato John Kenneth Galbraith).E il pensiero keynesiano, di fatto, è quello su cui è stato fondato il benessere della società occidentale. Dal dopoguerra agli anni ‘70, la società occidentale si è sviluppata grazie al pensiero di Keynes e di persone come William Beveridge, che hanno organizzato in Inghilterra il Welfare State poi replicato in tutto il mondo. Quel pensiero rovesciò l’analisi dei fattori che contribuiscono a un’economia florida. Fino a quel momento si pensava che la cosa più importante fossero i mezzi di produzione. Da Keynes in poi il ragionamento si inverte: il grande economista britannico è il primo a mettere l’accento sull’importanza che ha il potere d’acquisto, il consumo, nel determinare il benessere di un’economia. Queste teorie sono quelle su cui si è basato il mondo occidentale fino agli anni Settanta. Poi dai Settanta succede qualcos’altro: partendo dall’Africa, come spiega molto bene Ilaria Bifarini, si cominciano a testare le teorie economiche neoliberiste, che poi sono arrivate in Europa negli anni ‘90. E sono teorie che vedono un ruolo sovraordinato dei mercati rispetto alla politica. Von Hayek dice: le ideologie servono a far capire alle persone che è nel loro interesse utilizzare lo Stato per mantenere il controllo per esempio sui beni pubblici e sull’industria, sulla siderurgia (pensiamo all’Ilva), sull’agricoltura. E dice: questa cosa va eliminata, i mercati devono essere liberi. E lo Stato non si deve più intromettere nell’economia.Oggi sentiamo spesso ripetere che le ideologie sono morte. Guardate che la definizione di ideologia nel dizionario Treccani è interessante: un’ideologia non è altro che un sistema di valori che serve a ordinare il pensiero. Senza un’ideologia, come si fa a valutare se le idee politiche sono buone o no? Se non c’è uno schema di riferimento, non abbiamo nulla da utilizzare per valutare la bontà delle nostre idee. Ovvio: solo chi pensa che la politica non debba svolgere un ruolo all’interno della società può dire che le ideologie non servono, perché dev’essere il mercato a dettare l’intero funzionamento della società. Dico questo pensando agli amici sovranisti, per parlare di Europa: è von Hayek che teorizza un’Europa esattamente come quella che esiste oggi. Lui dice: bisogna creare un mercato unico, in modo che la politica degli Stati nazionali venga depotenziata. In sostanza: creato il mercato unico, entrano in competizione le forze produttive e il mercato del lavoro di diverse nazioni; gli Stati non possono più agire sulla società, e così creiamo le condizioni migliori per liberare il mercato.L’argomento di Hayek, poi ripreso dalla Thatcher, è questo: non bisogna sostituire gli Stati nazionali con un sovra-Stato, cioè un nuovo contenitore politico. Bisogna lasciare che i popoli vengano amministrati a livello territoriale dai governi locali, mentre l’economia deve viaggiare a livello comunitario. In alternativa, aggiunge Hayek, in caso di problemi sociali bisogna tornare al ruolo degli Stati sovrani: perché ormai l’economia si è globalizzata, e uno Stato sovrano non avrebbe comunque più i sistemi e le leve per combattere le dinamiche dei mercati globali. Addirittura la Thatcher, nel suo libro “Statecraft” del 2002, usa molto bene gli argomenti classici che oggi sentiamo utilizzare dai sovranisti. Dice: in Europa parliamo lingue diverse, abbiamo culture diverse, abbiamo economie diverse, e quindi non dobbiamo creare gli Stati Uniti d’Europa. Questo risponde sempre alla visione neoliberista, che non vuole uno Stato che si intrometta nell’economia per tutelare gli interessi dei popoli. Questa è esattamente la visione neoliberista.Tutto il pensiero sovranista, quindi, è strumentale al pensiero neoliberista – al punto che è stato proprio teorizzato da loro, da von Hayek, dalla Thatcher, da Friedman. Se ne parla in tutti gli scritti di filosofia economica degli autori neoliberisti: o l’Europa diventa un mercato unico, con gli Stati nazionali al di sotto di esso, incapaci di tutelare gli interessi del popolo, o in alternativa si deve ritornare agli Stati nazionali, a quel punto costretti a competere con dinamiche sovranazionali, verso le quali non possono fare nulla. Lo si capisce perfettamente leggendo l’economista belga Philippe Van Parijs, che ha avuto una fitta corrispondenza con John Rawls. Discutevano di questo: come combattere il neoliberismo su scala globale. E Parijs parla proprio di un’Europa federale, che deve servire a dimostrare la validità di un diverso modello economico. Dice Van Parijs: se oggi vogliamo creare una società prospera, in Europa, dobbiamo tornare a politiche keynesiane (post-keynesiane), e soprattutto rivendicare la sovranità dei popoli, e la sovranità del popolo all’interno delle istituzioni europee. E in questo modo potremo anche dimostrare che altre teorie economiche sono credibili e realizzabili su scala globale.Agli amici sovranisti vorrei solo dire che, nonostante siano gli unici ad aver analizzato negli ultimi tempi il pensiero neoliberista, in realtà continuano a proporre soluzioni che sono proprio strumentali all’affermazione dei valori e del modello neoliberista. Forse bisogna rivalutare il tema della differenza di lingua e di cultura. Chiunque abbia viaggiato sa bene che i popoli europei sono molto simili, perché hanno una cultura profondamente umanistica. Al centro delle nostre priorità noi mettiamo ancora l’uomo: non l’economia, non il profitto, non la collettività in senso aleatorio. E questo è il cardine che deve guidare il cambiamento: l’idea di uno Stato sociale e della rappresentatività della volontà popolare, che sono peculiarità dell’eredità dei popoli europei. E questo è un collante fortissimo, che va usato per lanciare un progetto alternativo per il futuro.(Marco Moiso, “Il sovranismo nazionalista è strumentale al neoliberismo”, video-intervento pubblicato sul canale YouTube del Movimento Roosevelt il 18 novembre 2019).E’ grazie agli amici sovranisti che, oggi, si sente parlare di neoliberismo: dalle parti della sedicente sinistra non si sono proprio accorti di cosa sta succedendo nel mondo. Soprattutto non hanno visto la relazione che c’è tra democrazia ed economia, e come certi modelli economici possano ostacolare i processi democratici. Ma è interessante anche vedere l’analisi che gli amici sovranisti fanno del neoliberismo. Cos’è il neoliberismo? E’ una dottrina economica che poi diventa ideologia, con dogmi quasi religiosi, e – a cascata – una serie di conseguenze a livello valoriale e sociale. E’ una teoria che nasce dall’austriaco Friedrich von Hayek nel dopoguerra. Von Hayek ha un interesse nobile: non ritiene che la politica e gli Stati possano evitare le guerre. Cerca di dare questa responsabilità a dei processi economici: vuole una teoria economica che si sostituisca ai governi nel garantire la pace tra gli Stati. Ma non fa i conti con quello che questo comporta a livello di democrazia, di sovranità popolare sostanziale. Il suo erede sarà Milton Friedman, dell’università di Chicago. Al neoliberismo di von Hayek si oppone un altro pensiero economico: quello liberale tradizionale, dell’inglese John Maynard Keynes (uno dei suoi maggiori allievi è stato John Kenneth Galbraith).
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Della Luna: la lotta all’odio nasconde la schiavitù per debiti
«Le persistenti campagne istituzionali e mediatiche contro l’espressione di idee e sentimenti di odio, razzismo, nazismo, fascismo, stanno producendo effetti contrari a quelli dichiarati, cioè stimolano e confermano nella gente proprio quelle idee e quei sentimenti». Secondo Marco Della Luna, «la gente sembra percepire che si tratta di montature strumentali ed esagerazioni isteriche adoperate dalla casta e dai suoi ‘intellettuali’ per non parlare dei mali veri e presenti, di cui essa è responsabile: disoccupazione, impoverimento, continua perdita di efficienza, di prospettive, e i continui fallimenti di governanti incapaci e falsi». Per l’avvocato e saggista, autore di “Euroschiavi”, la causa di questi mali socio-economici italiani sta in alcuni precisi fattori di moneta e mercato: l’Italia è inserita in un sistema in cui, partendo da condizioni di svantaggio in quanto a debito pubblico e liquidità di sistema, deve competere con paesi più efficienti, con un cambio monetario bloccato (cioè senza poter svalutare la propria moneta per recuperare competitività), subendo un mercato commerciale non protetto da barriere doganali. Impossibile limitare la fuga di capitali, né concedere aiuti di Stato alle proprie industrie, tentate di vendersi agli stranieri o emigrare all’estero.L’Italia deve competere «sottostando al potere legislativo, fiscale e politico di un’Unione Europea diretta proprio dai paesi competitori controinteressati (che adattano le regole ai propri interessi), e senza nemmeno il meccanismo federale della condivisione del debito pubblico con redistribuzione dei surplus verso le aree in difficoltà (come avviene negli Usa)». Ovvio che, in queste condizioni, per Della Luna «l’Italia non ha speranze di risanarsi e risollevarsi: è matematicamente spacciata, chiunque sia al governo, e la gente starà sempre peggio, sarà sempre più povera, più tassata, più privata di servizi, più esclusa dalle decisioni, più gestita da investitori e decisori stranieri». A un livello più profondo e globale, di cui non si parla nei mass media, la causa dei mali economici è sempre nel sistema monetario, ma in un senso ulteriore: «Per scambiare i beni e i servizi che producono, i soggetti economici (persone, aziende, enti pubblici) sono costretti a servirsi, prendendola a prestito contro interesse, di moneta», la quale «è prodotta (a costo zero) in regime di monopolio da un cartello bancario in mano a poche persone».Dato che tutta la moneta è immessa nel mercato come prestito (debito) soggetto a interesse composto, costantemente deve essere presa a prestito ulteriore moneta. Questo rende i produttori di ricchezza reale, nell’insieme (quindi anche la società nel suo complesso e lo Stato stesso) sempre più indebitati verso i produttori di moneta, sia in termini di capitale che in termini di interessi, «finché il debito capitale espropria tutto il risparmio e gli interessi espropriano tutto il reddito, e si finisce a lavorare come schiavi per pagare gli interessi su un debito inestinguibile». L’obiettivo del capitalismo neoliberista, cioè il modello dominante e adottato dalla Ue, «è la generale schiavitù per debito, e ci siamo vicini», sostiene della Della Luna. «Questo esito viene accelerato dai banchieri con le note manovre di “pump and dump”, cioè di allargamento-restringimento del credito, organizzati ad arte: le bolle di mercato». Ovviamente, la posizione di monopolio dei “padroni della moneta” è tutt’uno con una posizione di potere politico «soprastante a quello dei governi e dei parlamenti (e di potere culturale soprastante a quello dell’accademia)».Matematico: «Uno Stato che, per funzionare (per finanziarsi), dipende da una moneta che non controlla e che gli deve essere prestata da speculatori internazionali privati, riceve la politica economica ed estera da questi medesimi speculatori come condizionalità: non ha alcuna autonomia decisionale sostanziale». Questo tipo di Stato, osserva Della Luna, non fa neppure più le privatizzazioni: è già esso stesso privatizzato. Essenzialmente, «non è al servizio dei cittadini e non li può rappresentare, bensì è al servizio dei suoi finanziatori, che lo usano come schermo e capro espiatorio per deresponsabilizzarsi dei mali che essi causano alle popolazioni nel perseguire i propri interessi e disegni globali». Per queste ragioni, il modello socioeconomico in atto è imposto senza alternative. «Il sovranismo, il populismo, il socialismo, la dottrina sociale della Chiesa, come ogni critica del suddescritto modello di potere monetario sulla politica, possono aver successo sul piano teorico, ma non hanno alcuna possibilità di affermarsi su quello politico e concreto», perché per farlo dovrebbero abbattere, su scala perlomeno continentale, «un sistema immensamente potente di interessi contrari».Consci di ciò, Salvini e di Maio, che erano partiti da posizioni incompatibili con alcuni aspetti (peraltro secondari) del sistema, «avvicinandosi al potere si sono ravveduti e allineati ideologicamente ad esso, dichiarandosi per l’euro, per l’Unione Europea e per la sua dottrina economica». Inutile illudersi che la politica – almeno, quella in campo oggi, con l’attuale offerta elettorale – possa davvero risollevare le sorti di un paese come l’Italia, da decenni costretto all’avanzo primario: lo Stato incamera con le tasse più soldi di quanti ne spenda per famiglie e aziende, in termini di servizi. Un siffatto sistema di dominio, conclude Della Luna, «potrà cadere solo per effetto di una rottura interna, oppure di una catastrofe globale climatica o geofisica o biologica o bellica». Ma la sua naturale evoluzione, che l’autore ha descritto nel saggio “Tecnoschiavi”, ormai procede «verso la tecnocrazia assoluta, zootecnica».«Le persistenti campagne istituzionali e mediatiche contro l’espressione di idee e sentimenti di odio, razzismo, nazismo, fascismo, stanno producendo effetti contrari a quelli dichiarati, cioè stimolano e confermano nella gente proprio quelle idee e quei sentimenti». Secondo Marco Della Luna, «la gente sembra percepire che si tratta di montature strumentali ed esagerazioni isteriche adoperate dalla casta e dai suoi ‘intellettuali’ per non parlare dei mali veri e presenti, di cui essa è responsabile: disoccupazione, impoverimento, continua perdita di efficienza, di prospettive, e i continui fallimenti di governanti incapaci e falsi». Per l’avvocato e saggista, autore di “Euroschiavi”, la causa di questi mali socio-economici italiani sta in alcuni precisi fattori di moneta e mercato: l’Italia è inserita in un sistema in cui, partendo da condizioni di svantaggio in quanto a debito pubblico e liquidità di sistema, deve competere con paesi più efficienti, con un cambio monetario bloccato (cioè senza poter svalutare la propria moneta per recuperare competitività), subendo un mercato commerciale non protetto da barriere doganali. Impossibile limitare la fuga di capitali, né concedere aiuti di Stato alle proprie industrie, tentate di vendersi agli stranieri o delocalizzarsi scappando all’estero.
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Attorno a noi 10.000 pianeti, la Nasa: li stiamo scoprendo
Attorno a noi, a meno di 50 anni luce, ci sono più di 1.500 stelle. E attorno ad esse, orbitano migliaia di pianeti, molti dei quali con una struttura rocciosa e caratteristiche simili a quelle della Terra. Magari, qualcuno potrebbe persino ospitare la vita. Al momento non sappiamo neppure se esistono davvero: il 99% di questi “esopianeti” relativamente vicini non è ancora stato scoperto. Ma tutto starebbe per cambiare grazie a Tess, il telescopio spaziale della Nasa da poco in orbita sopra le nostre teste. A parlarne è un articolo pubblicato online dalla rivista “The Conversation” e scritto da due astrofisici, Daniel Apai (Università dell’Arizona) e Benjamin Rackham (Mit di Boston), entrambi convinti che nel giro di pochi anni il “Transiting Exoplanet Survey Satellite”, insieme agli altri telescopi da terra, riuscirà a scovare migliaia di mondi per ora ignoti. Lo spiega la giornalista Sabrina Pieragostini sul blog “Extremamente”: «Non solo gli studiosi avranno una comprensione migliore dei pianeti alieni che ci circondano, ma avranno anche dei precisi obiettivi sui quali puntare la loro attenzione (e le loro strumentazioni di ultima generazione) alla ricerca di segni di vita».In poco più di un anno, Tess ha già identificato oltre 1.200 potenziali corpi planetari: di questi, 29 sono già stati confermati. «Considerando l’eccezionale capacità del telescopio spaziale di analizzare in contemporanea decine di migliaia di stelle, gli scienziati pensano che entro la fine della missione il “cacciatore” della Nasa dovrebbe essere in grado di scovare almeno 10.000 nuovi mondi». Secondo Apai e Rackham, «questi sono tempi entusiasmanti, per gli astronomi e soprattutto per coloro che indagano sugli esopianeti». Scopo della ricerca: scovare mondi extrasolari, «per capire le loro proprietà e il loro potenziale per ospitare la vita». Tra le ultime scoperte c’è Proxima B, un pianeta che orbita attorno a Proxima Centauri (una piccola nana rossa, invisibile a occhio nudo: una degli oltre 100 miliardi di stelle della Via Lattea). Eppure, Proxima Centauri è importantissima per i ricercatori, perché è la più vicina al nostro Sole e sopratutto perché, come scoperto nel 2016, illumina e riscalda un mondo misterioso e affascinante, di cui gli scienziati conoscono ancora pochissimo.Proxima B non è mai stato visto da un telescopio. «Ma sappiamo che esiste – dicono gli astrofisici – a causa della sua attrazione gravitazionale sulla stella ospite, che la fa oscillare leggermente». Primi indizi: «Proxima B ha molto probabilmente una composizione rocciosa simile a quella terrestre, ma di massa superiore. Riceve circa la stessa quantità di calore che la Terra riceve dal Sole. E questo è ciò che rende questo pianeta così eccitante: si trova nella zona “abitabile” e potrebbe avere proprietà simili a quelle della Terra, come una superficie, acqua liquida e – chi lo sa? – forse anche un’atmosfera che porta i segni chimici rivelatori della vita». A dircelo potrebbe essere proprio Tess, che scandaglia lo spazio usando il metodo del transito: rileva i minimi cali di luminosità di una stella al passaggio di un pianeta. «Con questo sistema, a differenza di quello basato sull’oscillazione stellare, gli astronomi riescono a calcolare anche la dimensione del corpo in orbita, che può essere ulteriormente studiato per determinarne la densità e le composizioni atmosferiche, tutte informazioni preziose per stabilire la compatibilità con la vita».I candidati preferiti dai ricercatori sono i piccoli esopianeti in orbita attorno alle nane rosse, stelle con masse pari a circa la metà di quella del Sole. «Ognuno di questi sistemi è unico», spiegano Apai e Rackham. «Ad esempio, LP 791-18 è una nana rossa a 86 anni luce dalla Terra attorno alla quale Tess ha trovato due mondi. Il primo è una “super-Terra”, un pianeta più grande del nostro, ma probabilmente ancora per lo più roccioso, e il secondo è un “mini-Nettuno”, un pianeta più piccolo di Nettuno ma ricco di gas e ghiaccio. Nessuno di questi pianeti ha equivalenti nel nostro sistema solare». Finora il telescopio non ha trovato delle repliche perfette della Terra. Uno dei favoriti degli astronomi, LHS 3884B, si è rivelato un mondo infernale: dai dati di Hubble, risulta privo di atmosfera e con temperature che passano da 700 °C a mezzogiorno fino allo zero assoluto (-460 Fahrenheit) a mezzanotte. Probabilmente, i gemelli terrestri si nascondono vicino alle stelle più fredde, quelle con temperature di circa 2700 °C. Ma proprio l’estrema debolezza di questi astri rende la ricerca complicata, soprattutto per Tess e per i suoi piccoli quattro obiettivi con un diametro di 10 centimetri.Dove fallisce il telescopio spaziale, però, spesso hanno successo quelli terrestri, dotati di ottica e lenti molto più potenti». E’ il caso del sistema solare Trappist-1, scoperto dall’omonimo telescopio posizionato a La Silla, nel deserto cileno di Atacama. «Scansionando le più flebili tra le nane rosse alla ricerca di infinitesimali cali di luminosità – spiega Pieragostini – lo strumento utilizzato da un’équipe di astronomi belgi ha individuato il passaggio di ben sette pianeti di dimensioni più o meno simili a quella della Terra attorno a questa stella ultra-fredda a circa 40 anni luce da noi. Sulla scorta di questo precedente, ora una serie di telescopi posizionati in diversi paesi (uno anche in Italia), coordinati dai progetti Eden e Speculoos, come tanti occhi elettronici sempre puntati al cielo osservano continuamente le nane rosse alla ricerca dei mondi di dimensioni terrestri che transitano davanti ad esse». Attenzione: nel prossimo decennio, le scoperte dovrebbero moltiplicarsi: entro il 2025, si presume che Tess troverà tra i 5 e i 10.000 potenziali esopianeti. Entro il 2030, poi, i ricercatori ne prevedono 20-35.000 dalle missioni Gaia e Plato dell’Esa. «Molti di questi mondi possono essere studiati nei minimi dettagli, inclusa la ricerca di segni di vita», concludono Apai e Rackham.Attorno a noi, a meno di 50 anni luce, ci sono più di 1.500 stelle. E attorno ad esse, orbitano migliaia di pianeti, molti dei quali con una struttura rocciosa e caratteristiche simili a quelle della Terra. Magari, qualcuno potrebbe persino ospitare la vita. Al momento non sappiamo neppure se esistono davvero: il 99% di questi “esopianeti” relativamente vicini non è ancora stato scoperto. Ma tutto starebbe per cambiare grazie a Tess, il telescopio spaziale della Nasa da poco in orbita sopra le nostre teste. A parlarne è un articolo pubblicato online dalla rivista “The Conversation” e scritto da due astrofisici, Daniel Apai (Università dell’Arizona) e Benjamin Rackham (Mit di Boston), entrambi convinti che nel giro di pochi anni il “Transiting Exoplanet Survey Satellite”, insieme agli altri telescopi da terra, riuscirà a scovare migliaia di mondi per ora ignoti. Lo spiega la giornalista Sabrina Pieragostini sul blog “Extremamente“: «Non solo gli studiosi avranno una comprensione migliore dei pianeti alieni che ci circondano, ma avranno anche dei precisi obiettivi sui quali puntare la loro attenzione (e le loro strumentazioni di ultima generazione) alla ricerca di segni di vita».
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Cina: primi ibridi scimmia-uomo, Ogm. La storia si ripete?
La Cina esibisce scimmie modificate con geni umani: macachi super-intelligenti. La storia si ripete? Secondo i sumeri, i misteriosi Anunnaki venuti dallo spazio ottennero l’homo sapiens clonando gli ominidi. La tesi, avanzata da Zecharia Zitchin, è stata richiamata dal biblista Mauro Biglino, secondo cui la Genesi svela che gli altrettanto misteriosi Elohim, come Yahwè (trasformati poi nel Dio unico del monoteismo) fabbricarono gli Adamiti geneticamente, impiantando sugli uomini primitivi il loro Tselem (Dna). Si sarebbe trattato, in sostanza, di una potente “accelerazione evolutiva”, oggi ritenuta teoricamente possibile da biologi molecolari come Pietro Buffa, già in forza al King’s College di Londra. A far discutere è un nuovo esperimento, che la “Stampa” definisce «ben oltre i limiti dell’etica, tanto per cambiare effettuato in Cina». I ricercatori del Kunming Institute of Zoology hanno annunciato di aver ottenuto delle scimmie transgeniche, nel cui Dna sono stati trasferiti geni che controllano lo sviluppo del cervello umano. Gli animali, riporta la rivista del “Mit Technology Review”, hanno riportato risultati brillanti in alcuni test. L’esperimento, che ha già suscitato diversi dubbi etici, è stato descritto sulla rivista cinese “National Science Review” e sui media locali. Secondo i ricercatori cinesi, i macachi modificati hanno eseguito test cognitivi di memoria con risultati superiori alla media delle scimmie non transgeniche.I loro cervelli si sono sviluppati in tempi più lunghi, raggiungendo però le stesse dimensioni delle scimmie non-Ogm, contrariamente alle previsioni dei ricercatori che pensavano che sarebbero stati più grandi. Per il genetista che ha eseguito l’esperimento, il dottor Bing Su, «questo è stato il primo tentativo di capire l’evoluzione della cognizione umana con un modello di scimmia transgenica». Lo studio è stato però criticato in Occidente, dove gli esperimenti sui primati sono sempre più difficili da condurre per motivi etici. «L’uso di scimmie transgeniche per studiare i geni umani è una strada rischiosa da prendere: è la classica china scivolosa», afferma il genetista James Sikela, dell’Università del Colorado. Attualmente – ricorda sempre la “Stampa” – solo la Cina ha ottenuto scimmie transgeniche, utilizzando la tecnica Crispr che “copia e incolla” il Dna. Lo scorso gennaio un altro istituto cinese aveva annunciato di aver prodotto alcuni cloni di scimmia con un gene che nell’uomo è legato all’autismo. Questi esperimenti, sottolinea Carlo Alberto Redi, genetista dell’Università di Pavia, sono vietati in tutto il mondo occidentale. Redi li considera «esperimenti che qui sono inaccettabili dal punto di vista etico», visto che «non si possono umanizzare i primati». E se invece la scienza occidentale usasse proprio la Cina per aggirare le nostre barriere etiche?E’ quello che hanno fatto scienziati spagnoli: hanno confermato di avere collaborato alla creazione in un laboratorio cinese del primo ibrido umano-scimmia, nell’ambito di una ricerca il cui scopo è quello di realizzare organi umani adatti al trapianto. Lo scrive, sempre sulla “Stampa”, Vittorio Sabadin. «Gli scienziati guidati dal professor Juan Carlos Izpisúa hanno disattivato da embrioni di scimmia i geni essenziali per la formazione di organi, iniettandovi poi cellule staminali umane in grado di creare qualsiasi tipo di tessuto». L’esperimento, promosso dalla Universidad Catòlica San Antonio de Murcia, è nato «da una collaborazione tra il Salk Institute americano», ed è stato condotto in Cina «per evitare complicazioni legali». I risultati sono molto promettenti, ha detto a “El Pais” Estrella Núñez, biologa che ha partecipato alla ricerca, senza fornire altri dettagli in attesa della pubblicazione del lavoro su una rivista scientifica internazionale. «Nell’Ucam e al Salk Institute stiamo provando non solo a sperimentare l’unione di cellule umane con cellule di roditori e suini, ma anche con primati non umani», ha aggiunto Izpisúa. «Il nostro paese è un pioniere e un leader mondiale in queste indagini».Già nel 2017 – ricorda Sabadin – il team di Izpisúa aveva condotto un esperimento per la creazione di “chimere” umane e suine che non aveva avuto successo. Con i primati, il cui Dna è molto più vicino a quello degli esseri umani, l’innesto sembra invece riuscito.La creazione di chimere uomo-animale pone problemi etici sui quali la comunità scientifica si interroga da tempo. «Cosa succede se le cellule staminali sfuggono al controllo e formano neuroni umani nel cervello dell’animale?», si domanda Ángel Raya, direttore del Centro di medicina rigenerativa di Barcellona: «L’animale avrebbe coscienza? E cosa succede se queste cellule staminali si trasformano in spermatozoi»? Estrella Núñez assicura che il team di ricerca di Izpisuá ha creato meccanismi di controllo tali che, se le cellule umane migrano nel cervello, si autodistruggono. «L’embrione cinese sarebbe stato comunque soppresso – scrive “La Stampa” – seguendo la regola imposta dalla comunità scientifica che nessuna chimera può sopravvivere per più di 14 giorni, il tempo necessario a sviluppare un primo sistema nervoso». Il timore di molti scienziati, osserva Sabadin, è che invece queste regole «non vengano seguite in laboratori situati in paesi che sfuggono a ogni controllo, come ad esempio quelli della Cina e della Corea del Nord».La Chimera, ricorda Sabadin, era un animale mitologico presente nella tradizione di molte civiltà, da quella greca e romana a quella hittita, etrusca ed egizia. Nell’Iliade, Omero la descrive in questo modo: “Era il mostro di origine divina, leone la testa, il petto capra, e drago la coda; e dalla bocca orrende vampe vomitava di foco”. «Gli uomini ne avevano terrore, e ora che hanno imparato a crearla – chiosa Sabadin – dovrebbero temerla ancora di più». E se fossimo noi, in realtà, la prima “chimera” apparsa sul pianeta? Secondo alcuni traduttori dei testi antichi, il sapiens potrebbe essere a sua volta una specie di Ogm, un organismo geneticamente modificato. Magari ottenuto clonando ominidi come l’homo habilis, evolutivamente assai progredito, apparso nel Pleistocene quasi due milioni e mezzo di anni fa. Se in Germania è stato appena scoperto lo scheletro del Danuvius Guggenmosi, ipotetico uomo-scimmia forse progenitore dei primissimi ominidi come l’australopiteco, il vero “salto quantico” (il famoso “missing link”) si sarebbe verificato successivamente: a causa di un intervento esterno, e magari non terrestre? E nel caso, operato da chi?Suggestioni: la Us Navy ha appena ammesso l’esistenza degli Uap, Unidentified Aerial Phenomena. Ma attenzione, i “fenomeni aerei non identificati” sono sempre loro, i cari vecchi Ufo, Unidentified Flying Objects. Curiosità: il Vaticano ha da poco aggiornato il suo vocabolario latino introducendo un curioso neologismo, Rex Inxeplicata Volans. Secondo l’astrofisico Josè Gabriel Funes, gesuita argentino come Papa Francesco, è sciocco pensare di essere soli, nello spazio. Per anni, padre Funes ha diretto la Specola Vaticana, avveniristico osservatorio astronomico sul Mount Grahanm, in Arizona, vocato allo studio dell’esobiologia, cioè la vita extraterrestre. Il suo successore, Guy Consolmagno, ha dichiarato che troverebbe perfettamente normale veder “battezzare”, un giorno, eventuali “fratelli dello spazio”. Quelli che oggi il neo-latino ecclesiastico chiama “oggetti volanti inesplicati”, lo storico greco-romano Giuseppe Flavio li definiva “carri celesti”, esattamente come nell’Antico Testamento il Libro di Ezechiele. Giuseppe Flavio descrive il cielo di Gerusalemme affollato di “carri volanti” quando in Palestina irruppero le truppe del generale Tito, di lì a poco imperatore. E Plino il Vecchio parla di una “battaglia di carri volanti” nei cieli dell’Umbria. Chi c’era, a bordo di quegli Uap-Ufo-Rev? Gli antenati dei misteriosi personaggi che fecero allora quello che oggi si tenta di ripetere in Cina, tra la riprovazione dell’Occidente, salvo quella degli scienziati occidentali che usano proprio la Cina per i loro esperimenti?La Cina esibisce scimmie modificate con geni umani: macachi super-intelligenti. La storia si ripete? Secondo i sumeri, i misteriosi Anunnaki venuti dallo spazio ottennero l’homo sapiens clonando gli ominidi. La tesi, avanzata da Zecharia Zitchin, è stata richiamata dal biblista Mauro Biglino, secondo cui la Genesi svela che gli altrettanto misteriosi Elohim, come Yahwè (trasformati poi nel Dio unico del monoteismo) fabbricarono gli Adamiti geneticamente, impiantando sugli uomini primitivi il loro Tselem (Dna). Si sarebbe trattato, in sostanza, di una potente “accelerazione evolutiva”, oggi ritenuta teoricamente possibile da biologi molecolari come Pietro Buffa, già in forza al King’s College di Londra. A far discutere è un nuovo esperimento, che la “Stampa” definisce «ben oltre i limiti dell’etica, tanto per cambiare effettuato in Cina». I ricercatori del Kunming Institute of Zoology hanno annunciato di aver ottenuto delle scimmie transgeniche, nel cui Dna sono stati trasferiti geni che controllano lo sviluppo del cervello umano. Gli animali, riporta la rivista del “Mit Technology Review”, hanno riportato risultati brillanti in alcuni test. L’esperimento, che ha già suscitato diversi dubbi etici, è stato descritto sulla rivista cinese “National Science Review” e sui media locali. Secondo i ricercatori cinesi, i macachi modificati hanno eseguito test cognitivi di memoria con risultati superiori alla media delle scimmie non transgeniche.
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Il Seti: scienziati in ascolto, pronti a parlare con gli alieni
Riusciremo a parlare con gli alieni? «Sappiamo che le possibilità che esistano altre forme di vita sono letteralmente incommensurabili. E non abbiamo ancora iniziato a guardare, abbiamo ancora tanti posti da visitare». Inizia così un lungo servizio di “Bloomberg” dedicato a uno dei grandi interrogativi della nostra stessa esistenza: siamo soli? Esistono gli alieni o comunque altre forme di intelligenza con cui, prima o dopo, saremo in grado di metterci in contatto? O meglio: di capirci. C’è un gruppo di esperti, noto come Seti – Search for Extraterrestrial Intelligence – che da decenni punta dei potenti telescopi verso stelle o galassie “vicine” cercando degli specifici segnali radio che si crede possano essere prodotti solo da una qualche forma di tecnologia. D’altronde lo aveva ripetuto molto spesso anche Stephen Hawking, il grande cosmologo scomparso nel marzo dello scorso anno e pioniere degli studi sui buchi neri, sulla cosmologia quantistica e sull’origine dell’universo: «È il momento di impegnarci a cercare le risposte sulla vita oltre la Terra. Siamo vivi, siamo intelligenti, dobbiamo sapere», disse l’astrofisico di Oxford.Così questo gruppo di esperti ha deciso di mettersi davvero al lavoro, «invece di fare quel che abbiamo fatto per millenni, cioè chiedere ai preti e ai filosofi», come spiega nel doc l’astronoma Jill Tarter, presidente emerita dell’organizzazione scientifica. Una ricercatrice che ha dedicato la vita a questa missione e, curiosità, è anche l’esperta che ha ispirato il personaggio interpretato da Jodie Foster nel film “Contact” del 1997, diretto da Robert Zemeckis e basato sul libro di Carl Sagan pubblicato 12 anni prima che descrive appunto un ipotetico primo contatto fra esseri umani e alieni. Ma qual è esattamente il lavoro? Questo team internazionale è impegnato nella ricerca di radiazioni elettromagnetiche diverse dai segnali radio che otteniamo dagli oggetti naturali come stelle, galassie e quasar (i nuclei galattici attivi dalla natura controversa) e in qualche maniera corrispondenti a radiazioni emesse da strumentazioni tecnologiche. All’università di Berkeley, per esempio, una squadra guidata da Andrew Siemion è impegnata in un progetto decennale finanziato da privati per 100 milioni di dollari.«Le sorgenti tecnologiche hanno proprietà molto interessanti, possono cioè comprimere l’energia elettromagnetica nel tempo o nella frequenza – spiega Siemion – in questo modo si può ottenere molta energia in un singolo segnale: sono effetti che in natura tendono a non verificarsi». Sarebbe insomma la traccia di un qualche possibile contatto, anzi di un messaggio, tanto per rimanere dalle parti delle suggestioni cinematografiche. Anziché affidarsi a radiotelescopi, spesso pubblici o comunque appartenenti a governi e istituzioni, Seti ha deciso qualche tempo fa che occorreva un quartier generale, che alla fine è stato costruito a 280 miglia a nord-est di San Francisco. Il complesso si chiama Allen Telescope ed è di fatto un sistema di diversi tipi di strumentazioni più piccole che lavorano in collegamento fra loro e sono così in grado di osservare un’ampia porzione di spazio in contemporanea. L’Allen Telescope è ora dedicato quasi esclusivamente alle ricerche dell’organizzazione e a questo ascolto dell’ignoto.Una volta completato, queste parabole da sei metri di diametro dovranno essere 350. Al momento sono 42 e «la quantità di dati prodotta è impressionante», aggiungono gli esperti ai microfoni di “Bloomberg”. Una mole esplorata con l’aiuto di algoritmi alla ricerca di segnali, addestrati anche tramite tecniche di machine learning e intelligenza artificiale in grado di setacciare le informazioni significative e degne di approfondimento. «Quando mi sono laureata conoscevamo solo nove pianeti, quelli del nostro sistema solare – spiega Tarter – nulla sapevamo sui pianeti intorno ad altre stelle. Oggi invece sappiamo che ci sono più pianeti che stelle, perché ogni stella ha in media un pianeta e anche di più» che ruota intorno a essa. Questo è il punto centrale intorno al quale gira la ricerca del Seti: il fatto cioè che l’universo sia apparso nel corso dei più recenti decenni di ricerche sempre più come potenzialmente accogliente per altre forme vita.D’altronde, «nell’universo esistono più stelle che granelli di sabbia su tutte le spiagge del mondo, e se si guarda un solo granello e si assume che sia il Sole, e il terzo granello intorno a lui sia abitabile, e poi si torna a guardare alla spiaggia, ci si domanda perché dovrebbe accadere in un granello di sabbia e non anche in altri?», si domanda l’astrofisico Laurance Doyle. Il problema, insomma, siamo noi: non saremmo ancora in grado di riconoscere e decodificare complessi messaggi che sicuramente già sono stati trasmessi, spiega il principale responsabile della ricerca di Seti, già al lavoro con la Nasa sul telescopio spaziale Kepler. La missione dell’agenzia Usa punta proprio alla ricerca di pianeti simili alla Terra in orbita attorno a stelle diverse dal Sole. «Tutto comunica. Tutti gli animali e anche le piante comunicano. Si tratta solo di capire quanto sia complessa questa comunicazione», aggiunge Doyle. Per questo è tornato a volgere lo sguardo alla Terra e alle sue creature.Per approfondire i diversi metodi di comunicazione naturali – come quelli dei delfini, delle misteriose megattere, i cetacei dalle grandi pinne pettorali, o delle scimmie scoiattolo – per costruire qualcosa di simile a un filtro, cioè a un sistema per comprendere le regole dell’intelligenza, la sua sintassi, cogliere almeno ciò che ci perdiamo per strada e lavorare sull’assenza. I segnali delle scimmie scoiattolo toccano il secondo ordine di entropia, magari quelli extraterrestri potrebbero toccare un livello di entropia del ventesimo ordine: «Ma se lo scoprissimo, almeno sapremmo che la nostra posizione rispetto a quei segnali è come il nostro linguaggio visto dalla prospettiva di una scimmia scoiattolo», dice Doyle. Una sfida impossibile da decodificare, per adesso, ma non per il futuro. «Siamo collegati a questo cosmo gigantesco – conclude Jill Tarter – e vogliamo sapere cosa altro sia successo lì fuori». Di sicuro sappiamo che l’universo per molte volte ha dato vita a certi tipi di organismi come noi. Organismi che pensano e si fanno domande sullo stesso universo. Adesso è il momento di cercare di capirci, visto che la domanda è quasi sicuramente la stessa.(Simone Cosimi, “Il team di scienziati che sta cercando di parlare con gli alieni”, da “Esquire” del 12 novembre 2012).Riusciremo a parlare con gli alieni? «Sappiamo che le possibilità che esistano altre forme di vita sono letteralmente incommensurabili. E non abbiamo ancora iniziato a guardare, abbiamo ancora tanti posti da visitare». Inizia così un lungo servizio di “Bloomberg” dedicato a uno dei grandi interrogativi della nostra stessa esistenza: siamo soli? Esistono gli alieni o comunque altre forme di intelligenza con cui, prima o dopo, saremo in grado di metterci in contatto? O meglio: di capirci. C’è un gruppo di esperti, noto come Seti – Search for Extraterrestrial Intelligence – che da decenni punta dei potenti telescopi verso stelle o galassie “vicine” cercando degli specifici segnali radio che si crede possano essere prodotti solo da una qualche forma di tecnologia. D’altronde lo aveva ripetuto molto spesso anche Stephen Hawking, il grande cosmologo scomparso nel marzo dello scorso anno e pioniere degli studi sui buchi neri, sulla cosmologia quantistica e sull’origine dell’universo: «È il momento di impegnarci a cercare le risposte sulla vita oltre la Terra. Siamo vivi, siamo intelligenti, dobbiamo sapere», disse l’astrofisico di Oxford.
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Appello a Liliana Segre: la Commissione attenta alla libertà
Questo scritto è un appello alla senatrice Segre, al suo coraggio, alla sua lucidità. Una delle più gravi violazioni in atto dei principi fondamentali della Costituzione e della stessa civiltà occidentale è la limitazione ai diritti di informazione, di insegnamento e di ricerca scientifica voluta dal pensiero unico e dai suoi beneficiari. La pubblica informazione è in mano a cinque grandi agenzie mondiali, controllate da capitali privati, dedite al filtraggio delle notizie, delle analisi e al consolidamento di un pensiero unico liberista-mercatista-globalista; ad esse quasi tutti i giornalisti e i mass media si attengono, anche quelli pubblici. I docenti, anche quelli universitari, persino quelli di filosofia, ricevono dalla politica direttive ideologiche afferenti al pensiero unico, cui devono attenersi per conservare il posto, far carriera, aver visibilità. La ricerca scientifica, con la stampa scientifica, è in gran parte finanziata e controllata da capitali privati che contrattualmente si riservano la proprietà dei risultati e il diritto di decidere che cosa divulgare e che cosa no; in tal modo il capitale orienta la scienza, il suo insegnamento, la sua applicazione, dall’economia alla medicina;Ai medici in Italia è stato perfino vietato, sotto pena di radiazione, di esercitare il diritto di informazione dei pazienti sugli effetti dei vaccini obbligatori. Facebook esercita arbitrariamente il potere di oscurare i suoi utenti non allineati col pensiero unico (lo ha fatto anche a me, per un mese, durante la campagna elettorale europea). Imperversa la pratica del grievance-mongering, o vittimismo di mestiere, consistente nell’attaccare, isolare, licenziare, oscurare persone che hanno espresso le proprie idee o preferenze nel rispetto della legge, e che strumentalmente il vittimista accusa di averlo offeso nella sua sensibilità religiosa o etnica o razziale o sessuale. Tutto ciò costituisce un’aggressione organica, sistemica, strategica, alla stessa esistenza di una società basata sulle predette libertà, ed esigeva l’urgente costituzione di una Commissione parlamentare per la tutela delle medesime libertà. Invece, hanno fatto la Commissione Segre per il controllo discrezionale della comunicazione via Internet (con possibilità di censura, punizione e oscuramento), onde limitare ulteriormente la libertà di informazione e di pensiero, col pretesto della lotta a un estremismo politico e a un razzismo o suprematismo o sessismo che, sì, esistono e sono talvolta lesivi di beni giuridici riconosciuti, ma sono già puniti dalle leggi italiane e che non hanno, né possono avere in questa fase storica, la forza materiale per minacciare la società.L’istituzione della Commissione va vista e studiata insieme con altre due ‘riforme’: il tracciamento di ogni pagamento e versamento (con la costrizione a passare per una banca ad ogni transazione); l’imposizione di vaccinazioni di massa senza trasparenza sugli effetti reali dei prodotti inoculati (con l’Ema che vuole inserire dal 2022 le certificazioni vaccinali nei passaporti come condizione di validità). Le tre suddette riforme vanno comprese come strumenti fondamentali e integrati dell’attuale fase evolutiva del controllo sociale, basata essenzialmente: sulla manipolazione e modificazione diretta degli uomini, anche biologica e genetica, via farmaci, vaccini, alimenti; sul loro monitoraggio costante e capillare nelle idee, negli spostamenti, nel denaro; sulla possibilità di escluderli unilateralmente, con un click, dalle reti (comunicazioni, servizi, accesso al proprio denaro in banca).Lo statuto della Commissione Segre (andatevelo a leggere) è formulato in termini vaghi, indeterminati, ampiamente soggettivi e discrezionali, non limitati all’istigazione all’odio (…intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza nei confronti di persone o gruppi sociali sulla base di alcune caratteristiche quali l’etnia, la religione, la provenienza, l’orientamento sessuale, l’identità di genere o di altre particolari condizioni fisiche o psichiche), in modo che essa possa censurare, impedire e reprimere non solo e non tanto le istigazioni all’odio, ma la divulgazione di informazioni e analisi oggettive che possano, per le loro implicazioni, suscitare indignazione morale, “odio” nella Neolingua politically correct.Infatti, è facile equivocare tra indignazione e odio, accusare colui di diffondere odio colui che in realtà diffonde informazioni e commenti su inganni, soprusi, illegalità, tradimenti politici, maxi-truffe bancarie coperte dalle istituzioni, soprattutto in relazione al nuovo ordine globale e totalizzante, il quale delegittima come eresia ogni alternativa a sé stesso. L’ordine del capitalismo finanziario e del mercato (non libero, ma) manipolato, con tutti gli effetti sulla vita delle persone e delle società, è un ordine onnipervasivo, egemonizza l’intrattenimento, la cultura e la stessa contro-cultura (vedi il fenomeno Greta). Il totalitarismo capitalista non è funzionalmente diverso da altri totalitarismi, a quelli verso cui, per il pensiero unico, è lecito esprimere odio, come quello autore dello sterminio di milioni soggetti appartenenti a categorie-bersaglio, tra cui innanzitutto gli ebrei, compresi i familiari della senatrice Segre – la quale suppongo non abbia percepito per tempo i fini liberticidi a cui è stata strumentalizzata, ma ora può ben rimediare brillantemente. Gli ebrei, ricorrenti vittime della persecuzione contro la libertà culturale, sono pure storici paladini, nonché simbolo, della medesima!La Commissione Segre, nata da un testo della Boldrini e che dovrebbe chiamarsi commissione Boldrini ed è stata ridenominata ‘Segre’ solo per inibire le critiche, ha uno statuto che, con la sua vaghezza, la predispone: a prevenire e contrastare lo svilupparsi una coscienza dei gravissimi, attuali conflitti di classe e tra nazioni, e a tutelare così la falsa narrazione irenica (deconflittualizzata) del mainstream; a oscurare l’informazione sugli effetti perniciosi e, per l’appunto, ‘odiosi’ del liberal-globalismo, scoraggiando la critica sistemica ad esso; a contrastare il dissenso e il suo organizzarsi in opposizione politica e sociale, ossia a difendere il pensiero unico liberale, il consenso ad esso, ai suoi esecutori politici, economici e culturali, e alle loro riforme; a colpire ogni richiamo politico allo Stato nazionale, alla sua sovranità sulla moneta, sui confini, sulle scelte di modello socioeconomico, e alla responsabilità democratica verso il bene dei propri cittadini come funzione e dovere di tale Stato (tutte cose che l’ordine finanz-capitalistico è vigorosamente impegnato a smantellare e screditare, perché ostacolano l’ottimizzazione del mondo alle sue dinamiche anche demografiche).Molte notizie, in materia di economia, finanza, banche, immigrazione, potranno essere censurate perché idonee a suscitare indignazione sociale, che verrà ridefinita “odio” allo scopo predetto. Del resto, già gli antichi sentenziavano: veritas odium parit. Se lo scopo della Santa Commissione fosse onesto e non liberticida, se fosse diverso da quello che ho testé descritto, il suo statuto da un lato sarebbe stato garantista, cioè preciso e oggettivo nel definire, con riferimento al Codice Penale, le espressioni da colpire; e, dall’altro lato, avrebbe compreso la tutela dì diritti – questi sì costituzionalmente fondati – di opinione, informazione, ricerca e insegnamento, mediante l’individuazione e il contrasto a tutte quelle lesioni alla libertà di parola che ho menzionato in apertura. Senatrice Segre, affido a Lei l’iniziativa di questa alta difesa della Libertà!(Marco Della Luna, “Santa Commissione o Santa Inquisizione?”, lettera aperta alla senatrice Liliana Segre pubblicata sul blog di Della Luna il 4 novembre 2019, “per la difesa della fede nella narrazione”).Questo scritto è un appello alla senatrice Segre, al suo coraggio, alla sua lucidità. Una delle più gravi violazioni in atto dei principi fondamentali della Costituzione e della stessa civiltà occidentale è la limitazione ai diritti di informazione, di insegnamento e di ricerca scientifica voluta dal pensiero unico e dai suoi beneficiari. La pubblica informazione è in mano a cinque grandi agenzie mondiali, controllate da capitali privati, dedite al filtraggio delle notizie, delle analisi e al consolidamento di un pensiero unico liberista-mercatista-globalista; ad esse quasi tutti i giornalisti e i mass media si attengono, anche quelli pubblici. I docenti, anche quelli universitari, persino quelli di filosofia, ricevono dalla politica direttive ideologiche afferenti al pensiero unico, cui devono attenersi per conservare il posto, far carriera, aver visibilità. La ricerca scientifica, con la stampa scientifica, è in gran parte finanziata e controllata da capitali privati che contrattualmente si riservano la proprietà dei risultati e il diritto di decidere che cosa divulgare e che cosa no; in tal modo il capitale orienta la scienza, il suo insegnamento, la sua applicazione, dall’economia alla medicina.