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Se crolla Internet: l’apocalisse, in appena 48 ore
«Per quanto la Rete sia meravigliosamente elastica e resistente, non possiamo dimenticare che fu concepita alle origini per qualche milione di utenti al massimo, ora siamo miliardi. È un sistema che si sta avvicinando al livello di guardia, nel senso che sta raggiungendo quel limite oltre il quale potrebbe sfuggire al controllo umano. Se esistesse una scala Richter da 1 a 10 per i terremoti su Internet, quello che abbiamo subìto pochi giorni fa sarebbe a quota 11». L’esperto di crittografia Bruce Schneier ha fatto questo bilancio drammatico sul “New Yorker”, a proposito del super-virus Heartbleed. 500.000 siti violati per due anni, inclusi colossi come Twitter, Yahoo, Amazon, Dropbox, Tumblr. Centinaia di milioni di password, carte di credito, accessi bancari potrebbero essere finiti in mano a hacker, ladri, truffatori. Il bilancio è ancora provvisorio. Questi disastri si susseguono sempre più spesso e con un’intensità crescente: è di pochi mesi fa il maxifurto di milioni di carte di credito dei clienti di Target, la catena di grandi magazzini. Tra le cause, spiccano due anomalie.Primo, nella Rete la sicurezza non è una priorità così stringente come lo è per esempio nel trasporto aereo (dove gli incidenti diminuiscono da anni anziché aumentare). Secondo punto, a conferma del primo: molti dispositivi di sicurezza (come il software di crittografia OpenSsl che è stato vittima del supervirus Heartbleed) sono frutto di lavoro volontario, semi-gratuito o scarsamente remunerato, nonostante gli immensi profitti incassati dai giganti dell’economia digitale. Ma questa sottovalutazione potrebbe portarci verso un cataclisma molto peggiore. È il Grande Blackout della Rete, evocato in una conferenza “Ted” da Dan Dennett, raccogliendo plausi e allarme nel mondo degli esperti. «Cerchiamo almeno di prepararci a sopravvivere per le prime 48 ore di caos e paralisi totale», è una delle esortazioni di Dennett. In quei primi due giorni forse ci giocheremmo tutto, l’umanità (almeno quella che abita nei paesi avanzati) rischierebbe di retrocedere in una sorta di Medioevo.«L’11 settembre 2001 sembrerebbe un episodio minore, al confronto», rincara Dennett, ricordando che in effetti l’attacco alle Torri Gemelle avvenne in un’era quasi preistorica dal punto di vista della nostra dipendenza digitale. Dennett non è un apocalittico. Al contrario, a 72 anni il celebre scienziato e filosofo cognitivo è considerato uno dei più grandi esponenti di un pensiero laico, iper-razionale. Direttore del Center for Cognitive Studies alla Tufts University di Boston, Dennett è autore di numerosi saggi tradotti in italiano (tra gli ultimi “La religione come fenomeno naturale”). Ai cicli di conferenze “Ted”, affollati di esperti di informatica, lui viene presentato come “il filosofo preferito dagli studiosi dell’intelligenza artificiale” per le sue analisi sull’analogia tra il pensiero umano e il funzionamento della robotica. Quando lo intervisto, partiamo dallo scalpore che ha suscitato la sua profezia sul Grande Blackout.Questo pericolo è sempre apparso remoto, per via della struttura stessa di Internet: agli antipodi di un sistema centralizzato, la Rete è stata concepita fin dalle origini per essere policentrica, federata, non gerarchica, diffusa, flessibile, perciò stesso non esposta ad un collasso generale. «Verissimo – mi dice Dennett – e infatti tutti sono ammirati dalla robustezza, anzi dalla resilienza di Internet. E tuttavia il monito che ho lanciato non è un’idea mia, l’ho raccolta consultando molti esperti di tecnologia. Per quanto la Rete sia meravigliosamente elastica e resistente, non possiamo dimenticare che fu concepita alle origini per qualche milione di utenti al massimo, ora siamo miliardi. È un sistema che si sta avvicinando al livello di guardia, nel senso che sta raggiungendo quel limite oltre il quale potrebbe sfuggire al controllo umano. Alcuni esperti calcolano che un Grande Blackout abbia probabilità remote, ma non nulle. Potrebbe accadere fra moltissimo tempo, o la settimana prossima ». Evento improbabile ma non impossibile, un po’ come il Big One nella versione estrema (con mezza California che sprofonda nel Pacifico).Ieri, intanto, si è registrato il down di Instagram, il social network di condivisione di fotografie, rimasto fermo per ore. Quello che preoccupa Dennett è la totale mancanza di preparativi. O perfino di immaginazione. «La gente non si rende conto che oggi tutto dipende dalla Rete, nessuna funzione vitale può continuare se si blocca Internet. Qui negli Stati Uniti si spegnerebbero tv e cellulari, si fermerebbero bancomat, supermercati, distributori di benzina. Ecco perché il maggiore pericolo sarebbe il panico, il folle panico delle prime 48 ore, quando la gente non sa che fare, non ha notizie, non ha istruzioni, non ha mai fatto un’esercitazione per prepararsi. Occorre un piano-B per resistere le prime 48 ore, in attesa che si riattivi qualche funzione essenziale della società. Altrimenti si rischia la disperazione di massa, e dunque la disintegrazione di una civiltà».Il piano-B, come “battello di salvataggio”. Dennett usa proprio quest’immagine, il vecchio canotto di salvataggio in dotazione obbligatoria sulle navi e i traghetti, con torce elettriche, acqua potabile e altri strumenti di soccorso. Ma il suo canotto di salvataggio dovrebbe includere «una seconda Rete, un Internet isolato e autonomo, pronto a mettersi in funzione, riservato esclusivamente agli scopi vitali, alle comunicazioni di emergenza». Quando ci fu l’attacco dell’11 Settembre, c’erano ancora delle tecnologie pre-digitali che ora stanno scomparendo. Molti telefonini a Manhattan si ammutolirono, ma le tv funzionavano, la radio pure. Oggi è tutto talmente interconnesso che il Grande Blackout sarebbe davvero totale. Proprio perché è uno dei massimi pensatori della razionalità, Dannett mi spiega di aver lanciato il suo appello «anche per dare un’alternativa ai Survivalist, quei movimenti apocalittico-religiosi che hanno una presa sull’opinione pubblica americana, ispirano filoni di cinema e tv, s’impadronirebbero del Grande Blackout digitale per immaginare un mondo post-civilizzato, uno scenario da Independence Day».Curiosamente, mentre nella Silicon Valley è obbligatorio fare esercitazioni regolari per le evacuazioni in caso di terremoto (la zona è sismica), non esiste nulla di simile per un cataclisma digitale. Presunzione? O avarizia? «Certo i costi del piano-B sono elevati – riconosce Dennett – ma bisogna prendere sul serio questo pericolo, il buio elettronico non è abitabile per gli occidentali del 2014, abituati ad avere un intero universo d’informazione alla portata dei polpastrelli sul display dello smartphone. In uno scenario di caos generale, molti di noi hanno perso da tempo quei nuclei locali di sostegno che un tempo si chiamavano la parrocchia, il club, le associazioni di quartiere. Una parte delle spese per attrezzarci collettivamente dovrebbero sostenerle le banche, che sono tra le più vulnerabili». E la Casa Bianca, dopo gli avvertimenti dei cyber-attacchi contro i suoi siti? È possibile che Washington non abbia pensato di prepararsi all’ipotesi finale, la più estrema? «Ci pensano, c’è dell’interesse – risponde – ma c’è anche una reticenza, un gioco di veti. La destra repubblicana non vuole che sia un’amministrazione democratica ad aprire un cantiere di sicurezza di queste dimensioni, che potrebbe sfociare in nuovi poteri per il governo federale». Di certo lui trova paradossale che «Internet ci abbia reso così dipendenti, al punto da poterci ricacciare verso l’età della pietra».(Federico Rampini, “Se crolla Internet, da “La Repubblica” del 13 aprile 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”).«Per quanto la Rete sia meravigliosamente elastica e resistente, non possiamo dimenticare che fu concepita alle origini per qualche milione di utenti al massimo, ora siamo miliardi. È un sistema che si sta avvicinando al livello di guardia, nel senso che sta raggiungendo quel limite oltre il quale potrebbe sfuggire al controllo umano. Se esistesse una scala Richter da 1 a 10 per i terremoti su Internet, quello che abbiamo subìto pochi giorni fa sarebbe a quota 11». L’esperto di crittografia Bruce Schneier ha fatto questo bilancio drammatico sul “New Yorker”, a proposito del super-virus Heartbleed. 500.000 siti violati per due anni, inclusi colossi come Twitter, Yahoo, Amazon, Dropbox, Tumblr. Centinaia di milioni di password, carte di credito, accessi bancari potrebbero essere finiti in mano a hacker, ladri, truffatori. Il bilancio è ancora provvisorio. Questi disastri si susseguono sempre più spesso e con un’intensità crescente: è di pochi mesi fa il maxifurto di milioni di carte di credito dei clienti di Target, la catena di grandi magazzini. Tra le cause, spiccano due anomalie.
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Un mondo diverso: quello che non ci avete lasciato
Stavo guardando su Facebook una lunga serie di fotografie risalenti agli anni ‘60 e ‘70. Le lotte, le manifestazioni, scontri con la polizia, gli striscioni, i colori visibili anche in bianco e nero, gli slogan, rabbia, molta rabbia, anche molta voglia di stare insieme, di condividere gli spazi, i sogni, il destino. Sì, bello, affascinante e tutto quanto. Poi però i nostalgici di anni mai vissuti – accusati di essere rimasti ad allora solo perché di quegli anni invidiano la partecipazione, la radicalità, il realismo dell’utopia – pensano subito all’oggi, al deserto di oggi. Ogni volta mi viene da pensare che quelle piazze stracolme e così rebeldi erano fatte di gente in carne e ossa; altro non sono che i nostri genitori, o nonni. E mi domando, sempre, cosa ci avete lasciato? Perché ci avete tirato su così ferocemente calcolatori, disinteressati, pavidi?Noi, che siamo i figli di quella generazione, siamo probabilmente – anzi no: ne sono sicuro – la gioventù o post gioventù più conformista e innocua che l’Italia da inizio ‘900 in poi abbia conosciuto. Ed è vero che il crollo delle ideologie, il consumismo, la televisione, il web eccetera, ok. È vero però che qualcuno dovrà pur averci educato, e forse non lo ha fatto bene, o forse quella ribellione di allora non era così sincera, o forse nel frattempo chi combattevate vi ha blandito e infine comprato. Fosse solo una questione economica, poi. I soldi dopotutto non ci sono mai mancati, anche adesso che il lavoro scarseggia, perché c’eravate e ci siete voi.Quel che non ci avete insegnato è invece il poter credere che esista un’altra possibilità oltre all’adesione ad un sistema che ci è stato raccontato così, come se fosse dio, come se fosse legge di natura. Perché dovevamo essere performanti, noi. Pragmatici come lo siete diventati voi. Meno coraggio, meglio un sei politico esistenziale. Meno utopia, più piccola bottega. E comunque tranquilli, perché la cosa più bella che ci avete regalato è una: l’incoscienza. Il progresso è finito da un pezzo, le cose vanno oggettivamente peggio e noi non ce ne stiamo nemmeno accorgendo.(Matteo Pucciarelli, “Quel che non ci avete lasciato”, da “Micromega” del 13 aprile 2014).Stavo guardando su Facebook una lunga serie di fotografie risalenti agli anni ‘60 e ‘70. Le lotte, le manifestazioni, scontri con la polizia, gli striscioni, i colori visibili anche in bianco e nero, gli slogan, rabbia, molta rabbia, anche molta voglia di stare insieme, di condividere gli spazi, i sogni, il destino. Sì, bello, affascinante e tutto quanto. Poi però i nostalgici di anni mai vissuti – accusati di essere rimasti ad allora solo perché di quegli anni invidiano la partecipazione, la radicalità, il realismo dell’utopia – pensano subito all’oggi, al deserto di oggi. Ogni volta mi viene da pensare che quelle piazze stracolme e così rebeldi erano fatte di gente in carne e ossa; altro non sono che i nostri genitori, o nonni. E mi domando, sempre, cosa ci avete lasciato? Perché ci avete tirato su così ferocemente calcolatori, disinteressati, pavidi?
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I miliardari del futuro digitale e le nostre vite virtuali
Nel film “Her”, che ha appena vinto l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale e che si svolge in un futuro prossimo, il personaggio principale, Theodore Twombly (Joaquin Phoenix) acquista un sistema operativo che funziona come un assistente totale, che si piega intuitivamente a qualsiasi esigenza o richiesta dell’utente. Theodore sceglie la voce femminile e con il suo smartphone passa le ore a chiacchierare con lei, finché non se ne innamora. La metafora è evidente e sottolinea la nostra sempre maggiore dipendenza dal mondo digitale, e la nostra immersione sempre più profonda in un universo smaterializzato. Ma se citiamo questo film non è solo per la sua moralità, ma perché i suoi personaggi vivono, come faremo domani, in un ambiente comunicativo ancora più iperconnesso. Con un’alta densità di tablet, smartphone, videogiochi di ultima generazione, schermi televisivi giganti e computer dialoganti attivati con la voce…La richiesta di dati e video ha raggiunto davvero livelli astronomici. Questo perché gli utenti sono sempre più agganciati nelle reti sociali. Facebook, ad esempio, ha già più di 1.300 milioni di utenti attivi in tutto il mondo, YouTube circa un miliardo, Twitter 750 milioni, WhatsApp 450 milioni. In tutto il mondo, gli utenti non sono più soddisfatti da un unico mezzo di comunicazione e reclamano il “quadruple play”, ossia l’accesso a Internet, Tv digitale, telefono fisso e mobile. E per soddisfare questa domanda insaziabile ci vogliono connessioni (di banda ultralarga) capaci di fornire l’enorme flusso di informazioni, espresse in centinaia di megabit al secondo. E qui sorge il problema. Dal punto di vista tecnico, le reti Adsl attuali – quelle che ci permettono di ricevere Internet in banda larga sui nostri smartphone – sono quasi già sature. Cosa fare? L’unica soluzione è passare attraverso il cavo, coassiale o in fibra ottica. Questa tecnologia assicura una qualità ottimale nella trasmissione dati e video a banda ultralarga, quasi senza limiti di portata.Era popolare nel 1980, ma fu accantonata perché richiede grandi opere costose (bisogna scavare e mettere sottoterra i cavi e portarli alla base degli edifici). Solo pochi operatori via cavo hanno continuato a investire sulla sua affidabilità e hanno pazientemente costruito una fitta rete cablata. La maggior parte degli altri preferivano la tecnologia Adsl, più economica (è sufficiente installare una rete di antenne) ma, come abbiamo detto, è quasi saturata. Pertanto, in questo momento, il movimento generale delle grandi società di telecomunicazioni (e degli speculatori dei fondi di capitale) è quello di cercare a tutti i costi la fusione con gli operatori via cavo le cui “vecchie” reti in fibra rappresentano, paradossalmente, il futuro delle autostrade della comunicazione.Questo contesto tecnologico e commerciale spiega la recente acquisizione, in Spagna, di Ono, il più grande operatore via cavo locale da parte della britannica Vodafone in cambio di 7,2 miliardi di euro. Quarto operatore spagnolo, Ono ha 1,1 milioni di linee mobili e 1,5 milioni di linee fisse, ma ciò che gli dà valore è la sua vasta rete cablata che raggiunge 7,2 milioni di famiglie. La quota del 60% in Ono era nelle mani dei fondi azionari internazionali che già sapevano, per le ragioni appena illustrate, che i giganti della telecomunicazione vogliono acquistare, a qualsiasi prezzo, agli operatori via cavo. Ovunque, i fondi-avvoltoio stanno comprando gli operatori via cavo indipendenti per poter ottenere guadagni significativi da rivendere a un qualche compratore dell’industria. Per esempio, in Spagna, i tre operatori via cavo regionali, Euskaltel, Telecable e R – sono stati oggetto di acquisti speculativi. Nel 2011 il fondo di private equity statunitense Carlyle Group ha acquistato l’85% dell’operatore asturiano via cavo Telecable.Nel 2012 il fondo italiano Investindustrial e quello americano Trilantic Capital Parners hanno rilevato il 48% dell’operatore basco Euskaltel. E il mese scorso il fondo britannico Cvc Capital Partners ha acquisito il 30% che gli mancava dell’operatore galiziano R, che controlla nella sua totalità. A volte le fusioni sono realizzate in senso inverso: è l’operatore via cavo che acquista una società di telecomunicazioni. È appena accaduto in Francia, dove l’azienda di cavi Numericable (cinque milioni di famiglie o aziende collegate) sta cercando di acquistare, per quasi 12 miliardi di euro, il terzo operatore di telefonia mobile francese, Sfr, proprietario di una rete di 57.000 chilometri di fibra ottica. Altre volte sono due cablo-operatori che decidono di fondersi. Sta succedendo in America, dove i due maggiori operatori via cavo, Comcast e Time Warner Cable (Twc), hanno deciso di unirsi. Insieme, questi due titani hanno oltre 30 milioni di abbonati, a cui procurano servizi di Internet a banda larga e di telefonia fissa e mobile.Le due aziende, ora socie, controllano anche un terzo della pay-tv. La loro mega-fusione verrebbe praticata sotto forma di un acquisto di Twc da parte di Comcast per la somma colossale di 45 miliardi di dollari (36 miliardi di euro). Il risultato sarà un mastodonte mediatico con un fatturato stimato in circa 87 miliardi di dollari (67 miliardi di euro). Una somma astronomica, come quella degli altri giganti di Internet, in particolare se confrontata con quella di alcuni gruppi mediatici di stampa scritta. Ad esempio, il fatturato del gruppo Prisa, il primo gruppo di comunicazione spagnolo, editore del quotidiano “El País” con una forte presenza in America Latina, è inferiore ai 3 miliardi di euro. Il “New York Times” fattura meno di 2 miliardi di euro. Il gruppo “Le Monde” non supera i 380 milioni di euro, e il “Guardian” neppure 250.In termini di solidità finanziaria, rispetto ai colossi delle telecomunicazioni, la stampa (anche con i siti web) pesa poco. E ogni volta meno. Ma rimane un fattore indispensabile di informazione e di denuncia. Particolarmente sugli abusi dei nuovi giganti delle telecomunicazioni quando spiano le nostre comunicazioni. Grazie alle rivelazioni di Edward Snowden e Glenn Greenwald, pubblicate dal quotidiano britannico “The Guardian”, abbiamo appreso che la maggior parte dei giganti di Internet erano – e sono tuttora – complici della National Security Agency (Nsa) per la realizzazione del suo programma illegale di spionaggio massivo delle comunicazioni e dell’utilizzo dei social network. Non siamo innocenti. Schiavi volontari, e pur sapendo di essere osservati, continuiamo ad alterarci con la droga digitale. Senza preoccuparci di quanto cresce la nostra dipendenza, consegnamo sempre più la sorveglianza delle nostre vite ai nuovi padroni della comunicazione. Continueremo così? Possiamo consentire di essere tutti sotto controllo?(Ignacio Ramonet, “Tutti sotto controllo”, intervento pubblicato da “Le Monde Diplomatique”, tradotto e ripreso da “Come Don Chisciotte” il 4 aprile 2014).Nel film “Her”, che ha appena vinto l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale e che si svolge in un futuro prossimo, il personaggio principale, Theodore Twombly (Joaquin Phoenix) acquista un sistema operativo che funziona come un assistente totale, che si piega intuitivamente a qualsiasi esigenza o richiesta dell’utente. Theodore sceglie la voce femminile e con il suo smartphone passa le ore a chiacchierare con lei, finché non se ne innamora. La metafora è evidente e sottolinea la nostra sempre maggiore dipendenza dal mondo digitale, e la nostra immersione sempre più profonda in un universo smaterializzato. Ma se citiamo questo film non è solo per la sua moralità, ma perché i suoi personaggi vivono, come faremo domani, in un ambiente comunicativo ancora più iperconnesso. Con un’alta densità di tablet, smartphone, videogiochi di ultima generazione, schermi televisivi giganti e computer dialoganti attivati con la voce…
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Odessa 2014, strage nazista oscurata dai nostri media
Vediamo i lenzuoli sui corpi di decine di persone, nelle videoriprese di Odessa, in Ucraina. Lì è in atto un pogrom antirusso in pieno XXI secolo, con lancio di molotov, granate artigianali, assedi, bastonature. Squadre nazistoidi di Pravy Sektor (”Settore Destro”), protette e inquadrate anche nel resto del Paese da una giunta insediatasi dopo aver allontanato con la violenza un presidente eletto regolarmente, stanno devastando i luoghi di aggregazione sociale e politica – ossia i partiti, le associazioni, i sindacati – di una parte della popolazione di Odessa (maggioritaria) identificabile come russa, russofona o filorussa. La polizia della città sul Mar Nero ha lasciato fare per ore. Ma le vergognose testate italiane fanno a gara per sopire e troncare la reale portata della notizia. Distinguere fra un generico incidente e una strage politica: il confine per capire quali tempi di fuoco si avvicinano passa da qui, dai 38 morti del 2 maggio di Odessa (per tacere degli altri episodi da guerra civile nel resto di un paese in bancarotta).In materia di guerra la stampa italiana, specie sul web, ci ha già abituati al peggio negli ultimi anni. Con il dramma dell’Ucraina si è già subito portata ai suoi peggiori livelli, già raggiunti nel disinformare i lettori sulla guerra in Libia e poi in Siria. Le pagine web italiote ci farebbero davvero ridere, se non parlassimo di una tragedia: i 38 filo-russi bruciati in una sede sindacale dai nazionalisti ucraini di estrema destra sono diventati delle generiche “38 vittime in un incendio”. «Quasi si trattasse di un incidente e non di un massacro politico», commenta Daniele Scalea, direttore dell’Isag, un istituto di studi geopolitici molto attento alle vicende dell’Europa orientale. Scalea e anche noi ci domandiamo cosa avrebbero scritto nel 2011 il “Corriere della Sera”, o la “Repubblica”, o “Il Fatto Quotidiano”, se dei miliziani di Gheddafi avessero assediato decine di manifestanti fino a farli bruciare vivi.Ecco come il canale televisivo russo “Rt” riferisce i fatti: «Almeno 38 attivisti antigovernativi sono morti nell’incendio della Camera del Lavoro di Odessa a seguito del soffocamento per il fumo o dopo essere saltati dalle finestre dell’edificio in fiamme, ha riferito il ministro dell’Interno ucraino. L’edificio è stato dato alle fiamme dai gruppi radicali pro-Kiev». Così invece li racconta il “Corriere”: «Trentotto persone sono morte in un incendio scoppiato nella città ucraina di Odessa e legato ai disordini tra manifestanti filo russi e sostenitori del governo di Kiev». Così, genericamente, un incendio “legato ai disordini”… Ancora, il pezzo su “Repubblica” suona così: «È di almeno 38 morti anche il bilancio delle vittime degli scontri tra separatisti e lealisti a Odessa, città portuale ucraina sul Mar Nero. “Uno di loro è stato colpito da un proiettile”, ha riferito una fonte all’agenzia Interfax, “mentre per quel che riguarda gli altri non si conosce la causa della loro morte”. La sede dei sindacati è stata data alle fiamme. Le persone sono morte nell’incendio. Gli scontri sono violentissimi».La macabra contabilità si disperde in un groviglio in cui non si capisce chi fa che cosa, quanti muoiono in un episodio o in un altro, chi appicca gl’incendi. “L’Unità” riesce a fare peggio di tutti. La salma del giornale di Gramsci scrive infatti che la sede del sindacato è stata bruciata dai separatisti filo-russi (uno scoop malauguratamente ignorato in tutto il resto del mondo). A ulteriore dimostrazione che all’“Unità” non sanno quel che dicono, aggiungono che sono stati «abbattuti due elicotteri filorussi, Mosca furiosa», come se la rivolta avesse una sua aviazione all’opera. Naturalmente la notizia era inversa: due elicotteri d’assalto Mi-24 delle forze speciali di Kiev (che stanno combattendo assieme a contractors stranieri e milizie naziste), sono stati abbattuti dalle forze ribelli. Notizia molto preoccupante, se vista nelle sue implicazioni, possibilmente quelle esatte, della possibile escalation del conflitto.Se puntiamo di nuovo l’attenzione al rogo di Odessa, la conclusione è dunque chiara: gli organi di informazione nostrani sono reticenti, quando non falsificano, perché non riferiscono che le vittime sono state tutte di una parte, né che la causa immediata della loro morte sia stato un incendio doloso appiccato dalla milizia del partito nazista “Pravy Sektor” presso la sede di un sindacato. Questo accade nell’Odessa del 2014 e non nella Ferrara del 1921 né nella Stoccarda del 1932. A quel tempo c’erano ancora organi di informazione che raccontavano la portata reale della catastrofe, prima di esserne travolti. Non sappiamo ancora se il veleno della catastrofe politica di questo secolo potrà essere evitato, data la risolutezza degli apparati atlantisti nel precipitare nel caos l’Ucraina, paese chiave della sicurezza comune europea. L’unico antidoto esistente può funzionare solo se diventa un fenomeno politico e mediatico di massa: l’antidoto è informarsi e informare, fuori dalla ragnatela mediatica dominante, far sapere tutto su chi vuole estendere il grande incendio, ben oltre i palazzi di Odessa.(Pino Cabras, “L’incendio di Odessa e la stampa italiana”, da “Megachip” del 2 maggio 2014).Vediamo i lenzuoli sui corpi di decine di persone, nelle videoriprese di Odessa, in Ucraina. Lì è in atto un pogrom antirusso in pieno XXI secolo, con lancio di molotov, granate artigianali, assedi, bastonature. Squadre nazistoidi di Pravy Sektor (”Settore Destro”), protette e inquadrate anche nel resto del paese da una giunta insediatasi dopo aver allontanato con la violenza un presidente eletto regolarmente, stanno devastando i luoghi di aggregazione sociale e politica – ossia i partiti, le associazioni, i sindacati – di una parte della popolazione di Odessa (maggioritaria) identificabile come russa, russofona o filorussa. La polizia della città sul Mar Nero ha lasciato fare per ore. Ma le vergognose testate italiane fanno a gara per sopire e troncare la reale portata della notizia. Distinguere fra un generico incidente e una strage politica: il confine per capire quali tempi di fuoco si avvicinano passa da qui, dai 38 morti del 2 maggio di Odessa (per tacere degli altri episodi da guerra civile nel resto di un paese in bancarotta).
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Tempi duri per i nuovi Goebbels: il web li smaschera
Da sempre i governanti tentano di persuaderci circa la correttezza delle loro azioni, perché le folle non seguono gli uomini di cui si conosca appieno la cattiveria. Il XX secolo ha visto comparire nuove modalità di diffusione delle idee che non si fanno intralciare dalla verità. Gli occidentali fanno risalire la propaganda moderna al ministro nazista Joseph Goebbels. È un modo per far dimenticare che l’arte di distorcere la percezione delle cose è stata precedentemente sviluppata dagli anglosassoni. Nel 1916, il Regno Unito creò la Wellington House a Londra, seguita dalla Crewe House. Contemporaneamente, gli Stati Uniti crearono il Committee on Public Information (Cpi). Considerando che la Prima Guerra Mondiale contrapponeva le masse e non più solo le forze armate, queste organizzazioni hanno tentato di intossicare la propria popolazione altrettanto quanto quelle dei loro alleati e dei loro nemici.La propaganda moderna inizia con la pubblicazione a Londra del Rapporto Bryce sui crimini di guerra tedeschi, che fu tradotto in trenta lingue. Secondo questo documento, l’esercito tedesco aveva violentato migliaia di donne in Belgio, e pertanto l’ armata britannica lottava contro la barbarie. È stato scoperto alla fine della Prima Guerra Mondiale che l’intera relazione era una bufala, composta di false testimonianze con l’aiuto di giornalisti. Da parte sua, negli Stati Uniti, George Creel inventò un mito secondo il quale la Seconda Guerra Mondiale era una crociata delle democrazie per una pace volta a realizzare i diritti dell’umanità. Gli storici hanno dimostrato che la guerra mondiale rispondeva sia a cause immediate sia a cause profonde, delle quali la più importante era la competizione tra le grandi potenze per espandere i loro imperi coloniali.Gli uffici britannici e statunitensi erano organizzazioni segrete che lavoravano per conto dei loro Stati. A differenza della propaganda leninista, che aspirava a “rivelare la verità” alle masse ignoranti, gli anglosassoni cercavano di ingannarle per manipolarle. E per questo le agenzie statali anglosassoni dovevano nascondersi e usurpare delle false identità. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno trascurato la propaganda e le hanno preferito le pubbliche relazioni. Non si trattava più di mentire, ma accompagnare per mano i giornalisti affinché vedessero solo ciò che gli veniva mostrato. Durante la guerra del Kosovo, la Nato ricorse ad Alastair Campbell, consigliere del primo ministro britannico, affinché raccontasse alla stampa una storia edificante al giorno. Mentre i giornalisti la riproducevano, l’Alleanza poteva bombardare “in pace”. Lo storytelling puntava meno a mentire quanto semmai a distrarre.Tuttavia, lo storytelling è tornato in forze con i fatti dell’11 settembre 2001: si trattava di focalizzare l’attenzione del pubblico sugli attentati contro New York e Washington affinché non percepisse il colpo di Stato militare organizzato in quel giorno: il trasferimento dei poteri esecutivi del presidente Bush a un’unità militare segreta e gli arresti domiciliari di tutti i parlamentari. Questo avvelenamento avveniva particolarmente ad opera di Benjamin Rhodes, oggi consigliere di Barack Obama. Nel corso degli anni successivi, la Casa Bianca ha installato un sistema di intossicazione con i suoi alleati chiave (Regno Unito, Canada, Australia e naturalmente Israele). Ogni giorno questi quattro governi hanno ricevuto istruzioni o discorsi pre-scritti dall’Ufficio dei media globali per giustificare la guerra in Iraq o diffamare l’Iran. Per la rapida diffusione delle sue bugie, Washington si è appoggiata, sin dal dal 1989, alla Cnn. Nel corso del tempo, gli Stati Uniti hanno creato un cartello di catene d’informazione satellitari (Al-Arabiya, Al-Jazeera, Bbc, Cnn, France 24, Sky).Nel 2011, durante il bombardamento di Tripoli, la Nato giunse a sorpresa a convincere i libici che avevano perso la guerra e che era inutile resistere ancora. Ma nel 2012, la Nato non è riuscita a replicare questo modello e a convincere i siriani che il loro governo sarebbe inevitabilmente caduto. Questa tattica è fallita perché i siriani erano a conoscenza della manipolazione effettuata dalle televisioni internazionali in Libia e hanno potuto prepararsi. E questo fallimento segna la fine dell’egemonia di questo cartello dell’“informazione”. L’attuale crisi tra Washington e Mosca sull’Ucraina ha costretto l’amministrazione Obama a rivedere il proprio sistema. Infatti, Washington ora non è più la sola a parlare, deve contraddire il governo e i media russi, accessibili ovunque nel mondo via satellite e via internet. Il Segretario di Stato John Kerry ha perciò nominato un nuovo vice per la propaganda, nella persona dell’ex direttore di “Time Magazine”, Richard Stengel. Ancor prima di prestare giuramento, il 15 aprile, stava già occupando il suo ufficio e, dal 5 marzo, ha inviato ai principali mezzi di comunicazione atlantisti una “Scheda documentata” sulle “10 contro-verità” che Putin avrebbe enunciato sull’Ucraina. Si ripeteva il 13 aprile con una seconda scheda che presentava “10 altre contro-verità”.Ciò che colpisce nel leggere questa prosa è la sua inettitudine. Punta a convalidare la storia ufficiale di una rivoluzione a Kiev e screditare il discorso russo sulla presenza di nazisti nel nuovo governo. Tuttavia, ora sappiamo che in realtà più che di una rivoluzione, si trattava casomai di un colpo di Stato organizzato dalla Nato e attuato dalla Polonia e da Israele mescolando le ricette delle “rivoluzioni colorate” e delle “primavere arabe”. I giornalisti che hanno ricevuto queste schede e le hanno ritrasmesse conoscevano perfettamente le registrazioni delle conversazioni telefoniche dell’assistente del segretario di Stato Victoria Nuland, sulla maniera in cui Washington avrebbe cambiato il regime a spese dell’Unione europea, e il ministro affari esteri estone Urmas Paets sulla vera identità dei cecchini di Maidan. Inoltre, hanno poi appreso le rivelazioni del settimanale polacco “Nie” sulla formazione – due mesi prima degli eventi – dei rivoltosi nazisti presso l’Accademia di polizia polacca.Quanto a negare la presenza di nazisti nel nuovo governo ucraino, equivale ad affermare che la notte è luminosa. Non è nemmeno necessario andare a Kiev, per constatarlo basta leggere gli scritti degli attuali ministri o ascoltare i loro propositi. In definitiva, se questi argomenti contribuiscono a dare l’illusione di un ampio consenso dei media atlantisti, non hanno alcuna possibilità di convincere i cittadini curiosi. Al contrario, è così facile con Internet scoprire l’inganno che questo tipo di manipolazione non potrà che intaccare ancora di più la credibilità di Washington. L’unanimità dei media atlantisti in occasione dell’11 Settembre ha consentito di convincere l’opinione pubblica internazionale, ma il lavoro svolto da molti giornalisti e cittadini – di cui sono stato precursore – ha dimostrato l’impossibilità materiale della versione ufficiale. Tredici anni dopo, centinaia di milioni di persone sono diventate consapevoli di quelle menzogne.Questo processo potrà solo crescere, dato il nuovo dispositivo di propaganda statunitense. In definitiva, tutti coloro che riamplificano gli argomenti della Casa Bianca, specie i governi e i media della Nato, distruggono da soli la propria credibilità. Barack Obama e Benjamin Rhodes, John Kerry e Richard Stengel hanno effetto solo a breve termine. La loro propaganda convince le masse solo per poche settimane e fa sì che si ribellino quando capiscono la manipolazione. Involontariamente, minano la credibilità delle istituzioni degli Stati della Nato che le ritrasmettono consapevolmente. Hanno dimenticato che la propaganda del XX secolo poteva avere successo solo perché il mondo era diviso in blocchi che non comunicavano tra loro, e che il suo principio monolitico è incompatibile con i nuovi mezzi di comunicazione. La crisi ucraina non è finita, ma ha già profondamente cambiato il mondo: nel contraddire in pubblico il presidente degli Stati Uniti, Vladimir Putin ha compiuto un passo che ormai impedisce il successo della propaganda statunitense.(Thierry Meyssan, “Verso la fine della propaganda statunitense”, da “Megachip” del 20 aprile 2014).Da sempre i governanti tentano di persuaderci circa la correttezza delle loro azioni, perché le folle non seguono gli uomini di cui si conosca appieno la cattiveria. Il XX secolo ha visto comparire nuove modalità di diffusione delle idee che non si fanno intralciare dalla verità. Gli occidentali fanno risalire la propaganda moderna al ministro nazista Joseph Goebbels. È un modo per far dimenticare che l’arte di distorcere la percezione delle cose è stata precedentemente sviluppata dagli anglosassoni. Nel 1916, il Regno Unito creò la Wellington House a Londra, seguita dalla Crewe House. Contemporaneamente, gli Stati Uniti crearono il Committee on Public Information (Cpi). Considerando che la Prima Guerra Mondiale contrapponeva le masse e non più solo le forze armate, queste organizzazioni hanno tentato di intossicare la propria popolazione altrettanto quanto quelle dei loro alleati e dei loro nemici.
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Crisi ucraina, perché il Fatto attacca Giulietto Chiesa?
«Giulietto Chiesa mente», scrisse tanti anni fa l’agenzia Tass, quando al Cremlino c’era Breznev, che evidentemente non gradiva l’indipendenza del corrispondente italiano. Oggi, nel 2014, lo stesso Chiesa viene definito «più zarista di Putin». Da chi? Dal “Fatto Quotidiano”, che per colpire l’autore de “La guerra infinita” ospita un insolito corsivo «non firmato, quindi redazionale», che per Chiesa è «un attacco in perfetto stile maccartista, proprio da caccia alle streghe». L’imputazione: passare, su “Pandora Tv”, «le veline di “Russia Today”, il network mediatico del Cremlino», arrivando a sostenere che l’Est dell’Ucraina sia abitato da “russi”. «Se lo sentisse Putin, lo licenzierebbe», scrive il “Fatto”. Replica Chiesa: «Chi scrive non sa, evidentemente, che in Ucraina ci sono all’incirca dieci milioni di russi», cioè cittadini ucraini di etnia russa che «non si fidano dei gestori provvisori di Kiev». E attenzione: «Non sono solo russi, quelli che si difendono contro la giunta militare golpista di Kiev: ci sono anche molti ucraini non russi».Perché il “Fatto” si scaglia contro l’ex corripondente da Mosca? Giulietto Chiesa ha lavorato per “L’Unità”, per “La Stampa”, per la Rai, per il Tg5. Ha insegnato all’università negli Stati Uniti, ha fondato con Mikhail Gorbaciov il “World Political Forum”, assise internazionale permanente per riflettere sulla governance mondiale dopo la fine della guerra fredda. Soprattutto, da almeno dieci anni, è impegnato nella denuncia sulle falsisficazioni del massimo tabù nel nuovo secolo, gli attentati dell’11 Settembre frettolosamente attribuiti a Bin Laden, già plenipotenziario della Cia in Afghanistan prima di diventare “lo sceicco del terrore”, capace di accendere la miccia da cui sono scaturite tutte le guerre degli ultimi anni, a cominciare dall’Afghanistan e dall’Iraq. Di tutti gli opinion leader più in vista, forti del loro riconosciuto prestigio personale – scrisse tempo fa un osservatore scomodo e intransigente come Paolo Barnard – Giulietto Chiesa è l’unico che sia stato capace di rinunciare davvero a tutte le comodità del suo rango pur di continuare a impegnarsi, senza compromessi, per lo smascheramento delle menzogne ufficiali.«Se ci fosse un’informazione decente in questo paese, non avrei pensato a fondare “Pandora Tv”», replica oggi Chiesa. Che accusa: sull’Ucraina, i media mainstream hanno oscurato la notizia principale, all’inizio della crisi, e cioè «non ha mostrato le immagini dei poliziotti di Maidan bruciati dai pacifici dimostranti nazisti armati di lanciafiamme». Al “Fatto”, Giulietto Chiesa risponde così: «Fornite le notizie, non censuratele». In altre parole: meglio la voce di “Rt” che le “veline” di John Kerry. Sempre più spesso, oggi, si invertono gli schemi: increscioso, per Barbara Spinelli, che a dare asilo a Edward Snowden non sia stata la civile Europa, colpita dal Datagate persino con lo spionaggio ai danni del telefono personale di Angela Merkel. Snowden, cui dobbiamo la verità sulle intercettazioni di massa della Nsa, ha ottenuto rifugio solo presso Vladimir Putin.Giulietto Chiesa si dichiara stupito che questo attacco «personale, diretto, insultante» non provenga da “Repubblica” o dal “Corriere”, ma dal “Fatto”. Giovanni Miotto, un abbonato del giornale di Padellaro, Gomez e Travaglio, protesta pubblicamente, dando ragione a Chiesa: «Nelle pagine del “Fatto” dedicate agli esteri, da mesi ormai regna la disinformazione». Miotto riferisce di aver appena scritto «una mail di protesta» alla direzione del giornale, lamentandosi «dell’insostenibile livello di quanto pubblicato sull’Ucraina». Quanto a “Russia Today” – che “Pandora” riprende in italiano, via web – ha semplicemente raccontato i fatti, sottraendosi alla censura occidentale organizzata proprio da Kerry. «Dire che siamo dei “velinari di Rt” è semplicemente un insulto: e si ricorre all’insulto quando non si hanno argomenti», aggiunge Chiesa, presentato dal “Fatto” come una sorta di “dipendente” di Putin. «Qui ci sarebbero gli estremi per una querela, ma non voglio aspettare dieci anni per avere ragione: la ragione è già tutta nella mia storia professionale di corrispondente e di scrittore, non ho bisogno di altro». Il primo a calunniarlo, accusandolo di «essere stato pagato dal Kgb», fu Bettino Craxi, poi condannato per diffamazione.«Giulietto Chiesa mente», scrisse tanti anni fa l’agenzia Tass, quando al Cremlino c’era Breznev, che evidentemente non gradiva l’indipendenza del corrispondente italiano. Oggi, nel 2014, lo stesso Chiesa viene definito «più zarista di Putin». Da chi? Dal “Fatto Quotidiano”, che per colpire l’autore de “La guerra infinita” il 26 aprile ospita un insolito corsivo «non firmato, quindi redazionale», che per Chiesa è «un attacco in perfetto stile maccartista, proprio da caccia alle streghe». L’imputazione: passare, su “Pandora Tv”, «le veline di “Russia Today”, il network mediatico del Cremlino», arrivando a sostenere che l’Est dell’Ucraina sia abitato da “russi”. «Se lo sentisse Putin, lo licenzierebbe», scrive il “Fatto”. Replica Chiesa: «Chi scrive non sa, evidentemente, che in Ucraina ci sono all’incirca dieci milioni di russi», cioè cittadini ucraini di etnia russa che «non si fidano dei gestori provvisori di Kiev». E attenzione: «Non sono solo russi, quelli che si difendono contro la giunta militare golpista di Kiev: ci sono anche molti ucraini non russi».
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Polizia violenta? L’Italia può ringraziare i suoi politici
«Quel poliziotto è un cretino, va punito», dice il capo della polizia, Alessandro Pansa, commentando l’immagine dell’agente in borghese che calpesta una ragazza a terra, alla manifestazione dei movimenti per la casa il 12 aprile a Roma. «E’ terribile, gli agenti non possono picchiare così», rincara la dose Filippo Bubbico, viceministro dell’interno. Altri invece difendono gli agenti: impossibile criminalizzare poliziotti bersagliati dal lancio di bottiglie e bulloni, biglie e sampietrini. «Non sono contro la polizia, ne ho solo paura». Parola di Alfred Hitchcock. «E se lo diceva lui, riconosciuto maestro del brivido, qualcosa vorrà pur dire», scrive Rossella Guadagnini. «Possiamo fidarci della polizia e di quella italiana in particolare?». Taglia corto il criminologo Francesco Carrer: «Ogni paese ha la polizia che si merita, la polizia che è stato capace di darsi: il che sarà democratico, ma garantisce risultati prevedibili».Censura e condiscendenza, rabbia e difesa corporativa, sconcerto e meraviglia: sono le emozioni che, dopo gli ultimi scontri di piazza, hanno scosso l’opinione pubblica stavolta in prima fila per via dei filmati resi pubblici, scrive Guadagnini su “Micromega”. «Le immagini nitide ed esplicite sono passate e ripassate in tv, in rete, sui social network», e la foto-shock dei ragazzi schiacciati per terra «ha fatto il giro del mondo». Le “cose” si sono viste, eccome: «I pestaggi, la violenza, l’intimidazione, la forza, la rabbia, la paura». Per Luigi Manconi, presidente della Commissione parlamentare sui diritti umani, «sono troppe le illegalità commesse negli ultimi 15 anni da militari chiamati a gestire l’ordine pubblico». Lo dicono i nomi di Giuliani, Uva, Sandri, Cucchi, Aldrovandi e Shalabayeva. «Raccontano una storia fatta di sopraffazioni e violenze ingiustificate a opera di chi è chiamato a difenderci», scrive la Guadagnini. «Una storia di abusi coperti da falsità e bugie nel tentativo di nascondere e proteggere i veri colpevoli».Indossare una divisa non significa essere autorizzati a travestirsi da giustizieri armati. «La polizia ha sempre funzionato come termometro della democrazia», spiega Marco Preve, autore di un saggio appena uscito per “Chiarelettere”, intitolato “Il partito della Polizia”. «Più è presente in una società, meno quella società è libera e democratica». Nessuno Stato può fare a meno della polizia, ammette Preve, perché ad essa sono affidati l’ordine pubblico, la difesa della proprietà privata, l’incolumità delle persone. Dunque, «il sacrificio di una piccola porzione di libertà individuale vale la pena se, in cambio, tutti si sentono più sicuri. A patto che, attraverso le istituzioni, la società sia in grado di controllare l’operato dei poliziotti e riesca a intervenire laddove emergano degli abusi. Nessun abuso, infatti, può essere commesso contro cittadini inermi. Se non è così – aggiunge Preve – i responsabili devono saltare, ma in Italia ciò non è avvenuto. E continua a non avvenire, dai tempi delle torture alle Br fino alle morti di Cucchi, Aldrovandi, Uva e molti altri: la polizia non garantisce la sicurezza, la politica non sorveglia, la stampa non sempre denuncia, la magistratura non sempre indaga».Il perché questa anomalia lo rivela Filippo Bertolami, vicequestore e sindacalista di polizia. «Negli ultimi anni si è assistito al paradosso di un sistema capace da un lato di coprire e premiare i colpevoli di violenze e insabbiamenti, dall’altro di punire chi ha “osato” mettersi di traverso». Imputati, condannati, premiati: a vincere è la paura, riassume Rossella Guadagnini. Il “partito della polizia” è «troppo forte», conta su «troppe protezioni politiche a destra e a sinistra», ricorda Preve, «da Berlusconi a Prodi, da Violante a Renzi». De Gennaro, capo della polizia al G8 di Genova? «E’ diventato presidente di Finmeccanica e i suoi collaboratori non si toccano. Troppe onorificenze, troppe amicizie, anche tra i media. Intanto le auto rimangono senza benzina e gli agenti continuano ad avere stipendi da fame, mentre vengono assegnati appalti miliardari».Il “partito della polizia” è anche un partito degli affari: «Se non c’è una cultura del diritto in chi orienta il pensiero collettivo – sostiene il criminologo Francesco Carrer – mi chiedo come possa nascere in un corpo di polizia i cui vertici sono più attenti ai desiderata dei politici che alle esigenze di chi è in prima linea». Un ragionamento che, volenti o nolenti, secondo Guadagnini non fa una piega. Per Preve, i gruppi che hanno controllato e controllano i vertici del Dipartimento della pubblica sicurezza «hanno potuto permettersi, o consentire ai loro fedelissimi, comportamenti al di sopra delle regole e delle istituzioni». E questo, precisa Preve, nonostante una “base” «sicuramente non collusa, in molti casi insofferente e addirittura vittima di questa gestione». Il giornalista fissa un discrimine: tutto questo è potuto accadere a partire dal 21 luglio 2001, la notte della “macelleria messicana” della scuola Diaz.«Quel poliziotto è un cretino, va punito», dice il capo della polizia, Alessandro Pansa, commentando l’immagine dell’agente in borghese che calpesta una ragazza a terra, alla manifestazione dei movimenti per la casa il 12 aprile a Roma. «E’ terribile, gli agenti non possono picchiare così», rincara la dose Filippo Bubbico, viceministro dell’interno. Altri invece difendono gli agenti: impossibile criminalizzare poliziotti bersagliati dal lancio di bottiglie e bulloni, biglie e sampietrini. «Non sono contro la polizia, ne ho solo paura»: parola di Alfred Hitchcock. «E se lo diceva lui, riconosciuto maestro del brivido, qualcosa vorrà pur dire», scrive Rossella Guadagnini. «Possiamo fidarci della polizia e di quella italiana in particolare?». Taglia corto il criminologo Francesco Carrer: «Ogni paese ha la polizia che si merita, quella che è stato capace di darsi: il che sarà democratico, ma garantisce risultati prevedibili».
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Gli 007: l’Italia soffre e protesta, ma non farà rivoluzioni
L’Italia in preda alla grande crisi sta soffrendo molto, ma la protesta è rimasta finora all’interno di limiti accettabili, grazie anche agli ammortizzatori sociali e all’azione moderatrice dei sindacati. Lo sostengono i servizi segreti, nella relazione annuale indirizzata al Parlamento. Secondo l’Aisi, per cui l’estremismo di destra non supera il folklore dei “forconi” o la violenza sporadica degli ultras del calcio, il problema sono le «strumentalizzazioni estremiste», che – potenziate dalla capacità di comunicazione del web – conterrebbero una potenziale «minaccia eversiva». Nel mirino degli 007, le “frange estreme” ai margini dei principali movimenti sociali: No-Tav e No-Muos, movimento per la casa, Terra dei Fuochi, comitati milanesi contro l’Expo 2015. E’ l’Italia che alza la voce nella sua protesta anti-crisi, quella che contesta il Fiscal Compact e i trattati neoliberisti della Troika europea, «con l’obiettivo di aggregare la militanza attorno all’appello “anticapitalista”», una lotta dal basso «per costruire un’alternativa all’attuale sistema economico, sociale e politico».In pratica, segnala Federico Rucco su “Contropiano”, a suscitare l’attenzione dei servizi segreti sono «i movimenti di sinistra e antagonisti», quelli che «intervengono nel “sociale” in tutte le sue declinazioni (sindacali, problema abitativo, ambientale, antimilitarista». Non mancano gli anarchici, che «continuano ad essere identificati come la minaccia principale». Una “lettura politica” estremamente interessante, annota Rucco. Premessa: «Gli ammortizzatori sociali e il ruolo di mediazione dei sindacati confederali – scrive l’Aisi – hanno continuato ad agire da depotenziatori del conflitto, limitando i margini d’intervento delle frange estreme della sinistra antagonista». Per “Contropiano”, «non si potrebbe definire in modo più chiaro quello che siamo andati denunciando in questi anni rispetto al ruolo di Cgil, Cisl e Uil». Le lotte nei call center e nella logistica vengono indicate come «sporadiche, emergenti forme di autorganizzazione operaia».Per i servizi di sicurezza, «il ruolo del web si è confermato determinante quale amplificatore delle iniziative di lotta funzionale allo sviluppo di campagne condivise». Interessante l’analisi sulla dinamica dei conflitti sociali. All’Aisi non sfugge l’importanza della due giorni di mobilitazione nazionale del 18 e 19 ottobre «con lo sciopero generale dei sindacati di base e la manifestazione per il diritto alla casa e contro la crisi». Agli analisti dell’intelligence non sfugge l’importanza di forme di lotta come «la pratica dell’occupazione della piazza», che – pensando a Turchia, Grecia e Spagna – potrebbe «diventare una pratica di aggregazione del consenso facilmente replicabile anche altri ambiti, sia territoriali che tematici». Allarme rosso, ovviamente, per la mobilitazione in Sicilia contro l’insediamento militare Usa del Muos a Niscemi. Secondo i servizi, «il movimento No-Muos continua a vedere impegnati da un lato i “comitati popolari” intenzionati a muoversi in un contesto legale, e dall’altro componenti radicali determinate a compiere, con il supporto di esponenti antagonisti e anarchici siciliani, azioni di lotta più incisive, incentrate prioritariamente sulla tematica antimilitarista».Oltre alla crescita «dell’attivismo degli ambienti antimperialisti a sostegno della causa palestinese», l’Aisi rileva le «proteste di crescente spessore dell’antagonismo lombardo contro l’Expo di Milano 2015» e di quello pugliese contro il gasdotto Tap. Riferendosi poi alla Campania e alla Terra dei Fuochi, i servizi segreti sottolineano che è sotto «attenzione informativa» il tentativo, da parte di «settori dell’antagonismo locale», di «strumentalizzare la tematica, inserendosi nella protesta animata dalla popolazione locale». Ovviamente, aggiunge Rucco, un ampio dossier è dedicato al movimento No-Tav. In valle di Susa, secondo i servizi, c’è una netta differenziazione tra le «frange oltranziste» e la «componente popolare» del movimento, decisa a continuare una “resistenza “pacifica” alla grande opera, «anche se nel suo ambito – sempre secondo i servizi – si sono talora registrate posizioni di acquiescenza ad episodi di sabotaggio». E attenzione: alla lunga, la popolazione potrebbe dare segni di esasperazione. I servizi temono «l’innalzamento del livello di contrapposizione quale inevitabile conseguenza della “reazione” della popolazione a politiche decise dall’alto e al dispositivo repressivo».Quanto alle frange a vocazione violenta – anarchiche o marx-leniniste – la conclusione a cui giungono i servizi segreti è che «si tratta di gruppi esigui, in condizione di minoranza rispetto all’area antagonista». Al più, è possibile temere «azioni violente di limitato spessore operativo da parte di aggregazioni estemporanee o di individualità, intese non tanto a colpire il cuore del sistema, quanto piuttosto a dimostrare la capacità di ribellione, al fine di alimentare una progressiva radicalizzazione delle istanze contestative». Forte la sottolineatura sul ruolo di “pompieri sociali” svolto dalle organizzazioni sindacali, efficaci nel contenere il conflitto sociale in modo che resti «più ribelle che rivoluzionario». Conclude Rucco: «Chissà se l’iconoclastia di Renzi verso i sindacati e gli ammortizzatori sociali terrà conto di questo suggerimento dei servizi di sicurezza».L’Italia in preda alla grande crisi sta soffrendo molto, ma la protesta è rimasta finora all’interno di limiti accettabili, grazie anche agli ammortizzatori sociali e all’azione moderatrice dei sindacati. Lo sostengono i servizi segreti, nella relazione annuale indirizzata al Parlamento. Secondo l’Aisi, per cui l’estremismo di destra non supera il folklore dei “forconi” o la violenza sporadica degli ultras del calcio, il problema sono le «strumentalizzazioni estremiste», che – potenziate dalla capacità di comunicazione del web – conterrebbero una potenziale «minaccia eversiva». Nel mirino degli 007, le “frange estreme” ai margini dei principali movimenti sociali: No-Tav e No-Muos, movimento per la casa, Terra dei Fuochi, comitati milanesi contro l’Expo 2015. E’ l’Italia che alza la voce nella sua protesta anti-crisi, quella che contesta il Fiscal Compact e i trattati neoliberisti della Troika europea, «con l’obiettivo di aggregare la militanza attorno all’appello “anticapitalista”», una lotta dal basso «per costruire un’alternativa all’attuale sistema economico, sociale e politico».
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Castells: grazie a Internet, la libertà non è più utopia
Premessa: «Il potere sta nella mente delle persone». Se controlli il modo in cui la gente pensa, comunica, si informa, controlli il potere. La riflessione non è certo nuova o rivoluzionaria, ma sono nuove (rivoluzionarie?) le conseguenze che produce in un’epoca come la nostra, in cui ogni minuto «in rete vengono mandati all’incirca centomila tweet, condivisi un milione e mezzo tra aggiornamenti e commenti Facebook e inviate oltre centosettanta milioni di mail». Ecco perché «le battaglie per la libertà nel nuovo sistema di comunicazione sono battaglie più importanti di quelle sul salario minimo». Lo dice Manuel Castells, il sociologo catalano-statunitense che ha insegnato a Berkeley per 25 anni (oggi è docente all’University of Southern California) e ha scritto libri celebri come “Galassia Internet”, “Comunicazione e potere” e la trilogia “L’età dell’informazione”.Lo spiega in un dialogo con Tomás Ibañez, a cui dobbiamo un ottimo “elogio del relativismo” pubblicato da Elèuthera nel 2012 (”Il libero pensiero”). Elèuthera ora ripropone anche questo botta e risposta informale, pubblicato in Spagna nel 2006. Titolo: “Dialogo su anarchia e libertà nell’era digitale”. Un libretto agile. Più che altro un’introduzione al tema. In cui si sostiene che l’era digitale ha creato le condizioni perché l’anarchismo (lui lo definisce “neoanarchismo”) e il pensiero libertario tornassero d’attualità. «Nella società attuale esiste un’esigenza di libertà» che va al di là dell’ideologia o delle battaglie condotte dai nuovi movimenti “alteromondisti”. E’ una questione empirica e strutturale. Ha a che vedere con la possibilità di costituire facilmente «reti di relazioni tra individualità», quindi non più individui atomizzati che subiscono passivamente il mercato anonimo e la comunicazione di massa.I movimenti si auto-organizzano e a volte riescono a darsi strutture autonome senza gerarchie stabilite, che lavorano in una sorta di assemblea permanente (una delle pratiche utopiche tipiche del pensiero anarchico). D’altra parte oggi è «la stessa struttura produttiva a richiedere, per essere più efficiente di prima, un funzionamento basato su strutture organizzative non gerarchizzate». Sta cambiando anche il modello di sviluppo, nel quale si intravvedono «modalità e relazioni che si allontanano dalle posizioni propriamente capitaliste e che si avvicinano al libertarismo». Nei tempi in cui viviamo, lo Stato, contro cui ha tradizionalmente lottato l’anarchismo, è diventato uno “strumento di dominio secondario”. La battaglia si è spostata sul piano della produzione e diffusione delle idee.E’ vero che le tecnologie informatiche non sono in grado di «promuovere, di per sé, un cambiamento sociale positivo», anche perché consentono alle autorità di avere un controllo senza precedenti sugli individui e le reti che li uniscono. Ma è pur vero che si tratta di “tecnologie di libertà” malleabili, flessibili: sono insomma un’occasione senza precedenti. Attraverso Internet ti possono sorvegliare, certo, ma potevano farlo anche prima, la differenza è che ora, grazie a Internet (a un suo utilizzo consapevole) «anche tu li puoi sorvegliare». Molto utile la postfazione di Andrea Staid, che mette i puntini sulle “i” e aggiorna il dialogo ai tempi (recentissimi) delle cosiddette “wikirivolte”, i nuovi movimenti insurrezionali che hanno spazzato via dittature longeve «nel più completo stupore delle democrazie occidentali».Non c’è rivoluzione che non abbia sfruttato il medium dell’epoca (una citazione di Foucault ci ricorda la funzione rivoluzionaria dei discorsi di Khomeini diffusi sotto forma di audiocassette) e quindi anche i social media possono essere uno strumento importante. Ma non potranno mai sostituire «la condivisione fisica delle emozioni» che avviene nelle strade e nelle piazze. Staid avverte: «Non dobbiamo commettere l’errore di pensare che sarà la rete a salvarci… Non basterà Internet per risolvere il problema dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sugli animali, sulla terra. La mutazione culturale libertaria deve essere in grado di penetrare nelle reti di rapporti reali fra esseri umani». Insomma, la cara vecchia battaglia per “decostruire il dominio”». Una cosa è certa: il pensiero libertario (l’anarchismo) non può che essere pluralista, “in divenire” e anti-dogmatico, si deve nutrire di una “concezione relativista critica”, quindi deve essere in grado di adattarsi ai contesti e alle circostanze, soprattutto oggi, in un’epoca in cui, come dice Castells, «il nodo problematico che caratterizza la società rimanda all’idea di libertà», che non può essere solo quella dell’individuo ma la «libertà di tutti».(Fabrizio Tassi, “Tecnologie di libertà”, da “Micromega” dell’11 marzo 2014. Il libro: Manuel Castells e Tomàs Ibañez, “Dialogo su anarchia e libertà nell’era digitale”, Eléuthera, 67 pagine, 7 euro).Premessa: «Il potere sta nella mente delle persone». Se controlli il modo in cui la gente pensa, comunica, si informa, controlli il potere. La riflessione non è certo nuova o rivoluzionaria, ma sono nuove (rivoluzionarie?) le conseguenze che produce in un’epoca come la nostra, in cui ogni minuto «in rete vengono mandati all’incirca centomila tweet, condivisi un milione e mezzo tra aggiornamenti e commenti Facebook e inviate oltre centosettanta milioni di mail». Ecco perché «le battaglie per la libertà nel nuovo sistema di comunicazione sono battaglie più importanti di quelle sul salario minimo». Lo dice Manuel Castells, il sociologo catalano-statunitense che ha insegnato a Berkeley per 25 anni (oggi è docente all’University of Southern California) e ha scritto libri celebri come “Galassia Internet”, “Comunicazione e potere” e la trilogia “L’età dell’informazione”.
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Goldman Sachs, il super-potere che fa il lavoro di Dio
Dall’inizio della crisi economica, la Goldman Sachs, una delle maggiori banche d’investimento a livello mondiale, è stata spesso presa di mira e perfino scambiata per una specie di Leviatano di predatori finanziari senza scrupoli. In un articolo pubblicato su “Rolling Stone” nel 2009, Matt Taibbi l’ha definita una macchina che produce bolle e crisi economiche a ripetizione. Un paio d’anni dopo, lo scrittore americano William Cohan ha paragonato la Goldman Sachs a un oscuro e potentissimo “governo del mondo”. Le solite teorie del complotto da aggiungere alla lunga lista di deliri virali che popolano il magico mondo della rete? Non è proprio così. Nel 2007, la Goldman Sachs ha indirettamente contribuito alla crisi mondiale del cibo attraverso ingenti speculazioni nei mercati dei derivati che, a loro volta, hanno provocato aumenti vertiginosi dei prezzi dei generi alimentari.Questo ha inevitabilmente incrementato la malnutrizione e scatenato rivolte popolari in molti paesi in via di sviluppo. Nel 2008, la banca di Wall Street ha contribuito al crollo dell’economia mondiale attraverso la diffusione dei mutui tossici sub-prime e le scommesse contro le “collateralized debt obligations”. È importante ricordare inoltre che la Goldman Sachs è stata riconosciuta colpevole da un punto di vista penale per le attività di “insider trading” nello stato della California. Nel 2009, la banca americana ha contribuito a creare alcune delle condizioni della crisi nell’Eurozona, aiutando ad esempio il governo della Grecia a “cucinare” e mascherare i dati sul debito pubblico nazionale tra gli anni 1998 e 2009. La metafora “Goldman Sachs, macchina delle crisi” sembra chiarita ora, ma perché parlare anche di “governo del mondo”?Dall’inizio degli anni ‘80, dopo l’avvento della finanziarizzazione neoliberista, la Goldman Sachs ha aumentato in modo esponenziale il suo potere politico. Le ingenti quantità di ricchezza accumulate attraverso l’uso e l’abuso dei derivati sono state in parte investite in finanziamenti di campagne elettorali e attività di lobby. La Goldman Sachs è poi riuscita, grazie al sistema delle “porte girevoli”, a piazzare alcuni dei suoi uomini migliori in posizioni politiche di rilievo nei governi degli Stati Uniti e in Europa. Tra gli ex banchieri della Goldman Sachs, che hanno ricoperto cariche politiche importanti negli Stati Uniti, ricordiamo Henry Paulson, ex segretario al Tesoro durante l’amministrazione Bush figlio, Robert Rubin, ex segretario al Tesoro durante l’amministrazione Clinton, Timothy Geithner ex segretario al Tesoro durante l’amministrazione Obama, Mark Patterson, ex capo del personale al segretario al Tesoro e Stephen Friedman, ex presidente della Federal Reserve Bank di New York.Tra i leader di Goldman Sachs che hanno occupato importanti cariche di governo in Europa, ricordiamo invece Mario Draghi, attuale capo della Banca Centrale Europea (Bce), Mario Monti, ex primo ministro d’Italia, Otmar Issing, ex membro del consiglio della Bundesbank e della Bce, Karelvan Miert, ex commissario alla concorrenza dell’Unione Europea, Antonio Borges, ex capo del Fondo Monetario internazionale (Fmi), Lucas Papademos, ex primo ministro della Grecia e Peter Sutherland, ex procuratore generale d’Irlanda. Non male, vero? L’assunzione di alte cariche istituzionali da parte di ex dirigenti della Goldman Sachs non è tuttavia evidenza sufficiente per dire che “governa il mondo.”C’è dell’altro, però. Oltre a contribuire a generare crisi mondiali, aiutare politici a vincere le elezioni, fare lobby per ottenere favori fiscali e piazzare i suoi uomini negli uffici governativi che dovrebbero disciplinare le attività speculative, la Goldman Sachs si permette pure il lusso di suggerire ricette economiche ai governi. Provate a pensare alle riforme adottate negli Stati Uniti e in Europa negli anni successivi il collasso della Lehman Brothers. Prima c’è stato il salvataggio delle banche “troppo-grandi-per-fallire” con circa 12 trilioni di dollari di denaro pubblico (il Prodotto Interno Lordo del mondo è di circa 70 trilioni di dollari). Poi, sono arrivate le riforme finanziarie all’acqua di rose che hanno evitato di regolare i circa 600 trilioni di dollari di derivati che hanno messo in ginocchio l’economia. Infine, sono state adottate le famose politiche di austerità. Ma chi ha guadagnato da queste riforme?A pensar male si fa presto, ma sentite cos’ha scritto John Williamson, ideologo delle politiche di deregolamentazione finanziaria neoliberista del Consenso di Washington: «I tempi peggiori (come le crisi economiche) danno luogo alle migliori opportunità per chi comprende la necessità di fondamentali riforme economiche». Poi ha aggiunto: «Ci si dovrà chiedere se, concettualmente, potrebbe avere un senso pensare di provocare una crisi deliberatamente… in modo da spaventare tutti ad accettare questi cambiamenti». Qualche tempo fa, un giornalista ha chiesto a Lloyd Blankfein, amministratore delegato della Goldman Sachs, se fosse giusto imporre dei limiti ai compensi dei suoi top manager. Il banchiere ha risposto che «mettere un limite alla loro ambizione sarebbe sbagliato perché i banchieri adempiono un compito fondamentale nella società: fanno il lavoro di Dio».(Roberto De Vogli, “Goldman Sachs, la macchina delle crisi che fa il lavoro di Dio”, da “Il Fatto Quotidiano” del 14 marzo 2014).Dall’inizio della crisi economica, la Goldman Sachs, una delle maggiori banche d’investimento a livello mondiale, è stata spesso presa di mira e perfino scambiata per una specie di Leviatano di predatori finanziari senza scrupoli. In un articolo pubblicato su “Rolling Stone” nel 2009, Matt Taibbi l’ha definita una macchina che produce bolle e crisi economiche a ripetizione. Un paio d’anni dopo, lo scrittore americano William Cohan ha paragonato la Goldman Sachs a un oscuro e potentissimo “governo del mondo”. Le solite teorie del complotto da aggiungere alla lunga lista di deliri virali che popolano il magico mondo della rete? Non è proprio così. Nel 2007, la Goldman Sachs ha indirettamente contribuito alla crisi mondiale del cibo attraverso ingenti speculazioni nei mercati dei derivati che, a loro volta, hanno provocato aumenti vertiginosi dei prezzi dei generi alimentari.
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Rottamano la Costituzione perché hanno paura di noi
Pessima trovata, abolire il Senato. Segno di una politica senza idee, che ha paura degli elettori. E tenta di rifarsi il trucco per nascondere la sua incapacità di affrontare i veri problemi che abbiamo di fronte: «La concentrazione del potere economico e gli andamenti della finanza mondiale, l’impoverimento e il degrado del pianeta, le migrazioni di popolazioni. Ne subiamo le conseguenze, senza poter agire sulle cause». E la classe dirigente? «Non dirige un bel niente», accusa Gustavo Zagrebelsky. «Non tenta di mettere la testa fuori. Per far questo, occorrerebbe avere idee politiche e almeno tentare di metterle in pratica». Così, resta solo «il formicolio della lotta per occupare i posti migliori nella rete dei piccoli poteri oligarchici», un formicolio «che allontana e disgusta la gran parte che ne è fuori». Pura «autoconservazione del sistema di potere e dei suoi equilibri». Dietro ai tweet di Matteo Renzi, il giurista torinese vede «il blocco d’una politica che gira a vuoto, funzionale al mantenimento dello status quo».Una volta, ricorda Zagrebelsky, Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani definirono “razza padrona” un certo equilibrio oligarchico del potere. «Oggi, piuttosto riduttivamente, la chiamiamo “casta”. Un’interpretazione è che un sistema di potere incartapecorito e costretto sulla difensiva, avesse bisogno di rifarsi il maquillage. Se questo è vero, è chiaro che occorrevano accessori, riverniciature: il renzismo mi pare un epifenomeno». La classe dirigente italiana? «E’ decaduta a un livello culturale imbarazzante. La ragione è semplice: di cultura politica, la gestione del potere per il potere non ha bisogno. Sarebbe non solo superflua, ma addirittura incompatibile», dice il presidente onorario della Consulta alla giornalista Silvia Truzzi del “Fatto Quotidiano”. Sgomenta la memoria degli uomini che gestirono la ricostruzione del paese nel dopoguerra: Parri, Nenni, De Gasperi, Einaudi, Togliatti. «Non è che avessero le stesse idee, ma ne avevano: e le idee davano un senso politico alla loro azione».Le cose che oggi vengono dette e fatte dai politici «sono pezze, rattoppi d’emergenza necessari per resistere, non per esistere. Non è politica. Nella migliore delle ipotesi, se non è puro “potere per il potere”, è gestione tecnica». Attenzione: «La tecnica guarda indietro, la politica dovrebbe guardare avanti». Esempio, il governo Monti, cioè «la tecnica come surrogato della politica: un’illusione». Lancinante, l’assenza di politica, proprio nei momenti di massima crisi. «Basta essere nuovi e giovani? No. Quello che conta è la struttura dei poteri cui si fa riferimento e di cui si è espressione». Oggi, «in questo vuoto politico-sociale che cosa esiste e prospera? La rete degli interessi più forti. È questa rete che esprime i dirigenti attraverso cooptazioni. La democrazia resiste come forma, ma svuotata di sostanza. Se la si volesse rinvigorire, occorrerebbe una società capace di auto-organizzazione politica, ciò che una volta sapevano fare i partiti. Oggi, invece, sono diventati per l’appunto, canali di cooptazione, per di più secondo logiche di clan e di spartizione dei posti. Così, non si promuove il tanto necessario e sbandierato rinnovamento, ma si “allevano” giovani uguali ai vecchi».Ecco la parola: «Il rinnovamento sembra molto spesso un “allevamento”. Il resto è apparenza: velocità, fattività, decisionismo, giovanilismo, futurismo, creativismo. Tutte cose ben note e di spiegabile successo, soprattutto in rapporto con l’arteriosclerosi politica che dominava. Ma la novità di sostanza dov’è? La “rottamazione” a che cosa si riduce?». Magari al consueto refrain della necessità di modificare l’assetto costituzionale. «Le istituzioni possono sempre essere migliorate e rese più efficienti, ma mi pare che siano diventate il capro espiatorio di colpe che stanno altrove», sottolinea Zagrebelsky. Il vero problema: «Le difficoltà che incontra un aggregato di potere che sempre più difficoltosamente riesce a mediare e tenere insieme il quadro delle compatibilità, in presenza di risorse pubbliche da distribuire sempre più scarse». Ai tempi di Berlusconi, continua Zagrebelky, l’insofferenza nei confronti della Costituzione derivava «dalle esigenze di un potere aggressivo». Oggi, invece, «l’atteggiamento è piuttosto difensivo», perché i fautori delle “ineludibili” modifiche costituzionali dicono: c’è bisogno di cambiamenti per governare meglio, con più efficienza. Ma il vero scopo è difendersi dai cittadini, dalla democrazia: «Il terrore delle elezioni, la vanificazione dei risultati elettorali, i “congelamenti” istituzionali in funzione di salvaguardia vanno nella stessa direzione».Gli italiani avevano archiviato il Cavaliere? Ecco che Renzi l’ha prontamente riesumato. La Consulta ha definito il Parlamento illegittimo, eletto dall’incostituzionale Porcellum? Pazienza, si fa finta di niente. E proprio a parlamentari così “nominati” si chiede di manomettere la Costituzione. Larghe intese, quindi, per paura di Grillo. «Le larghe intese sono la negazione della dimensione politica», continua Zagrebelsky. «Sono il regime della paralisi, della stasi». Sicché, oggi «sembra che si viva in un eterno presente, in cui una posta di natura politica non esiste. Se non ci sono scelte, non c’è politica, e se non c’è politica non c’è democrazia, ma solo conflitti personali, di gruppo o di clan per posti, favori e, nel caso peggiore, garanzie d’immunità». Quindi siamo senza futuro? Sì, «finché la palude non viene smossa». Sfiducia, astensionismo. «Perché i cittadini vanno sempre meno a votare? Una volta si diceva “son tutti uguali”, intendendo “sono tutti corrotti”. Ma oggi è peggio, si pensa: “tanto non cambia nulla”. È un effetto della stasi politica».Il Movimento 5 Stelle, riconosce Zagrebelky, è nato col dichiarato intento di “smuovere la palude”, addirittura di «investirla con una burrasca che rovesci tutto», anche se la politica «deve contenere anche un intento costruttivo», perché «la tabula rasa e la rete non sono programmi. Non lo è nemmeno la lotta alla corruzione che, di per sé, rischia d’essere solo una competizione per la sostituzione d’una oligarchia nuova a una vecchia». Contro la corruzione «devono valere le istituzioni di controllo e l’intransigenza dei cittadini», perché «in difetto di politica, alla corruzione non c’è limite». Di fronte a noi, c’è un’oligarchia che si arrocca, pronta a tutto – anche a rottamare democrazia e Costituzione. L’Italicum: «Mi colpisce che la legge elettorale sia decisa dagli accordi d’interesse di tre persone (Berlusconi, Renzi, Alfano) invece che dalle ragioni della democrazia, cioè dalle ragioni di tutti i cittadini elettori. Mi colpisce tanta arroganza, mentre con un Parlamento delegittimato come l’attuale, si tratterebbe di fare la legge più neutrale possibile. Mi colpisce che si sospenderà il diritto alle elezioni, perché la contraddizione tra le due Camere impedirà di scioglierle».Pessima trovata, abolire il Senato. Segno di una politica senza idee, che ha paura degli elettori. E tenta di rifarsi il trucco per nascondere la sua incapacità di affrontare i veri problemi che abbiamo di fronte: «La concentrazione del potere economico e gli andamenti della finanza mondiale, l’impoverimento e il degrado del pianeta, le migrazioni di popolazioni. Ne subiamo le conseguenze, senza poter agire sulle cause». E la classe dirigente? «Non dirige un bel niente», accusa Gustavo Zagrebelsky. «Non tenta di mettere la testa fuori. Per far questo, occorrerebbe avere idee politiche e almeno tentare di metterle in pratica». Così, resta solo «il formicolio della lotta per occupare i posti migliori nella rete dei piccoli poteri oligarchici», un formicolio «che allontana e disgusta la gran parte che ne è fuori». Pura «autoconservazione del sistema di potere e dei suoi equilibri». Dietro ai tweet di Matteo Renzi, il giurista torinese vede «il blocco d’una politica che gira a vuoto, funzionale al mantenimento dello status quo».
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Volete la verità? Ve la offre Pandora, col vostro aiuto
Non ve la siete mai bevuta, la storia delle armi di distruzione di massa di Saddam? E nemmeno la versione ufficiale dell’11 Settembre o quella del gas Sarin usato dall’esercito siriano contro la popolazione civile di Damasco? Allora “Pandora Tv” potrebbe fare al caso vostro, perché – oltre alla voce di Giulietto Chiesa – vi offre un aggiornamento quotidiano sull’attualità internazionale attraverso i servizi di “Rt”, offerti in esclusiva e tradotti in italiano per garantire “un’altra visione del mondo”, come recita il claim della nuova web-tv aperta su iniziativa del giornalista e scrittore che ha fatto della battaglia contro le menzogne del mainstream il proprio marchio di fabbrica. Una scommessa, quella di “Pandora”, basata sulla garanzia di assoluta indipendenza: proprio per questo, l’esperimento si affida al contributo diretto del pubblico, mediante lo strumento democratico del social crowdfunding: bastano 10 euro per sostenere la produzione della programmazione. Informazione libera, democrazia nella comunicazione.«Ci stanno portando in guerra», avverte Giulietto Chiesa, che da anni vigila sulla grande crisi del capitalismo imperiale, globalizzato e finanziarizzato. Tesi ben riassunta dal suo ultimo saggio, “Invece della catastrofe”, che parte dallo storico allarme lanciato dal Club di Roma sui raggiunti limiti dello sviluppo: l’élite mondiale non tollera più di dover spartire le risorse vitali del pianeta con una popolazione di 7 miliardi di esseri umani. E se i Brics alzano la testa – crescita accelerata e fame di consumi – è ovvio che sulla “coperta troppo corta” si accende una disputa strategica e geopolitica che i meno ottimisti chiamano “terza guerra mondiale”. Tradotto: mettere le mani su quel che resta del pianeta, battendo sul tempo i cinesi, prima che esploda in modo apocalittico una qualsiasi delle grandi crisi innescate: quella economico-finanziaria, quella energetica, quella climatica, quella dell’acqua o quella del cibo. Unico strumento di autodifesa: la democrazia. Che però è accecata da un filtro prodigioso: la disinformazione.«La verità è che non sappiamo quello che sta davvero succedendo», sostiene Giulietto Chiesa, che punta il dito contro le omissioni e i depistaggi del mainstream, colonizzato dall’élite esattamente come i maggiori partiti politici, tutti infiltrati dai poteri forti che – da Wall Street a Bruxelles – impongono la “loro” agenda, a colpi di diktat e recessioni pilotate. Ultimo scenario offerto dall’attualità: la dirompente crisi scatenata in Ucraina per indebolire la Russia e “intrappolare” l’Europa, pensando già, ovviamente, soprattutto alla Cina. Dai servizi di “Russia Today” proposti da “Pandora”, la tempestiva denuncia della strategia della tensione organizzata a Kiev per rovesciare il (pessimo) regime di Yanukovich, grazie a milizie-fantasma addestrate in segreto e appoggiate da potenti frange neonaziste. “Pandora” si candida a rappresentarla, “un’altra visione del mondo”, dando spazio all’analisi anche italiana della grande crisi, ospitando le voci dei nostri territori. Un canale sociale, aperto a tutti, che – per affermarsi – ha bisogno del contributo di tutti.Non ve la siete mai bevuta, la storia delle armi di distruzione di massa di Saddam? E nemmeno la versione ufficiale dell’11 Settembre o quella del gas Sarin usato dall’esercito siriano contro la popolazione civile di Damasco? Allora “Pandora Tv” potrebbe fare al caso vostro, perché – oltre alla voce di Giulietto Chiesa – vi propone un aggiornamento quotidiano sull’attualità internazionale attraverso i servizi di “Rt”, offerti in esclusiva e tradotti in italiano per garantire “un’altra visione del mondo”, come recita il claim della nuova web-tv aperta su iniziativa del giornalista e scrittore che ha fatto della battaglia contro le menzogne del mainstream il proprio marchio di fabbrica. Una scommessa, quella di “Pandora”, basata sulla garanzia di assoluta indipendenza: proprio per questo, l’esperimento si affida al contributo diretto del pubblico, mediante lo strumento democratico del social crowdfunding: bastano 10 euro per sostenere la produzione della programmazione. Informazione libera, democrazia nella comunicazione.