Archivio del Tag ‘candidati’
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Andreotti, Vanna Marchi e ora il Tamarro di Firenze
Questo presidente del Consiglio ha uno stile molto personale: una miscela fra Fanfani, Andreotti, Berlusconi e Vanna Marchi, con un tocco tamarro molto particolare. Di Fanfani ha l’attivismo frenetico e fine a sé stesso, ma non l’ideazione politica; di Andreotti il cinismo, ma non la raffinata perfidia; di Berlusconi l’ineguagliabile faccia tosta, ma non il tempismo (essere frenetici non significa necessariamente essere tempisti). Di Vanna Marchi ha la comunicativa dell’imbonitore televisivo, ma gli manca… gli manca… No: mi pare che non manchi nulla. Quanto al coefficiente di tamarraggine, fate voi. La cifra stilistica vantata è quella della velocità: Renzi è veloce, fa in un mese quello che altri non hanno fatto in vent’anni. Poi dopo un mese, due mesi, tre mesi non è successo niente? Non c’è problema: annunciamo un’altra “riforma” che faremo nel mese prossimo.In realtà lui è un grande illusionista, sa creare come nessun altro l’illusione di un attivismo insonne e turbinoso. E questo tratto si confonde con quello dell’arroganza del provinciale toscano che, però, è di più di quel che sembra. In lui l’arroganza non è solo un aspetto del tratto personale più o meno sgradevole, è di più: è una forma di comunicazione politica e uno strumento di governo. In questo modo lui dà l’immagine del leader diverso dagli altri, informale, sbrigativo, deciso (e pazienza se questo comporta un discreto tasso di maleducazione). Ma è anche un modo per dribblare gli avversari. Se ci fate caso, non risponde mai nel merito alle obiezioni rivoltegli, ma punta solo a squalificare l’interlocutore: contesti argomentatamente le sue idee di riforma? Sei contro le riforme, sei un gufo, sei contro il cambiamento e vuoi lasciare tutto com’è.Trovi discutibili il suo modo di porsi verso la Ue? Sei antitaliano, indebolisci la posizione del paese verso la Merkel. Critichi le sue posizioni troppo morbide verso Israele, anche di fronte al massacro di Gaza? Sei antisemita. Non condividi la scelta della Mogherini come mister Pesc o ti scappa da ridere di fronte alla candidatura della Pinotti al Quirinale? Sei misogino, non vuoi l’affermazione delle donne in politica. E via di questo passo, attingendo a piene mani a quell’immenso serbatoio di stupidità che è il “politicamente corretto”, una delle grandi patologie del nostro tempo. Abilissimo a sfruttare qualche gaffe di suoi avversari, come quando Mineo disse che gli sembrava un autistico («Lascia stare i ragazzi autistici, che sono il dramma di migliaia di famiglie, prenditela con me»), come se Mineo, al di là della scelta del termine, se la fosse presa con qualche altro.Con questa tecnica, da giullare fiorentino, riesce sia a mascherare la sua ben modesta cultura, sia ad evitare un dibattito politico reale che non saprebbe reggere. Tutto diventa una questione di velocità o lentezza, di decisione o immobilismo, senza mai entrare nel merito delle riforme proposte che, in fondo, potrebbero anche essere sbagliate. Ma questo è un dubbio che non lo sfiora; anzi, Renzi proprio non ha dubbi mai. Il suo stile da leader carismatico alla “ribollita” è il prodotto dell’innesto delle due culture politiche originarie del Pd: quella democristiana e quella pcista. Dallo scudo crociato ha ereditato l’ipocrisia, l’assoluta slealtà sino ai limiti del cannibalismo (l’altro democristiano, Enrico Letta, ne sa qualcosa); dalla radice pcista ha ereditato lo stalinismo – che delegittima e criminalizza ogni dissenso – e la faziosità spinta sino al limite dell’assoluta disonestà intellettuale. Dalla Dc non ha ereditato il senso della mediazione (che non saprebbe fare). Dal Pci non ha ereditato il senso strategico della politica. E questo sarebbe il nuovo che il Pd ci propone… Carramba che sorpresa!(Aldo Giannuli, “Lo stile di Renzi”, dal blog di Giannuli del 29 luglio 2014).Questo presidente del Consiglio ha uno stile molto personale: una miscela fra Fanfani, Andreotti, Berlusconi e Vanna Marchi, con un tocco tamarro molto particolare. Di Fanfani ha l’attivismo frenetico e fine a sé stesso, ma non l’ideazione politica; di Andreotti il cinismo, ma non la raffinata perfidia; di Berlusconi l’ineguagliabile faccia tosta, ma non il tempismo (essere frenetici non significa necessariamente essere tempisti). Di Vanna Marchi ha la comunicativa dell’imbonitore televisivo, ma gli manca… gli manca… No: mi pare che non manchi nulla. Quanto al coefficiente di tamarraggine, fate voi. La cifra stilistica vantata è quella della velocità: Renzi è veloce, fa in un mese quello che altri non hanno fatto in vent’anni. Poi dopo un mese, due mesi, tre mesi non è successo niente? Non c’è problema: annunciamo un’altra “riforma” che faremo nel mese prossimo.
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Addio democrazia, Renzi e Silvio i manovali del piano
Le chiamano “riforme”, come fossero sinonimo di “migliorie”, secondo la vulgata mainstream accettata dai media come verità di fede. Ma sono soltanto le “indicazioni” – leggasi: diktat – che l’oligarchia euroatlantica da anni reitera all’Italia, a colpi di spread (Mario Monti) oppure confidando nell’appeal demiurgico di Renzi, che attraverso il ministro Padoan (Ocse) e con la collaborazione dell’immancabile “uomo di sinistra”, il ministro Poletti, propone la stessa cura-Monti spacciandola per innovazione entusiasmante. Tutto molto semplice: smantellare i punti cardine della Costituzione antifascista, quella che Jamie Dimon (Jp Morgan) ritiene obsoleta, perché tutela l’interesse pubblico di cittadini e lavoratori contro la legge del business. Quella che – con l’applicazione del Ttip, il Trattato Transatlantico voluto dai padroni di Obama e imposto a Renzi – farà sparire in tutta Europa le ultime garanzie di tutela su ambiente, salute, lavoro e sicurezza alimentare, liquidando la qualità del made in Italy. Logica traduzione: sbaraccare lo Stato di diritto e il “rischio” che possa essere governato dai cittadini tramite politici onesti e responsabili.Marco Travaglio lo chiama “il patto Renzi-Berlusconi”, individuandone la declinazione italiana di oggi, i suoi manovali. Ma è un “patto” che viene da lontano, a metà strada tra Wall Street, Bruxelles e Berlino. «Unendo i puntini delle varie riforme vaganti tra governo e Parlamento, costituzionali e ordinarie, ma anche di certe prassi quotidiane passate sotto silenzio per trasformarsi subito in precedenti pericolosi, come le continue interferenze del Quirinale nell’autonomia del Parlamento, della magistratura e della stampa, viene fuori un disegno che inquieta», scrive Travaglio sul “Fatto Quotidiano”. «Una democrazia verticale, cioè ben poco democratica: sconosciuta, anzi opposta ai principi ispiratori della Costituzione, fondata invece su un assetto orizzontale in ossequio alla separazione e all’equilibrio dei poteri». Svolta autoritaria: «All’insaputa del popolo italiano, mai consultato sulla riscrittura della Costituzione, e fors’anche di molti parlamentari ignoranti o distratti, il combinato disposto di leggi, decreti e prassi – di per sé all’apparenza innocue – rischia di costruire un sistema illiberale e piduista fondato sullo strapotere del più forte e sul depotenziamento degli organi di controllo e garanzia».Il pericolo, sintetizza Travaglio, è una «dittatura della maggioranza». Una “democratura”, come direbbe Giovanni Sartori, «a disposizione del primo “uomo solo al comando” che se ne impossessa, diventando intoccabile, incontrollabile, non contendibile, dunque invincibile». Unendo l’ultimo dei “puntini” – il più importante, anche se Travaglio lo sfuma, forse dandolo per scontato – si scopre che il cervello della manovra per liquidare la residua democrazia italiana non risiede a Roma, ad Arcore o a Firenze, ma nei centri di potere economico-finanziari e tecnocratici che negli ultimi trent’anni hanno logorato senza sosta i gangli vitali della fragile e sgangherata democrazia italiana, per assoggettarla a regole scritte altrove, nei santuari del neoliberismo: fine della sovranità nazionale, debito pubblico ostaggio della speculazione finanziaria, demonizzazione del deficit, taglio della spesa pubblica e del welfare, attacco ai salari, flessibilità e precarizzazione del lavoro (Jobs Act), massacro delle pensioni (riforma Fornero). Tutto questo è avvenuto grazie all’alibi del debito, in realtà esploso dopo il divorzio tra Bankitalia e Tesoro nel 1981, che privò di colpo il paese della possibilità di finanziare il deficit – cioè l’investimento pubblico – a costo zero.Da allora, tutti i “tecnici” al potere (in prima linea e nelle retrovie: Draghi, Ciampi, Amato, Andreatta, Prodi, Dini, Padoa Schioppa, Visco, Treu, Bassanini, Monti) hanno proseguito la missione: dire agli italiani che “bisogna” suicidare lo Stato, cioè spillare più soldi – in tasse – di quanti lo Stato non sia disposto a spendere per i cittadini. “Lo vuole l’Europa”, naturalmente, ovvero la Germania, interessata a sbarazzarsi della concorrenza industriale italiana, e lo vuole – da sempre – l’élite economica euroatlantica, insofferente alla relativa autonomia di paesi come l’Italia, capaci di sviluppare benessere diffuso (nonostante la casta corrotta dei politici) proprio grazie alla spesa pubblica strategica dello Stato, che finisce per fare concorrenza al “mercato”, ovvero ai signori delle multinazionali. Sono loro, i “padroni dell’universo”, gli unici a comandare oggi – a fare le leggi che contano – grazie alle lobby insediate a Bruxelles e a organismi sovranazionali pressoché onnipotenti, dal Wto alla Banca Mondiale, dal Fmi alla Bce, dal Bilderberg alla Banca dei Regolamenti Internazionali. Tutto il potere che conta è verticalizzato, nel sistema neo-feudale dell’euro, in mano a poche “menti raffinatissime” che vogliono la morte per fame dello Stato democratico e la impongono mediante rigore e austerity, Fiscal Compact, unione bancaria europea, pareggio di bilancio.Nella sua lunga analisi, Travaglio osserva la traduzione italiana del piano, affidato a Renzi e Berlusconi con la regia di Napolitano sin dai tempi di Monti (Goldman Sachs, Commissione Trilaterale) e Letta (Aspen, Bilderberg). Il fondatore del “Fatto” individua i punti-chiave della definitiva archiviazione della macchina democratica così come l’abbiamo conosciuta finora. La spaventosa legge elettorale, battezzata “Italicum”, che impedirebbe ai cittadini di eleggere i loro candidati. Il Senato, ridotto a comparsa della democrazia. La fine dell’opposizione, con l’emarginazione dei parlamentari scomodi nelle commissioni (il caso Mineo) e una riforma costituzionale che «disarma le minoranze, istituzionalizzando la “ghigliottina” calata dalla presidente Laura Boldrini contro il M5S che tentava di impedire la conversione in legge del decreto-regalo alle banche». E mentre vengono falciati i poteri di controllo, il capo dello Stato abdica al suo storico ruolo di garanzia per ripiegare su una «funzione gregaria del governo», se per eleggerlo basteranno 33 senatori, dopo che il premier – con la legge-truffa per le elezioni – disporrà «del 55% dei deputati da lui nominati».Chi andrà al governo con l’Italicum, continua Travaglio, controllerà anche la Corte Costituzionale, il Csm, i procuratori della Repubblica: un’ingerenza mai vista prima del potere esecutivo, che – con le nuove regole – metterà al guinzaglio il potere giudiziario, proprio come sognava di fare Licio Gelli. Su tutto, resta ovviamente in piedi l’immunità parlamentare anche per i neo-senatori “nominati”, cioè sindaci e consiglieri regionali: «Basterà che un consiglio regionale li nomini senatori, e nel tragitto dalla loro città a Roma verranno coperti dallo scudo impunitario, che impedirà ai magistrati di arrestarli, intercettarli e perquisirli senza l’ok di Palazzo Madama». Tutto questo proviene dal giovane Renzi: interessato a “rottamare” la democrazia, si guarda bene dal toccare le due leggi-vergogna sull’informazione, la Gasparri sulla televisione e la Frattini sul conflitto d’interessi, mentre i grandi giornali italiani restano in mano a editori impuri come «imprenditori, finanzieri, banchieri, palazzinari (per non parlare di veri o finti partiti, con milioni di fondi pubblici), perlopiù titolari di aziende assistite e/o in crisi e dunque ricattabili dal governo, anche per la continua necessità di sostegni pubblici». Non è strano, quindi, che non raccontino ciò che sta davvero accadendo.Addio, cittadini italiani: «Espropriati del diritto di scegliersi i parlamentari, scippati della sovranità nazionale (delegata a misteriose e imperscrutabili autorità europee), i cittadini non ancora rassegnati a godersi lo spettacolo di una destra e di una sinistra sempre più simili e complici, che fingono di combattersi solo in campagna elettorale, possono rifugiarsi in movimenti anti-sistema ancora troppo acerbi per proporsi come alternativa di governo (come il M5S); o inabissarsi nel non-voto (che sfiora ormai il 50%)». In teoria, la Costituzione prevede alcuni strumenti di democrazia diretta, come i referendum abrogativi: «Che però, prevedibilmente, saranno sempre più spesso bocciati dalla Consulta normalizzata». Restano le leggi d’iniziativa popolare, peraltro quasi mai discusse dal Parlamento, ma i “padri ricostituenti” hanno pensato anche a queste, «quintuplicando la soglia delle firme necessarie, da 50 a 250 mila. Casomai qualcuno s’illudesse ancora di vivere in una democrazia».Nella peggiore delle ipotesi, l’allarme di Travaglio sarà costretto a impallidire se il Trattato Transatlantico che avanza a porte chiuse fosse davvero approvato, come vogliono Obama e Renzi, entro la fine del 2015: i giudici italiani non avrebbero più nessun potere contro le pretese delle multinazionali, pronte a chiedere maxi-risarcimenti a Stati e governi che oseranno opporre leggi a tutela del territorio, dei lavoratori, delle persone. E se a qualcuno il “nuovo ordine” non starà bene, l’Unione Europea – ora guidata dall’impresentabile oligarca Juncker – sta già addestrando in gran segreto l’Eurogendfor, polizia militare antisommossa e multinazionale, incaricata di reprimere le proteste: a caricare i cortei italiani potranno essere agenti francesi e olandesi, poliziotti spagnoli e portoghesi. Entro due o tre anni, secondo i critici più pessimisti, la Costituzione italiana sarà ricordata soltanto sui libri di storia.Le chiamano “riforme”, come fossero sinonimo di “migliorie”, secondo la vulgata mainstream accettata dai media come verità di fede. Ma sono soltanto le “indicazioni” – leggasi: diktat – che l’oligarchia euroatlantica da anni reitera all’Italia, a colpi di spread (Mario Monti) oppure confidando nell’appeal demiurgico di Renzi, che attraverso il ministro Padoan (Ocse) e con la collaborazione dell’immancabile “uomo di sinistra”, il ministro Poletti (Lega Coop), propone la stessa cura-Monti spacciandola per innovazione entusiasmante. Tutto molto semplice: smantellare i punti cardine della Costituzione antifascista, quella che Jamie Dimon (Jp Morgan) ritiene obsoleta, perché tutela l’interesse pubblico di cittadini e lavoratori contro la legge del business. Quella che – con l’applicazione del Ttip, il Trattato Transatlantico voluto dai padroni di Obama e imposto a Renzi – farà sparire in tutta Europa le ultime garanzie di tutela su ambiente, salute, lavoro e sicurezza alimentare, liquidando la qualità del made in Italy. Logica traduzione: sbaraccare lo Stato di diritto e il “rischio” che possa essere governato dai cittadini tramite politici onesti che abbiano a cuore l’Italia.
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Gladio, spie e oligarchi: chi è Juncker, il nuovo capo Ue
Leali e obbedienti, soprattutto perché ricattabili: è la regola d’oro in base alla quale il super-potere sceglie i suoi ineffabili candidati. Jean-Claude Juncker, l’anonimo politico democristiano per 18 anni alla guida del Lussemburgo, non è stato solo alla guida della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, prima di presiedere l’Eurogruppo dal 2005 al 2013. E’ stato anche l’uomo che, per anni, ha messo illegalmente sotto sorveglianza i tre quinti dei suoi concittadini, spiati segretamente dallo Srel, l’intelligence lussemburghese. Per questo, accusato nel 2013 da una commissione d’inchiesta, è stato costretto alle dimissioni. Ombre lunghe, dunque, sulla nomina di Juncker al vertice della Commissione Europea: Angela Merkel, che l’ha imposto alla Gran Bretagna con la collaborazione di Renzi e Hollande, sa di poter sempre contare sulla fedeltà di un uomo molto chiacchierato, storica pedina dei poteri forti e accusato, nel suo paese, di aver fatto schedare migliaia di persone a loro insaputa, dopo aver coperto la strategia della tensione di marca Gladio, cioè Usa.Juncker, «inamovibile primo ministro lussemburghese per 18 anni», ha presentato le sue dimissioni al Granduca dopo sette ore di dibattito alla Camera, scriveva “Rete Voltaire” il 19 luglio 2013. Il Parlamento lussemburghese ha esaminato il ruolo del primo ministro nella gestione dell’intelligence, in seguito alla pubblicazione della relazione della commissione d’inchiesta sullo Srel. In sostanza, per anni «i parlamentari hanno fatto finta di credere che Gladio fosse stata effettivamente sciolta nel 1990 e le successive azioni di Srel fossero spiegabili come derivanti dal mancato controllo del primo ministro, che nel frattempo – non potendo riconoscere la perpetuazione del sistema segreto dell’Alleanza atlantica – è stato costretto a cercare di minimizzare la questione delle sue responsabilità in seno all’Eurogruppo». Una versione «smentita dal fatto che Juncker aveva infiltrato il suo autista nello Srel, affinché l’informasse sul suo lavoro». In realtà, secondo l’accusa, Juncker avrebbe «illegalmente proceduto nella schedatura di tre quinti della popolazione del Granducato e in diverse operazioni di spionaggio e di ricatto».La Gladio in Lussemburgo era stata sciolta ufficialmente nel 1990, come in altri paesi europei. «Tuttavia – aggiunge “Rete Voltaire” – i funzionari dei servizi segreti avrebbero poi continuato a spiare illegalmente singoli individui per motivi privati senza che il premier intervenisse. Così, il direttore operativo ha creato una società d’intelligence economica, Sandstone, utilizzando risorse statali». Citando il giornale lussemburghese “Wort”, Corrado Belli su “Informare per resistere” ricorda che proprio l’intelligence del Granducato fu pesantemente coinvolta in operazioni di destabilizzazione e strategia della tensione, con attentati “false flag” progettati con la collaborazione dei servizi segreti tedeschi: «Negli anni tra il 1984 e il 1986, il Lussemburgo fu preso di mira con diversi attentati dinamitardi che colpivano per lo più l’industria dell’energia CeCedel, caserme e commissariati di polizia, tribunali, fabbriche di bombole di gas, la piscina olimpica, la redazione del giornale “Luxemburger Wort” e l’aeroporto Findel».Sempre citando la stampa lussemburghese, Belli rivela che l’establishment politico tentò di fermare la magistratura che stava cercando di far luce su quegli strani episodi di terrorismo. Per zittire il giudice Robert Biever, che era giunto ad accusare direttamente il ministro della giustizia Luc Frieden di sabotare le indagini, fu scatenata una campagna di disinformazione e discredito, arrivando a incolpare il magistrato di turismo pedofilo in Thailandia. Gli oscuri attentati degli anni ‘80 contro l’innocuo Lussemburgo, dice Belli, in realtà «servivano a creare una tensione allarmante nella popolazione, al fine di far accettare leggi restrittive e un controllo totale su ogni singola persona», come afferma lo storico svizzero Daniel Ganser, che denuncia i contatti “coperti” tra l’intelligence lussemburghese e il Bnd, il servizio segreto della Germania. La storia processuale della Gladio del Lussemburgo ricorda quella delle tante stragi italiane: processi rinviati, amnesie, testimoni scomparsi, sparizione delle prove.Nel compassato Lussemburgo, «l’affare Gladio diventava una guerra interna tra il governo, la magistratura e le diverse famiglie di alto rango implicate». Chiamato a deporre insieme al ministro Frieden, lo stesso Juncker «come al solito disse di non sapere nulla e che non era suo dovere sapere cosa facessero i servizi segreti». A smentirlo provvide Marco Mille, direttore dell’intelligence, che attirò Juncker in una trappola: doveva essere un colloquio privato, ma fu registrato con una microspia nascosta nell’orologio del generale – cosa che scatenò le proteste di Juncker, indispettito per la registrazione “illegale” e la diffusione di informazioni “protette da segreto di Stato”. Non fece mistero delle ombre lunghe di Glaido, invece, un altro politico lussemburghese, Jacques Santer, precedessore di Juncker sia come premier che come presidente della Commissione Ue. Juncker però è noto per lo stile tutto suo. Sempre Belli racconta che alla rivista “Focus” dichiarò: «Nulla deve essere portato in pubblico, noi del gruppo Europa Unita discutiamo tutto in segreto, e quando la cosa diventa seria dobbiamo dire esclusivamente le bugie».Lo “stile” Juncker, secondo i molti detrattori, si richiama direttamente a quello dei “padri” dell’Unione Europea: prendiamo una decisione e aspettiamo di vedere cosa succede, ha detto di recente allo “Spiegel”; se nessuno protesta – magari perché la gente non capisce bene cosa significa quello che abbiamo deciso – allora procediamo, spingendoci al punto da non poter più tornare indietro. Questo è il personaggio a cui oggi è affidata la guida della Commissione Europea, all’indomani di elezioni in cui tutti i partiti in lizza avevano invocato meno rigore, più democrazia e più trasparenza. Inoltre, le sue provvidenziali “amnesie” sul ruolo ambiguo dei servizi segreti Nato rappresentano un’ottima credenziale sul piano geopolitico, proprio ora che gli Usa premono su Bruxelles per coinvolgerla nelle ostilità contro la Russia. L’Europa senza una politica estera? Niente paura, ora c’è l’uomo giusto al posto giusto: grazie ad Angela Merkel, François Hollande e Matteo Renzi.Leali e obbedienti, soprattutto perché ricattabili: è la regola d’oro in base alla quale il super-potere sceglie i suoi ineffabili candidati. Jean-Claude Juncker, l’anonimo politico democristiano per 18 anni alla guida del Lussemburgo, non è stato solo al vertice della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, prima di presiedere l’Eurogruppo dal 2005 al 2013. E’ stato anche l’uomo che, per anni, ha messo illegalmente sotto sorveglianza i tre quinti dei suoi concittadini, spiati segretamente dallo Srel, l’intelligence lussemburghese. Per questo, accusato nel 2013 da una commissione d’inchiesta, è stato costretto alle dimissioni. Ombre lunghe, dunque, sulla nomina di Juncker al vertice della Commissione Europea: Angela Merkel, che l’ha imposto alla Gran Bretagna con la collaborazione di Renzi e Hollande, sa di poter sempre contare sulla fedeltà di un uomo molto chiacchierato, storica pedina dei poteri forti e accusato, nel suo paese, di aver fatto schedare migliaia di persone a loro insaputa, dopo aver coperto la strategia della tensione di marca Gladio.
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Guido Rossi: conta solo il denaro, la democrazia è finita
omo del regime economico, non solo italiano ma europeo, che ci condiziona dagli anni ‘80», da quando cioè i mercati sono diventati «il valore di riferimento», e il denaro «la misura di tutte le cose». Tutto è denaro, quindi ogni bene pubblico è privatizzabile. Con tanti saluti allo Stato di diritto.C’è un sistema ideologico alla base delle politiche economiche, accusa Rossi in un editoriale sul “Sole 24 Ore” ripreso da “Micromega”: «Un erroneo concetto di libertà ha fatto sì che le scuole, gli ospedali e persino le prigioni possano essere privatizzate a scopo di lucro. E se così è, perché non dovrebbe essere, allo stesso scopo, privatizzato anche ogni ufficio pubblico?». Questo sistema, continua Rossi, ha creato due conseguenze parallele: «Le ineguaglianze, delle quali ha dato un’impareggiabile recente documentazione il tanto discusso libro di Thomas Piketty “Le capital au XXI siècle”», e naturalmente «la corruzione, sia nel settore pubblico sia in quello privato». Secondo la “London Review of Books”, che parla di “Disastro italiano”, l’Italia in Europa non è un caso anomalo, ma piuttosto una sorta di concentrato, visto che «la manipolazione da parte dei poteri esecutivi nei confronti dei legislativi e la generale involuzione e crisi delle classi politiche causano un silenzioso deficit di democrazia, alimentato da una quasi assoluta scarsità di mezzi di informazione indipendenti e con un aumento della corruzione».Un panorama impressionante in tutti i paesi: dalla Germania di Helmut Kohl, indiscusso cancelliere per 16 anni, che ricevette due milioni di marchi tedeschi in fondi neri, «rifiutandosi di rivelare il nome dei donatori per timore che emergessero i favori che avevano ricevuto in cambio», alla Francia di un altro super-potente, il presidente Jacques Chirac, in sella per 12 anni, che a fine mandato (cessata l’immunità) fu accusato di abuso d’ufficio, peculato e conflitto di interessi. Clamoroso, ancora in Germania, il governo del socialdemocratico Gerhard Schröder, che garantì un prestito da un milione di euro a Gazprom per creare una pipeline nel Baltico, «poche settimane prima che lo stesso cancelliere, terminato il mandato, diventasse consulente di Gazprom a un compenso molto maggiore di quello fino a quel momento ricevuto per governare il paese». Dalla Grecia alla Spagna non si salva nessuno. Spiccano, in Gran Bretagna, i favori elargiti alla Faith Foundation di Tony Blair, il rottamatore della sinistra inglese.«Le diseguaglianze dovute all’abnorme concentrazione in poche mani della ricchezza e le varie forme di corruzione sono indissolubilmente legate», sottolinea Guido Rossi, e costituiscono «la conseguenza principale e più grave dell’intreccio ormai inevitabile fra politica ed economia». Non è un caso che questo intreccio, nelle ideologie contemporanee, diventi inestricabile, al punto che le stesse istituzioni politiche ancora formalmente democratiche «diventino a loro volta causa ed effetto delle diseguaglianze e della corruzione». Non ne sono immuni neppure gli Usa, dove si sta erodendo una Costituzione nata per «assicurare l’indipendenza del governo federale da chiunque non fosse il solo popolo», secondo le famose parole di James Madison. Nel suo libro-denuncia del 2011 sulla “Repubblica perduta” (“Republic, Lost: How Money Corrupts Congress – And a Plan to Stop It”), Lawrence Lessig spiega che la “gift economy” americana prevede uno scambio corruttivo fatto di «favori e rapporti», innescando un conflitto istituzionale che minaccia la democrazia americana, secondo il grande filosofo Ronald Dworkin. Nel 2010 e poi il 2 aprile 2014, infatti, la Corte Suprema ha riconosciuto il diritto costituzionale di «finanziare candidati e campagne elettorali senza limiti alle somme di denaro profuse».Di conseguenza, secondo Lessig, il denaro «è diventato il problema della politica americana e la radice di ogni altro male, che avvelena la fiducia del cittadino nel governo e nella democrazia, divenuta una sorta di sciarada». Così, osserva Rossi, emerge «un virus distruttivo delle democrazie, che induce i tre poteri dello Stato a confrontarsi fra loro nel tentativo di combattere senza successo la corruzione pubblica, che anche quando viene individuata rimane senza sanzione», confermando l’intreccio tra politica e affari. «Né i grandi banchieri né i politici corrotti sono di norma puniti con la reclusione, perché entrambi sono, secondo l’espressione americana, “too big to jail” (troppo importanti per la galera)». E’ così che, lentamente, soccombe il potere che più di ogni altro dovrebbe combattere le disuguaglianze: la giustizia. La mondializzazione tende a privatizzare anche quella: «Le sanzioni contro la corruzione internazionale delle grandi multinazionali globalizzate sono comminate con il versamento di cospicue somme di danaro, attraverso accordi con organismi del potere esecutivo e delle agenzie indipendenti (Doj, Sec), con una giustizia negoziata e privatizzata, secondo la perversa ideologia in voga».In questo modo, «la repressione della corruzione delle grandi società viene definita al di fuori delle autorità giurisdizionali, attraverso una collaborazione interna e un’autodichiarazione di colpevolezza da parte delle società che, pur di evitare la giustizia penale, pericolosa sotto ogni aspetto, anche quello reputazionale, preferiscono dichiararsi colpevoli e collaborare utilizzando complessi sistemi di indagini interne». Si chiamano “accordi di giustizia”, e sono semplici trattative. Senza più una vera giustizia, la corruzione pubblica e privata incoraggiata dalla deregulation continua a dilagare, senza freni, assumendo forme «di apparente legalità, difficilmente sanzionabili». Così, per Rossi, «la lotta contro le disuguaglianze e le corruzioni, pubbliche e private, illegali o elusive, deve essere ormai considerata il principale obiettivo per far sopravvivere le società che le corrette idee del passato, prima della loro disgregazione, ci avevano consegnato attraverso la tutela dei diritti dei cittadini».Plutocrazia, tutto il potere all’élite dei più ricchi. Se ormai conta solo il denaro – ed è quello a decidere chi sale e chi scende, chi vince e chi perde – possiamo dire addio alla politica, alla giustizia e alla stessa democrazia dei diritti. La corruzione dilagante? E’ solo una naturale conseguenza, in un mondo degradato dallo strapotere del denaro, immense ricchezze nelle mani di pochi oligarchi. Ne è convinto Guido Rossi, economista italiano e storico “controllore” della Consob, l’agenzia di vigilanza borsistica. La corruzione dilagante, che ha ormai «permeato tutta la vita politica, economica e sociale del nostro paese», segnando l’evidente «declino dell’ordine e delle istituzioni politiche», è un vero e proprio «sintomo del regime economico, non solo italiano ma europeo, che ci condiziona dagli anni ‘80», da quando cioè i mercati sono diventati «il valore di riferimento», e il denaro «la misura di tutte le cose». Tutto è denaro, quindi ogni bene pubblico è privatizzabile. Con tanti saluti allo Stato di diritto.
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De Benedetti scarica Renzi, l’eroe di ieri è già un bidone
Scalfari non è tipo che scriva a caso e, quando usa le parole, le sceglie una per una e le combina affilandole al meglio. Domenica, la sua abituale articolessa di un ettaro si intitolava: “Quanto è bravo il premier, ma chi ripara gli errori che sta facendo?”. Che è un bel “buongiorno!”. Il pezzo si apre con una interminabile disquisizione sulla modernità che parte da Montaigne ed arriva a Nietzsche, per poi planare su Walter Veltroni. Come dire, dall’Imperatore Tiberio e Leonardo da Vinci al pizzicagnolo sotto casa. Ma fin qui, nulla di importante. Il meglio viene dopo, quando Scalfari, intinto il pennino nel cianuro, viene «al nostro vissuto di questi ultimi giorni». Anche qui una lunga introduzione sulle sorti del sogno europeo, per poi iniziare a parlare dell’occasione che hanno gli italiani di avere un leader «di notevole capacità, che è riuscito nel giro di pochi mesi a trasformare in forza le sue qualità e i suoi difetti». Quel che sembra mettere il vento in poppa all’Italia, cosa che però è vera solo in parte.«La sola vera conseguenza è il suo rafforzamento personale a discapito della democrazia, la cui fragilità sta sfiorando il culmine, senza che il cosiddetto popolo sovrano ne abbia alcuna percezione». Come dire che gli concede una caramella per poi rifilargli una frustata sulle costole. Poi parla delle «esibizioni» di Renzi a Ypres e di Bruxelles, di «dazione» degli 80 euro che non ha funzionato, perché i consumi sono fermi (parola scelta con rara perfidia: “dazione” è il termine che Di Pietro usò nel suo celebre saggio per parlare della corruzione, e qui sembra che Scalfari voglia dire che si è trattato di una mancia elettorale, un modo per comprarsi i voti). Infine viene al dunque: Renzi vuole fare i comodi suoi per mandare la Mogherini a fare l’alto rappresentante della politica estera europea, carica che non conta assolutamente nulla, perché vuole fare i fatti suoi all’interno del partito, e in nome di questo fa un danno incalcolabile bocciando Letta ad un incarico ben altrimenti importante.Poi, gli dice che non capisce nulla di Europa, che non è vero che ha ottenuto lo spostamento del pareggio di bilancio al 2016, perché di fatto deve farlo al 2015 e che deve prepararsi ad una finanziaria di fuoco e che della riforma elettorale e di quella del Senato, all’Europa ed agli italiani non frega assolutamente nulla. Pesante direi, vi pare? Due giorni prima è uscito l’“Espresso” con la copertina che dice: “5 miliardi di tasse in più. Renzi aveva promesso di abbassare la pressione fiscale, ma ora le famiglie dovranno fare i conti con imposte sulla casa molto più alte che in passato. Vanificando così il bonus di 80 euro”. Direi che non c’è bisogno di commenti. Nel numero non c’è un pezzo che riprenda la cover, ma ce n’è un altro acidissimo dedicato alle “quote rosa” del piano di Renzi: Mogherini in Europa, Pinotti al Colle, ecc, ma solo per fare un po’ di raccolta consensi e liberare qualche poltrona, per i giochi interni. Infine sia “La Repubblica” che l’“Huffinghton Post” presentano le imprese europee di Renzi come un mezzo fiasco.Insomma, tutte le cannoniere della flotta De Benedetti sparano ad alzo zero sul vascello renziano. Come mai? Che si siano improvvisamente accorti che Renzi non è l’astuto stratega di cui parlavano solo un mese fa, ma solo un autentico bidone, che vuol mandare la Mogherini in Europa? Per una volta ci sembra che la scelta di Renzi sia felice, perché la carica di Alto rappresentante ecc ecc non conta assolutamente nulla, la Mogherini è come se non esistesse: sono fatti l’una per l’altra. E allora perché tanto e così repentino astio? Una prima ragione è quella che dice esplicitamente Scalfari: Letta. Probabilmente il giullare di Firenze sottovaluta troppo il suo predecessore, che ha amici molto potenti che già hanno mal digerito il suo siluramento a Palazzo Chigi. Poi il modo della sua esternazione («Letta? Nessuno ha fatto il suo nome») deve essere sembrato a lorsignori un insopportabile effetto di rincaro. «Fassina chi?» lo può dire, appunto, a Fassina, ma quando tocca un membro della nobile schiatta dei Letta, vicepresidente dell’Aspen Italia, certe cose non se le deve permettere. E questo stile un po’ tanghero comincia a dare sui nervi a molti.In secondo luogo, si sa che il tamarro di Firenze vuole spedire la Mogherini in Europa per fare un rimpasto di governo che azzeri la presenza di montiani e alfaniani, in modo da liberare sedie per operazioni interne di partito. Solo che, in questo gioco, non tiene presente che montiani e alfaniani sono un pezzo importante del “partito del Colle” e Napolitano ha fatto capire che la cosa non gli va. Il Presidente sa si essere avviato sulla via dell’uscita, ma vuole pilotare la successione, magari a favore di un suo candidato o, quantomeno, per bloccare la strada a quelli più sgraditi. Gli oltre 150 voti di montiani, casiniani e alfaniani sono un pacchetto troppo importante, che va ad aggiungersi agli alleati lettiani, ai senatori a vita e ai pochi fedelissimi nel Pd. Un blocco che sfiora i 200 voti, che può fare la differenza in un Parlamento-spezzatino come quello attuale. Ma nel frattempo occorre tutelare questi amici; per cui niente rimpasto, che Renzi se lo metta bene in testa.Poi la riforma del Senato sta andando in modo diverso da quello auspicato da Scalfari, che vorrebbe un bel Senato «dei talenti e delle competenze» di nomina regia: docenti universitari, finanzieri, alti burocrati, “tecnici” e specialisti vari. Insomma, una cosa di mezzo fra una specie di “governo Monti” allargato e una commissione di saggi come quelle che il Presidente ama nominare. Qui, invece, si minaccia un Senato di sindaci e consiglieri comunali: gente poco fine. Quindi, questa riforma del Senato non interessa agli italiani. Sarebbe diverso se si trattasse del Senato dei talenti e delle competenze, cui gli italiani si appassionerebbero. Poi Renzi ha aperto agli insopportabili cinquestelle. Beninteso: magari non lo fa per simpatia verso di loro o per scrupolo democratico, ma per una sorta di aggiornamento della politica dei due forni di andreottiana memoria, ma non va affatto bene neanche così, perché l’uomo si sta troppo allargando, cercando di giocare a tutto campo (quell’accenno scalfariano al “suo rafforzamento personale a discapito della democrazia” parla molto chiaro).Insomma, il ragazzo poteva anche andare sino ad un certo punto, anche perché si è rivelato efficace nello sbarrare la strada ai barbari antisistema del M5S, ma ora deve stare al suo posto e occuparsi di flessibilità, che è la vera riforma che “l’Europa ci chiede”. E deve fare bene i compiti a casa. Magari ne ha trascurato qualcuno cui era particolarmente interessato l’ingegner De Benedetti. E non sta bene, torni più preparato la prossima volta. Insomma, mi pare che la luna di miele con i poteri forti stia finendo. Accade a volte che dalla primavera si passi all’autunno di colpo, saltando l’estate. Neanche le stagioni sono più quelle di una volta, signora mia…(Aldo Giannuli, “Ma come mai Renzi è cascato antipatico a De Benedetti & C?”, dal blog di Giannuli del 30 giugno 2014).Scalfari non è tipo che scriva a caso e, quando usa le parole, le sceglie una per una e le combina affilandole al meglio. Domenica, la sua abituale articolessa di un ettaro si intitolava: “Quanto è bravo il premier, ma chi ripara gli errori che sta facendo?”. Che è un bel “buongiorno!”. Il pezzo si apre con una interminabile disquisizione sulla modernità che parte da Montaigne ed arriva a Nietzsche, per poi planare su Walter Veltroni. Come dire, dall’Imperatore Tiberio e Leonardo da Vinci al pizzicagnolo sotto casa. Ma fin qui, nulla di importante. Il meglio viene dopo, quando Scalfari, intinto il pennino nel cianuro, viene «al nostro vissuto di questi ultimi giorni». Anche qui una lunga introduzione sulle sorti del sogno europeo, per poi iniziare a parlare dell’occasione che hanno gli italiani di avere un leader «di notevole capacità, che è riuscito nel giro di pochi mesi a trasformare in forza le sue qualità e i suoi difetti». Quel che sembra mettere il vento in poppa all’Italia, cosa che però è vera solo in parte.
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Ma Cantone sarà solo contro la lobby dei partiti ladri
Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi. Gli italiani – purtroppo – ne hanno un bisogno che sconfina ormai nella dipendenza. L’ultimo è di oggi, 12 maggio, si chiama Raffaele Cantone, è il coraggioso magistrato del tribunale di Napoli recentemente nominato presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione e che adesso viene chiamato a salvare l’Expo 2015 di Milano! «Cancellare l’esposizione mondiale sarebbe come ammettere che l’illegalità ha vinto», ha dichiarato al quotidiano partenopeo “Il Mattino”, che lo ha intervistato per l’occasione; e la lobby delle grandi opere – già confortata ieri dal premier – ha immediatamente tirato un sospiro di sollievo. Che tuttavia deve essersi leggermente strozzato in gola alla lettura della parole – pesanti come macigni – aggiunte forse a “beneficio” di chi ha tentato di minimizzare il ruolo dei partiti in quello che appare solo come l’ultimo degli scandali di una tangentopoli ormai cronica: «La politica tarda a liberarsi da un diffuso malcostume».«Non so se si tratta di un fallimento politico. Di certo in questi anni si è sbagliato a non lavorare abbastanza sulla prevenzione. Si è clamorosamente abbassato il livello di guardia di fronte a certi fenomeni». Un atteggiamento che, secondo l’ex magistrato, «è anche il frutto di un’opinione pubblica spesso distratta», che «su alcuni temi si è rivelata eccessivamente ondeggiante». Perché, se a fronte di alcuni episodi «c’è stata grandissima attenzione, finanche con rigurgiti di moralismo, in altri si è stati del tutto incapaci di indignazione». Il virgolettato è copiato integralmente dall’intervista e, in assenza di smentite, va preso per buono. E non finisce qui: pur avendo smesso la toga, quel che segue sembrerebbe quasi l’istruttoria di una indagine in cui si analizzano analogie e differenze col passato, remoto o prossimo che sia: «Tangentopoli non ci ha insegnato nulla. Tornano alla ribalta personaggi già condannati: il peggio poteva essere scongiurato e i partiti hanno grandi responsabilità perché non hanno saputo attrezzarsi con delle regole chiare di finanziamento trasparente. La trasparenza – sottolinea – è l’anticorpo più potente nei confronti del malaffare».E quasi a voler tirare le orecchie al governo per la sua proposta (poi precipitosamente ritirata) con cui proprio alla vigilia degli arresti si proclamava di voler “slegare la crescita” dai lacci e laccioli della burocrazia, Cantone aggiunge che il controllo pubblico non è sinonimo di ritardi e inefficienze, anzi: «Si può tranquillamente mettere in campo una rete di controlli efficace, intelligente, agile e non burocratica, purché ci sia davvero trasparenza». Per cancellare ogni possibilità di equivoco circa la severità del suo giudizio, l’ex magistrato sottolinea poi che «personaggi già condannati per corruzione sono arrivati a ritagliarsi un ruolo, non di diritto ma di fatto, per incidere nuovamente nell’assegnazione e nella gestione degli appalti», arrivando senza nessun ostacolo a ricandidarsi e farsi eleggere (come nel caso di Gianstefano Frigerio, Pdl), nonostante la precedente condanna per corruzione. Cosa avvenuta sfacciatamente e nel disinteresse generale, il che rappresenta la sostanza della anomalia italiana.Una anomalia peggiorata, se possibile rispetto al 1992 (l’anno della prima tangentopoli) perché «lo scenario è indubbiamente cambiato: oggi esistono gruppi di potere o di pressione del tutto autonomi dalla politica, ovvero che rispondono ai partiti ma piuttosto ne influenzano l’attività politica». Cosa aggiungere dalla mia comoda poltroncina seduto davanti al monitor? Che Milano ha già avuto un eroe, come ebbi modo di ricordare in uno dei miei primi interventi su queste pagine virtuali: si chiamava Giorgio Ambrosoli, ebbe il “torto” di voler andare fino in fondo nell’incarico che gli era stato assegnato di liquidatore del Banco Ambrosiano del banchiere di Cosa Nostra Michele Sindona, sodale dei partiti e delle lobby finanziarie dell’epoca… Se Cantone è scaramantico farà bene a svolgere i riti propiziatori del caso, ma mi (e soprattutto gli) auguro che i riflettori accesi sulla vicenda odierna siano tali da illuminare a giorno la scena che fu lasciata all’epoca completamente al buio dai responsabili della tutela della incolumità di chi si assume incarichi così delicati. Al punto che addirittura i funerali della vittima avvennero nel “disinteresse generale” che il neo commissario denuncia in un altro brano della sua intervista…Oltre agli auguri di buon lavoro che ogni cittadino gli deve, anche nel proprio interesse di contribuente, voglio tuttavia e un po’ a malincuore concludere con una nota di sincero scetticismo: Cantone, come molti suoi colleghi, ha studiato migliaia di pagine, dal diritto romano a quello internazionale e commerciale, per poter svolgere al meglio la sua professione e meritarsi la riconoscenza di tutte le persone oneste e di buona volontà (quelle cui sembra alludere quando fa riferimento alla necessità di indignazione). Ma, avendo come tutti una sola vita a disposizione, non può aver avuto una esperienza di trentatsei anni nel mondo delle grandi opere come è capitato in sorte al sottoscritto… Che riteneva (come ritiene) eroica l’azione di moralizzazione della vita pubblica che pochi coraggiosi magistrati svolgono in una paese che spesso sembra più una infida palude che un’oasi bucolica. E per questo ci si è anche provato – nel limite delle proprie capacità e conoscenze – di inviar loro degli esposti su quel che pareva fosse una caratteristica costante di questo particolare mondo: le tangenti.Inutile dire che la cosa servì, temo, solo ma farmi considerare, “nell’ambiente”, come “uno che sputava nel piatto dove mangiava” (espressione molto in uso in ogni corporazione “che si rispetti”). E proprio perché ho questo passato “certificabile” alle spalle mi permetto di sostenere con convinzione – pur sperando vivamente di sbagliarmi – che le grandi opere, alle lobby che le promuovono, le progettano, le appaltano e poi le gestiscono (generalmente attraverso il famigerato istituto della concessione) servono soprattutto per rubare denaro pubblico. A volte (non sempre, ma solo quando non sono inutili) servono anche ai cittadini. Ma facendogli pagare più volte il conto: con il lievitare spropositato dei costi (sempre a carico pubblico e “a debito”, checché si prometta), con gli interessi bancari, col pedaggio permanente (a fronte dei trent’anni di durata massima generalmente stabilita); e infine con i costi folli delle manutenzioni straordinarie, dovute quasi sempre alla scarsa qualità dei materiali impiegati, che però vengono fatturati per buoni.Un meccanismo che rende la “forbice” tra costi reali e soldi pubblici erogati talmente ampia che si possono accontentare tutti: dai partiti, alle banche, alla ‘ndrangheta al “cartello delle imprese”. Per questo ritroviamo tesserato al Pd di Renzi (e tardivamente sospeso) Primo Greganti, il compagno-G della prima tangentopoli che tanti meriti guadagnò, in quel partito che si chiamava ancora Pds, nel tacere sulla famosa valigia piena di soldi del Gruppo Gavio. Un pesante fardello di quasi un miliardo – c’era ancora la lira – che doveva tornare al mittente per il tramite di un altro compagno, che vive e marcia assieme a noi e proprio a Milano: quel Filippo Penati che consentì ai manager di Tortona l’affare delle azioni dell’autostrada Milano-Serravalle, in cambio di un aiutino nel tentativo di scalata all’Antonveneta della Unipol di un altro “compagno”, Giovanni Consorte, quello a cui ancora un “compagno”, quel Piero Fassino che De Benedetti vorrebbe presidente della nostra (ma non della sua) Repubblica, chiese: «Abbiamo una banca?».Difficile pensare che un uomo solo – per quanto coraggioso e determinato – possa venire a capo di un sistema. Difficile credere che possa farlo senza l’aiuto, se non di tutti i cittadini, di quella parte di opinione pubblica che non intende smettere di indignarsi. Buon lavoro, Cantone. E se vuole, conti su di noi. Ma soprattutto, non conti sulla collaborazione che non potrà che essere di facciata di chi crede (o vuol far credere) che a governare partiti e un intero paese siano quelli che vengono eletti nelle primarie – o, per ben che vada, alle politiche – e non quelli che ne costituiscono, da sempre, le cupole.(Claudio Giorno, “Alla Scala-Expo di Milano va in scena l’Eroica di… Cantone”, dal blog di Giorno del 12 maggio 2014).Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi. Gli italiani – purtroppo – ne hanno un bisogno che sconfina ormai nella dipendenza. L’ultimo è di oggi, 12 maggio, si chiama Raffaele Cantone, è il coraggioso magistrato del tribunale di Napoli recentemente nominato presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione e che adesso viene chiamato a salvare l’Expo 2015 di Milano! «Cancellare l’esposizione mondiale sarebbe come ammettere che l’illegalità ha vinto», ha dichiarato al quotidiano partenopeo “Il Mattino”, che lo ha intervistato per l’occasione; e la lobby delle grandi opere – già confortata ieri dal premier – ha immediatamente tirato un sospiro di sollievo. Che tuttavia deve essersi leggermente strozzato in gola alla lettura della parole – pesanti come macigni – aggiunte forse a “beneficio” di chi ha tentato di minimizzare il ruolo dei partiti in quello che appare solo come l’ultimo degli scandali di una tangentopoli ormai cronica: «La politica tarda a liberarsi da un diffuso malcostume».
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Borghi: voto per recidere il cancro mortale chiamato euro
Da quando si tengono le elezioni europee, tutti i partiti che si presentano agli elettori dicono di voler cambiare l’Europa. Peccato che dagli inizi degli anni ‘80 l’Europa sia sempre cambiata in peggio, perché nessuno ha mai affrontato il cuore del problema, vale a dire la gestione accentrata dell’economia attraverso l’imposizione dei cambi fissi prima e l’euro poi: uno strumento che si è rivelato mortale, in quanto metodo di governo per riuscire a mettere in difficoltà alcuni Stati in favore di altri. L’euro è uno zaino dello stesso peso che, però, viene fatto indossare a corridori di corporatura diversa. Non è uguale per tutti. Per chi è più leggero e agile, è uno strumento che lo svantaggia incredibilmente; per chi è più grande e massiccio, è un forte vantaggio relativo. Gli europeisti che, pur di scongiurare l’addio all’euro, dipingono scenari apocalittici? Sono persone che lavorano troppo di fantasia. E per questo, purtroppo, sono in vantaggio.Mi rendo conto che le mie valutazioni rischiano di essere meno affascinanti rispetto al panorama di morte, distruzione e terrore che viene messo in scena da questi signori. Però la teoria economia e il buon senso dicono che si può e si deve uscire dall’euro. Per ottenere un vero cambiamento, bisogna avere i numeri. Qualora riuscisse il miracolo e si realizzasse un Europarlamento a maggioranza euroscettica, probabilmente la Germania se ne andrebbe risolvendo il problema nella maniera più semplice. Se a un giocatore che sta vincendo al poker barando viene puntata la pistola alla tempia, può anche essere che pensi di andarsene pur di portare a casa quanto è riuscito a vincere. Viceversa, se nessuno obietta e tutti lasciano fare, allora quel giocatore andrà avanti a vincere barando. Cercare alleanze in Europa fa dunque parte di un punto cruciale della nostra strategia. Strategia che avrebbe potuto rivelarsi vincente pure in Italia.Nel suo ultimo libro, George Soros ha calcolato che nonostante la crisi economica la Germania sia riuscita a guadagnare oltre 100 miliardi di euro, mentre altri paesi dell’Eurozona andavano gambe all’aria. Effettivamente, dinnanzi al disastro creato dall’euro numerosi economisti italiani non sanno far altro che proporre più Europa, come accorgersi di essere sul punto di morire per avvelenamento e scegliere di prendere altro veleno. Succede proprio in Italia, dove il dibattito è ammorbato da queste bugie. Probabilmente chi gestisce un partito preferisce conservare uno 0,5% piuttosto che perdere qualche elettore per strada dicendo la verità. L’Europa, però, si sta svegliando. In Francia, per esempio, il Front National punta a essere il primo partito con un programma assolutamente aderente a quello portato avanti dalla Lega Nord. Chi vota la Le Pen non è assolutamente di destra, ma ci troviamo di fronte a un elettorato trasversale stufo di questa Europa.In Inghilterra si annuncia l’exploit dello Uk Independence Party: in caso di vittoria, Farage punterà a portare gli inglesi fuori dall’Unione Europea. Troppo spesso viene montata ad arte una certa confusione tra euro e Europa. Chi vuole contrastare l’euroscettismo tende a far credere che essere contro l’euro significhi anche essere contro l’Europa. In realtà, così non è. Tuttavia, bisogna capire quale Europa, perché un’Europa che va contro gli interessi dell’Italia, come probabilmente Farage pensa che sia nei confronti dell’Inghilterra, a noi non piace. Fino ad oggi i tedeschi hanno seguito proprio questo modello facendo solo ed esclusivamente i propri interessi. Se Bruxelles continua a sfornare leggi che indeboliscono la piccola e media impresa e avvantaggiano l’industria tedesca, allora non ci interessa nemmeno l’Europa. Isolazionismo? Stupidaggini! Non si pensi che in Svizzera sia impossibile andare a studiare all’estero o avere le pesche o che non ci sia il roaming dei telefonini! L’associazione e il coordinamento degli Stati europei possono essere serenamente portati avanti senza l’euro, che è uno strumento di divisione, e senza quelle prevaricazioni che vanno a vantaggio esclusivamente di un paese.Negli ultimi anni è sicuramente venuto a mancare un coordinamento volto a contrastare l’emergenza immigrazione. Ma tra un po’ dovremo affrontare un problema ancora più dannoso, cioè l’emigrazione. Se la disoccupazione salirà ancora, tanti giovani italiani saranno costretti ad andarsene. Il governo dovrebbe occuparsi di questo disagio, perché ognuno di noi dovrebbe avere il diritto di lavorare qui e non vedersi costretto a cercare fortuna in giro per il mondo. Il problema delle frontiere è molto più complesso e passa inevitabilmente dal rendere il paese sempre più attraente. La gestione dell’immigrazione è il classico esempio di legiferazione a danno dell’Italia: in quanto paese di frontiera, dobbiamo sottostare a regole assurde di accoglienza ma non siamo in grado di gestire autonomamente questo flusso. L’Italia fa da filtro. L’immigrazione migliore, fatta di persone che vogliono lavorare, persegue verso i paesi del Nord. Qui da noi rimane solo quella peggiore, fatta di delinquenti. Insomma, il lavoro sporco è come sempre nostro, mentre i vantaggi vanno ad altri.Alla Bce è stato dato un solo mandato: mantenere basso il livello di inflazione. Un problema molto relativo, che è stato assurto a concetto base. Ma se si guarda a quello che potrebbe essere un successo (un tasso del 2% per tutta l’Eurozona), in realtà a livello locale la situazione è ben diversa. Il fatto che ci sia una scarpa che sia uguale per tutti quando i numeri dei piedi sono differenti, fa capire quanto non funzioni questa Europa. Ancora oggi c’è tantissimo che non viene detto e, per questo, quando giro per l’Italia trovo sale strapiene di gente che viene a sentir parlare di economia. Questo deficit di conoscenza non può essere colmato con le battute nei talk show. Si tratta, infatti, di argomenti spinosi che devono essere spiegati a parole e visti con immagini. Pochissimi fanno vedere cosa succede in Grecia, pochissimi fanno vedere come sta aumentando la disoccupazione in Francia. Questo perché c’è una informazione di regime che tramuta qualsiasi tipo di notizia, anche male interpretata ma che può essere vista come positiva, come un trionfo dell’Europa.Chi tira i fili in questa operazione? In primo luogo c’è chi ha un interesse diretto. Se il nostro vicino ha qualcosa che ci piace, di sicuro non gli auguriamo il successo ma speriamo in un rovescio economico per potergliela comprare per un tozzo di pane. I paesi europei più ricchi hanno industrie interessate alle ricchezze italiane. E, guarda caso, sono gli stessi che pagano l’informazione. In secondo luogo ci sono quelli che inizialmente in buona fede hanno spinto per entrare in Europa e che ora, davanti allo sfacelo, sono prigionieri dei propri errori. Non ammetteranno mai di aver sbagliato. E tantomeno chiederanno mai scusa.(Claudio Borghi Aquilini, dichiarazioni rilasciate ad Andrea Indini per l’intervista “Così l’Italia uscirà dall’euro”, pubblicata da “Il Giornale” il 28 aprile 2014. Il professor Borghi Aquilini, economista dell’Università Cattolica di Milano, è candidato come indipendente per la Lega Nord alle elezioni europee: «Una volta tanto andiamo al cuore del problema», dice. «Non si tratta di un programma vago in cui ci si propone di battere i pugni sul tavolo per far sentire la propria voce o per chiedere riforme. Noi puntiamo a recidere la catena che ci tiene bloccati».Da quando si tengono le elezioni europee, tutti i partiti che si presentano agli elettori dicono di voler cambiare l’Europa. Peccato che dagli inizi degli anni ‘80 l’Europa sia sempre cambiata in peggio, perché nessuno ha mai affrontato il cuore del problema, vale a dire la gestione accentrata dell’economia attraverso l’imposizione dei cambi fissi prima e l’euro poi: uno strumento che si è rivelato mortale, in quanto metodo di governo per riuscire a mettere in difficoltà alcuni Stati in favore di altri. L’euro è uno zaino dello stesso peso che, però, viene fatto indossare a corridori di corporatura diversa. Non è uguale per tutti. Per chi è più leggero e agile, è uno strumento che lo svantaggia incredibilmente; per chi è più grande e massiccio, è un forte vantaggio relativo. Gli europeisti che, pur di scongiurare l’addio all’euro, dipingono scenari apocalittici? Sono persone che lavorano troppo di fantasia. E per questo, purtroppo, sono in vantaggio.
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Barnard: non mi candido, resto qui a combattere per voi
Dedicato al mio 0,2%. Dal 2004 sono stato cacciato tre volte dalla Tv nazionale per aver detto quello che non andava detto. Dicevo ciò che vi difende. Ho perso tutto il mio reddito, vivo della pensione di mia madre, ho 56 anni, con 30 anni di giornalismo sulle spalle che ha toccato quasi tutte le testate nazionali. Per voi ne vale la pena, voi, il mio 0,2%. Ricevo le vostre mail, non sapete che doni sono. Avevo iniziato a chiedere una parcella per le mie conferenze. Due volte su tre l’ho poi rifiutata. Ma ho smesso di chiederla. Non posso rischiare di perdere la vostra fiducia col sospetto che Barnard “ha preso soldi da tizio o caio”. Mi è stata proposta la candidatura alle europee da Fi-An e dal Pdl (con testimoni). Avete un’idea dei soldi che andavo a prendere? Ho rifiutato perché se no perdevo la vostra fiducia.Ho allontanato da me e dalla mia lotta per voi chiunque si stesse macchiando di compromessi sospetti, o decisamente sporchi, o di semplice stupidità. Perché chi combatte per voi deve essere uno dei 300 Spartani. Ne va della vostra vita. Per due volte, in due anni, ho pubblicamente sfidato CHIUNQUE a trovare lo scheletro nell’armadio di Paolo Barnard. Mi avessero trovato una sola, una sola!, compromissione con chiunque in politica o nella carriera. Nessuno si è fatto avanti con nulla. Io sono pulito come nessun altro, se no non avrei la vostra fiducia. Sono l’unico divulgatore in Italia, e forse nel mondo, che sta mettendo nelle mani del cittadino medio l’arma finale del Vero Potere: l’Economia. Io ve la traduco, ve la decifro, così che voi possiate capire subito cosa vi fanno, e con che mezzi, quelli che veramente comandano. Questo non è tollerato dal Vero Potere. Infatti…Ho paura spesso. Mi sono successe cose strane, non sto qui a raccontarle tutte. L’altro giorno ero dai carabinieri a denunciare il timore che mi nascondano droga in casa, visto che un individuo era stato visto rubarmi le chiavi dalla giacca. Ho trovato una corona celebrativa della morte dei partigiani appesa alla mia porta di casa, l’altra notte. Ho ricevuto lettere con avvisi. La paura me la faccio passare, per voi, se no non sarei utile a voi. So che in Italia uno come me non sarà mai noto, mai celebrato, mai seguito da tanti. Vorrei però essere ricordato un giorno come uno Spartano, uno dei 300, che ha fatto un pezzo di guerra guidato da un solo principio: il Principio Morale che impone la radicalità delle idee, e i duri prezzi da pagare per esse. Uno che li ha pagati. Il Principio Morale ha un solo nome: essere puliti e irremovibili sul quel principio. E io lo sono. Per voi. Ho già pubblicato in termini semplici per tutti, tutto ciò che c’è da sapere per salvare la vostra vita e il futuro dei vostri figli. Ho indicato il Vero Potere, chi davvero decide di voi, e cosa fare concretamente. Ora avanti, se ci sarà strada.(Paolo Barnard, “Pulito, al vostro servizio”, dal blog di Barnard del 1° maggio 2014).Dedicato al mio 0,2%. Dal 2004 sono stato cacciato tre volte dalla Tv nazionale per aver detto quello che non andava detto. Dicevo ciò che vi difende. Ho perso tutto il mio reddito, vivo della pensione di mia madre, ho 56 anni, con 30 anni di giornalismo sulle spalle che ha toccato quasi tutte le testate nazionali. Per voi ne vale la pena, voi, il mio 0,2%. Ricevo le vostre mail, non sapete che doni sono. Avevo iniziato a chiedere una parcella per le mie conferenze. Due volte su tre l’ho poi rifiutata. Ma ho smesso di chiederla. Non posso rischiare di perdere la vostra fiducia col sospetto che Barnard “ha preso soldi da tizio o caio”. Mi è stata proposta la candidatura alle europee da Fi-An e dal Pdl (con testimoni). Avete un’idea dei soldi che andavo a prendere? Ho rifiutato perché se no perdevo la vostra fiducia.
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Odifreddi: è stata questa sinistra a tradire i lavoratori
Fino a qualche anno fa, il primo maggio costituiva l’occasione per festeggiare le conquiste dei lavoratori: non solo il diritto al lavoro stesso, ma anche le regole e le tutele al suo proposito. Si festeggiava il fatto che, poco a poco, i lavoratori stavano cessando di essere considerati ingranaggi di un macchinario per la produzione di beni per il consumo altrui, e iniziavano a essere visti come persone con bisogni e diritti propri, oltre agli ovvi obblighi e doveri. Tutto questo oggi è finito. Vent’anni di coalizione fra berlusconismo, leghismo e fascismo, e qualche anno di crisi più o meno costruita e pilotata ad arte, hanno azzerato la condizione dei lavoratori, riportandola all’anno zero. Tutto ciò che era stato conquistato goccia a goccia, a costo di giuste rivendicazioni e dure lotte, è stato cancellato. Oggi, in una crociata al grido di “l’Europa, i mercati e le banche lo vogliono”, i lavoratori sono ridiventati semplici rotelle di un meccanismo, da usare quando servono e buttare quando non servono più.Naturalmente, questa concezione antiumanistica del lavoro ha radici lontane, anche nel passato prossimo. Risale da un lato alle controrivoluzioni liberiste di Reagan e della Thatcher, e dall’altro ai tradimenti delle sinistre di Blair e di Craxi. Ma oggi è stata portata a compimento, nel nostro paese, da un’insolita coalizione, che ha visto unite la destra intransigente di Berlusconi e Monti, con la sinistra inesistente di Napolitano e Renzi. Un presidente della Repubblica che ha da sempre lavorato, all’interno del Partito Comunista, come cavallo di Troia del capitale e del mercato, ha guidato dall’alto del Quirinale l’opera di smantellamento dei diritti dei lavoratori. Quando Berlusconi non ha più potuto agire in prima persona in questo compito, Napolitano gli si è sostituito imponendo governi al limite della costituzionalità e della democrazia, da Monti a Renzi.E oggi i giovani parvenu della politica, forti soltanto della debolezza del paese e privi di qualunque mandato elettorale, stanno completando l’opera di picconamento dei loro predecessori. Il programma è soltanto “far presto”, cambiare tutto prima che l’elettorato possa esprimersi, magari scegliendo partiti e candidati che possano contrastare i voleri e le pretese della santissima Trinità costituita appunto dall’Europa, i mercati e le banche. Con un autoritarismo mascherato da efficientismo, il governo Renzi fa il possibile per varare, il più presto possibile, riforme raffazzonate e unilaterali, con un metodo da repubblica delle Banane: “Ci confrontiamo per qualche giorno, ma poi decidiamo noi”. Per questo il primo maggio ormai non è più una festa, ma un giorno di lutto. Forse è ormai troppo tardi, ma le prossime elezioni europee sono l’ultima spiaggia: se non serviranno a rimandare a casa i traditori dei lavoratori che siedono in Quirinale e a palazzo Chigi, sarà un lutto che durerà a lungo, segnato dalle lacrime richieste dai nemici e imposte dai sedicenti amici.(Piergiorgio Odifreddi, “Un Primo Maggio di lutto”, da “Repubblica” del 1° maggio 2014, ripreso da “Micromega”).Fino a qualche anno fa, il primo maggio costituiva l’occasione per festeggiare le conquiste dei lavoratori: non solo il diritto al lavoro stesso, ma anche le regole e le tutele al suo proposito. Si festeggiava il fatto che, poco a poco, i lavoratori stavano cessando di essere considerati ingranaggi di un macchinario per la produzione di beni per il consumo altrui, e iniziavano a essere visti come persone con bisogni e diritti propri, oltre agli ovvi obblighi e doveri. Tutto questo oggi è finito. Vent’anni di coalizione fra berlusconismo, leghismo e fascismo, e qualche anno di crisi più o meno costruita e pilotata ad arte, hanno azzerato la condizione dei lavoratori, riportandola all’anno zero. Tutto ciò che era stato conquistato goccia a goccia, a costo di giuste rivendicazioni e dure lotte, è stato cancellato. Oggi, in una crociata al grido di “l’Europa, i mercati e le banche lo vogliono”, i lavoratori sono ridiventati semplici rotelle di un meccanismo, da usare quando servono e buttare quando non servono più.
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Cos’è l’euro-regime l’han capito tutti, tranne la sinistra
La sinistra? Dovrebbe lottare per recuperare la sovranità nazionale. Lo fa invece quella che viene ancora definita “destra”, cioè il Front National di Marine Le Pen, organizzazione che si batte apertamente contro l’Unione Europea per difendere i lavoratori francesi dal regime Ue-euro, che produce «povertà e sottomissione alle misure autoritarie calate dall’alto della tecnocrazia di Bruxelles». Sinistra sovranista? Macché. «Il problema – osserva Enrico Grazzini – è che il socialismo europeo è ormai profondamente compromesso con questa Europa liberista e della finanza». Grazzini parla di «ritardo culturale e politico nei confronti dell’Europa reale» anche da parte della “sinistra radicale”, ovvero «la sinistra aristocratica italiana», che «sottovaluta i guasti dell’Europa reale e dell’euro e sogna la democrazia dell’Europa federata e di uno Stato federale: rischia così di rimanere elitaria, isolata e senza troppo popolo (e voti)», e lascia il bottino elettorale a quello che sempre Grazzini definisce «il populismo né di destra né di sinistra di Grillo».L’Italia è allo stremo, riconosce l’analista di “Micromega”: neppure la crisi del ‘29 era stata così violenta. Oggi le famiglie non sanno come arrivare alla fine del mese, la disoccupazione e la povertà dilagano, i giovani non trovano lavoro e non hanno prospettive. E l’opposizione di sinistra? Non pervenuta: «Chiede con grande moderazione “meno austerità” e “più democrazia in Europa”». Ridicolo, di fronte all’attuale catastrofe. Martin Schulz, l’euro-candidato del Pd, «dice che occorre invertire la rotta e fare finalmente le riforme per lo sviluppo, ma non fa nessuna autocritica sulla folle austerità imposta dalla sua alleata di governo Angela Merkel». Lo stesso presidente del Parlamento Europeo «giustifica ed esalta l’euro di Maastricht e tace sul fatto che con questi trattati e con il Fiscal Compact uscire dalla crisi è impossibile». Aggiunge Grazzini: «Questa Europa fa male, molto male. Ormai una forte minoranza dell’opinione pubblica che sta diventando maggioranza non sopporta più l’euro ed è sempre più critica verso questa Ue che impone una crisi che non finisce più».L’elettorato si sta polarizzando e radicalizzando, e mentre dilaga «la rabbia contro questa Europa della disoccupazione e della povertà». Problema: se i ceti popolari votano massicciamente “a destra”, significa che la sinistra è considerata disattenta o, peggio, complice del sistema. La sinistra di potere: quella che cantava le lodi dell’euro e delle “magnifiche sorti e progressive” dell’Unione Europea, il mostro giudirico di Maastricht che sta radendo al suolo intere nazioni, intere economie, con politiche antidemocratiche e ferocemente liberiste, che aggravano la crisi. «Queste politiche, senza abolire Maastricht, sono irriformabili», conclude Grazzini. «Per uscire dalla crisi è necessario rivendicare la sovranità economica e monetaria degli Stati». Beninteso: sovranità parziale, per quanto consentito dalla globalizzazione. La sovranità a cui pensa Grazzini non va confusa col nazionalismo della Le Pen o l’isolazionismo britannico: «Battersi per la sovranità nazionale deve significare semplicemente che esigiamo la democrazia e non vogliamo essere diretti da tecnocrazie opache asservite alla finanza e ai governi dei paesi dominanti».Solo recuperando l’autonomia degli Stati in campo economico e monetario, nonché la sovranità nazionale in campo politico, è possibile difendersi, in sintonia con gli altri popoli europei oppressi dal regime di Bruxelles. Ma è inutile sperare che la sinistra italiana cambi posizione: «Scartata l’ipotesi di uscire unilateralmente dall’euro, considerata come catastrofica», nella sinistra «prevale l’allineamento alle tesi pro-euro e pro-Ue». L’euro, la moneta unica prevista per tutti i 28 stati dell’Unione Europea ma utilizzata solo da 12 paesi, sul piano economico «è una solenne bestemmia: infatti significa che 12 paesi molto differenti, dalla Spagna alla Germania, dall’Italia all’Olanda, dal Portogallo alla Lettonia, sono soggetti allo stesso tasso di interesse, devono avere la stessa base monetaria e subiscono lo stesso tasso di cambio verso i paesi extraeuropei». Ovvio che non funziona: «Un paese che corre troppo, in cui l’inflazione è elevata, ha bisogno di alti tassi di interesse; invece un altro paese (come l’Italia) che è fermo necessita di tassi bassi per stimolare gli investimenti. Un paese come la Germania può riuscire ad esportare con l’euro a 1,40 sul dollaro; altri paesi invece con lo stesso tasso di cambio non riescono più ad esportare e a compensare l’import, e sono quindi costretti ad accendere debiti».La moneta unica fa esplodere le differenze, aggravando gli squilibri: «La Germania diventa sempre più competitiva; gli altri paesi invece perdono industria». La Germania impone una politica deflattiva per ridurre i deficit altrui e per garantirsi che le siano restituiti i debiti, «ma la politica deflattiva comprime l’economia, provoca la crisi fiscale dello Stato, la disoccupazione, la precarizzazione del lavoro, la riduzione dei redditi, della domanda e degli investimenti». Risultato: diventa sempre più difficile restituire i debiti. «Non a caso, i debiti pubblici dei paesi mediterranei continuano ad aumentare inesorabilmente nonostante l’austerità». Perché ostinarsi a non riconoscere la verità? Secondo Grazzini, «per molta parte della sinistra il sogno di un’Europa unita e federata, degli Stati Uniti d’Europa, ha sostituito il sogno fallito del comunismo. La sinistra ha perso la testa e si è innamorata perdutamente dell’idea di Europa, una Europa che però la tradisce spudoratamente con la finanza».Se questo vale per la base elettorale della sinistra, secondo molti altri analisti i leader del centrosinistra italiano sono stati semplicemente cooptati dall’élite franco-tedesca: hanno trascinato l’Italia nella catastrofe dell’Eurozona, sperando di guidare la Seconda Repubblica dopo il crollo del vecchio sistema Dc-Psi, funzionale alla guerra fredda e liquidato da Mani Pulite. Troppo sospetta, la reticenza del centrosinistra di fronte al disastro dell’Unione Europea – guidata peraltro anche da uomini come Romano Prodi, advisor della Goldman Sachs benché uomo simbolo dell’antagonismo contro Berlusconi. Ora siamo all’ultima mutazione genetica, quella di Matteo Renzi: che per prima cosa vara il Jobs Act, cioè la frammentazione del lavoro super-precarizzato, in ossequio ai dettami (“riforme strutturali”) che l’élite europea ha imposto, piegando gradualmente i sindacati. «Insieme al lavoro si svaluta anche il capitale nazionale», avverte Grazzini. «Così è più facile per le aziende estere conquistare le banche e le industrie di un paese in debito, magari privatizzate in nome dell’Europa: e così i paesi più deboli cadono nel sottosviluppo, nella subordinazione e nella povertà».Sempre secondo Grazzini, la sinistra che si vorrebbe marxista o alternativa «non si accorge del pericolo», neppure di fronte all’assalto di Telefonica verso Telecom. Eppure, «il patriottismo economico è necessario per contrastare la globalizzazione selvaggia». Patriottismo economico: non è forse la parola d’ordine del Front National che la sinistra italiana continua a emarginare come vieta espressione sciovinista, xenofoba e fasciosta? «Si dice che gli Stati non contano più nulla – scrive Grazzini – perché la finanza ormai è globalizzata e quindi l’Europa e l’euro sono necessari per difendersi dalla globalizzazione». Favole: l’euro e l’Ue sono esattamente gli ostacoli che hanno frenato la nostra economia. La riprova: «I paesi europei che non hanno adottato l’euro (Gran Bretagna, Svezia, Danimarca, Polonia) e hanno una loro moneta nazionale stanno molto meglio di noi. In Italia in cinque anni di crisi abbiamo perso circa l’8,5% del Pil e il 30% degli investimenti». I redditi crollano, la disoccupazione dilaga, un terzo delle famiglie è a rischio povertà, ma l’Ue impone i tagli alla spesa pubblica e il Fiscal Compact, facendo esplodere il debito pubblico che – senza moneta sovrana – ci scava la fossa giorno per giorno.Democrazia? Scomparsa dai radar. «Nessuno della Troika (Commissione Ue, Bce, Fmi) è stato eletto dai cittadini». Il Parlamento Europeo? «Non ha praticamente poteri: serve soprattutto a dare una patina di legittimità alle decisioni della Commissione». Un referendum sull’euro? «Sarebbe giusto farlo. In Francia e in Olanda i popoli si sono già espressi contro una falsa Costituzione Europea per salvaguardare la loro sovranità. E la Svezia e la Danimarca con un referendum hanno deciso di non entrare nell’Eurozona. Beati loro». La Polonia ha rimandato l’ingresso nell’euro, la Gran Bretagna si tiene stretta la sterlina. «Solo recuperando la sovranità nazionale è possibile che i popoli possano difendersi dalle politiche neocoloniali della Ue e sperimentare nuovi modelli di sviluppo sostenibile: senza sovranità nazionale non ci può essere neppure un’ombra di democrazia». Questo lo dicono Matteo Salvini della Lega Nord e Giorgia Meloni di “Fratelli d’Italia”. «Purtroppo – ammette Grazzini – buona parte della sinistra ritiene che la sovranità nazionale sia da demonizzare perché sempre di destra».La sinistra? Dovrebbe lottare per recuperare la sovranità nazionale. Lo fa invece quella che viene ancora definita “destra”, cioè il Front National di Marine Le Pen, organizzazione che si batte apertamente contro l’Unione Europea per difendere i lavoratori francesi dal regime Ue-euro, che produce «povertà e sottomissione alle misure autoritarie calate dall’alto della tecnocrazia di Bruxelles». Sinistra sovranista? Macché. «Il problema – osserva Enrico Grazzini – è che il socialismo europeo è ormai profondamente compromesso con questa Europa liberista e della finanza». Grazzini parla di «ritardo culturale e politico nei confronti dell’Europa reale» anche da parte della “sinistra radicale”, ovvero «la sinistra aristocratica italiana», che «sottovaluta i guasti dell’Europa reale e dell’euro e sogna la democrazia dell’Europa federata e di uno Stato federale: rischia così di rimanere elitaria, isolata e senza troppo popolo (e voti)», e lascia il bottino elettorale a quello che sempre Grazzini definisce «il populismo né di destra né di sinistra di Grillo».
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La guerra di Ugo: il 25 aprile e l’euro-Italia di Renzi
Ugo Berga è un anziano signore di novant’anni, nipote di Palmiro Togliatti. Vive in valle di Susa, dove ha combattuto come partigiano. Dice: oggi, i partigiani della libertà e della giustizia sono i No-Tav, coi quali peraltro l’anziano Berga solidarizza, anche con happening a Chiomonte, a cento passi dalla baita in cui Beppe Grillo qualche anno fa violò i sigilli giudiziari, finendo anche lui in tribunale. Dalla parte dei No-Tav – cioè della libertà e della giustizia, per dirla con nonno Ugo – è dunque schierato il populista Grillo, mentre gli ultimi eredi piemontesi di quello che fu il partito di Togliatti – il sindaco torinese Fassino, l’ex sindaco Chiamparino ora in corsa per la Regione Piemonte, l’ex presidente Mercedes Bresso candidata al Parlamento Europeo – sono i più acerrimi avversari degli “eretici” valsusini. Proprio loro, gli ex-Pci, sono i nemici giurati dei ragazzi per i quali fa il tifo il partigiano comunista Ugo Berga, nipote di Togliatti. Dov’è l’errore?Il 25 aprile, per decenni ricorrenza sacra alla sinistra ufficiale (quella del partito di Gramsci, Togliatti, Berlinguer) pare ormai una questione da nonni, capace di appassionare soltanto novantenni – oppure ventenni, ma con sciarpa No-Tav. Nonni che hanno lasciato un segno, in valle di Susa e altrove. Come il grande Giorgio Bocca, che nel 2005 – dopo il primo atto di forza contro la popolazione, ostile alla grande opera più inutile d’Europa – scrisse, testualmente: se qualcuno mi parla ancora di Tav Torino-Lione tiro fuori il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo sepolto nell’aprile del ‘45. Almeno dieci anni prima, sempre in valle di Susa, i futuri No-Tav ascoltarono parole profetiche da un altro venerabile nonno, Nuto Revelli, partigiano sulle stesse montagne di Bocca. Vi vogliono remissivi e disclipinati – disse Nuto – ma voi, ragazzi, imparate a ribellarvi: dovete dare fastidio, al potere. Non dategliela vinta, resistete, non arrendetevi.Nuto Revelli fiutava i tempi: l’eclissi della sinistra come patria politica dei diritti sacrificati alla nuova dittatura, quella del mercato. Oggi, i pronipoti di Togliatti – la sinistra di potere – inaugura a Torino l’Hotel Gramsci, lusso a 5 stelle sulle ceneri della casa del più grande intellettuale e militante della sinistra italiana. Ieri, Massimo D’Alema autorizzava i bombardamenti sulla Jugoslavia, dopo che gli infiltrati dell’Unione Europea – a cominciare da Romano Prodi – avevano impacchettato l’Italia, all’insaputa degli italiani, dentro trattati-capestro i cui effetti catastrofici si rivelano al grande pubblico soltanto oggi, caduto lo schermo di comodo dell’antiberlusconismo. Su quel palco ora volteggia Renzi, l’illusionista che prende ordini dalla Jp Morgan tramite Tony Blair. Sa benissimo che i devoti elettori del Pd lo voteranno lo stesso, anche se rottama gli ultimi diritti sociali come vuole il neoliberismo dell’élite, l’oligarchia che sta restaurando il feudalelismo in Europa. Con tanti saluti a Ugo Berga, Giorgio Bocca, Nuto Revelli e tutti gli altri nonni, per i quali il 25 aprile era la data di una vittoria storica: un mondo onesto e pulito, fatto di pari opportunità per tutti, non solo per i ricchi.Ugo Berga è un anziano signore di novant’anni, nipote di Palmiro Togliatti. Vive in valle di Susa, dove ha combattuto come partigiano. Dice: oggi, i partigiani della libertà e della giustizia sono i No-Tav, coi quali peraltro l’anziano Berga solidarizza, anche con happening a Chiomonte, a cento passi dalla baita in cui Beppe Grillo qualche anno fa violò i sigilli giudiziari, finendo anche lui in tribunale. Dalla parte dei No-Tav – cioè della libertà e della giustizia, per dirla con nonno Ugo – è dunque schierato il populista Grillo, mentre gli ultimi eredi piemontesi di quello che fu il partito di Togliatti – il sindaco torinese Fassino, l’ex sindaco Chiamparino ora in corsa per la Regione Piemonte, l’ex presidente Mercedes Bresso candidata al Parlamento Europeo – sono i più acerrimi avversari degli “eretici” valsusini. Proprio loro, gli ex-Pci, sono i nemici giurati dei ragazzi per i quali fa il tifo il partigiano comunista Ugo Berga, nipote di Togliatti. Dov’è l’errore?
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Renzi, svolta autoritaria in vista della macelleria 2015
Qualcuno si stupisce che il governo Renzi, in una situazione economica così drammatica, dia invece la priorità alla riforma del Senato e della legge elettorale? «La spiegazione di questa apparente incongruità è chiara, purtroppo». Renzi, sostiene Marco Della Luna, è stato scelto «non certo per dimostrate capacità, ma per la sua immagine di bravo ragazzo a capo di un governo di giovani rassicuranti». E’ un’immagine che «lo rende idoneo, con l’aiuto di contentini demagogici su tasse e bollette, a far passare una riforma elettorale e del Senato estremamente pericolosa e aggressiva verso la democrazia e lo stesso impianto della Costituzione». Una riforma, dice Della Luna, che «prepara l’ambiente giuridico-costituzionale adatto in cui il successivo premier potrà esercitare una dittatura formalmente legittima per gestire un prevedibile e imminente periodo di peggioramento economico e di protesta sociale».Quel premier, aggiunge Della Luna nel suo blog, «non sarà un ragazzotto inoffensivo», ma un uomo degli interessi finanziari, dei poteri forti, un delegato della Troika, che «macellerà l’Italia come la Troika ha macellato la Grecia, senza però che la Troika debba metterci la faccia», quindi scaricando sugli italiani la responsabilità di ciò che essa farà a loro. «Il peggioramento economico arriverà l’anno prossimo, con le decine di miliardi che annualmente l’Italia dovrà togliere ai contribuenti per l’abbattimento forzoso del debito pubblico (Fiscal Compact) in un trend già di avvitamento fiscale pluriennale». Prevedibilmente, continua l’avvocato Della Luna, l’Italia dovrà allora invocare l’aiuto, il bail-out, della Troika, accettare le sue “cure” e quindi reprimere l’ampio scontento popolare che, a quel punto, scoppierà. E allora «servirà una mano dura, un governo autoritario con poteri forti. Ecco a che cosa servono la riforma elettorale e del Senato. Ecco perché per questo governo sono prioritarie e vengono prima dei problemi economici».In una situazione come la nostra, in cui l’Italia è indebitata sempre più – e il debito pubblico è denominato in euro, cioè «in una moneta praticamente straniera e tutta sbilanciata su poteri esterni alla repubblica» – avremmo bisogno di tutt’altro. Per esempio, di una riforma sovranista «che prevenisse da altre sospensioni della democrazia come quelle imposte ben tre volte dai manovratori del rating e dello spread attraverso Napolitano». E invece, arriva esattamente l’opposto. «Riflettete bene: sotto la pelle d’agnello di Renzi e dei suoi ragazzi un po’ ingenui, con le loro riforme, e con l’aiuto di un Berlusconi sempre più condizionabile giudiziariamente, stanno istituendo una nuova architettura costituzionale», in cui il capo del partito di maggioranza relativa – magari eletto solo da qualche milione di italiani – si prende praticamente tutto. Con le “riforme” imposte da Renzi, infatti, il segretario del partito si sceglie i candidati che gli vanno bene, e col voto di meno di un terzo degli elettori si prende la maggioranza assoluta nell’unica camera legislativa, blindando a priori la fiducia al proprio governo.Sempre il premier, con un pugno di voti, designerebbe anche il presidente della Repubblica (che a sua volta nominerebbe buona parte del Senato), ma anche «il presidente dell’unica camera legislativa, i giudici costituzionali, i membri laici del Csm e altre cariche di garanzia». Il neo-premier potrebbe anche revocare a piacimento i ministri e lasciare senza rappresentanza parlamentare partiti che raccolgono milioni di voti, ponendosi quindi «al di sopra di ogni controllo». La giustificazione, continua Della Luna, è che i tempi richiedono un premier forte e decisioni rapide. «E’ una giustificazione bugiarda perché queste esigenze di efficienza-rapidità e insieme di democraticità-legalità sarebbero molto facilmente soddisfatte senza rinunciare alle garanzie e alla rappresentatività vera del corpo elettorale: basta mantenere, accanto a una Camera dei deputati eletta con un sistema maggioritario e con sbarramenti, un Senato elettivo, riformato in modo che sia l’organo della rappresentanza fedele dell’elettorato e delle garanzie».Per Della Luna, il Senato ideale potrebbe essere eletto con sistema proporzionale su base regionale e rinnovato per la metà ogni 3 anni. Non dovrebbe poter essere sciolto, non parteciperebbe alla normale attività legislativa e non voterebbe la fiducia (queste funzioni spetterebbero alla sola Camera dei deputati), salvo «un diritto di veto che può esercitare con maggioranza dei 3/5 dei membri su proposta di 1/3 di essi». Il nuovo Senato democratico, in compenso, avrebbe «competenza legislativa esclusiva per riforme costituzionali, leggi costituzionali, leggi sulla cittadinanza, leggi elettorali, ratifica di trattati limitanti la sovranità nazionale, messa in stato di accusa del presidente della Repubblica, decisioni su eleggibilità e decadenza di deputati e senatori, commissioni d’inchiesta, nomina del presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali, dei membri laici del Csm, dei capi di tutte le istituzioni di garanzia». Un tale sistema bicamerale, conclude Della Luna, sarebbe «così semplice e chiaro, lineare ed efficace nell’assicurare tutte le funzioni, l’efficienza e le garanzie, che il fatto stesso che non sia nemmeno proposto prova il pericoloso obiettivo del governo in carica e la corresponsabilità di chi lo sostiene in qualsiasi modo».Che c’azzeccano il Senato e l’Italicum con la crisi economica? Qualcuno si stupisce che il governo Renzi, in una situazione così drammatica, dia invece la priorità alla riforma di Palazzo Madama e della legge elettorale? «La spiegazione di questa apparente incongruità è chiara, purtroppo». Renzi, sostiene Marco Della Luna, è stato scelto «non certo per dimostrate capacità, ma per la sua immagine di bravo ragazzo a capo di un governo di giovani rassicuranti». E’ un’immagine che «lo rende idoneo, con l’aiuto di contentini demagogici su tasse e bollette, a far passare una riforma elettorale e del Senato estremamente pericolosa e aggressiva verso la democrazia e lo stesso impianto della Costituzione». Una riforma, dice Della Luna, che «prepara l’ambiente giuridico-costituzionale adatto in cui il successivo premier potrà esercitare una dittatura formalmente legittima per gestire un prevedibile e imminente periodo di peggioramento economico e di protesta sociale».