Archivio del Tag ‘astensionismo’
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Pd e Forza Italia sono finiti: i loro elettori non torneranno
Berlusconi è tecnicamente finito: incassato il “no” dei 5 Stelle, sperava di far eleggere Romani al Senato con l’aiuto di Renzi, per poi varare un governo Salvini protetto dall’astensione del Pd. «Un esito del genere della battaglia dei presidenti di Camera e Senato non era lontanamente prevedibile, e il Cavaliere ha fatto di tutto per aggravare la sua posizione», riassume Aldo Giannuli. Salvini e Di Maio «avevano già un accordo alle spalle e hanno reagito alla melina del Cavaliere con brutalità», Salvini votando in prima battuta la Bernini (e con essa, l’illusione del Cavaliere di essere ancora lui il “regista del centrodestra”). «Berlusconi ha perso la testa dichiarando rotta la coalizione, ma ci son volute poche ore per spiegargli che non era cosa che potesse permettersi, perché avrebbe accelerato le nuove elezioni che l’avrebbero visto (e lo vedranno) fatto a pezzi», aggiunge Giannuli. Salvini è comunque quello con più voti, ha più probabilità di tirare dalla sua “Fratelli d’Italia” ed essere il rivale dei 5 Stelle in caso di elezioni, «ma soprattutto ha un vantaggio di 40 anni su Berlusconi e può anche aspettare 4-5 anni per una rivincita, Berlusconi no». Il Cavaliere può “suicidarsi” correndo da solo o in tandem con l’altro sconfitto, Renzi. Invece, 5 Stelle e Lega «andranno avanti come carri armati verso il loro governo di scopo per una nuova legge elettorale e nuove elezioni-plebiscito in autunno».Nonno Silvio resterà solo, profetizza Giannuli: ha continuato a muoversi come se fosse ancora lui il condottiero del centrodestra, «mentre i suoi alleati semplicemente lo ignorano e pochissimi cortigiani continuano ad attorniarlo confermandogli tutte le illusioni: ormai sembra la caricatura di Hitler nel bunker che dà ordini a divisioni inesistenti». Non sta meglio il suo dirimpettaio Renzi, «che continua a sognare improbabili rivincite», cominciando con l’idea di «liberarsi delle sue minoranze». In caso contrario, cioè col Pd unito, nuove elezioni – secondo Giannuli – potrebbero far crollare il partito sotto il 12%. Ma nessuno sembra rendersene conto: «A volte le illusioni sono indistruttibili», scrive Giannuli, ricordando – da storico – che i nostalgici della monarchia italiana fecero un partito che, dopo un momentaneo e modesto successo nel 1953 (40 deputati) finì con appena 6 seggi nel giro di dieci anni. E’ la stessa fine che rischiano di fare Forza Italia e il Pd. «Non riescono ad accettare di non essere più partiti “sovrani” (cioè capi di coalizione) e di essere diventati partiti “cadetti” (cioè “cespugli” minori di fiancheggiamento) e sognano una cosa che non esiste: che gli elettori che li hanno “traditi” tornino, dopo questa momentanea “scappatella”. Non hanno capito niente».«Può darsi che i 5 Stelle e la Lega deludano e perdano i consensi appena presi – e ci sono ottime ragioni per pensare che questo possa accadere – ma gli elettori che li hanno abbandonati probabilmente voterebbero nuovi partiti, forse sceglierebbero quelli più estremi ora esistenti, forse si asterrebbero o preferirebbero il suicidio: tutto, ma non il ritorno alle basi di partenza». Pd e Forza Italia si mettano l’anima in pace, insiste Giannuli: sono defunti. «Il problema è che ogni partito ha una sua “formula base”, che include l’area sociale di riferimento e il suo ordinamento, la soluzione organizzativa e la catena di comando, la cultura politica, l’area di possibili alleanze più o meno allargata, i punti di forza, l’insediamento territoriale». Quando questa formula crolla, «la crisi investe contemporaneamente diversi suoi componenti, non c’è niente da fare: il partito è da buttare via». Per assurdo, aritmetica alla mano, a Pd e Forza Italia converrebbe (si fa per dire) fondersi in un nuovo “partito della “nazione”. «Potrebbero chiamarlo Als, Alleanza Limoni Spremuti». E’ davvero la fine, il capolinea: signori, si scende.Berlusconi è tecnicamente finito: incassato il “no” dei 5 Stelle, sperava di far eleggere Romani al Senato con l’aiuto di Renzi, per poi varare un governo Salvini protetto dall’astensione del Pd. «Un esito del genere della battaglia dei presidenti di Camera e Senato non era lontanamente prevedibile, e il Cavaliere ha fatto di tutto per aggravare la sua posizione», riassume Aldo Giannuli. Salvini e Di Maio «avevano già un accordo alle spalle e hanno reagito alla melina del Cavaliere con brutalità», Salvini votando in prima battuta la Bernini (e con essa, l’illusione del Cavaliere di essere ancora lui il “regista del centrodestra”). «Berlusconi ha perso la testa dichiarando rotta la coalizione, ma ci son volute poche ore per spiegargli che non era cosa che potesse permettersi, perché avrebbe accelerato le nuove elezioni che l’avrebbero visto (e lo vedranno) fatto a pezzi», aggiunge Giannuli. Salvini è comunque quello con più voti, ha più probabilità di tirare dalla sua “Fratelli d’Italia” ed essere il rivale dei 5 Stelle in caso di elezioni, «ma soprattutto ha un vantaggio di 40 anni su Berlusconi e può anche aspettare 4-5 anni per una rivincita, Berlusconi no». Il Cavaliere può “suicidarsi” correndo da solo o in tandem con l’altro sconfitto, Renzi. Invece, 5 Stelle e Lega «andranno avanti come carri armati verso il loro governo di scopo per una nuova legge elettorale e nuove elezioni-plebiscito in autunno».
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Piccole alchimie parlamentari per un paese in rottamazione
Di Maio ha stravinto nel centro-sud promettendo il reddito di cittadinanza (ma annunciando con Fioramonti di dimezzare il debito pubblico), mentre Salvini ha spopolato al nord garantendo di sbriciolare le tasse e sbarrare le frontiere ai migranti. Nell’offerta politica dei due schieramenti, svetta lo squillante sovranismo della Lega con la candidatura dell’economista Alberto Bagnai, che contesta il dirigismo dell’oligarchia di Bruxelles da posizioni keynesiane (lo Stato che torna protagonista dell’economia), mentre Di Maio si affanna a ricordare che sono i mercati, semmai, ad avere l’ultima parola. Premiante, per grillini e leghisti, la fedina politica immacolata, dopo anni di opposizione al renzismo, il regime propagandistico che all’Italia in crisi ha raccontato che tutto andava bene, anzi benissimo. Né i 5 Stelle né la Lega contestano organicamente il sistema liberista, di cui il Pd è stato il più zelante esecutore: si propongono soltanto di correggerne gli eccessi, con l’avvento di politici “dalle mani pulite” (ma legate, nel caso di Salvini, all’alleanza con un Berlusconi che si è prostrato come il Pd all’obbedienza feudale nei confronti dell’élite finanziaria che ha privatizzato le istituzioni europee). In questo contesto, appaiono piuttosto lunari le chiacchiere sull’ipotetica intesa, a distanza, tra i due vincitori delle elezioni – il Di Maio senza programmi e il Salvini con programmi vincolati agli umori di Arcore.Tiene banco, ancora, il surreale connubio tra i 5 Stelle e i rottami del Pd, cioè il “nemico” dei grillini; accordo invocato da quell’Eugenio Scalfari che, a Di Maio, avrebbe preferito l’odiato Berlusconi. Tra i “pontieri”, dopo Scalfari, figurano personaggi come Gustavo Zagrebelsky e Salvatore Settis, Barbara Spinelli e Massimo Cacciari. Un giornalista come Marco Travaglio accusa Di Maio di non ascoltarli. Arrivare primi con quasi il 33% significa partire favoriti per l’incarico di formare un governo – scrive Travaglio sul “Fatto” – ma questo non conferisce «il diritto divino di fare un governo con i voti altrui, per giunta gratis». E’ vero che l’inciucio lo vogliono solo i due “trombati” del 4 marzo, cioè Berlusconi e Renzi, «terrorizzati dalle rispettive ininfluenze e soprattutto da nuove elezioni», ma una maggioranza parlamentare va costruita, «facendo ai partner una proposta che non possano rifiutare». Ovvero? «La cosa sarebbe meno difficile se Di Maio aprisse la sua squadra di esterni ad altri indipendenti di centrosinistra, per un governo senza ministri parlamentari, e bilanciasse la sua premiership lasciando la presidenza di una Camera alla Lega». E poi «è sul programma che dovrebbe garantire il cambiamento che gli elettori hanno appena chiesto». Già: quale programma?Travaglio ricorda la proposta di Grillo nel 2013: «Eleggiamo Rodotà al Quirinale e poi governiamo insieme». E aggiunge: «Fu il Pd napolitanizzato e lettizzato, cioè berlusconizzato, a rifiutarla» (per Travaglio, dunque, il grande manovratore era Berlusconi, cioè l’omino ricattato e brutalmente disarcionato, due anni prima, dai padroni della Borsa). L’obiettivo di Napolitano, all’epoca: mantenere i 5 Stelle lontano dall’area di governo, dato che nel 2013 i grillini facevano ancora paura (più che al “povero” Silvio, ai veri poteri forti rappresentati da Napolitano: quelli che con Draghi e Trichet firmarono la condanna dell’Italia, affidata al commissario Monti). E oggi? Tutto è cambiato; da Scalfari in giù, è il vecchio mainstream a tifare per un’intesa che pare spaventi solo Renzi. Piccoli tatticismi, dove a contare non sono tanto le mosse dei leader, quanto il futuro dei rispettivi elettorati. Un italiano su quattro si è rifiutato di votare. Tra i votanti, il 55% ha scelto Di Maio, Salvini e la Meloni per gridare un “no”, forte e chiaro. Se il reddito di cittadinanza (arma vincente per mietere voti) è una misura ascrivibile alla voce welfare (sinistra), è piuttosto la Lega a sfidare il sistema europeo, con il taglio delle tasse (destra), sia pure da un’angolazione ancora liberista.Tra veti incrociati e opposte convenienze, resta solo lo spiraglio per il mini-governo a cui starebbe lavorando Mattarella, inevitabilmente imbottito di “tecnici” per incoraggiare tiepide convergenze eterodosse. Niente a che vedere, in ogni caso, con il “no” proclamato dalla maggioranza assoluta degli elettori italiani, cui si aggiunge l’astensionismo del 25% della popolazione, che non ha letto niente di convincente (o realisticamente praticabile) né sul programma grillino né su quello leghista. Se siamo a questo non-risultato, ribadisce Gianfranco Carpeoro, è perché – ancora una volta – abbiamo votato “contro” qualcuno, innanzitutto (votare “per qualcosa”, probabilmente, era impossibile). E senza una gestione nazionale autonoma, la regia delle operazioni passerà alla consueta “sovragestione” internazionale. E’ il potere-ombra che – licenziati Andreotti e Craxi – da 25 anni fa dell’Italia quello che vuole: fabbricando partiti, movimenti e leader senza idee né progetti, costruiti per durare una sola stagione, prima di essere rottamati da altri, futuri rottamandi. Una spirale senza fine, dove a essere rottamata è l’Italia, a cui è stato raccontato che il debito pubblico (cioè lo sviluppo, il benessere diffuso) è roba che non ci possiamo più permettere.Di Maio ha stravinto nel centro-sud promettendo il reddito di cittadinanza (ma annunciando con Fioramonti di dimezzare il debito pubblico), mentre Salvini ha spopolato al nord garantendo di sbriciolare le tasse e sbarrare le frontiere ai migranti. Nell’offerta politica dei due schieramenti, svetta lo squillante sovranismo della Lega con la candidatura dell’economista Alberto Bagnai, che contesta il dirigismo dell’oligarchia di Bruxelles da posizioni keynesiane (lo Stato che deve tornare protagonista dell’economia), mentre Di Maio si affanna a ricordare che sono i mercati, semmai, ad avere l’ultima parola. Premiante, per grillini e leghisti, la fedina politica immacolata, dopo anni di opposizione al renzismo, il regime propagandistico che all’Italia in crisi ha raccontato che tutto andava bene, anzi benissimo. Né i 5 Stelle né la Lega contestano organicamente il sistema liberista, di cui il Pd è stato il più zelante esecutore: si propongono soltanto di correggerne gli eccessi, con l’avvento di politici “dalle mani pulite” (ma legate alla finanza anglosassone o, nel caso di Salvini, all’alleanza con un Berlusconi che si è prostrato come il Pd all’obbedienza feudale nei confronti dell’élite che ha privatizzato le istituzioni europee). In questo contesto, appaiono piuttosto lunari le chiacchiere sull’ipotetica intesa, a distanza, tra i due vincitori delle elezioni – il Di Maio senza programmi e il Salvini con programmi vincolati agli umori di Arcore.
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Sapelli: dalle macerie italiane risorge il popolo degli abissi
No al rigore, al precariato schiavistico, all’invasione-migranti. Vietato avere paura del verdetto elettorale: quello del 4 marzo è stato un voto “di speranza e di trasformazione”. Parola di Giulio Sapelli, economista sulle barricate contro l’euro-austerity all’epoca del governo Monti. «Il popolo degli abissi si è messo in marcia, ha reagito ad anni e anni di gioco di specchi e di disincanti», scrive Sapelli sul “Sussidiario”. «Niente è andato come previsto: come nel libro di Jack London, il popolo degli abissi si è levato, ha preso l’arma del voto come una bandiera e con calma risoluta ha detto basta a quattro mali che hanno disintegrato l’Europa e l’Italia». Il primo è l’ordoliberismo, «ossia l’austerity fondata su bassi salari e distruzione del welfare». Poi c’è la cosiddetta “liberalizzazione” del mercato del lavoro, «con il neoschiavismo dei contratti a termine e del precariato». E’ stata la sinistra blairiana, ricorda Sapelli, a inventare «questo infernale marchingegno, con schiere di devoti giuslavoristi in conflitto d’interessi». Pochi giorni fa, “El Pais” pubblicava l’articolo del presidente di “Ciudadanos” che illustrava la legge di iniziativa parlamentare in cui si abolisce il precariato «con una tranquilla enfasi sulla difesa degli interessi della nazione e del tessuto industriale e dei servizi del paese».Il terzo male, per Sapelli, è l’inerzia delle parti sociali, «che vedono spogliare questa nazione delle sue risorse e nulla fanno come le borghesie commerciali “sudamericane”». E i sindacati, pur essendo «l’ultima istituzione che tiene», di fatto «rinunciano alle battaglie sui punti fondamentali». E questo, ovviamente, implica il fatto di «correre il pericolo del nazionalismo della povera gente e della classe media in discesa, con i fantasmi fascisti che ritornano». Proprio le fasce più deboli sono quelle più esposte al “quarto male” a cui gli elettori avrebbero detto basta, cioè «l’immigrazione incontrollata e non gestita con l’intelligenza della sicurezza e del rispetto della persona, non solo dei migranti, ma anche dei poveri e degli anziani che si trascinano una vita di stenti e non ne possono più di forti giovanotti con cellulare e venti euro in saccoccia: gli esempi australiani e tedeschi di accoglienza sono lì, ma noi nulla facciamo». Per l’economista, letteralmente, «si è disgregato lo Stato». Ed è quindi inevitabile che forze come i 5 Stelle e la Lega di Salvini si presentino come alternative al sistema.Da anni, Sapelli rileva l’inversione della tradizionale rappresentanza partitica: «I ricchi votano la loro sinistra, ossia Pd, Pisapia, Bonino, eccetera, mentre i poveri votano a destra, come sta accadendo in tutto il vecchio mondo neo-industriale. Non c’è bisogno di scomodare Trump, basta guardare alla Germania e alla Francia. Lì non votano e Macron viene eletto dal 23% degli aventi diritto». In Italia la partecipazione elettorale è ancora alta, ma travolge il vecchio schema destra-sinistra. Beninteso: «Sinistra, destra e centro sono ben presenti nel sociale e nell’universo simbolico del “popolo degli abissi”, ma quel popolo ha già compreso che le vecchie casacche vestono i morti: “Le mort saisit le vif”, diceva il filosofo di Treviri». A parte Marx, secondo Sapelli non bisogna «perdere la speranza che i nuovi universi simbolici siano educati dalle istituzioni e da una rinascita del ruolo degli intellettuali, che ora pasolinianamente al popolo si avvicinino senza più tradirlo». Quello del 4 marzo, insomma, «è un voto di speranza e di trasformazione».No al rigore, al precariato schiavistico, all’invasione-migranti. Vietato avere paura del verdetto elettorale: quello del 4 marzo è stato un voto “di speranza e di trasformazione”. Parola di Giulio Sapelli, economista sulle barricate contro l’euro-austerity all’epoca del governo Monti. «Il popolo degli abissi si è messo in marcia, ha reagito ad anni e anni di gioco di specchi e di disincanti», scrive Sapelli sul “Sussidiario”. «Niente è andato come previsto: come nel libro di Jack London, il popolo degli abissi si è levato, ha preso l’arma del voto come una bandiera e con calma risoluta ha detto basta a quattro mali che hanno disintegrato l’Europa e l’Italia». Il primo è l’ordoliberismo, «ossia l’austerity fondata su bassi salari e distruzione del welfare». Poi c’è la cosiddetta “liberalizzazione” del mercato del lavoro, «con il neoschiavismo dei contratti a termine e del precariato». E’ stata la sinistra blairiana, ricorda Sapelli, a inventare «questo infernale marchingegno, con schiere di devoti giuslavoristi in conflitto d’interessi». Pochi giorni fa, “El Pais” pubblicava l’articolo del presidente di “Ciudadanos” che illustrava la legge di iniziativa parlamentare in cui si abolisce il precariato «con una tranquilla enfasi sulla difesa degli interessi della nazione e del tessuto industriale e dei servizi del paese».
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Dopo le elezioni, tutto come prima: l’Italia resta sottomessa
Tutto come prima: qualcuno sale e qualcuno scende, dopo le elezioni, ma la canzone non cambia. L’Italia resta sotto schiaffo, alla mercé dell’ordololiberismo finto-europeista che impone il rigore, cioè la depressione economica, sulla base di regole truccate come il tetto imposto alla spesa pubblica, non oltre il 3% del Pil, con il vincolo del pareggio di bilancio e l’incubo incombente del Fiscal Compact. L’unica vera notizia del 4 marzo è che ben tre italiani su quattro sono andati a votare: astensionismo limitato al 25%, contro l’atteso 35% annunciato dai sondaggi. Per il resto, previsioni rispettate al millimetro: la débacle di Renzi, il pletorico successo dei 5 Stelle, la preminenza aritmetica del centrodestra. Spiccioli di cronaca: Di Maio e soci sopra il 30%, Salvini davanti a Berlusconi, il Pd sotto il 20%. Nessuna delle liste-contro, da “Potere al Popolo” a CasaPound, ha raggiunto il 3%, cioè il sospirato accesso al Parlamento. Un pericolo – l’esclusione dall’aula – sfiorato dall’imbarazzante cartello “Liberi e Uguali” (D’Alema e Bersani, Grasso e Boldrini), dato oltre il 5% e invece fermatosi appena sopra la soglia minima per ottenere qualche poltrona. Risultato più che scontato: Parlamento ingovernabile, se non mediante larghe intese. «Troveranno il modo di mettersi d’accordo, anche Di Maio è pronto a fare inciuci», avverte Gianfranco Carpeoro. «Gentiloni o un altro? Non è che cambi granché. Il problema non è la figura, è quello che deve fare: o meglio, quello che sarà costretto a fare, perché l’Italia è sovragestita».Esponente del Movimento Roosevelt, scrittore, simbologo, avvocato di lungo corso con un passato socialista, Carpeoro ha le idee chiare sul voto: «Centrodestra o 5 Stelle, non cambia niente: non esiste un rischio maggiore, è la stessa cosa. Perché chiunque vince, lo fa in nome di una sovragestione unica, che porta allo stesso tipo di governo», ha detto Carpeoro, a urne ancora aperte. «E’ assolutamente irrilevante, sapere chi vince: se i partiti che vincono sono quelli che vincono per effetto della sovragestione, devono rispondere alla sovragestione». Parole che Carpeoro ha affidato a Fabio Frabetti di “Border Nights”, nella diretta web-streaming “Carpeoro Racconta”, su YouTube. «Non si scappa, se fai parte di quello schema. I 5 Stelle non ne facevano parte? Ma poi Di Maio ha fatto un bel viaggio a Londra, un bel viaggio in America… E comunque c’erano già le premesse anche prima, perché non è che Casaleggio fosse una realtà così staccata dal potere. Poi però con Di Maio hanno fatto capire che cosa vogliono fare, no?». Basta vedere l’ipotetico governo presentato in anticipo a Mattarella, con il neoliberista Fioramonti all’economia. «Non è che non pretendano garanzie, quelli a cui hai chiesto aiuto a Londra e in America: impongono il tuo appoggio, la tua la non-ostilità, l’assicurazione che non verrebbe ostacolato il loro progetto». E se vai al governo e poi non ne tieni conto? «Potresti fare la fine di Craxi, o quella di Olof Palme».Per Carpeoro, cha ha lanciato l’idea di promuovere in primavera un convegno sul grande leader svedese, assassinato a Stoccolma nel 1986 mentre era premier, in procinto di essere eletto segretario generale dell’Onu, Olof Palme – cui guardavano Craxi, il tedesco Helmut Schmidt e lo stesso Mitterrand – avrebbe cambiato volto all’Europa, impedendo l’instaurarsi del regime Ue (quello che, ancora oggi, sottrae all’Italia la possibilità di qualsiasi alternativa elettorale al dominio dell’oligarchia finanziaria). «Le sue idee sono ancora attuali, perché Olof Palme era avanti di trent’anni», sottolinea Carpeoro. «Aveva contestato agli Usa il fatto di fare guerre sempre a casa degli altri, aveva polemizzano aspramente con l’Urss per l’invasione di Praga, e soprattutto aveva un progetto economico basato su un sistema misto, pubblico-privato, con la compartecipazione dei lavoratori nelle aziende pubbliche e private, sistema che aveva consentito alla Svezia di uscire dalla crisi economica che invece colpiva gli altri paesi. In più era un ecologista, voleva affrancarsi dagli idrocarburi e dalla schiavitù del petrolio, sosteneva già progetti di energia alternativa». E’ stato fermato, colpito alla schiena da un killer invisibile e tuttora ignoto. «Faceva paura, perché avrebbe ostacolato gli interessi della sovragestione: tutta una serie di equilibri politici che su quelle realtà economiche sono fondati hanno rintenuto di farlo ammazzare. Aveva la capacità, le idee e la visione per costruire delle cose diverse».Da un gigante come Olof Palme ai nani dell’attuale politica italiana: Matteo Renzi in fuga dai giornalisti, con il Pd ridotto al 19%. La scissione di D’Alema e Bersani fermatasi sotto il 4%. Berlusconi appena sopra il 13%, dopo aver lanciato l’euro-maggiordomo Tajani, garantendo ai poteri forti europei il rispetto delle regole di ferro, l’austerity che sta devastando l’Italia. Il successo della Lega di Salvini, che sorprassa il Cavaliere e ormai tallona il Pd, è gravemente condizionato proprio dall’alleanza con Forza Italia, prona ai diktat di Bruxelles. Quanto ai 5 Stelle, hanno fatto il pieno nel centro-sud grazie alla promessa del reddito di cittadinanza, ma Di Maio ha già messo le mani avanti presentando il suo ipotetico esecutivo di tecnocrati: «Sembra il governo Monti senza Monti», commenta desolatamente Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt. Cosa accadrà ora? Se lo domandano tutti i giornalisti. Non Carpeoro: a prescindere dal nome del futuro premier e dal colore del suo partito, per gli italiani non cambierà assolutamente niente. Non cambia il programma: rigore, sofferenze, vincoli, sottomissione all’élite finanziaria che si è impadronita dell’Ue. Sono corsi a votare, gli italiani, ma – a quanto pare – è come se non avesse votato nessuno: tutto è esattamente come prima. La nave rischia di affondare, e la rotta (ancora una volta) non sarà decisa da chi siede a Roma.Tutto come prima: qualcuno sale e qualcuno scende, dopo le elezioni, ma la canzone non cambia. L’Italia resta sotto schiaffo, alla mercé dell’ordoliberismo finto-europeista che impone il rigore, cioè la depressione economica, sulla base di regole truccate come il tetto imposto alla spesa pubblica, non oltre il 3% del Pil, con il vincolo del pareggio di bilancio e l’incubo incombente del Fiscal Compact. L’unica vera notizia del 4 marzo è che ben tre italiani su quattro sono andati a votare: astensionismo limitato al 27%, contro l’atteso 35% annunciato dai sondaggi. Per il resto, previsioni rispettate al millimetro: la débacle di Renzi, il pletorico successo dei 5 Stelle, la preminenza aritmetica del centrodestra. Spiccioli di cronaca: Di Maio e soci sopra il 30%, Salvini davanti a Berlusconi, il Pd sotto il 20%. Nessuna delle liste-contro, da “Potere al Popolo” a CasaPound, ha raggiunto il 3%, cioè il sospirato accesso al Parlamento. Un pericolo – l’esclusione dall’aula – sfiorato dall’imbarazzante cartello “Liberi e Uguali” (D’Alema e Bersani, Grasso e Boldrini), dato oltre il 5% e invece fermatosi appena sopra la soglia minima per ottenere qualche poltrona. Risultato più che scontato: Parlamento ingovernabile, se non mediante larghe intese. «Troveranno il modo di mettersi d’accordo, anche Di Maio è pronto a fare inciuci», avverte Gianfranco Carpeoro. «Gentiloni o un altro? Non è che cambi granché. Il problema non è la figura, è quello che deve fare: o meglio, quello che sarà costretto a fare, perché l’Italia è sovragestita».
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Luciani: astensionismo, contro le larghe intese degli ipocriti
L’ombra delle larghe intese alimenta il voto antisistema? ‘è un grande disagio tra gli elettori, e le forze politiche non sembrano farsene carico. Il punto però mi pare un altro. L’elettore non ha mai torto, anche quando sceglie nel modo che non ci piace. Perché decide sulla base dell’offerta politica che gli viene proposta: se questa è inadeguata l’elettore la punisce. La prima cosa di cui i partiti dovrebbero preoccuparsi sono i milioni di italiani che non andranno a votare. E chissà quanti voteranno scheda bianca o nulla. Il sistema politico non è mai delegittimato, perché otterrebbe la sua legittimazione dai votanti. Ma se il tasso di partecipazione fosse davvero basso, saremmo davanti a un evidente rifiuto del sistema. E questo porrebbe dei problemi di tenuta democratica. Quand’è che l’elettore sceglie di non votare? Quando non c’è un patrimonio ideale chiaro che si confronta con un altro, quando si accorge che le differenze sono di facciata. Ma soprattutto, vedo un grande sconcerto per l’aumento insostenibile della diseguaglianza sociale ed economica, alla quale nessuno sembra voler rispondere. La Costituzione non voleva questo, certamente nei primi 40 anni della repubblica non è accaduto questo, e sul punto il silenzio dei partiti è assordante.
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Giannuli: accordi sottobanco nel dopo-voto senza vincitori
Renzi il grande sconfitto, il redivivo Berlusconi in netto vantaggio, i 5 Stelle sotto il 30%. Con ancora un 35% di indecisi alla vigilia del voto può succedere di tutto, premette Aldo Giannuli: ogni previsione non può che essere assai aleatoria. Ma intanto, al netto di sorprese e oscillazioni fisiologiche, la tendenza elettorale sembra delinearsi: all’affermazione numerica del centrodestra, con l’incognita politica della Lega di Salvini (che ha in lista Borghi e Bagnai, frontalmente critici verso l’Ue) corrisponderebbe il crollo annunciato del Pd renziano, senza peraltro che i grillini guidati da Di Maio riescano a sfondare, imponendosi come forza di governo. Poi ci sarebbero risultati meno scontati: «Sbaglierò, ma mi sento di scommettere sul fatto che Bonino e “Potere al Popolo” faranno entrambi il 3%, con la prospettiva di superare il 4%», a spese del Pd e di “Liberi e Uguali”, probabilmente costretti sotto il 5%. Giannuli accredita CasaPound di almeno un 1%, senza contare gli altri gruppi minori, i fuori-coalizione, «nessuno dei quali, ragionevolmente, farà il 3%». Messe insieme, però, le tante liste-contro «potrebbero sfiorare l’8-9%: il che sarebbe un segnale molto interessante», specie se sommato all’ipotetica valanga degli astensionisti, dati attorno al 37% secondo le ultime rilevazioni circolate prima del silenzio pre-elettorale.
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Magaldi: potessimo “votare” per Olof Palme, cioè per l’Italia
Votare per Olof Palme, il 4 marzo? Un sogno impossibile: il leader svedese è stato assassinato 32 anni fa, mentre era primo ministro, alla vigilia della sua probabile elezione all’Onu come segretario generale. Se fosse ancora qui, probabilmente, gli italiani avrebbero ben altri candidati da scegliere, alle elezioni. E tra Bruxelles, Berlino e Francoforte siederebbe tutt’altro genere di politici e tecnocrati. Per questo, idealmente, Gioele Magaldi “vota” per Palme, cui il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno in primavera, a Milano: «Il leader socialdemocratico svedese era probabilmente il più grande ostacolo alla costruzione di questa Europa matrigna, tecnocratica, economicistica e antidemocratica, che ha condannato l’Italia a 25 anni di declino». Lo conferma il triste spettacolo dell’offerta elettorale, con programmi-burla e nomi più che grigi, da Tajani a Gentiloni, già pronti per il probabilissimo inciucio che ci attende. Di Maio? Idem: «Invece di avanzare un’alternativa politica rispetto all’andazzo degli ultimi anni, la squadra di ministri tecnici che ha presentato sembra davvero il governo Monti senza Monti: la montagna ha partorito il topolino, per usare un’espressione di “Dagospia”».Non lasciatevi ingannare dalle apparenze: quello che ci aspetta è solo «una grande palude», sostiene Magaldi, a colloquio con David Gramiccioli di “Colors Radio”. «Nel mondo che Berlusconi auspicherebbe, cioè con una centralità di Forza Italia dopo il voto del 4 marzo», il presidente del Parlamento Europeo «sarebbe la carta perfetta, perché gli consentirebbe di avere un suo uomo gradito ai salotti e agli organi istituzionali europei». In fondo, Antonio Tajani «è il Gentiloni del centrodestra: non dà troppo disturbo e sarebbe perfetto per non suscitare particolari avversioni da parte di nessuno. E’ percepito come un moderato, senza infamia né lode. Ma per vederlo a Palazzo Chigi dovrebbe vincere il centrodestra, con Forza Italia in vantaggio sulla Lega: condizioni non facilissime da realizzarsi». Di fatto, «Tajani è un candidato ecumenico che può piacere a tanti, come si fa finta che possa piacere Gentiloni». Ma in realtà, dichiara Magaldi, «sono personalità diafane, prive di un reale spessore, non in grado di imprimere una qualche direzione: sono terminali di chi sta loro dietro: lo è stato Gentiloni in rapporto a Renzi, anche se adesso Gentiloni sembra vivere di vita propria».In più, Tajani è ritenuto un valido “maggiordomo”, adatto a difendere il Cavaliere da eventuali colpi provenienti da Bruxelles: «Berlusconi è traumatizzato da quello che accadde nel 2011, cioè dall’intervento di poteri massonici molto forti, che a suo tempo lo hanno defenestrato con le buone e con le cattive». E’ ancora traumatizzato, l’uomo di Arcore, «dalla delegittimazione che poteri forti e fortissimi gli hanno imposto». Secondo Magaldi, autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere) che svela il ruolo della supermassoneria sovranazionale nel massimo potere mondiale, «oligarchie massoniche internazionali stanno valutando la possibilità di completare questa rilegittimazione di Berlusconi nel quadro di un governo di neo-solidarietà nazionale. A questo – aggiunge – sono funzionali anche le vicende di violenza politica, gli accenni di scontri tra neofascisti e antifascisti squadristici, che ci ricordano gli anni di piombo». C’è un clima strano, avverte Magaldi: da un lato si sostiene che bisogna «accompagnare la presunta crescita che sarebbe iniziata (ma che non c’è)», e dall’altro, sotto sotto, Pd e Forza Italia si strizzano l’occhio accampando «ragioni di argine rispetto al populismo, che – dicono – potrebbe diventare feroce, sfociando in violenza aperta».Anche per questo, da tempo, lo stesso Berlusconi «cerca di riconquistare una qualche forma di credibilità, o di addirittura di avallare l’idea che sia meglio lui, in fondo, di quei “guastafeste teppistoidi” del Movimento 5 Stelle, che sono i nuovi “barbari” nella neo-narrazione berlusconiana». In realtà non ci sono barbari, sottolinea Magaldi, e Tajani «sta solo facendo il suo compitino». Purtroppo i politici italiani sono talmente ininfluenti che non sono stati capaci nemmeno di assicurare a Milano la briciola dell’Ema, l’Agenzia Europea del Farmaco: «E’ un’Italia che pesa pochissimo, eppure ha in Tajani un alto rappresentante in sede europea: se non è in grado di fare granché per l’Italia lì, figuriamoci da primo ministro». Ma niente paura: «Non credo che ci saranno le condizioni per cui Tajani possa ricevere l’incarico da Mattarella, né credo che l’incarico sarà offerto a Di Maio». Delusione 5 Stelle: «E’ indice di trasparenza la decisione di presentare in anticipo la lista di ministri in pectore, ma perché reclutare solo tecnici? Professori, magistrati e militari dovrebbero fare il loro mestiere, non i ministri. Non c’era personale politico adeguato? Che la società civile sia meglio della società politica è un’idea antidemocratica, sdoganata da Berlusconi».Per Magaldi, il destino che ci attende è ancora una volta quello delle larghe intese: «Una prospettiva esiziale, per il popolo italiano. Non abbiamo bisogno di ulteriori governicchi come quelli di Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, che hanno semplicemente accompagnato la decadenza dell’Italia in nome di presunti obiettivi superiori, guidati dalla mano autorevole degli “illuminati” reggitori di quest’Europa matrigna». Liste elettorali alla mano, «tutto dovrebbe continuare come prima». Cioè malissimo, per l’Italia. «Da qualche decennio c’è chi lavora in modo verminoso, proprio come vermi che rosicchino dall’interno, per rendere le istituzioni democratiche imbelli e anche poco gradite ai cittadini», ribadisce Magaldi. «Tutti capiscono che queste istituzioni ripiegate su se stesse sono in realtà un’élite reazionaria, che ci ha proiettato in un incubo post-democratico. Il modello Palme? Serve anche per arginare questo tumore». Il Movimento Roosevelt ha dato il suo “endorsement” a pochi, selezionati candidati: come Pino Cabras a Paolo Margari (5 Stelle), Simone Orlandini (Lega), Felice Besostri e Chiara Mariotti (“Liberi e Uguali”). «Poi ci sono altri candidati a noi vicini: una volta in Parlamento – dice Magaldi – vigileranno per impedire manovre antidemocratiche». Indicazioni generali di voto, tranne che per i candidati “amici”? «Scheda bianca o nulla, oppure astensionismo». Sperando di poter, domani, “votare” per Olof Palme.Votare per Olof Palme, il 4 marzo? Un sogno impossibile: il leader svedese è stato assassinato 32 anni fa, mentre era primo ministro, alla vigilia della sua probabile elezione all’Onu come segretario generale. Se fosse ancora qui, probabilmente, gli italiani avrebbero ben altri candidati da scegliere, alle elezioni. E tra Bruxelles, Berlino e Francoforte siederebbe tutt’altro genere di politici e tecnocrati. Per questo, idealmente, Gioele Magaldi “vota” per Palme, cui il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno in primavera, a Milano: «Il leader socialdemocratico svedese era probabilmente il più grande ostacolo alla costruzione di questa Europa matrigna, tecnocratica, economicistica e antidemocratica, che ha condannato l’Italia a 25 anni di declino». Lo conferma il triste spettacolo dell’offerta elettorale, con programmi-burla e nomi più che grigi, da Tajani a Gentiloni, già pronti per il probabilissimo inciucio che ci attende. Di Maio? Idem: «Invece di avanzare un’alternativa politica rispetto all’andazzo degli ultimi anni, la squadra di ministri tecnici che ha presentato sembra davvero il governo Monti senza Monti: la montagna ha partorito il topolino, per usare un’espressione di “Dagospia”».
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Calise: morti i partiti, solo promesse-bufala e leader zombie
«Il modello è ancora quello della democrazia del leader, ma i leader non ci sono più». Parola di Mauro Calise, politologo e docente universitario a Napoli, nonché editorialista del “Mattino”. «Di Maio non può sostituire Grillo e si regge soltanto sul suo controllo del server, Renzi è in caduta verticale di leadership, Berlusconi è una penosa riedizione di se stesso». Quanto a Salvini, il segretario leghista «sgomita per conquistare nuovo spazio, ma ha ormai esaurito quello disponibile». Di fatto, «di nessuno di loro ci si aspetta che possa diventare sul serio capo del governo». Gli stessi programmi contano poco, «ma questo deriva dal fatto che sono assenti le leadership che hanno fatto da catalizzatore nel passato: penso a Grillo nel 2013, a Renzi prima di andare al governo». Ieri, il leader riusciva a «sfondare nella melassa comunicativa e nell’overflow di informazioni», dice Calise, intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”. I partiti oggi sono in tilt: «La capacità di comunicare è sempre più legata a una capacità di leadership forte, ma se questa viene meno, il meccanismo si inceppa e tutto appare piatto». Svaniscono anche i messaggi forti: i programmi, percepiti come poco credibili, non interessano a nessuno.Per Calise, resta solo uno scontro di messaggi finti-forti ma non convincenti: «Le false promesse e le bufale non sono credute, non perché sono tali, ma perché non sono credibili i leader». L’idea di governabilità è stata sconfitta, aggiunge il politologo, e al suo posto non se n’è trovata un’altra. Che cosa vedremo? «Un governo di risulta, appoggiato in buona parte da parlamentari in libera uscita». Intanto si moltiplicano gli appelli al “voto utile”, lanciati da partiti allarmati dall’astensionismo. «Siamo in una fase storica in cui si sono definitivamente destrutturati i grandi partiti», un guaio con risvolti antropologici: agli italiani con basso livello di istruzione e socializzazione «sanno probabilmente tutto di Higuain o di “Amici”, ma poco o nulla di come si vota o della Flat Tax». L’interesse e la passione politica, continua Calise, «non nascono dalla testa dei politici di professione, ma dalle viscere della società». I partiti? «Sono stati i canali che hanno portato le masse nella politica e nello Stato». Attenzione: «La democratizzazione del potere, che non nasce democratico ma verticale e di parte, è avvenuta grazie ai partiti. Ma i tempi sono cambiati e la forza delle fratture sociali che hanno alimentato le battaglie dei partiti si è esaurita. La politica si è liquefatta, e la rappresentanza anche».Che democrazia avremo? Diversa e più fragile. Ma non saremo i soli: «Basta guardarsi intorno per capire che si trema un po’ dappertutto. La Francia si è inventata Macron, che è andato al potere con il 23% dei consensi; oggi forse sono ancora meno, ma nessuno per quattro anni gli toglierà l’Eliseo. La Germania ha la “sfiducia costruttiva”. Noi abbiamo un assetto istituzionale e di governo molto più debole che nelle altre democrazie avanzate». Cosa ci manca? «Un governo che abbia una qualche autonomia costituzionale degna di questo nome», afferma Calise. Un deserto di urla. «Cosa mi preoccupa di più? L’invasivo ricorso all’etica: il grido all’onestà, la caccia allo scontrino, l’epurazione di chi non è conforme», sostiene il politologo. «Quando l’etica diventa un’arma di governo, fa più paura di tutto il resto. Perché l’imperativo etico dell’onestà riscuote tanto consenso? Perché è rimasta la cosa più semplice da dire».«Il modello è ancora quello della democrazia del leader, ma i leader non ci sono più». Parola di Mauro Calise, politologo e docente universitario a Napoli, nonché editorialista del “Mattino”. «Di Maio non può sostituire Grillo e si regge soltanto sul suo controllo del server, Renzi è in caduta verticale di leadership, Berlusconi è una penosa riedizione di se stesso». Quanto a Salvini, il segretario leghista «sgomita per conquistare nuovo spazio, ma ha ormai esaurito quello disponibile». Di fatto, «di nessuno di loro ci si aspetta che possa diventare sul serio capo del governo». Gli stessi programmi contano poco, «ma questo deriva dal fatto che sono assenti le leadership che hanno fatto da catalizzatore nel passato: penso a Grillo nel 2013, a Renzi prima di andare al governo». Ieri, il leader riusciva a «sfondare nella melassa comunicativa e nell’overflow di informazioni», dice Calise, intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”. I partiti oggi sono in tilt: «La capacità di comunicare è sempre più legata a una capacità di leadership forte, ma se questa viene meno, il meccanismo si inceppa e tutto appare piatto». Svaniscono anche i messaggi forti: i programmi, percepiti come poco credibili, non interessano a nessuno.
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Brutte notizie: la finanza-killer non teme le elezioni italiane
Dal primo gennaio 2018, la Borsa di Milano ha fatto meglio di quelle dei principali paesi europei (Francia, Germania e Spagna inclusi). E a una settimana dal voto, «il mercato non si è ancora accorto che in Italia ci saranno le elezioni». Oppure «pensa che non siano un problema». Ha ragione? Niente di più facile, scrive Paolo Annoni sul “Sussidiario”: il potere finanziario è convinto che dalle elezioni del 4 marzo uscirà l’ennesimo governo “responsabile”, cioè sottomesso all’oligarchia dominante. Certo, «le capacità predittive dei mercati non si sono dimostrate particolarmente spiccate in occasione di tornate elettorali», quindi in realtà «nessuno sa cosa uscirà dalle urne e quali combinazione di partiti sosterrà il prossimo governo». Ma sappiamo però che uno degli scenari possibili è una vittoria dei 5 Stelle – in teoria preoccupante per gli investitori? Non è così, a quanto pare. Anche perché, negli ultimi anni, «le votazioni che hanno disturbato davvero i mercati sono state quelle che hanno messo in discussione l’Unione Europea. Il referendum sulla Brexit e le elezioni francesi con un partito dichiaratamente anti-euro al ballottaggio hanno lasciato il mercato sospeso per mesi. È questa la ragione per cui a nessuno importa delle elezioni italiane: perché né Berlusconi, né il Pd, né il Movimento 5 Stelle sono anti-euro o anti-Europa».Tutto il resto non conta, scrive Annoni, perché la politica economica italiana viaggia sul “pilota automatico” delle decisioni europee. Una crisi del debito italiano? «E’ inconcepibile se l’Unione Europea entra in campo, come ampiamente dimostrato nel 2012 con l’intervento di Draghi». Viceversa, una crisi del debito italiano è il prodotto dell’Unione Europea, «nella misura in cui impone la sua politica, l’austerity, a un governo riottoso», oppure se “produce” un riequilibrio dei suoi rapporti interni a danno di uno dei suoi membri. «L’unica vera variabile che interessa ai mercati – sottolinea Annoni – è se ci sia un governo che, minacciando lo status quo europeo, inneschi la reazione dell’establishment continentale contro l’Italia, o se lo status quo venga minacciato da un governo anti-euro». L’Europa, insiste l’analista, «è in grado di provocare o fermare una crisi italiana in qualunque momento, a prescindere dalla performance economica del nostro paese». Basta poco: per esempio, «imporre un rientro del debito in un contesto economico globale magari difficile». Oppure, «imporre alle banche italiane di liberarsi dei Btp o un qualsiasi altro innesco, dato che l’Italia non ha più sovranità monetaria e bancaria».A far traballare il paese «basta, per esempio, cominciare a dichiarare ai quattro venti che l’Italia è un problema». Sarebbe sufficiente a far capire ai “mercati” l’aria che tira, e quindi «far partire una crisi del debito e poi “risolverla” con l’austerity dopo un bel bagno in Borsa». Oppure «basta dire che l’euro verrà difeso a ogni costo». Quello che è interessante, osserva Annoni, è che «nemico del “mercato” in quanto nemico dell’establishment europeo non è solo chi è contro l’euro, ma anche chi vuole riformare nella sostanza l’Europa, in questo minacciando gli attuali equilibri». Se un governo italiano “europeista” ma coraggioso attaccasse il surplus commerciale tedesco o l’austerity, rivendicasse più investimenti in infrastrutture o denunciasse la catastrofe sociale della disoccupazione greca, «anche in questo caso quello che accadrebbe nella sostanza sarebbe una minaccia per chi oggi controlla l’Europa e incassa i dividendi». E anche in questo caso, aggiunge Annoni, sarebbe ovvio aspettarsi «una reazione per mantenere gli equilibri attuali», che hanno palesemente dei vincitori e dei perdenti, in quest’Europa teoricamente unita e in realtà mai così ferocemente divisa, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.Qualsiasi accenno di contestazione alla gestione Ue costerebbe carissimo al nostro paese, in prima battuta: «La reazione dell’establishment europeo passerebbe, inizialmente, per i mercati finanziari contro l’Italia», sostiene Annoni. Ma il mercato finanziario – cioè il vero padrone di qualsuasi decisione importante – è convinto che dalle prossime elezioni italiane non uscirà niente che possa cambiare gli equilibri europei. «Speriamo che sbagli, perché non è un bene per l’Italia», conclude Annoni. «E su questo fronte ci dovrebbero essere sia i populisti anti-euro che gli europeisti che vogliono cambiare l’Europa dando all’Italia, nel processo, un ruolo diverso». Ma difficilmente sbaglia, il “mercato”, se resta così tranquillo di fronte alla scadenza elettorale italiana: probabilmente pensa di conoscere i suoi polli. Non è il referendum sulla Brexit, e nel Belpaese non c’è in giro nessuna Marine Le Pen. I volenterosi che vorrebbero “correggere” l’Unione Europea? Qualche nome, qua e là, ma nelle seconde file. Nulla che impensierisca i gestori della crisi nella quale viene fatta sprofondare l’Italia, dove – non a caso – l’astensionismo sembra apprestarsi a far registrare il suo record storico.Dal primo gennaio 2018, la Borsa di Milano ha fatto meglio di quelle dei principali paesi europei (Francia, Germania e Spagna inclusi). E a una settimana dal voto, «il mercato non si è ancora accorto che in Italia ci saranno le elezioni». Oppure «pensa che non siano un problema». Ha ragione? Niente di più facile, scrive Paolo Annoni sul “Sussidiario”: il potere finanziario è convinto che dalle elezioni del 4 marzo uscirà l’ennesimo governo “responsabile”, cioè sottomesso all’oligarchia dominante. Certo, «le capacità predittive dei mercati non si sono dimostrate particolarmente spiccate in occasione di tornate elettorali», quindi in realtà «nessuno sa cosa uscirà dalle urne e quali combinazione di partiti sosterrà il prossimo governo». Ma sappiamo però che uno degli scenari possibili è una vittoria dei 5 Stelle – in teoria preoccupante per gli investitori? Non è così, a quanto pare. Anche perché, negli ultimi anni, «le votazioni che hanno disturbato davvero i mercati sono state quelle che hanno messo in discussione l’Unione Europea. Il referendum sulla Brexit e le elezioni francesi con un partito dichiaratamente anti-euro al ballottaggio hanno lasciato il mercato sospeso per mesi. È questa la ragione per cui a nessuno importa delle elezioni italiane: perché né Berlusconi, né il Pd, né il Movimento 5 Stelle sono anti-euro o anti-Europa».
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Margari: liberare la politica, “comprata” dalle grandi lobby
«Non votare significa delegare a quei pochi, sempre meno, che decidono per gli altri. I quali, a loro volta, delegano il loro potere alle imprese. Stiamo trasformando la società in qualcosa in cui le imprese multinazionali ormai hanno capitali enormi, superiori ai Pil degli Stati: in alcuni casi possono comprarsi tutto il paese, incluso il presidente, e lo fanno». Paolo Margari, candidato 5 Stelle alla Camera nella sezione Europa, lancia l’allarme: «Tra gli italiani all’estero, l’astensionismo è alle stelle: pari al 70%. Uno su due non sa neppure che l’attuale premier si chiama Gentiloni». Letteralmente, 7 italiani su 10, iscritti all’Aire, non esercitano il proprio diritto di voto. «Molti non sanno per chi votare e dicono: non voto nessuno, siete tutti uguali». Protesta, Magari: «Non è vero, non siamo tutti uguali». Di sicuro non lo è il candidato grillino, tipico “cervello in fuga”: laureato in geografia economica, specializzato in politiche che coinvolgano i cittadini nello sviluppo locale. Diploma in economia e commercio, master a Sheffield in pianificazione territoriale. Parla quattro lingue, ha fondato un’impresa in Estonia ed è un super-consulente nel campo del marketing digitale. «Ma ho fatto anche il portiere d’albergo e il fotografo», dice. «Vivo a Buxelles, ma prima stavo nel Regno Unito. All’estero sono stato studente e lavoratore. Ho fatto ricerca accademica, e ho fatto pure il dipendente nel settore marketing per 7 anni». Adesso si candida. Missione: liberare la politica dal dominio improprio dell’economia.Grillino della prima ora: «Sono nei meet-up dal 2006, quando il Movimento 5 Stelle non era ancora nato». Prima, aveva tifato per i referendum radicali. Dopo il dibattito elettorale promosso a Londra da Marco Moiso con gli altri candidati, si è iscritto al Movimento Roosevelt. «Mi sono subito sentito a casa: questo è un posto dove si parla di politica, uno spazio per sviluppare buona politica. E credo che il Movimento 5 Stelle, in quello che dice e che fa, abbracci in pieno i principi del Movimento Roosevelt: democrazia progressiva, fondata sulla partecipazione. Diritti umani: rimettere la politica al centro della scena, e l’essere umano al centro della politica». Fondamentale, in un mondo in cui i partiti procedono solo per slogan, cambiando il proprio simbolo ogni cinque anni: «Un tempo avevano sezioni, idee e ideologie. Oggi hanno solo leader di formato televisivo. Si limitano a dire: aboliamo questo, tassiamo quest’altro. I cittadini non li capiscono, e si allontanano dalla politica», sintetizza Magari, in video-chat con Moiso. «Non sappiamo più chi siamo e dove andiamo, politicamente parlando. Per questo è decisivo aprire spazi per discutere e far partecipare i cittadini: devono contribuire direttamente al proprio futuro. Con il voto, certo, e anche con le forme di democrazia diretta: referendum, leggi di iniziativa popolare».L’economia, fatta di grandi gruppi di interesse privati, oggi pesa più dei governi stessi, che invece «dovrebbero operare nell’interesse della collettività per cercare sì di creare ambienti competitivi in cui i privati possono sviluppare il proprio ingegno e fare dei profitti, cercando però anche di non lasciare indietro le classi disagiate, quelle che non hanno le stesse opportunità di chi è più fortunato», sottolinea Moiso, coordinatore generale del movimento fondato nel 2015 da Gioele Magaldi. La politica ha rinunciato a riprendere in mano gli strumenti principali per incidere sulla società, insiste Moiso: «Nel momento in cui si delegano le politiche monetarie e le politiche economiche a poteri terzi, privati, e poi si accettano le regole che vengono imposte sulla politica, in realtà la politica ha le mani legate, non può più prendere in mano le sorti né di se stessa, né della collettività che deve rappresentare». Per il candidato Paolo Margari, molta politica è ormai «terreno di caccia», neo-colonialismo da parte delle multinazionali: «Col loro finanziamento impongono la loro direzione politica: “Vi costruiamo una strada, ma in cambio otteniamo questa legge”. Accade anche al politico che rastrella fondi per la campagna elettorale e poi deve servire chi l’ha finanziato».E questo meccanismo, aggiunge Margari, trasforma il politico: «Da rappresentante del popolo sovrano (che lo elegge) a rappresentante di chi lo finanzia. Questa è la democrazia americana, che ormai è diventata uguale anche in Europa: abbiamo politici che ottengono supporto e poi devono risponderne». E il popolo? «Assiste al triste teatrino elettorale televisivo, dove per qualche settimana volano accuse incrociate, all’ombra del sostegno ricevuto da questo o quel gruppo: è un mercato di scambio di favori». Capitolo spinoso, l’Unione Europea: «Nel momento in cui un paese delega sovranità a enti sovranazionali come l’Ue, senza legittimazione diretta da parte del popolo, questo allontana il cittadino dalle istituzioni che regolano questo spazio politico comune, perché poi l’istituzione impone ai paesi di seguire le direttive, e i cittadini devono subire qualcosa per cui non hanno mai votato». Aggiunge, Margari: «I cittadini non hanno neppure idea di come funzioni, l’Unione Europea. E allontanare i cittadini dall’Ue è un meccanismo davvero antieuropeista». Per questo, dice, il Movimento 5 Stelle è per la revisione dei trattati: «L’Europa sta andando a sbattere contro un muro, nella disaffezione generale». Avallare lo status quo? «Sarebbe una scelta suicida, quindi dobbiamo cambiare. Cioè: non amputare, ma curare. Non possiamo fare a meno della democrazia, dobbiamo guarirla».«Non votare significa delegare a quei pochi, sempre meno, che decidono per gli altri. I quali, a loro volta, delegano il loro potere alle imprese. Stiamo trasformando la società in qualcosa in cui le imprese multinazionali ormai hanno capitali enormi, superiori ai Pil degli Stati: in alcuni casi possono comprarsi tutto il paese, incluso il presidente, e lo fanno». Paolo Margari, candidato 5 Stelle alla Camera nella sezione Europa, lancia l’allarme: «Tra gli italiani all’estero, l’astensionismo è alle stelle: pari al 70%. Uno su due non sa neppure che l’attuale premier si chiama Gentiloni». Letteralmente, 7 italiani su 10, iscritti all’Aire, non esercitano il proprio diritto di voto. «Molti non sanno per chi votare e dicono: non voto nessuno, siete tutti uguali». Protesta, Magari: «Non è vero, non siamo tutti uguali». Di sicuro non lo è il candidato grillino, tipico “cervello in fuga”: laureato in geografia economica, specializzato in politiche che coinvolgano i cittadini nello sviluppo locale. Diploma in economia e commercio, master a Sheffield in pianificazione territoriale. Parla quattro lingue, ha fondato un’impresa in Estonia ed è un super-consulente nel campo del marketing digitale. «Ma ho fatto anche il portiere d’albergo e il fotografo», dice. «Vivo a Buxelles, ma prima stavo nel Regno Unito. All’estero sono stato studente e lavoratore. Ho fatto ricerca accademica, e ho fatto pure il dipendente nel settore marketing per 7 anni». Adesso si candida. Missione: liberare la politica dal dominio improprio dell’economia.
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Dal Lago: voto inutile, partiti immaginari e crisi cronica Ue
I 5 Stelle? Un gruppo di “puri” destinato a fallire. Renzi? La sintesi perfetta di Berlusconi e Grillo. Per Alessandro Dal Lago, filosofo e sociologo, i partiti hanno orientamenti “immaginari”, Berlusconi e Renzi sono perfettamente intercambiabili, i grillini non sono il partito della protesta ma del rifiuto della società e del ritiro nel privato. Intellettuale di sinistra, autore di saggi come “Populismo digitale”, Dal Lago vede nel paese un aumento radicale della diseguaglianza: «Chi resta indietro non avrà speranze». Il voto del 4 marzo?«Ininfluente, perché la riforma elettorale ha introdotto un proporzionale corretto che non permette a nessuna forza di avere il vantaggio che serve per governare». Ci governa l’Unione Europea, «sostenuta da dinamiche economiche di tipo ordoliberista i cui centri decisionali hanno imbrigliato il continente in una serie di vincoli determinati dai trattati». Detto in modo brutale: «Anche se l’Italia avesse rappresentanti massicciamente contrari all’Unione, non potrebbe fare nulla: l’esempio più lampante viene proprio dal Regno Unito, che non sa come uscirne». Pessimismo cosmico: «L’evoluzione di queste dinamiche economico-politiche potrebbe durare anche una trentina d’anni. E potrebbe alimentarsi di una o più crisi di cui non conosciamo la portata».Intervistato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”, Dal Lago vede un’Italia politica che guida a fari spenti nella notte. «In campo ci sono tre grandi soggetti, di cui due in crisi di legittimazione, Pd ed M5S, e il terzo, il centrodestra, già delegittimato 5-6 anni fa, rinato come un’araba fenice ma pronto a dividersi dopo la probabile vittoria». Partiti che «ritraggono orientamenti in larga parte immaginari». Ovvero: «A destra c’è una sorta di Democrazia Cristiana fuori tempo, ma senza essere un partito di massa: Forza Italia, da sempre virtuale, ha avuto in passato il 30 per cento dei voti, oggi è al 17. Si è alleata con un partito ex “catalano”, oggi di destra, e con un partitino di ex fascisti». Poi viene il Pd: «E’ il partito di un uomo solo al comando, che mira a una formazione piccola ma di cui controlla tutte le leve». Infine, il Movimento 5 Stelle: «Un ircocervo né di destra né di sinistra, che fa finta di essere democratico quando è gestito da una società di consulenza aziendale e che oltretutto si sta annacquando giorno dopo giorno».Orientamenti “immaginari”, appunto, «perché il centrosinistra non ha fatto più spesa pubblica e cacciato meno immigrati di quando avrebbe potuto fare il centrodestra al governo. Sono differenze più immaginarie e simboliche che non legate a interessi o politiche materiali». I sondaggisti dicono che l’astensione è intorno al 34% per cento. Un giovane su due potrebbe disertare le urne. Non è una novità: a Ostia (80.000 persone) è andato a votare solo il 33%. «Siamo in una fase di transizione», sostiene Alessandro Dal Lago. «I modelli politici tradizionali sono morti, quelli nuovi ancora non ci sono ma si affacciano nuove dimensioni: la politica non passa più per la televisione e i comizi ma per i social media». Proprio sui social si registra «un distacco crescente dalle azioni e dalle scelte condivise». Vale a dire: «I soggetti interagiscono con l’ambito pubblico rimanendo confinati in una sfera totalmente privata, quella del loro schermo. Fare politica si è ridotto ad assistere alle polemiche su Twitter e Facebook». La politica frana, ovunque: «Negli Stati Uniti c’è un presidente che si vanta di avere il bottone nucleare più grande di quello degli altri. In Francia non c’è più il partito che per quarant’anni si è alternato con la destra alla guida del paese. In tutta Europa crescono i partiti xenofobi. In Italia i giovani del Sud sono destinati a rimanere esclusi o ai margini dei processi produttivi».Si sta scivolando pericolosamente verso un aumento disastroso delle diseguaglianze: «C’è un distacco sempre più netto tra la società digitale post-industriale e quelli che restano indietro, e che non hanno speranze. Un 60enne che faceva l’operaio e perde il lavoro dove va? A lavorare in un call center? Da questo punto di vista il Jobs Act è stato fatto apposta per espellere le persone dal mercato del lavoro. Si dà loro qualche indennità e stop». Processi complicati: troppo, per partiti “immaginari”. «Il centrodestra italiano ha un senso solo nella società degli integrati, di quelli che non vogliono perdere il loro status. Il Pd è ancorato a un sistema di notabilato e di gestione degli interessi radicato in due-tre Regioni, senza le quali non esisterebbe. Il monopolio del voto meridionale da parte del centrodestra non c’è più». Saranno i 5 Stelle a fare il pieno al Sud, ma non sarà un voto di protesta bensì “di distacco”: «Segnala la nuova estraneità al mondo politico. Nelle regioni del Sud gli elettori vedono – a torto – il M5S come l’alternativa elettorale, legale, a una società che non amano, a un sistema di potere che rifiutano».I 5 Stelle? Un gruppo di “puri” destinato a fallire. Renzi? La sintesi perfetta di Berlusconi e Grillo. Per Alessandro Dal Lago, filosofo e sociologo, i partiti hanno orientamenti “immaginari”, Berlusconi e Renzi sono perfettamente intercambiabili, i grillini non sono il partito della protesta ma del rifiuto della società e del ritiro nel privato. Intellettuale di sinistra, autore di saggi come “Populismo digitale”, Dal Lago vede nel paese un aumento radicale della diseguaglianza: «Chi resta indietro non avrà speranze». Il voto del 4 marzo? «Ininfluente, perché la riforma elettorale ha introdotto un proporzionale corretto che non permette a nessuna forza di avere il vantaggio che serve per governare». Ci governa l’Unione Europea, «sostenuta da dinamiche economiche di tipo ordoliberista i cui centri decisionali hanno imbrigliato il continente in una serie di vincoli determinati dai trattati». Detto in modo brutale: «Anche se l’Italia avesse rappresentanti massicciamente contrari all’Unione, non potrebbe fare nulla: l’esempio più lampante viene proprio dal Regno Unito, che non sa come uscirne». Pessimismo cosmico: «L’evoluzione di queste dinamiche economico-politiche potrebbe durare anche una trentina d’anni. E potrebbe alimentarsi di una o più crisi di cui non conosciamo la portata».
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Giannuli: Potere al Popolo, per scuotere questi partiti morti
«Non per dare consigli a nessuno (non mi sembra di averne titolo) ma per chiarezza, faccio il mio “coming out” elettorale». Ovvero: “Potere al Popolo” alla Camera, «scommettendo che faccia il 3%», e i 5 Stelle al Senato «per dare ancora un segnale di disponibilità, sempre che raddrizzino il timone». Parola del professor Aldo Giannuli, storico dell’università di Milano, ascoltato politologo e attento osservatore “da sinistra” della scena italiana. «Come ho detto più volte – premette – il principale problema del momento è l’indecente offerta politica: è troppo al di sotto di quel che ci vorrebbe». Quindi, «più che per adesione», Giannuli voterà pensando agli effetti del suo voto «in questa specie di partita a carambola che sono diventate le consultazioni elettorali». Andando per esclusione: «Partiamo da quello che assolutamente non si può votare: centrodestra e centrosinistra sono solo avversari da battere». E per essere più precisi, «l’avversario peggiore e quello “di sinistra”, proprio per la truffa di un partito di destra che si presenta come “sinistra” e, in questo modo, riesce a fare quello che alla destra aperta non riusciva». E cioè: abolizione dell’articolo 18, Jobs Act, “buona scuola”: «Sono cose che Berlusconi avrebbe voluto fare ma non ci riuscì, per la reazione di sindacati e opposizione». Renzi invece ce l’ha fatta, «e per poco non è riuscito a stravolgere anche la Costituzione, non fosse stato per la rivolta popolare del 4 dicembre 2016».La destra berlusconiana, «anche se solo tatticamente» (per affondare Renzi) ha votato No al referendum, «mentre il Pd era l’eversore». Secondo Giannuli, «il nemico costituzionale è un nemico strategico assoluto». Dopo, non c’è più possibilità d’intesa: «Non glielo perdoneremo mai». Questo però non è chiaro a quella parte del Pd (neppure a tutta) che votò No e poi si è scissa, dando vita a “Liberi e Uguali”. Ok, ieri hanno ingaggiato la battaglia referendaria e oggi non hanno accettato di entrare in coalizione col Pd, ma l’hanno fatto «con un costante margine di ambiguità, per cui in Lazio entrano nella coalizione di Zingaretti e non escludono alleanze future». Il problema? Per Leu non è il Pd, ma Renzi: «Con un Pd senza Renzi si potrebbe ragionare», pensano. «E invece no: il Pd era una cosa sbagliata anche prima del fiorentino, un intruglio venefico fra neoliberismo e centralismo staliniano per il quale il gruppo dirigente fa opportunisticamente quel che vuole senza mai rendere conto a nessuno». D’altra parte, aggiunge Giannuli, il Pd appartiene a quella post-socialdemocrazia “terzista”, blairiana, «che si arrese al neoliberismo e che oggi sta pagando il conto, riducendosi a percentuali non rilevanti». La sua stagione è finita, e questo vale anche per il Pd. «Ma i nostri amici di Leu non sembrano capaci di imparare dall’esperienza, e insistono».Poi c’è stata «l’imbarazzante vicenda della caccia al “capo”», prima inseguendo «quel nulla politico che è Pisapia», per poi planare incredibilmente su Pietro Grasso, «un nome che non ha bisogno di commenti». Quindi, continua Giannuli, sono passati all’ancora più imbarazzante vicenda delle candidature, «in cui Leu si è dimostrata un ufficio di collocamento per parlamentari in cerca di rielezione, senza nessuna consultazione della base», con politici a fine carriera «paracadutati in collegi in cui non c’entravano nulla». Il programma di “Liberi e Uguali”? Lo svela una colorita espressione siciliana: “Nuddu, ammiscàtu a nenti” (nessuno, sommato a niente). «Insomma, iniziativa politica zero, idee zero, democrazia interna zero: invotabili». Giannuli, che vota a Milano, farà un’eccezione solo per Onorio Rosati, candidato con Leu alle regionali lombarde, «perché la Regione non è il Parlamento nazionale». Quanto ai 5 Stelle, dopo la manfrina elettoralistica del “né di destra, né di sinistra”, hanno fatto la scelta peggiore: la destra neoliberista. Il “reddito di cittadinanza”? «Una proposta tutta interna al neoliberismo». Lorenzo Fioramonti, il guru arruolato da Di Maio nonché suo mentore a Wall Street? «Nemico numero uno del Pil, economista di spiccata ispirazione neoliberista» (vorrebbe amputare del 40% il debito pubblico).«La solita solfa “né di destra né di sinistra” è un vecchio trucco per raccogliere voti da ambo le parti», ricorda Giannuli: «Per primi lo usarono i Fasci di Combattimento di Mussolini esattamente 99 anni fa». Furbetti e pilateschi, i 5 Stelle, su questo punto, «per non dire dell’annosa vicenda dei migranti». Quanto al modello organizzativo – apparato di funzionari o notabili parlamentari, oppure gruppi dirigenti regolarmente selezionati in modo collegiale e democratico – il Movimento 5 Stelle «ha scelto il peggiore: quello dell’uomo solo al comando, tanto simile a quello renziano». E l’ha fatto «con un colpo di mano statutario sbalorditivo», adottando «un regolamento subito applicato, senza neppure essere mai stato votato da nessuno». Il risultato, ferma restando la “pasticcioneria dell’ultima ora” tipica dei 5 Stelle, «è questa selezione di candidati su cui non spenderemo neppure mezza parola». Unico auspicio: forse non finirà così. «La base del movimento non è stata consultata e ha taciuto perché c’erano le elezioni, ma il 5 marzo magari avrà qualcosa da dire». Poi bisogna vedere come andrà Di Maio alle elezioni, cosa diranno Grillo e Di Battista, «e Dio non voglia che vengano fuori una decina di “responsabili”»). Comunque sia, per Giannuli, la base pentastellata resta pur sempre «un serbatoio di forze antisistema per nulla trascurabile».Poi ci sono le liste-contro, specie quelle di sinistra: l’unica che in base ai sondaggi sembra avere una chance (almeno di conquistare qualche seggio) è “Potere al Popolo”, messa insieme all’ultimo momento e tra mille difetti. «Però non c’è dubbio che una sua affermazione scombinerebbe molti giochi», sostiene Giannuli: «Tanto per cominciare, questo significherebbe che la domanda di una nuova rappresentanza politica si fa avanti e non è frenata», nonostante le tante “trappole” inventate dalla classe politica, tra sbarramenti e scatole cinesi: dalla valanga di firme da raccogliere in tempo record per ogni per circoscrizione, fino alla stessa «incomprensibile» legge elettorale, per cui «persino quelli di Forza Italia hanno rischiato». Non sta scritto da nessuna parte che il Parlamento debba essere monopolio dei tre poli maggiori, sottolinea Giannuli. E allora «allarghiamo il club e vediamo soprattutto quanti voti raccoglieranno le liste fuori coalizione».Queste elezioni, in fondo, sono solo il secondo round del crollo dell’infelicissima Seconda Repubblica. Il primo round è stato il referendum. Ne verrà un terzo tra un anno alle europee, poi forse un quarto alle regionali, sempre che prima non ci siano elezioni anticipate. Dunque, un voto necessariamente tattico: «Se “Potere al Popolo” prendesse ora il 3%, fra un anno parteciperebbe alle elezioni senza dover raccogliere le firme». Un bel punteruolo nella schiena di Leu e M5S: «Mica male, considerate le porcherie che hanno combinato questa volta». Capirebbero che «non possono dar da bere alla gente proprio tutto»? Inizieranno a correggere la rotta? «Ho visto dei sondaggi che danno “Potere al Popolo” al 2,4%», scrive Giannuli. «Certo, c’è la valanga degli indecisi che poi, quando rientra, non premia i piccoli partiti». Ma forse l’impresa non è impossibile: “Potere al Popolo” ha registrato una crescita costante fin dall’inizio, «quando nei sondaggi non compariva proprio». Lo spazio politico da riempire c’è tutto, chiosa Giannuli: «Diciamo che deve rastrellare 120-130.000 voti, per farcela». Poi dipende anche dall’astensionismo: in quanti voteranno? Quanti, invece, diserteranno le urne?«Non per dare consigli a nessuno (non mi sembra di averne titolo) ma per chiarezza, faccio il mio “coming out” elettorale». Ovvero: “Potere al Popolo” alla Camera, «scommettendo che faccia il 3%», e i 5 Stelle al Senato «per dare ancora un segnale di disponibilità, sempre che raddrizzino il timone». Parola del professor Aldo Giannuli, storico dell’università di Milano, ascoltato politologo e attento osservatore “da sinistra” della scena italiana. «Come ho detto più volte – premette – il principale problema del momento è l’indecente offerta politica: è troppo al di sotto di quel che ci vorrebbe». Quindi, «più che per adesione», Giannuli voterà pensando agli effetti del suo voto «in questa specie di partita a carambola che sono diventate le consultazioni elettorali». Andando per esclusione: «Partiamo da quello che assolutamente non si può votare: centrodestra e centrosinistra sono solo avversari da battere». E per essere più precisi, «l’avversario peggiore e quello “di sinistra”, proprio per la truffa di un partito di destra che si presenta come “sinistra” e, in questo modo, riesce a fare quello che alla destra aperta non riusciva». E cioè: abolizione dell’articolo 18, Jobs Act, “buona scuola”: «Sono cose che Berlusconi avrebbe voluto fare ma non ci riuscì, per la reazione di sindacati e opposizione». Renzi invece ce l’ha fatta, «e per poco non è riuscito a stravolgere anche la Costituzione, non fosse stato per la rivolta popolare del 4 dicembre 2016».