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Archivio del Tag ‘dissenso’

  • Grillo blinda Di Maio e avverte la base: vietato protestare

    Scritto il 23/11/19 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Chi fossero davvero, i 5 Stelle, il giornalista Paolo Barnard l’aveva capito (e scritto) ben prima dell’exploit elettorale del 2013. Un tragico abbaglio di massa: milioni di pesciolini pronti ad abboccare all’amo dei pescatori Grillo e Casaleggio. Per Federico Dezzani, l’analista geopolitico che ha ricostruito i legami di Casaleggio con Enrico Sassoon e gli ambienti più esclusivi del potere Usa, si è trattato di una colossale operazione di manipolazione di massa, concepita per dirottare il dissenso popolare verso lidi innocui. La tecnica: alzare il volume della protesta toccando i temi più svariati, ma senza mai prospettare soluzioni precise, chiaramente espresse. Oggi, gettata la maschera e disattese tutte le promesse del 2018, si tocca il fondo con uno spettacolo incredibile: lo spaurito Di Maio tenuto al guinzaglio da Grillo, in un video su Facebook in cui l’ex comico dice, testualmente: «Non siamo più quello che eravamo dieci anni fa, mettetevelo bene in testa: ed è meraviglioso». Poi, alludendo al fantasma Di Maio, muto e immobile al suo fianco, Grillo aggiunge: «Il capo politico è lui. Io gli starò un po’ più vicino, quindi per cortesia non rompete i coglioni».
    Messaggio esplicito ai militanti: se qualcuno di loro non ha ancora capito che il Movimento 5 Stelle è una caserma, sarà meglio che si sbrighi ad afferrare il concetto. “Uno vale uno”, si ripeteva un tempo: ma solo per scherzo, evidentemente. «Non è più il tempo dei primi MeetUp, adesso il mondo è diverso», cinguetta Grillo. «Siamo in un cambiamento mondiale, è sbagliato essere gli stessi». Senza ridere, e sempre con accanto l’impietrito Di Maio (contestato dalla base e smentito dalla piattaforma Rousseau, che ha respinto la sua proposta di rinunciare a candidare il MoVimento alle regionali emiliane) il Beppe nazionale si trasforma in filosofo: «Tutto tende al caos, all’entropia: è l’entropia la nostra matrice, oggi. Dal caos vengono idee meravigliose, e ci saranno». Visibilmente teso, Grillo si dichiara addirittura «euforico». E di cosa? Dell’alleanza con «la sinistra», pare, pensata per volare alto e immaginare il futuro in chiave ecologica, nientemeno. Ma senza trascurare la piccola bottega elettorale: «Magari facciamo da tramite tra una destra che arriva, un po’ pericolosetta, e una sinistra che si deve formare».
    A Grillo risponde a distanza Massimo Mazzucco, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”: «Non siete più quelli di una volta? Benissimo, non vi voteremo più». Aggiunge Mazzucco, regista e video-reporter: «Che non foste più quelli di una volta l’avevamo capito tutti. Peccato che non ci abbiate spiegato cosa siete diventati: un niente, che cerca di stare a galla, nel caos. E invece di dare ascolto alla base, che protesta, ai militanti ora si dice: non rompete i coglioni, testualmente». Dai sondaggi, i 5 Stelle (ormai in caduta libera, al 7% in Umbria e addirittura al 4% in Emilia) a livello nazionale sono ancora accreditati di un consenso superiore al 15%. Restano fondamentali – prima forza in Parlamento – per sostenere il Conte-bis, e qualunque altro governo (magari guidato da Mario Draghi) che eviti la catastrofe delle elezioni anticipate. Nel 2018, i grillini ottennero quasi il 33%. In un anno, al governo con Salvini, hanno dimezzato i loro voti dopo aver tradito tutti gli impegni presi con gli elettori. Oggi pagano dazio, costretti a convivere con Zingaretti e l’odiato Renzi, che peraltro la scorsa primavera firmò (insieme a Grillo) il “Patto per la Scienza”, pro-vax, lanciato da Burioni.
    Il tentativo di tenere in vita politicamente Di Maio, da parte di Grillo, rivela l’intenzione di utilizzare ancora il Movimento 5 Stelle come massa di manovra, in vista delle prossime operazioni di potere. Missione evidente: impedire che l’Italia alzi la posta con Bruxelles, pretendendo di uscire dal paradigma del rigore. I gialloverdi sembrarono provarci nel 2018, candidando Paolo Savona all’economia: di fronte al “niet” di Mattarella, Di Maio arrivò a evocare l’impeachment per il capo dello Stato. Oggi è ridotto al ruolo di docile burattino nelle mani di Grillo, che vieta alla base di scegliersi un leader più efficace. Chiunque osservi la scena da fuori non può fare di domandarsi come si possa ancora votare una compagine del genere. La risposta è nei numeri: il Movimento 5 Stelle sta per estinguersi, anche se la “sovragestione” userà fino all’ultimo i suoi voti residui e la sua attuale, enorme rappresentanza parlamentare. Poi, neppure Di Maio servirà più. Tutto già scritto, comunque, per uno come Barnard: quasi dieci anni fa tentò inutilmente di investire i grillini del problema-economia (sovranità, moneta) per poi scoprire che, già allora, a nessuno di loro era consentito avanzare proposte che non fossero prima validate da Grillo e Casaleggio, privati cittadini ma padroni assoluti del marchio 5 Stelle.

    Chi fossero davvero, i 5 Stelle, il giornalista Paolo Barnard l’aveva capito (e scritto) ben prima dell’exploit elettorale del 2013. Un tragico abbaglio di massa: milioni di pesciolini pronti ad abboccare all’amo dei pescatori Grillo e Casaleggio. Per Federico Dezzani, l’analista geopolitico che ha ricostruito i legami di Casaleggio con Enrico Sassoon e gli ambienti più esclusivi del potere Usa, si è trattato di una colossale operazione di manipolazione di massa, concepita per dirottare il dissenso popolare verso lidi innocui. La tecnica: alzare il volume della protesta toccando i temi più svariati, ma senza mai prospettare soluzioni precise, chiaramente espresse. Oggi, gettata la maschera e disattese tutte le promesse del 2018, si tocca il fondo con uno spettacolo incredibile: lo spaurito Di Maio tenuto al guinzaglio da Grillo, in un video su Facebook in cui l’ex comico dice, testualmente: «Non siamo più quello che eravamo dieci anni fa, mettetevelo bene in testa: ed è meraviglioso». Poi, alludendo al fantasma Di Maio, muto e immobile al suo fianco, Grillo aggiunge: «Il capo politico è lui. Io gli starò un po’ più vicino, quindi per cortesia non rompete i coglioni».

  • Filosofo ebreo: la Commissione Segre restringe la libertà

    Scritto il 18/11/19 • nella Categoria: idee • (8)

    La Commissione Segre è una minaccia alla libertà di opinione, e a ribadirlo non è certo un estremista di destra. Altro che mezzo per contrastare odio, razzismo e antisemitismo. Secondo Alain Finkielkraut, filosofo francese di origine ebrea, la Commissione Segre è un vero e proprio bavaglio che obbliga i cittadini a non esprimere in nessun caso posizioni in contrasto con l’immigrazione. Vietato criticare, anche in modo razionale e costruttivo, un tema che deve essere semplicemente accolto così come viene proposto dall’alto, alla stregua di un dogma religioso. La posizione di Finkielkraut, intervistato dal “Corriere della Sera”, non lascia indifferenti. Già, perché i genitori del filosofo furono deportati ad Auschwitz. Eppure, nonostante la Commissione Segre nasca ufficialmente per vigilare sui reati d’odio, compresi quelli contro gli ebrei, il rischio è che possa provocare un enorme controcircuito: «L’idea di istituire quella commissione ha provocato una legittima inquietudine. Con la scusa di lottare contro il razzismo, in Europa c’è la tendenza a stigmatizzare, se non addirittura criminalizzare, ogni cautela sull’immigrazione».
    Certo, alcune precisazioni sono però doverose. Intanto Finkielkraut, pur stroncando l’utilità della Commissione Segre, non nega che in Europa siano ritornate scaglie di antisemitismo e che tale fenomeno debba essere combattuto senza se e senza ma. Inoltre, il pensatore francese ha espresso la sua solidarietà alla senatrice Segre per gli insulti subiti, definiti «atroci e ignobili». Detto questo, Finkielkraut riparte in quarta, a difesa della libertà di espressione. Guai a strumentalizzare casi che nulla hanno a che fare con la difesa degli ebrei, confondendo il vero e pericoloso antisemitismo con semplici e legittime posizioni contrarie all’immigrazione: «Un errore usare questi terribili episodi per proibire ogni critica sull’immigrazione». Un esempio citato da Finkielkraut è il Patto di Marrakech, un accordo sottoscritto da diversi paesi (Italia esclusa) sul Global Compact. Ovvero un piano globale nato ufficialmente per rendere l’immigrazione più ordinata, ma che in realtà la incoraggia e la fa apparire come un fenomeno benefico.
    «Questo patto comincia con un inno all’immigrazione, stabilendo una specie di canone al quale i media devono conformarsi. Posso capire che in Italia qualcuno non veda di buon occhio una commissione fatta con lo stesso spirito del Patto di Marrakech». In altre parole, chi non accetta la linea ufficiale proposta dall’alto, intrisa di politically correct, rischia di essere marchiato con varie etichette – da antisemita a odiatore – capaci pure di avere conseguenze penali. Riguardo poi all’antisemitismo, Finkielkraut fa un’ultima riflessione: «Non è più un volto del razzismo, ma una patologia dell’antirazzismo: per difendere i musulmani, considerati i nuovi dannati della Terra, si attaccano gli ebrei». La posizione della sinistra europea è dunque intollerante e impedisce che qualcuno possa avere un pensiero contrapposto alla “linea ufficiale”. Anzi, come ha ben spiegato Finkielkraut, siamo di fronte a un paradosso: la sinistra vuole combattere l’antisemitismo ma in certi casi sta addirittura dalla parte degli odiatori, cioè degli estremisti musulmani.
    (Federico Giuliani, “Pure il filosofo ebreo Finkielkraut stronca la Commissione Segre: un pericolo per la libertà di espressione”, dal “Giornale” del 17 novembre 2019).

    La Commissione Segre è una minaccia alla libertà di opinione, e a ribadirlo non è certo un estremista di destra. Altro che mezzo per contrastare odio, razzismo e antisemitismo. Secondo Alain Finkielkraut, filosofo francese di origine ebrea, la Commissione Segre è un vero e proprio bavaglio che obbliga i cittadini a non esprimere in nessun caso posizioni in contrasto con l’immigrazione. Vietato criticare, anche in modo razionale e costruttivo, un tema che deve essere semplicemente accolto così come viene proposto dall’alto, alla stregua di un dogma religioso. La posizione di Finkielkraut, intervistato dal “Corriere della Sera”, non lascia indifferenti. Già, perché i genitori del filosofo furono deportati ad Auschwitz. Eppure, nonostante la Commissione Segre nasca ufficialmente per vigilare sui reati d’odio, compresi quelli contro gli ebrei, il rischio è che possa provocare un enorme controcircuito: «L’idea di istituire quella commissione ha provocato una legittima inquietudine. Con la scusa di lottare contro il razzismo, in Europa c’è la tendenza a stigmatizzare, se non addirittura criminalizzare, ogni cautela sull’immigrazione».

  • Appello a Liliana Segre: la Commissione attenta alla libertà

    Scritto il 12/11/19 • nella Categoria: idee • (12)

    Questo scritto è un appello alla senatrice Segre, al suo coraggio, alla sua lucidità. Una delle più gravi violazioni in atto dei principi fondamentali della Costituzione e della stessa civiltà occidentale è la limitazione ai diritti di informazione, di insegnamento e di ricerca scientifica voluta dal pensiero unico e dai suoi beneficiari. La pubblica informazione è in mano a cinque grandi agenzie mondiali, controllate da capitali privati, dedite al filtraggio delle notizie, delle analisi e al consolidamento di un pensiero unico liberista-mercatista-globalista; ad esse quasi tutti i giornalisti e i mass media si attengono, anche quelli pubblici. I docenti, anche quelli universitari, persino quelli di filosofia, ricevono dalla politica direttive ideologiche afferenti al pensiero unico, cui devono attenersi per conservare il posto, far carriera, aver visibilità. La ricerca scientifica, con la stampa scientifica, è in gran parte finanziata e controllata da capitali privati che contrattualmente si riservano la proprietà dei risultati e il diritto di decidere che cosa divulgare e che cosa no; in tal modo il capitale orienta la scienza, il suo insegnamento, la sua applicazione, dall’economia alla medicina;
    Ai medici in Italia è stato perfino vietato, sotto pena di radiazione, di esercitare il diritto di informazione dei pazienti sugli effetti dei vaccini obbligatori. Facebook esercita arbitrariamente il potere di oscurare i suoi utenti non allineati col pensiero unico (lo ha fatto anche a me, per un mese, durante la campagna elettorale europea). Imperversa la pratica del grievance-mongering, o vittimismo di mestiere, consistente nell’attaccare, isolare, licenziare, oscurare persone che hanno espresso le proprie idee o preferenze nel rispetto della legge, e che strumentalmente il vittimista accusa di averlo offeso nella sua sensibilità religiosa o etnica o razziale o sessuale. Tutto ciò costituisce un’aggressione organica, sistemica, strategica, alla stessa esistenza di una società basata sulle predette libertà, ed esigeva l’urgente costituzione di una Commissione parlamentare per la tutela delle medesime libertà. Invece, hanno fatto la Commissione Segre per il controllo discrezionale della comunicazione via Internet (con possibilità di censura, punizione e oscuramento), onde limitare ulteriormente la libertà di informazione e di pensiero, col pretesto della lotta a un estremismo politico e a un razzismo o suprematismo o sessismo che, sì, esistono e sono talvolta lesivi di beni giuridici riconosciuti, ma sono già puniti dalle leggi italiane e che non hanno, né possono avere in questa fase storica, la forza materiale per minacciare la società.
    L’istituzione della Commissione va vista e studiata insieme con altre due ‘riforme’: il tracciamento di ogni pagamento e versamento (con la costrizione a passare per una banca ad ogni transazione); l’imposizione di vaccinazioni di massa senza trasparenza sugli effetti reali dei prodotti inoculati (con l’Ema che vuole inserire dal 2022 le certificazioni vaccinali nei passaporti come condizione di validità). Le tre suddette riforme vanno comprese come strumenti fondamentali e integrati dell’attuale fase evolutiva del controllo sociale, basata essenzialmente: sulla manipolazione e modificazione diretta degli uomini, anche biologica e genetica, via farmaci, vaccini, alimenti; sul loro monitoraggio costante e capillare nelle idee, negli spostamenti, nel denaro; sulla possibilità di escluderli unilateralmente, con un click, dalle reti (comunicazioni, servizi, accesso al proprio denaro in banca).
    Lo statuto della Commissione Segre (andatevelo a leggere) è formulato in termini vaghi, indeterminati, ampiamente soggettivi e discrezionali, non limitati all’istigazione all’odio (…intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza nei confronti di persone o gruppi sociali sulla base di alcune caratteristiche quali l’etnia, la religione, la provenienza, l’orientamento sessuale, l’identità di genere o di altre particolari condizioni fisiche o psichiche), in modo che essa possa censurare, impedire e reprimere non solo e non tanto le istigazioni all’odio, ma la divulgazione di informazioni e analisi oggettive che possano, per le loro implicazioni, suscitare indignazione morale, “odio” nella Neolingua politically correct.
    Infatti, è facile equivocare tra indignazione e odio, accusare colui di diffondere odio colui che in realtà diffonde informazioni e commenti su inganni, soprusi, illegalità, tradimenti politici, maxi-truffe bancarie coperte dalle istituzioni, soprattutto in relazione al nuovo ordine globale e totalizzante, il quale delegittima come eresia ogni alternativa a sé stesso. L’ordine del capitalismo finanziario e del mercato (non libero, ma) manipolato, con tutti gli effetti sulla vita delle persone e delle società, è un ordine onnipervasivo, egemonizza l’intrattenimento, la cultura e la stessa contro-cultura (vedi il fenomeno Greta). Il totalitarismo capitalista non è funzionalmente diverso da altri totalitarismi, a quelli verso cui, per il pensiero unico, è lecito esprimere odio, come quello autore dello sterminio di milioni soggetti appartenenti a categorie-bersaglio, tra cui innanzitutto gli ebrei, compresi i familiari della senatrice Segre – la quale suppongo non abbia percepito per tempo i fini liberticidi a cui è stata strumentalizzata, ma ora può ben rimediare brillantemente. Gli ebrei, ricorrenti vittime della persecuzione contro la libertà culturale, sono pure storici paladini, nonché simbolo, della medesima!
    La Commissione Segre, nata da un testo della Boldrini e che dovrebbe chiamarsi commissione Boldrini ed è stata ridenominata ‘Segre’ solo per inibire le critiche, ha uno statuto che, con la sua vaghezza, la predispone: a prevenire e contrastare lo svilupparsi una coscienza dei gravissimi, attuali conflitti di classe e tra nazioni, e a tutelare così la falsa narrazione irenica (deconflittualizzata) del mainstream; a oscurare l’informazione sugli effetti perniciosi e, per l’appunto, ‘odiosi’ del liberal-globalismo, scoraggiando la critica sistemica ad esso; a contrastare il dissenso e il suo organizzarsi in opposizione politica e sociale, ossia a difendere il pensiero unico liberale, il consenso ad esso, ai suoi esecutori politici, economici e culturali, e alle loro riforme; a colpire ogni richiamo politico allo Stato nazionale, alla sua sovranità sulla moneta, sui confini, sulle scelte di modello socioeconomico, e alla responsabilità democratica verso il bene dei propri cittadini come funzione e dovere di tale Stato (tutte cose che l’ordine finanz-capitalistico è vigorosamente impegnato a smantellare e screditare, perché ostacolano l’ottimizzazione del mondo alle sue dinamiche anche demografiche).
    Molte notizie, in materia di economia, finanza, banche, immigrazione, potranno essere censurate perché idonee a suscitare indignazione sociale, che verrà ridefinita “odio” allo scopo predetto. Del resto, già gli antichi sentenziavano: veritas odium parit. Se lo scopo della Santa Commissione fosse onesto e non liberticida, se fosse diverso da quello che ho testé descritto, il suo statuto da un lato sarebbe stato garantista, cioè preciso e oggettivo nel definire, con riferimento al Codice Penale, le espressioni da colpire; e, dall’altro lato, avrebbe compreso la tutela dì diritti – questi sì costituzionalmente fondati – di opinione, informazione, ricerca e insegnamento, mediante l’individuazione e il contrasto a tutte quelle lesioni alla libertà di parola che ho menzionato in apertura. Senatrice Segre, affido a Lei l’iniziativa di questa alta difesa della Libertà!
    (Marco Della Luna, “Santa Commissione o Santa Inquisizione?”, lettera aperta alla senatrice Liliana Segre pubblicata sul blog di Della Luna il 4 novembre 2019, “per la difesa della fede nella narrazione”).

    Questo scritto è un appello alla senatrice Segre, al suo coraggio, alla sua lucidità. Una delle più gravi violazioni in atto dei principi fondamentali della Costituzione e della stessa civiltà occidentale è la limitazione ai diritti di informazione, di insegnamento e di ricerca scientifica voluta dal pensiero unico e dai suoi beneficiari. La pubblica informazione è in mano a cinque grandi agenzie mondiali, controllate da capitali privati, dedite al filtraggio delle notizie, delle analisi e al consolidamento di un pensiero unico liberista-mercatista-globalista; ad esse quasi tutti i giornalisti e i mass media si attengono, anche quelli pubblici. I docenti, anche quelli universitari, persino quelli di filosofia, ricevono dalla politica direttive ideologiche afferenti al pensiero unico, cui devono attenersi per conservare il posto, far carriera, aver visibilità. La ricerca scientifica, con la stampa scientifica, è in gran parte finanziata e controllata da capitali privati che contrattualmente si riservano la proprietà dei risultati e il diritto di decidere che cosa divulgare e che cosa no; in tal modo il capitale orienta la scienza, il suo insegnamento, la sua applicazione, dall’economia alla medicina.

  • ControTv, in diretta: Chiesa e Mazzucco aggirano YouTube

    Scritto il 04/11/19 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Attenti a quei due: da anni sfidano il mainstream, smontando le sue leggende, e non hanno ancora smesso di impensierire il Grande Fratello. Tant’è vero che, non appena la nuova iniziativa è finita su una pagina Facebook con oltre 40.000 contatti, la segnalazione è stata trasmessa in automatico solo a 9.000 follower. Già si annusano guai in vista, ipotizza Massimo Mazzucco, titolare della pagina stranamente “filtrata”: il mitico algoritmo di Zuckerberg sospetta che il suo nome, unito a quello di Giulietto Chiesa, possa essere sinonimo di grane? Del resto, quello è il sistema che dispensa sonni tranquilli al cittadino, magari invitandolo a rifugiarsi nel politically correct come nel caso del polverone attorno alla commissione Liliana Segre. Sacrosanto condannare chi insulta i reduci della Shoah, beninteso: purché questo poi non venga usato per silenziare chiunque la pensi diversamente, sui temi più disparati. «Vale anche per il revisionismo: un conto è oltraggiare i reduci, un altro è avere idee differenti sulla storia. Proibirle non è forse contrario alla libertà di parola tutelata dalla Costituzione?». E poi: «Perché la versione ufficiale dovrebbe essere obbligatoria solo per la Shoah, di cui si stabilisce il numero di vittime senza mai interrogarsi sulle vere cause del nazismo e sui sostenitori occulti di Hitler?». A quel punto, dice Mazzucco, si emani una verità ufficiale su ogni altro tema, e buonanotte a tutti.

  • Niccolai, il fascista “eretico” che fece votare le idee del Pci

    Scritto il 03/11/19 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    «Ricordo una sera a Pisa, in una scalcagnata 500 guidata da un militante di Cecina, Altero Matteoli, divenuto poi ministro. Nel sedile posteriore, in condizioni disumane, sedevano attorcigliati Niccolai e Tatarella; benché ragazzo, mi avevano lasciato il posto davanti, come si usa per cavalleria con le donne, i disabili e gli intellettuali». Così lo scrittore, filosofo e politologo Marcello Veneziani ricorda Giuseppe Niccolai, esponente “eretico” del Msi, di cui a Pisa – sua città natale – la sinistra e l’Anpi ha appena contestato la memoria, dopo che il Comune, a trent’anni dalla sua morte, gli ha intitolato un piazzale. Chi era Niccolai? «Un politico galantuomo, un missino eretico che sognava di ricucire la ferita storica tra fascisti e comunisti e combattere insieme contro la mafia e il potere, i potentati economici e la servitù americana». “Beppe”, lo ricorda Veneziani, «fu un limpido marziano che visse nell’era ideologica integrale, il Novecento, assorbendo le sue passioni ma non i suoi livori». Quella volta a Pisa, Veneziani lo incontrò perché era in possesso di appunti inediti di Berto Ricci, altro «fascista eretico dalla mente lucida e il cuore puro», che poi furono pubblicati con la prefazione di Indro Montanelli. Sceso da quella Cinquecento, «Niccolai maneggiava i quaderni di Ricci con religiosa devozione».
    In principio, riassume Veneziani su “La Verità”, Niccolai fu tra i fondatori del Msi nel segno di “legge e ordine”. Poi si andò spostando verso una sinistra nazionale e “spirituale”, auspicando di ricucire la frattura del ’14 coi socialisti, spingendosi persino a quella del ’21 coi comunisti. «Non condivise però la linea di Pino Rauti di sfondare a sinistra; sognava altre sintesi». Niccolai morì il 31 ottobre dell’89, «nove giorni prima che cambiasse il mondo, col Muro crollato e la caduta del comunismo, e da noi la fine della Prima Repubblica». L’anno prossimo sarà il centenario della sua nascita. «Quando morì, Niccolai lasciò un vuoto», scrive Veneziani, «ma era lo stesso vuoto che lo circondava quando era in vita». “Beppe” dissentiva da Almirante, e spesso era all’opposizione nell’opposizione, distante pure da Rauti. «L’avevano sistemato in una teca, con l’etichetta di coscienza critica, per venerarlo e accantonarlo». Conoscendolo, «era amabile e inquieto, tutt’altro che un fascistone prepotente con le certezze granitiche, in bianco e nero». Fascista, Niccolai lo era stato davvero, «ma sulla sua pelle: volontario in Africa, e poi – per fedeltà al suo fascismo, prigioniero degli americani nel “fascist criminal camp” ad Hereford, come l’artista Alberto Burri, lo scrittore Giuseppe Berto e Roberto Mieville, futuro capo dei giovani missini della prima ora».
    A Pisa, continua Veneziani, Niccolai fu l’antagonista storico di Adriano Sofri, che mobilitò Lotta Continua per impedire un suo comizio il 5 maggio del ’72. «Negli scontri con la polizia morì un anarchico, Serantini, e anche per vendicare lui pochi giorni dopo fu ucciso Calabresi. Ma Niccolai difese il “nemico” Sofri quando fu accusato d’omicidio», aggiunge Veneziani. Da parlamentare, l’amico “Beppe” «fece memorabili interventi in commissione antimafia contro le collusioni politiche, soprattutto democristiane, e fu elogiato anche da Leonardo Sciascia, allora parlamentare di sinistra». Non solo: «Denunciò le stragi e le responsabilità dei servizi segreti; e riuscì a scucire la verità ai magistrati veneziani sull’aereo Argo 16 della nostra aeronautica abbattuto dagli israeliani nel novembre del ’73 a Venezia uccidendo i militari italiani a bordo, accusati di aver salvato alcuni terroristi arabi che preparavano un attentato a un aereo di linea israeliano». Un’operazione filo-araba, condotta dall’allora ministro degli esteri Aldo Moro (cinque anni più tardi “sistemato” con l’opaca operazione terroristica affidata alle Brigate Rosse).
    A Niccolai, Veneziani era accomunato «dal gusto ardito dell’eresia e dalla rivoluzione conservatrice, da amici comuni come Giano Accame e il pisano Gino Benvenuti». Si scoprirono entrambi «figli di presidi di liceo, cresciuti con una buona biblioteca in casa». Quando Veneziani fu silurato dall’editoria di destra per le sue simpatie verso il socialismo tricolore di Craxi, Niccolai scrisse un pezzo solidale sul suo foglio, “L’Eco della Versilia”, e ribadì la sua protesta al congresso missino di Sorrento nel 1987, «dove fu la voce stonata nel congedo di Almirante dalla guida del Msi». Non era un vecchio arnese, Niccolai: «Nell’Msi fu con l’ala modernizzatrice di Mimmo Mennitti: voleva aprire il ghetto missino, dialogare col Craxi patriota e sognava di ricucire con la sinistra». Raccontava che l’ultimo Mussolini aveva raccomandato ai suoi fedelissimi: «Se crolla il fascismo, seguite Pietro Nenni». Veneziani lo ricorda come «uno spirito critico e appassionato, pensante e romantico, magari impolitico». Nel 1988 fu espulso dal Msi: aveva fatto votare alla direzione del partito un ordine del giorno contro i potentati economici. Solo più tardi si seppe che quel documento l’aveva ripreso, pari pari, da una relazione del comitato centrale del Pci. «Niccolai raccontò al “Corriere della Sera” la beffarda verità, e Fini lo cacciò perché all’epoca aveva orrore delle contaminazioni con la sinistra». Ma il suo scopo non era goliardico, assicura Veneziani: non voleva prendere in giro il suo partito, ma dimostrare che i pregiudizi ideologici impediscono convergenze su temi condivisi. «Era un marziano allora, figuratevi ora. Ad avercene…».

    «Ricordo una sera a Pisa, in una scalcagnata 500 guidata da un militante di Cecina, Altero Matteoli, divenuto poi ministro. Nel sedile posteriore, in condizioni disumane, sedevano attorcigliati Niccolai e Tatarella; benché ragazzo, mi avevano lasciato il posto davanti, come si usa per cavalleria con le donne, i disabili e gli intellettuali». Così lo scrittore, filosofo e politologo Marcello Veneziani ricorda Giuseppe Niccolai, esponente “eretico” del Msi, di cui a Pisa – sua città natale – la sinistra e l’Anpi ha appena contestato la memoria, dopo che il Comune, a trent’anni dalla sua morte, gli ha intitolato un piazzale. Chi era Niccolai? «Un politico galantuomo, un missino eretico che sognava di ricucire la ferita storica tra fascisti e comunisti e combattere insieme contro la mafia e il potere, i potentati economici e la servitù americana». “Beppe”, lo ricorda Veneziani, «fu un limpido marziano che visse nell’era ideologica integrale, il Novecento, assorbendo le sue passioni ma non i suoi livori». Quella volta a Pisa, Veneziani lo incontrò perché era in possesso di appunti inediti di Berto Ricci, altro «fascista eretico dalla mente lucida e il cuore puro», che poi furono pubblicati con la prefazione di Indro Montanelli. Sceso da quella Cinquecento, «Niccolai maneggiava i quaderni di Ricci con religiosa devozione».

  • Ultimo tango a Perugia: l’autopsia del Movimento 5 Stelle

    Scritto il 30/10/19 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Il Movimento 5 Stelle potrebbe anche risorgere, se solo ricominciasse a essere se stesso, cioè a riesumare le ruggenti battaglie democratiche ora dimenticate. Tornare a impegnarsi dalla parte dei cittadini lasciando perdere i tatticismi istituzionali e l’abbraccio mortale col Pd? E’ la tesi che Gianluigi Paragone, scomodo giornalista televisivo e ora deputato “dissidente”, rilancia dopo la débacle grillina in Umbria. L’infelice minuetto con Zingaretti, patrocinato da Conte? “Ultimo tango a Perugia”, lo definisce – parafrasando Bertolucci – Francesco Maria Toscano, dirigente di Vox Italia e ora anche collaboratore di Claudio Messora. Tempestiva, la diretta web offerta da “ByoBlu” il 28 ottobre per commentare, a caldo, il “Vaffa Umbro” rimediato dai pentastellati, ridotti al 7,4% e letteralmente “asfaltati” da Salvini. «Ora tutti vorranno la testa di Luigi Di Maio», avverte Debora Billi, già comunicatrice ufficiale (con Messora) dei primi gruppi parlamentari 5 Stelle, nel 2013. «Ma il fatto è – aggiunge – che Di Maio è il meno colpevole di tutti: aveva tentato in ogni modo di evitare l’intesa col Pd, imposta da Grillo».
    Ancora più esplicito il professor Paolo Becchi, filosofo del diritto, un tempo vicino ai 5 Stelle: «Il Movimento è stato creato da Gianroberto Casaleggio e distrutto da Beppe Grillo, con la svolta pro-Pd a cui Di Maio aveva tentato in ogni modo di opporsi». Ma Grillo, a sua volta – rilancia Debora Billi – è stato forse “costretto” a convergere verso Zingaretti e Renzi? L’allusione riguarda probabilmente l’inchiesta in corso sul figlio di Grillo, indiziato di abusi sessuali durante l’estate più pazza della politica italiana. L’indagine è ancora aperta, e il giovane Grillo – per ora solo sospettato di ipotetici comportamenti scorretti nella villa del padre in Costa Smeralda – è già finito nel tritacarne della speculazione polemica: tanto è bastato a Vittorio Sgarbi per tentare di crocifiggere l’ex comico, ora formalmente “garante” (cioè padre-padrone) del Movimento 5 Stelle. Iinsinuazioni? La tesi corrente è di questo tenore: a prescindere dall’esito giudiziario, Grillo si sarebbe sentito potenzialmente ricattato dal clamore mediatico sul caso inerente il figlio. Al punto da ordinare a Di Maio – a malincuore – di mollare Salvini per Zingaretti?
    Paolo Becchi offre un ragionamento diverso, niditamente politico e senza “attenuanti” per Grillo: un minuto prima del “diktat” dell’ex comico, che ha dato vita all’imbarazzante Conte-bis – rivela Becchi nell’instant book “Ladri di democrazia” scritto con Giuseppe Palma – Di Maio aveva offerto a Salvini un robusto rimpasto dell’esecutivo gialloverde, che tenesse conto del vasto successo della Lega alle europee. Il piano del “capo politico” grillino prevedeva il “pensionamento” di Conte, sgradito al leader leghista: Salvini avrebbe ottenuto ministri all’altezza della situazione, e il premier sarebbe stato lo stesso Di Maio. L’accordo era praticamente chiuso, dice Becchi, quando è esplosa la bomba-Grillo, cioè l’ordine di “suicidare” il Movimento 5 Stelle tra le braccia di Matteo Renzi, lestissimo a cogliere al volo l’assist proveniente da Genova. Primo risultato matematico, persino scontato: la disfatta in Umbria alle regionali. Con l’aggravante che il mesto “ultimo tango a Perugia” segnerà il destino del Conte-bis, rischiando di decretare addirittura l’estinzione politica dei 5 Stelle, abbandonati in massa dall’elettorato dopo lo spettacolo offerto dai parlamentari aggrappati alle poltrone.
    Debora Billi evoca un Vietnam inimmaginabile contro Di Maio, a cui ora – in una sorta di guerra per bande – saranno imputati tutti gli errori della gestione politica del Movimento 5 Stelle, benché a tifare per il divorzio da Salvini sia stata l’ala “sinistra”, capeggiata da Roberto Fico. Sollevando lo sguardo verso l’orizzonte, lo stesso Becchi e il giornalista Maurizio Blondet (altro ospite della diretta web di “ByoBlu”) si fanno la seguente domanda: se Salvini eredita “giustamente” i voti ex-grillini sulla base di una speranza di cambiamento, quale sarebbe l’idea di paese offerta dalla Lega? Casaleggio aveva la sua, che poi Grillo ha cancellato. E Salvini? A vincere è la Lega pragmatica dei governatori del Nord Italia, come i prudenti Zaia e Fontana, o la Lega ultra-critica verso l’Ue incarnata da economisti come Borghi, Bagnai e Rinaldi? Va ricordato, comunque, che il governo gialloverde (leghisti inclusi) non aveva certo fatto faville. L’unica certezza – dice Blondet – consiste nel fatto che Salvini ha intercettato il malessere sociale delle periferie, esposte a una non facile convivenza con l’immigrazione, specie africana. Ma a parte il freno agli sbarchi, dove sarebbe il piano leghista per governare l’Italia?
    Nel salotto di Messora, il 28 ottobre, si lascia ascoltare anche il giovane Dario Corallo, candidato “anomalo” delle ultime primarie del Pd: imputa alla sinistra il cedimento storico alle istanze del potere finanziario, e condanna lo scellerato taglio dei parlamentari «che ridurrebbe in modo drastico la già scarsa rappresentanza, allontanando ulteriormente i territori dai centri decisionali». Corallo sogna una convergenza trasversale di forze realmente progressiste, per affrontare a muso duro il rigore Ue e smontare il sistema suicida dei vincoli finanziari che costringe lo Stato a scaricare i costi sociali sulle Regioni, in termini di tagli ai servizi e di maggiori imposte, coi risultati ora sotto gli occhi di tutti. Ma il “Vaffa Umbro” raccontato da “ByoBlu” mette in scena innanzitutto l’autopsia del Movimento 5 Stelle, che ha tradito tutte le promesse elettorali. Ilva, Tap, vaccini, Tav, armamenti, trivelle: capitolazione, su tutta la linea. Gli ex grillini invocano un cambio radicale nella dirigenza. Ma il M5S non ha mai celebrato un solo congresso interno. Democrazia, questa sconosciuta. E l’ultima parola, in ogni caso, spetta a un privato cittadino mai eletto da nessuno: il signor Giuseppe Piero Grillo, detto Beppe.

    Il Movimento 5 Stelle potrebbe anche risorgere, se solo ricominciasse a essere se stesso, cioè a riesumare le ruggenti battaglie democratiche ora dimenticate. Tornare a impegnarsi dalla parte dei cittadini lasciando perdere i tatticismi istituzionali e l’abbraccio mortale col Pd? E’ la tesi che Gianluigi Paragone, scomodo giornalista televisivo e ora deputato “dissidente”, rilancia dopo la débacle grillina in Umbria. L’infelice minuetto con Zingaretti, patrocinato da Conte? “Ultimo tango a Perugia”, lo definisce – parafrasando Bertolucci – Francesco Maria Toscano, dirigente di Vox Italia e ora anche collaboratore di Claudio Messora. Tempestiva, la diretta web offerta da “ByoBlu” il 28 ottobre per commentare, a caldo, il “Vaffa Umbro” rimediato dai pentastellati, ridotti al 7,4% e letteralmente “asfaltati” da Salvini. «Ora tutti vorranno la testa di Luigi Di Maio», avverte Debora Billi, già comunicatrice ufficiale (con Messora) dei primi gruppi parlamentari 5 Stelle, nel 2013. «Ma il fatto è – aggiunge – che Di Maio è il meno colpevole di tutti: aveva tentato in ogni modo di evitare l’intesa col Pd, imposta da Grillo».

  • Grillo e 5 Stelle, da finti outsider a vero pericolo per l’Italia

    Scritto il 25/10/19 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Il Movimento 5 Stelle è ormai ridotto a ruota di scorta di Matteo Renzi, il simpatico avvoltoio planato sulla carcassa del Pd e ora intento a logorare Giuseppe Conte, premier virtuale mai votato da nessuno. Da quando Beppe Grillo ha cominciato ad agitarsi sulla scena politica, con i suoi Vaffa-Day, il nostro paese ha smesso di essere guidato da governi normali, sostenuti dal suffragio popolare. Ultimo caso: Berlusconi, eletto nel 2008. A seguire: il paracadutato Monti, poi l’incorporeo Letta, quindi l’avventuriero Renzi (nemmeno parlamentare, allora) e infine Gentiloni, altro ectoplasma targato Pd. Poi Conte, anche lui non-eletto. I grillini sono passati dall’exploit del 2013, primo partito alla Camera – al punto da affondare il debolissimo Bersani – al quasi-plebiscito del 2018, gravido di promesse. Tav e Tap, Ilva, trivelle in Adriatico, Muos di Niscemi, F-35, vaccini. Tutto diventato carta straccia alla velocità della luce. Oggi, tra gli italiani ancora propensi ad andare a votare, in caso di elezioni (poco più della metà degli aventi diritto), i 5 Stelle verrebbero premiati da un 17% di cittadini. Stando ai sondaggi, il calo è rapido e inesorabile. E la cosa non sembra preoccupare minimamente il fondatore, l’istrionico ex comico genovese a cui, nel marzo 2018, qualcosa come 11 milioni di italiani avevano creduto.
    Confidando nel terrore dei suoi parlamentari di fronte all’ipotesi delle elezioni anticipate, è stato Grillo a impartire l’ordine di mettere fine al governo gialloverde, divorziando da Salvini per abbracciare il partito di Renzi, oggi impersonato dalla controfigura Zingaretti. Nell’ipocrita caserma dove circolava la barzelletta “uno vale uno”, è stato sempre Grillo a dettare la linea: anziché far nascere una democrazia interna ha imposto Di Maio come prestanome, e dopo aver straparlato di un referendum consultivo sull’euro ha tentato di traslocare il gruppo europarlamentare grillino tra gli ultra-euristi dell’Alde, in compagnia di Monti. Sempre Grillo (tramite il ventriloquo Di Maio) ha ordinato ai 5 Stelle di sostenere Ursula von der Leyen a Bruxelles, rompendo così in modo plateale l’alleanza con la Lega. Gran sacerdote dell’operazione il premier Conte, altro “signor nessuno” uscito misteriosamente dal cilindro del fondatore-monarca travestito da giustiziere. Non si contano i gesti pubblici con cui Grillo tenta di accreditarsi ancora come libero pensatore, magari eccentrico: la scorsa primavera, insieme all’amico Renzi, ha firmato il vergognoso “Patto per Scienza” promosso dal propagandista pro-vax Claudio Burioni per tagliare i fondi alla ricerca medica sui danni da vaccino.
    Non pago, Beppe Grillo ora si è anche soavemente permesso di proporre ai giovani italiani di sbarazzarsi dei loro nonni, escludendo brutalmente gli anziani dal diritto al voto. Se il delirio contro i vecchi richiama sgradevoli dissonanze di sapore vagamente hitleriano, ricorda gli ingloriosi trascorsi della P2 di Gelli il piccolo capolavoro post-democratico rappresentato dallo sgangherato taglio dei parlamentari. Una crociata cavalcata con surreale trionfalismo, come se si trattasse di sgominare una cosca mafiosa. Di fatto: una manomissione costituzionale gaglioffa, non inserita in un preciso riordino istituzionale (e senza neppure un’idea di legge elettorale: quella, va da sé, sarà modellata ad personam, in base all’interesse di bottega). Eppure, nessuno chiede a gran voce le dimissioni in massa degli impresentabili parlamentari penstastellati. Si preferisce il silenzio della semplice diserzione elettorale. Gli italiani ancora faticano a capacitarsi di fronte all’idea di esser stati raggirati in modo tanto sfrontato. Matteo Salvini, che almeno aveva provato davvero a cambiare le cose (la candidatura di Savona, l’impegno di Armando Siri per la Flat Tax) è stato messo alla porta insieme a Danilo Toninelli, l’unico ministro ad aver osato istituire una commissione per verificare l’utilità (inesistente, appunto) della Torino-Lione.
    L’ipnosi 5 Stelle ha funzionato a meraviglia, facendo deragliare nel nulla la protesta sociale di un paese messo alla frusta dai grandi poteri eurocratici. Alternando i panni del clown a quelli del dittatore sudamericano, Grillo ha tenuto la scena per anni, mentendo innanzitutto ai suoi elettori. Per conto di chi? Secondo l’analista geopolitico Federico Dezzani, basta “seguire i soldi” e ricostruire la filiera-Casaleggio per scoprire la mano sinistra dello Zio Sam dietro la colossale presa in giro della “democrazia diretta” evocata dall’autocrate genovese, sempre spietato verso qualsiasi voce dissidente fino a pretenderne l’immediata espulsione. Se l’illusione ottica chiamata Movimento 5 Stelle era solo uno stratagemma per addormentare gli italiani nel momento di massima crisi politica del paese, il suo suicidio pazzesco – l’alleanza con Renzi e il tradimento spettacolare di ogni promessa – non lascia presagire niente di buono: prima di sparire definitivamente come increscioso incidente della storia, il grillismo potrebbe infliggere altri danni all’Italia? C’è da aspettarsi di tutto, da chi ha raccontato solo e sempre il contrario della verità, occultando il suo reale pensiero. La stessa sconcertante duttilità di Di Maio – capace di cambiare idea all’istante, su tutto – rende il Movimento 5 Stelle lo strumento perfetto per chi volesse affossare il nostro paese, a partire dalle super-nomine in arrivo nel 2020, per finire con l’elezione del prossimo capo dello Stato.

    Il Movimento 5 Stelle è ormai ridotto a ruota di scorta di Matteo Renzi, il simpatico avvoltoio planato sulla carcassa del Pd e ora intento a logorare Giuseppe Conte, premier virtuale mai votato da nessuno. Da quando Beppe Grillo ha cominciato ad agitarsi sulla scena politica, con i suoi Vaffa-Day, il nostro paese ha smesso di essere guidato da governi normali, sostenuti dal suffragio popolare. Ultimo caso: Berlusconi, eletto nel 2008. A seguire: il paracadutato Monti, poi l’incorporeo Letta, quindi l’avventuriero Renzi (nemmeno parlamentare, allora) e infine Gentiloni, altro ectoplasma targato Pd. Poi Conte, anche lui non-eletto. I grillini sono passati dall’exploit del 2013, primo partito alla Camera – al punto da affondare il debolissimo Bersani – al quasi-plebiscito del 2018, gravido di promesse. Tav e Tap, Ilva, trivelle in Adriatico, Muos di Niscemi, F-35, vaccini. Tutto diventato carta straccia alla velocità della luce. Oggi, tra gli italiani ancora propensi ad andare a votare, in caso di elezioni (poco più della metà degli aventi diritto), i 5 Stelle verrebbero premiati da un 17% di cittadini. Stando ai sondaggi, il calo è rapido e inesorabile. E la cosa non sembra preoccupare minimamente il fondatore, l’istrionico ex comico genovese a cui, nel marzo 2018, qualcosa come 11 milioni di italiani avevano creduto.

  • Moscopoli: ‘Report’ evita l’unica domanda che conti davvero

    Scritto il 24/10/19 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    L’unica notizia, nel lenzuolone televisivo “La fabbrica della paura” firmato da Giorgio Mottola sul caso Moscopoli, è il ritrattino poco edificante che di Salvini e Savoini fornisce un veterano del giornalismo come Gigi Moncalvo, allora direttore della “Padania”: il giovanissimo Salvini era assenteista e falsificava le note spese, mentre Savoini (suo mentore occulto) venerava icone naziste, afferma l’autore di libri scomodi come “Agnelli segreti”. Moncalvo è esplicito: quando chiese l’allontanamento di Salvini dal giornale leghista, il giovane Matteo lo sfidò: «Tu passi, io resto. E diventerò molto più potente». A parte questo, “Report” si limita – in un’ora di televisione – a imporre ai telespettatori, il 21 ottobre, una tesi a senso unico: Salvini è un mascalzone pericoloso. Le “prove” a carico: esponenti del Carroccio entrarono in contatto con neofascisti come Maurizio Murelli, condannato per aver ucciso un poliziotto. Così la Lega ha finito col trovarsi al centro di una “internazionale nera”, estesa da Washington a Mosca, basata sul recupero politico del tradizionalismo religioso, familista e nazionalista. Una rete che finanzia progetti teoricamente eversivi e mirati a far implodere l’attuale Ue (che per “Report”, evidentemente, è sacra). Unico appiglio offerto: la famosa intercettazione di Savoini a Mosca, un anno fa. Chi la effettuò? Mistero.
    Per “Report”, comunque, va bene così: basta che i telespettatori disprezzino la Lega, senza neppure sapere chi avrebbe cercato di “incastrarla”. Seriamente: anche in seguito a quel polverone il governo italiano è caduto, ma a “Report” non interessa provare a spiegare chi ha spinto i gialloverdi alle dimissioni, e perché. Lo stile della trasmissione, ora condotta da Sigfrido Ranucci, eredita il marchio fuorviante impresso da Milena Gabanelli: fragorosi depistaggi. Mai una vera indagine sul potere (dopo la dipartita di Paolo Barnard) e inchieste aggressive solo nei toni, in apparenza “contro”, ma in realtà perfettamente allineate ai voleri dell’establishment: vedi l’improvvisa liquidazione del populista Antonio Di Pietro, di colpo presentato come gestore inaffidabile dei finanziamenti pubblici del suo partito, nel momento in cui “serviva” travasare l’elettorato dell’Italia dei Valori nell’esordiente Movimento 5 Stelle (altro fumo negli occhi destinato agli elettori “arrabbiati”). L’infaticabile Mottola ha messo insieme una notevole mole di dati, tutti però di secondo piano. Ha acceso i riflettori su un mondo sommerso – il greve retrobottega anche affaristico del fondamentalismo cristiano russo e americano, insospettabilmente interconnesso – ma senza mai collocare le notizie all’interno di un’analisi capace di fornire deduzioni decisive per leggere l’attualità, depurandola dal foklore.
    Salvini? Avvicinato (quasi molestato) solo e sempre a margine di comizi, tra nugoli di fan in coda per i selfie di rito: in quei momenti, in mezzo alla folla, all’odiato “capitano” è stato chiesto di parlare dei suoi eventuali legami con remoti oligarchi russi. L’unico scopo evidente degli spettacolari “agguati”, in stile “Le Iene”, era trasmettere il seguente messaggio: lo spregevole Salvini evita di rispondere perché sa di essere colpevole e teme la verità. E quale sarebbe, per “Report”, la verità? Con l’aria di inoltrarsi tra le SS di Himmler nel tenebroso maniero di Wewelsburg, le telecamere incalzano i seguaci di Steve Bannon nella Certosa di Trisulti, in Ciociaria, che secondo i piani doveva diventare il Vaticano del “sovranismo” europeo. Da Frosinone a Mosca, stessa musica: si delizia, “Report”, nel cogliere l’apprezzamento di Salvini nelle parole del filosofo neo-conservatore Alexandr Dugin, ideologo presentato come ispiratore di Putin (e in Italia, esaltato da Diego Fusaro). Dio, patria e famiglia? Ricetta specularmente opposta e complementare, rispetto alla teologia globale neoliberista che dice di voler contrastare.
    Rifugiandosi nel mitico buon tempo antico, magari quello dello zarismo che spediva in Siberia qualsiasi dissidente, l’attuale sovranismo sembra il binario morto costruito apposta per non democratizzarla mai, la globalizzazione in atto. Mondialismo neoliberale e neo-sovranismo: due facce della stessa medaglia, interpretate da soggetti che in realtà giocano nella stessa squadra e con lo stesso obiettivo, addormentare le coscienze politiche o al massimo deviarle verso falsi bersagli, comodamente sbaraccabili al momento giusto (Di Pietro docet) quando non serviranno più a infervorare gli elettori più sprovveduti. Ma questi probabilmente sono spunti impensabili, per “Report”, che sembra trattare gli spettatori come bambini dell’asilo. Nella fiaba di giornata, il cattivo è Putin. Gli oligarchi euro-atlantici, invece, sono mammolette? Nel fanta-mondo di “Report”, se lo Zar del Cremlino è il Dio del misterioso Savoini (anima nera del bieco Salvini), il capo della Lega è una sorta di enigma: chi è davvero l’Uomo Nero di Pontida? E’ il classico utile idiota, accecato dall’ambizione e quindi comodamente sfruttato dalla micidiale Spectre sovranista, oppure è una specie di genio del male pronto a distruggere la meravigliosa armonia democratica dell’Unione Europea, modello mondiale di felicità?
    Avvilente il bilancio giornalistico del servizio televisivo: un’ora di speculazione elettorale contro il salvinismo, senza mai neppure domandarsi – nemmeno per sbaglio – chi ha intercettato Savoini a Mosca, e perché, mentre parlava coi petrolieri russi ipotizzando transazioni milionarie (mai avvenute). La prova del nove la fornisce l’impareggiabile Fabio Fazio, lo zerbino di Macron pagato dagli italiani con il canone Rai: com’è possibile, si domanda, che il dossier di “Report” rimanga senza conseguenze? Ma se Fazio fa solo avanspettacolo, sia pure politicamente scorretto perché tendenzioso, in teoria “Report” dovrebbe sentire il dovere di informarli, i cittadini, e quindi farsi l’unica domanda utile per inseguire la notizia: chi ha intercettato Savoini? Sono stati i servizi di Trump, per sbarazzarsi del deludente carrozzone gialloverde? Quelli di Conte, per liberarsi di Salvini? Quelli di Putin, che potrebbe aver “venduto” l’amico Salvini in cambio di qualcos’altro, sullo scacchiere geopolitico? C’è stata una concertazione internazionale incrociata per ottenere il cambio di governo a Roma? La notizia starebbe proprio qui: e invece “Report” galoppa dalla parte opposta, portando a spasso i telespettatori lontanissimo dall’accaduto. Qualcuno ha passato gli audio del Metropol al sito americano “BuzzFeed”. Già, ma chi? E quindi: perché? Inoltre: chi è “BuzzFeed”? Con chi parla? Con chi lavora? Qualcuno lo finanzia?
    Tra i nuovi fenomeni web, nel confine ambiguo tra giornalismo e intelligence, si è imposto recentemente il “Site” di Rita Katz, un tempo considerata vicina al Mossad israeliano, sempre prontissima a divulgare – in esclusiva – le imprese dell’Isis. Nella famosa serata moscovita in quello che è conosciuto anche come “l’albergo delle spie”, c’era un russo la cui identità non è ancora nota. Al Metropol, si dice, anche i muri hanno orecchie. Chi ha deciso, il 18 ottobre 2018, che la corsa italiana della Lega andava fermata con un possibile ricatto? Se gli italiani si aspettano risposte da “Report”, buonanotte. La polpetta avvelenata proviene ovviamente da qualche 007. Lo scopo: indurre i giornali a colpire, nella direzione indicata. Compito che “Report” esegue pedestremente, obbedendo e facendosi usare senza porsi domande. Non stupisce, peraltro: Barnard, co-fondatore della trasmissione, mise in difficoltà la redazione (allora scomoda, per la Rai) con inchieste taglienti. Memorabili le amnesie di Fassino sulle malefatte della globalizzazione, o la sconcertante confessione di Prodi quand’era a capo della Commissione Ue. Testualmente: come faccio a sapere quali e quante direttive emaniano? Fulminato, Barnard, per un’inchiesta sugli abusi di Big Pharma censurata dalla Gabanelli: se la trasmettiamo, gli disse, ci chiudono. Benissimo, rispose Barnard: lo facciano, daremo battaglia. A finire fuori, invece, fu lui. “Report” ovviamente è rimasto, ma abdicando al suo ruolo originario: l’antica grinta ribelle oggi serve solo a raccontare favole innocue per il potere, e magari – come in questo caso – confezionate direttamente da misteriosi servizi segreti.
    (Giorgio Cattaneo, “Moscopoli, la fabbrica della paura creata dagli 007: da Report nessuna risposta sul caso montato da chi voleva far cadere il governo italiano”, dal blog del Movimento Roosevelt del 24 ottobre 2019).

    L’unica notizia, nel lenzuolone televisivo “La fabbrica della paura” firmato da Giorgio Mottola sul caso Moscopoli, è il ritrattino poco edificante che di Salvini e Savoini fornisce un veterano del giornalismo come Gigi Moncalvo, allora direttore della “Padania”: il giovanissimo Salvini era assenteista e falsificava le note spese, mentre Savoini (suo mentore occulto) venerava icone naziste, afferma l’autore di libri scomodi come “Agnelli segreti”. Moncalvo è esplicito: quando chiese l’allontanamento di Salvini dal giornale leghista, il giovane Matteo lo sfidò: «Tu passi, io resto. E diventerò molto più potente». A parte questo, “Report” si limita – in un’ora di televisione – a imporre ai telespettatori, il 21 ottobre, una tesi a senso unico: Salvini è un mascalzone pericoloso. Le “prove” a carico: esponenti del Carroccio entrarono in contatto con neofascisti come Maurizio Murelli, condannato per aver ucciso un poliziotto. Così la Lega ha finito col trovarsi al centro di una “internazionale nera”, estesa da Washington a Mosca, basata sul recupero politico del tradizionalismo religioso, familista e nazionalista. Una rete che finanzia progetti teoricamente eversivi e mirati a far implodere l’attuale Ue (che per “Report”, evidentemente, è sacra). Unico appiglio offerto: la famosa intercettazione di Savoini a Mosca, un anno fa. Chi la effettuò? Mistero.

  • La cricca totalitaria delle bufale sul clima alterato dall’uomo

    Scritto il 24/10/19 • nella Categoria: idee • (3)

    Il clima è sempre cambiato da un decennio all’altro. Ci sono state grandi oscillazioni durante gli anni ’30. Abbiamo avuto il “dust bowl” (serie di tempeste di sabbia) durante l’estate e nel 1936 un freddo record. Nel 1936 l’ondata di freddo del Nord America, che colpì anche il Giappone e la Cina, è ancora oggi una delle più intense mai registrate nella storia. Non possiamo dare la colpa di quanto avvenne alle mamme che portavano in macchina i ragazzini a giocare a calcio, bruciando combustibili fossili. Le automobili erano ancora un lusso negli anni ’30. Semplicemente, non esiste alcuna prova di cambiamenti climatici causati dall’uomo. Nessuno è disposto a denunciare questa assurdità semplicemente mostrando le marcate oscillazioni di temperatura registrate nei secoli. Si tratta di un segreto ben celato, ma il 95% dei modelli climatici che, come ci viene detto, provano il legame tra le emissioni umane di CO2 e il catastrofico riscaldamento globale si sono rivelati, dopo circa due decenni di stasi nelle temperature, sbagliati. Non dovrebbe sorprendere. Ci siamo dovuti sorbire le stramberie dei catastrofisti climatici per circa 50 anni. Nel gennaio 1970, la rivista “Life”, basandosi su “solide prove scientifiche”, sosteneva che entro il 1985 l’inquinamento atmosferico avrebbe ridotto della metà la luce del Sole che raggiunge la Terra.
    Di fatto, in quel periodo, la luce del Sole è diminuita tra il 3 e il 5%. In un discorso del 1971, Paul Ehrlich dichiarava: «Se fossi un giocatore d’azzardo, scommetterei che l’Inghilterra non esisterà più nel 2000». Spostiamoci velocemente al mese di marzo 2000 e a David Viner, scienziato ricercatore esperto presso l’Unità di Ricerca Climatica dell’Università East Anglia, che dichiarò a “The Independent”: «Le nevicate sono ormai una cosa che appartiene al passato». Nel dicembre 2010 il “Mail” online riferiva del «dicembre più freddo mai registrato, con temperature scese a meno 10 °C portando il caos in tutta la Gran Bretagna». Anche noi australiani abbiamo avuto le nostre previsioni sbagliate. Forse la più assurda è stata la dichiarazione dell’allarmista climatico Tim Flannery del 2005: «Se i tabulati del computer sono corretti, le attuali condizioni di siccità diventeranno permanenti nell’Australia dell’Est». Le precipitazioni successive e le gravi inondazioni hanno mostrato che i tabulati, o le sue analisi, erano sbagliati. Ci siamo bevuti una previsione sbagliata dopo l’altra. Inoltre, il gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (Ipcc) è stato ripetutamente colto in flagrante per false rappresentazioni della realtà e metodi scadenti.
    Gli uffici metereologici sembrano aver dato una “aggiustatina” ai dati per adattarsi alla narrazione prevalente. L’affermazione della Nasa che il 2014 è stato l’anno più caldo mai registrato è stata rivista, dopo che era stata messa in discussione, a una probabilità di appena il 38%. Gli eventi meteorologici estremi, che una volta erano imputati al riscaldamento globale, non lo sono più, dal momento che la loro frequenza e intensità sono in diminuzione. E allora perché, vista la mancanza di prove, le Nazioni Unite insistono perché il mondo spenda centinaia di miliardi di dollari all’anno in futili politiche che hanno come obiettivo i cambiamenti climatici? Forse Christiana Figueres, segretario esecutivo della struttura dell’Onu del cambiamento climatico, ha la risposta? Lo scorso febbraio, la Figueres ha detto a Bruxelles: «È la prima volta nella storia dell’umanità che ci stiamo ponendo il compito di cambiare intenzionalmente, entro un determinato periodo di tempo, il modello di sviluppo economico che regna da almeno 150 anni dalla rivoluzione industriale». In altre parole, la vera agenda si concentra sull’autorità politica. Il riscaldamento globale è solo l’amo.
    Abbiamo anche avuto modo di ascoltare la Figueres affermare che la democrazia è un sistema di governo scadente per combattere il cambiamento climatico. La Cina comunista, ha detto, è il modello migliore. Non stiamo parlando di fatti o di logica. Parliamo di un nuovo ordine mondiale sotto il controllo dell’Onu. Quest’ordine si oppone al capitalismo e alla libertà e ha fatto del catastrofismo ambientale un argomento familiare per raggiungere il suo obiettivo. La Figueres dice che, al contrario della Rivoluzione Industriale, «quella che sta avvenendo è una trasformazione centralizzata». Dal suo punto di vista, la divisione nelle opinioni sul riscaldamento globale negli Usa è «molto deleteria». Naturalmente. Nel suo mondo autoritario, non è ammesso spazio per la discussione o il disaccordo. Capiamoci, il cambiamento climatico è il campo di una battaglia che i totalitaristi e i loro accoliti non possono perdere. Come dice Timothy Wirth, presidente della Fondazione Onu: «Anche se la teoria (del cambiamento climatico) è sbagliata, faremo la cosa giusta in termini di politica economica e ambientale».
    Dopo aver guadagnato così tanto terreno, gli eco-catastrofisti non ne cederanno un centimetro. Dopo tutto, hanno messo le mani sull’Onu e hanno a disposizione tanti soldi. Hanno un alleato enormemente potente alla Casa Bianca. Hanno arruolato con successo accademici conformisti e media mainstream obbedienti e ingenui (la “Abc” e “Fairfax” in Australia) per far loro portare avanti la narrazione a discapito delle prove. Continueranno a dipingere il movimento sul cambiamento climatico come nato dal consenso spontaneo e indipendente di scienziati, politici e cittadini preoccupati, che credono che l’attività umana sia “in maniera estremamente probabile” la causa dominante del riscaldamento globale (“in maniera estremamente probabile” è un termine scientifico?). E continueranno a mobilitare l’opinione pubblica, utilizzando la paura e gli appelli alla moralità. Il sostegno dell’Onu verrà assicurato attraverso la promessa di redistribuzione di ricchezza dall’Occidente, anche se le sue prescrizioni di politica anti-crescita prolungheranno inutilmente la povertà, la fame, le malattie e l’analfabetismo nei paesi più poveri del mondo.
    La Figueres ha dichiarato a un recente summit sul clima a Melbourne che lei «contava veramente sulla leadership dell’Australia» perché si assicurasse che gran parte del carbone rimanesse nel suolo. Speriamo che, come il primo ministro indiano Narendra Modi, Tony Abbot non la ascolti. L’India conosce l’importanza dell’energia a basso costo e si prevede che superi la Cina come il leader mondiale di importazione di carbone. Persino la Germania si accinge a mettere in marcia il maggior numero di centrali elettriche a carbone degli ultimi 20 anni. Esiste la possibilità concreta che Figueres e coloro che condividono la sua ambizione di un potere centralizzato riusciranno nel loro intento. Mentre si avvicina la conferenza Onu di dicembre sul cambiamento climatico, verrà messa pressione sull’Australia perché firmi ulteriori trattati sul cambiamento climatico, che distruggeranno posti di lavoro. Resistere sarà politicamente difficile. Ma resistere dovremmo. Stiamo già pagando un inutile prezzo sociale ed economico per gesti vuoti. Quando è troppo, è troppo.
    (Martin Armstrong, “Quando gli ambientalisti ignorano la storia”, articolo apparso su “Weekend Australian” il 30 settembre 2019 e ripreso da “Voci dall’Estero”).

    Il clima è sempre cambiato da un decennio all’altro. Ci sono state grandi oscillazioni durante gli anni ’30. Abbiamo avuto il “dust bowl” (serie di tempeste di sabbia) durante l’estate e nel 1936 un freddo record. Nel 1936 l’ondata di freddo del Nord America, che colpì anche il Giappone e la Cina, è ancora oggi una delle più intense mai registrate nella storia. Non possiamo dare la colpa di quanto avvenne alle mamme che portavano in macchina i ragazzini a giocare a calcio, bruciando combustibili fossili. Le automobili erano ancora un lusso negli anni ’30. Semplicemente, non esiste alcuna prova di cambiamenti climatici causati dall’uomo. Nessuno è disposto a denunciare questa assurdità semplicemente mostrando le marcate oscillazioni di temperatura registrate nei secoli. Si tratta di un segreto ben celato, ma il 95% dei modelli climatici che, come ci viene detto, provano il legame tra le emissioni umane di CO2 e il catastrofico riscaldamento globale si sono rivelati, dopo circa due decenni di stasi nelle temperature, sbagliati. Non dovrebbe sorprendere. Ci siamo dovuti sorbire le stramberie dei catastrofisti climatici per circa 50 anni. Nel gennaio 1970, la rivista “Life”, basandosi su “solide prove scientifiche”, sosteneva che entro il 1985 l’inquinamento atmosferico avrebbe ridotto della metà la luce del Sole che raggiunge la Terra.

  • Giorni contati per il Conte-bis, Mario Draghi a Palazzo Chigi?

    Scritto il 22/10/19 • nella Categoria: segnalazioni • (5)

    Campane a morto per Giuseppe Conte, ormai in rotta con Di Maio e incalzato ogni giorno dall’abile manovratore Renzi. Occhio, avverte Zingaretti: se il Vietnam contro il premier e il governo giallorosso non si arresta, il Pd potrebbe rompere e tornare al voto, ricandidando come primo ministro proprio il professor-avvocato di Volturara Appula, l’unico – secondo l’impalpabile “fratello di Montalbano” – ad avere chance elettorali. Non la pensano così personaggi televisivi come Alan Friedman, secondo cui Conte sarebbe «un uomo vuoto», e lo stesso Paolo Mieli, per il quale “l’avvocato degli italiani” avrebbe ormai i giorni contati, non disponendo di un reale peso parlamentare da opporre alle intemperanze dei renziani e al crescente malpancismo di un Di Maio emarginato da Grillo e contestato dai suoi. Lo scrittore Gianfranco Carpeoro l’aveva vaticinato a settembre: qui si rischia di tornare a votare entro tre mesi, al più tardi a gennaio. Ora Carpeoro rilancia: il governo traballa, e le elezioni anticipate potrebbero essere evitate solo dall’eventuale piano-Draghi, cioè l’ipotesi di potere che vorrebbe insediato a Palazzo Chigi il presidente uscente della Bce, il cui ruolo dietro le quinte potrebbe essere destinato a crescere, incidendo direttamente sull’Italia ex gialloverde, delusa dal modestissimo Conte-bis e spiazzata dalla fulminea alleanza tra Renzi e Grillo.

  • Tv e 5 Stelle all’assalto: addosso a Salvini, Maglie e Le Iene

    Scritto il 15/10/19 • nella Categoria: segnalazioni • (24)

    Solo poltiglia italiana, dopo l’effimera stagione delle promesse gialloverdi tenute in vita dalle parole della Lega e smentite dai tradimenti a catena dei pentastellati. Impietoso il riflesso nell’acquario mediatico, dove si scivola ogni giorno più in basso. Tanto per non smentirsi, piuttosto che guardare in faccia la realtà, i 5 Stelle (dilaniati da dissidi interni dopo l’alleanza col Pd imposta da Grillo d’intesa con Renzi) se la prendono coi giornalisti non allineati, come Maria Giovanna Maglie. Su Twitter, in risposta a una critica a Virginia Raggi, l’attivista Marco Vaccari apostrofa l’ex corrispondente della Rai: «Ma che ca*** stai dicendo, giornalaia? Roma fa schifo per colpa degli idioti fannulloni imboscati incapaci ladri mafiosi collusi che hanno preceduto la Raggi». La risposta della Maglie: «Metodo 5 Stelle doc, nessuna responsabilità per il presente, quando tocca a loro: sempre colpa degli altri. E insulti a gogo, minacce di manette». Quindi, rivolta a Vaccari: «Ehi, fenomeno, la Raggi è sindaco da giugno 2016». In tre anni, non ha fatto praticamente niente. Eppure accende ancora i cuori degli hoolingan alla festa – mestissima – che i 5 Stelle hanno abborracciato a Napoli, attorno al fantasma di Di Maio. Solo che i fan hanno acceso un principio di rissa all’apparire di Filippo Roma, de “Le Iene”, accolto come un mascalzone provocatore.
    Tuona Vittorio Sgarbi: «Fascisti, pericolosi, minacciosi: una aggressione fisica che non ha precedenti». Aggiunge Sgarbi, «Si minimizza la violenza fascista dei 5 Stelle, mentre l’episodio d’intolleranza verso Gad Lerner a Pontida è stato stigmatizzato da chiunque». Prima ancora, «per giorni si era parlato del figlio di Matteo Salvini sulla moto d’acqua della polizia», gridando allo scandalo. Oggi, invece, «incredibilmente», si tace sulle intemperanze dei grillini a Napoli. Nel frattempo, migliaia di italiani hanno sottoscritto la protesta di Marco Moiso (Movimento Roosevelt) affidata a “Change.org”: la giornalista de “La7” è accusata di aver trasformato “Otto e mezzo” in un poligono di tiro nel quale esercitare la propria faziosità a senso unico, anche ricorrendo al bullismo del “body shaming” contro Salvini, cui è stato contestato il fisico non esattamente palestrato. Peggio: la Gruber permise a Mario Monti di mentire spudoratamente sulla massoneria (“non so nemmeno cosa sia”), evitando peraltro di citare la fonte della notizia, Gioele Magaldi, che aveva appena dichiarato l’identità massonica di Monti (superloggia reazionaria “Babel Tower”).
    La notizia della petizione contro la Gruber, invitata ad abbandonare la conduzione della trasmissione, è stata ripresa da “Affari Italiani”, da “Blasting News” e anche da “Libero”, il quotidiano di Vittorio Feltri. Basta comunque cambiare canale per scoprire che, Gruber o meno, la musica è la stessa: la suona, su “Rai 2”, il duetto composto da Fabio Fazio e Rula Jebreal. Nello studio di “Che tempo che fa” aleggia sempre lo stesso spettro, quello di Matteo Salvini. «Nessuno nasce razzista, bisogna imparare ad essere razzisti e ad odiare», premette la giornalista. Aggiunge: la crisi economica non aiuta le famiglie a essere generose coi migranti. Poi spara: «Purtroppo siamo ancora vittime della propaganda xenofoba di questi soggetti che utilizzano la retorica degli anni ‘20 e anni ‘30». A Napoli, i grillini insultano e minacciano l’inviato delle “Iene”, ma a tener banco da Fazio sono ancora le offese rivolte a Gad Lerner dai leghisti di Pontida. «Lui è un italiano ma di religione ebraica, quello che è successo – dice Rula – ti fa capire che la divisione non sarà solo contro l’immigrazione ma anche contro chi come te critica i sovranisti, contro chi come me ha la pelle diversa, magari contro omosessuali, handicappati e altro». Nientemeno.
    Quello che Fazio e la sua ospite si dimenticano di dire è che Lerner, come ricordato dallo stesso Salvini intervistato dalla Gruber, si augurò per iscritto la morte del leader leghista. Una battuta veramente infelice: peccato che Salvini non fosse nei paraggi, scrisse Lerner giorni fa, commentando l’esplosione incidentale di un missile russo. «Non è carino, che qualcuno si auguri la tua morte», ha scandito Salvini, dalla Gruber. «Chiederò scusa a Lerner per quello che è accaduto a Pontida dopo che Lerner avrà chiesto scusa a me per essersi augurato la mia morte». Questo è il tenore della narrazione giornalistica sulla politica italiana, mentre i carri armati di Erdogan marciano sul Kurdistan siriano e “l’Europa” fa scena muta, insieme alla Nato. Non solo: Bruxelles fa capire che, al di là delle promesse, non accetterà facilmente di accogliere migranti sbarcati in Italia. E mentre il governo giallorosso avvia l’ennesima, penosa lotteria per racimolare spiccioli e gestire il declino italiano a suon di tasse, Giuseppe Conte è nella bufera per il sospetto che abbia abusato dei servizi segreti per fare un favore a Trump. L’orizzonte epocale del nostro paese? Ovvio, le elezioni regionali in Umbria: Perugia, caput mundi.

    Solo poltiglia italiana, dopo l’effimera stagione delle promesse gialloverdi tenute in vita dalle parole della Lega e smentite dai tradimenti a catena dei pentastellati. Impietoso il riflesso nell’acquario mediatico, dove si scivola ogni giorno più in basso. Tanto per non smentirsi, piuttosto che guardare in faccia la realtà, i 5 Stelle (dilaniati da dissidi interni dopo l’alleanza col Pd imposta da Grillo d’intesa con Renzi) se la prendono coi giornalisti non allineati, come Maria Giovanna Maglie. Su Twitter, in risposta a una critica a Virginia Raggi, l’attivista Marco Vaccari apostrofa l’ex corrispondente della Rai: «Ma che ca*** stai dicendo, giornalaia? Roma fa schifo per colpa degli idioti fannulloni imboscati incapaci ladri mafiosi collusi che hanno preceduto la Raggi». La risposta della Maglie: «Metodo 5 Stelle doc, nessuna responsabilità per il presente, quando tocca a loro: sempre colpa degli altri. E insulti a gogo, minacce di manette». Quindi, rivolta a Vaccari: «Ehi, fenomeno, la Raggi è sindaco da giugno 2016». In tre anni, non ha fatto praticamente niente. Eppure accende ancora i cuori degli hoolingan alla festa – mestissima – che i 5 Stelle hanno abborracciato a Napoli, attorno al fantasma di Di Maio. Solo che i fan hanno acceso un principio di rissa all’apparire di Filippo Roma, de “Le Iene”, accolto come un mascalzone provocatore.

  • Erdogan spietato con i curdi. Invece gli altri sono meglio?

    Scritto il 12/10/19 • nella Categoria: idee • (1)

    Ci sono approfondimenti talmente contrari al comune sentire che scontentano tutti: destra, sinistra, moderati, massimalisti, patrioti, nazionalisti, sovranisti ed iperliberisti. Ebbene, l’approfondimento che segue appartiene proprio alla categoria degli “inaccettabili”. Tuttavia, come diceva Franz Kafka, bisogna anche sforzarsi di leggere testi che sono un pugno nello stomaco. Se vi siete abituati a leggere solo le informazioni che vengono dai media tradizionali, sconsiglio dunque la lettura di quel che segue. Da appassionato di storia, ho sempre nutrito una certa simpatia per le cause separatiste. Che si tratti della causa basca o catalana in Spagna, di quella irlandese nel Nord dell’isola o di quella del Donbass in Ucraina, a mio modo di vedere le comunità hanno il diritto di autodeterminarsi. Ci sono molte importanti eccezioni, però, perchè in alcuni casi il separatismo è solo anticamera di guerre civili, e quelle che a prima vista possono sembrare cause separatiste, nascondono lotte di potere interne alle comunità, oppure torbide relazioni con paesi del tutto estranei. Il caso della Cecenia è in tal senso illuminante: non si trattò affatto di guerre per l’autodetermianzione del popolo ceceno, ma di una guerra civile sponsorizzzata.
    Dunque, i distinguo servono eccome, altrimenti si rischia di non capirci nulla e di fare, come si suol dire, di tutta l’erba un fascio. In queste ore il presidente turco Erdogan ha ordinato un’operazione militare nel nord della Siria al fine di annullare l’operatività dei militanti curdi. Erdogan maschera questo intervento con la solita manfrina della lotta al terrorismo. Questo tema (il terrorismo), viene usato da tutti, senza eccezioni, per reprimere gli oppositori internazionali. I Bush contro Iraq e Afghanistan, Sarkozy contro la Libia, Umberto I e Bava Beccaris contro i manifestanti a Milano, l’austriaco Cecco Beppe contro i serbi e giù giù fino a Metternich contro Mazzini. Dunque, l’argomentazione di Erdogan non regge così come non reggevano quelle di Obama, di Clinton e financo di James Brooke contro Sandokan. C’è però almeno un aspetto per il quale faccio seriamente fatica a criticare l’intervento di Erdogan. Ed è la consapevolezza che il Medioriente è la polveriera del mondo. I turchi hanno dominato, amministrato e costruito infrastrutture in Medioriente per più di 500 anni di storia moderna. Le aree confinanti con l’attuale Turchia erano dentro la Turchia stessa (alias Impero Ottomano) fino al 1922 e lo erano per l’appunto, da oltre mezzo millennio. Gli stati mediorientali attuali: Siria, Libano, Israele, Giordania, Arabia Saudita sono un’invenzione geometrica anglofrancese, realizzata a tavolino dopo la Prima Guerra Mondiale attraverso il trattato Sykes-Picot.
    Quel trattato ha conferito potere alla tribù più retriva dell’area, i wahabiti (oggi “sauditi”) ed è una divisione innaturale, che non tiene conto delle culture delle varie altre tribù. Detto diversamente, il caos che regna in Medioriente da quasi un secolo a questa parte è interamente imputabile alle proiezioni coloniali anglofrancesi, non ai turchi che furono storicamente più tolleranti in quelle aree di quanto non lo sono oggi le tribù autoctone eterodirette (e lo ripeto: eterodirette prima da francesi e inglesi; poi da americani ed israeliani). Com’è logico che sia, dal 1922 – anno della dissoluzione dell’Impero Ottomano – ad oggi, di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, e non è posssibile far finta di nulla. I turchi si sono macchiati di crimini orrendi, in primis il genocidio degli armeni durante la Prima Guerra Mondiale, avvenuto per opera di un gruppo di fanatici ottomani ai danni delle popolazioni storicamente più vicine ai russi in quel periodo: gli armeni, appunto.
    Non si trattò affatto però, come Hollywood vorrebbe far credere, della natura malvagia dei turchi: poco prima i coloni inglesi avevano perseguitato e sterminato fino all’estinzione la stragrande maggioranza delle tribù pellerossa in Nord America e costretto i neri africani a fare da schiavi. I belgi avevano pochi anni prima massacrato milioni di congolesi ed i tedeschi di lì a poco si sarebbero interessati agli ebrei in un modo a dir poco maniacale e demoniaco. Sì, insomma, se i turchi sono cattivi, trovatemi quelli buoni, che io ancora non ne ho conosciuti. Venendo in modo più stringente alla questione curda, al separatismo della regione del Kurdistan, ecc, la vicenda è solo apparentemente complessa. Quand’è che – storicamente – una regione separatista realizza il suo progetto e diventa uno Stato nazionale? La risposta è duplice: da un lato, ciò avviene quando quella regione riesce a farsi riconoscere come Stato dalla stragrande maggioranza degli altri paesi. In subordine, ma neanche tanto, quando un’altra nazione la aiuta in questo tortuoso e rischioso percorso. In Iraq, in Siria ed in Turchia – cioè nei paesi ove alla faccia del trattato Sykes-Picot vivono i curdi – la comunità ha fatto una scelta precisa e inequivocabile dicendo che “ad aiutarci in questa impresa saranno gli Stati Uniti d’America! Non importa se siamo comunisti, non importa se siamo antimperialisti! Sarà l’America a liberarci dai turchi e da Assad”.
    Al netto di tale ingenuità (fidarsi degli americani in geopolitica è come fidarsi di un promotore finanziario in banca), i siriani lealisti hanno teso una mano ai curdi in diverse occasioni. Com’è noto, date le vicende in Siria e la chiamata del leader Assad dei russi in suo soccorso, cercare una collaborazione con Assad per i curdi avrebbe significato anche cercare una collaborazione con Putin. I curdi hanno declinato gentilmente l’invito preferendo gli americani e, ora, tutti ad allargarsi la bocca e stracciarsi le vesti perchè gli americani li hanno mollati. Ma dire che i curdi hanno avuto sfortuna puntando sul cavallo sbagliato non basta. C’è dell’altro. Anche se gli americani tramite milizie ribelli l’avessero spuntata contro i siriani lealisti, che ne sarebbe stato del Kurdistan? L’ipotesi più probabile è che avrebbero realizzato una microscopica autonomia in perenne contrasto con la Turchia. Io non trascurerei tanto facilmente il fatto che Erdogan, appena tre anni or sono, ha represso un colpo di Stato militare contro di lui. Non se ne parla più, ma che gli americani non sapessero nulla di quel colpo di stato, per cortesia, lo andate a raccontare ai vostri bambini, la sera, prima di addormentarsi e dopo avergli letto quella di Biancaneve.
    Ora, immaginatevi questo scenario: una Turchia sempre più vassalla dell’America dopo la fine di Erdogan. Una Siria inesistente ed in mano all’Isis. Che ne sarebbe stato del laico e comunista Kurdistan? Non sarebbe forse diventato un Israele dei poveri, ulteriore elemento di destabilizzazione e di attentati? Gli islamisti vittoriosi non se lo sarebbero pappato in un attimo? Conclusione: i curdi sono stati pagati per anni dagli americani per destabilizzare l’area nella speranza che i vari gruppi di ribelli rovesciassero la Siria con la guerriglia e la Turchia con il colpo di stato. Le cose non sono andate così ed ora Erdogan fa quello che tutti farebbero: riportare la stabilità con le cattive col tacito consenso di Putin, Assad e Trump. In cambio, Erdogan acquista armi dai russi, non metterà in discussione il ruolo di Assad a Damasco e custodirà gli jihadisti catturati dagli americani per fare un piacere anche a Trump, che ha dato il via libera. E’ sempre difficile giustificare umanamente un intervento militare. Ma a comprendere Erdogan non ci vuole niente.
    (Massimo Bordin, “La versione di Erdogan”, dal blog “Micidial” del 10 ottobre 2019).

    Ci sono approfondimenti talmente contrari al comune sentire che scontentano tutti: destra, sinistra, moderati, massimalisti, patrioti, nazionalisti, sovranisti ed iperliberisti. Ebbene, l’approfondimento che segue appartiene proprio alla categoria degli “inaccettabili”. Tuttavia, come diceva Franz Kafka, bisogna anche sforzarsi di leggere testi che sono un pugno nello stomaco. Se vi siete abituati a leggere solo le informazioni che vengono dai media tradizionali, sconsiglio dunque la lettura di quel che segue. Da appassionato di storia, ho sempre nutrito una certa simpatia per le cause separatiste. Che si tratti della causa basca o catalana in Spagna, di quella irlandese nel Nord dell’isola o di quella del Donbass in Ucraina, a mio modo di vedere le comunità hanno il diritto di autodeterminarsi. Ci sono molte importanti eccezioni, però, perchè in alcuni casi il separatismo è solo anticamera di guerre civili, e quelle che a prima vista possono sembrare cause separatiste, nascondono lotte di potere interne alle comunità, oppure torbide relazioni con paesi del tutto estranei. Il caso della Cecenia è in tal senso illuminante: non si trattò affatto di guerre per l’autodetermianzione del popolo ceceno, ma di una guerra civile sponsorizzzata.

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