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Archivio del Tag ‘evasione’

  • Carpeoro: se il governo tiene duro, l’Ue subirà una lezione

    Scritto il 20/10/18 • nella Categoria: idee • (38)

    Se non hanno scheletri negli armadi, Salvini e Di Maio possono tenere testa a Bruxelles. E se resistono, alla fine possono vincere. Letteralmente: «Se il governo tiene duro, l’Europa subirà una dura lezione». Parola di Gianfranco Carpeoro, scrittore e saggista, solitamente prudente sul governo gialloverde: un’alleanza anomala e provvisoria, costruita per fare di necessità virtù dopo lo spiazzante risultato elettorale del 4 marzo, che ha rottamato Pd e Forza Italia. Ora però le cose sono cambiate: il braccio di ferro con l’Unione Europea sul deficit al 2,4% nella previsione 2019 del Def potrebbe rappresentare una sfida estremamente seria. La prima vera crepa nel cosiddetto Muro di Bruxelles, finora intoccabile. Strano, che Di Maio litighi con Salvini proprio mentre la Commissione Ue spara contro l’Italia? Un’abile manovra per distrarre l’opinione pubblica dall’attacco dell’Ue sul deficit? «No, quello tra Salvini e Di Maio è uno scontro su una cosa importante», sostiene Carpeoro: «I 5 Stelle sono giustizialisti, mentre Salvini vuole salvare il suo elettorato – che è fatto di imprenditori, in una buona quota evasori». Carpeoro crede si sia trattato di un incidente di percorso: «Per tutelare il suo elettorato, Salvini ha deciso di dare alla “pace fiscale” una certa veste, e Di Maio non voleva. Ma la ricomporranno, questa lite».
    Semplicemente, aggiunge Carpeoro in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, i due azionisti del governo «non si sono chiariti», soprattutto perché «in questo periodo non si sono parlati, dato che Salvini è sempre in Trentino», impegnato nella campagna per le elezioni regionali. «Alla fine, grazie a Giorgetti, il decreto sulla parte fiscale è uscito come lo voleva Salvini (e come non lo voleva Di Maio)». “Elementare”, quindi, il risentimento del leader grillino. Che però, secondo Carpeoro, è destinato a rientrare, visto che «i due ormai hanno maturato un rapporto abbastanza forte», capace di tenerli insieme. Al punto che, sempre secondo Carpeoro, i due alfieri gialloverdi sono a un passo dall’incassare un successo clamoroso: se il governo Conte non si piega al diktat di Bruxelles, potrebbe vincere: davanti a tutta l’Europa, l’Italia dimostrerebbe che gli oligarchi della Commissione non sono imbattibilli. «Avranno la forza di tenere duro? Se non hanno scheletri negli armadi e non vengono ricattati adeguatamente, sì. E se così fosse – aggiunge Carpeoro – paradossalmente, quello che voleva fare Bettino Craxi prima di essete “archiviato” lo farebbero questi personaggi. La loro è una linea craxista, e io ne sono soddisfatto».
    Da sempre convinto socialista, Carpeoro – dirigente del Movimento Roosevelt e autore di saggi illuminanti sulle tante manipolazioni del potere – insiste sul pericolo (teorico) degli “scheletri negli armadi” dei gialloverdi: «Se  ne non ne hanno, possono resistere. Se ne hanno, faranno marcia indietro». Non scordiamoci che siamo in Italia: «Da noi i dossier e gli archivi funzionano. Ricordo che, anni fa, una legge finanziaria molto importante fu cambiata perché l’allora presidente del Consiglio (non dico il nome, per evitare querele) aveva avuto la disaccortezza di non evitare che certe sue foto con una minorenne – anzi, con un congruo numero di minorenni – finissero nelle mani sbagliate». Beninteso: «Io dei fatti privati degli attuali politici non so nulla», sottolinea Carpeoro, che ribadisce: «Se non sono ricattabili, per qualunque motivo, e se tengono duro, alla fine questa battaglia la vincono, i signori Conte, Salvini e Di Maio». Nonostante gli altri possibili inciampi interni? Due nomi: il potente Giancarlo Giorgetti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio (l’ipotetica “manina” evocata da Di Maio sul condono fiscale) e il presidente della Camera, il grillino Roberto Fico, che critica la linea dura di Salvini sui migranti. «Fico è un idealista e come tale si comporta», secondo Carpeoro. E Giorgetti? «Fa parte di un establishment sicuramente lontano da Di Maio e dallo stesso Salvini, anche se poi Salvini l’ha comunque utilizzato».
    Ostacoli interni e, soprattutto, nemici esterni: come George Soros. Intervistato da un giornale israeliano, Marcello Foa avrebbe accusato Soros di “pagare” europarlamentari del Pd, salvo poi correggersi: ci sono parlamentari europei del Pd “che sostengono Soros”. «Ha fatto bene a correggersi – dice Carpeoro – perché da anni Soros non ha più bisogno di pagare, per avere favori (che infatti riceve). E vorrei precisare – aggiunge – che Foa ha detto la verità: ancora una volta, il neo-presidente della Rai l’ho trovato condivisibile e coerente». Il magnate Soros, principe della peggiore speculazione finanziaria, è notoriamente il patron di Open Society, fondazione che finanzia le Ong incaricate di trasferire in Europa i migranti africani. Buonismo ipocrita: si predica l’accoglienza di profughi che provengono da paesi che l’Europa stessa depreda. La Francia di Macron sottrae ogni anno 500 miliardi di euro a 14 sue ex colonie, ma ovviamente il cattivo è Salvini, secondo i media mainstream che “sostengono” la dottrina Soros. Quanto incide, davvero, il supermassone Soros? «Tanto», ammette Carpeoro, «ma – aggiunge – la battaglia si può vincere». Nessuno è imbattibile, neppure Soros: «E’ un figlio del potere, del dominio. Ma, a prescindere dai suoi interessi, è comunque anche lui manovrato».

    Se non hanno scheletri negli armadi, Salvini e Di Maio possono tenere testa a Bruxelles. E se resistono, alla fine possono vincere. Letteralmente: «Se il governo tiene duro, l’Europa subirà una dura lezione». Parola di Gianfranco Carpeoro, scrittore e saggista, solitamente prudente sul governo gialloverde: un’alleanza anomala e provvisoria, costruita per fare di necessità virtù dopo lo spiazzante risultato elettorale del 4 marzo, che ha rottamato Pd e Forza Italia. Ora però le cose sono cambiate: il braccio di ferro con l’Unione Europea sul deficit al 2,4% nella previsione 2019 del Def potrebbe rappresentare una sfida estremamente seria. La prima vera crepa nel cosiddetto Muro di Bruxelles, finora intoccabile. Strano, che Di Maio litighi con Salvini proprio mentre la Commissione Ue spara contro l’Italia? Un’abile manovra per distrarre l’opinione pubblica dall’attacco dell’Ue sul deficit? «No, quello tra Salvini e Di Maio è uno scontro su una cosa importante», sostiene Carpeoro: «I 5 Stelle sono giustizialisti, mentre Salvini vuole salvare il suo elettorato – che è fatto di imprenditori, in una buona quota evasori». Carpeoro crede si sia trattato di un incidente di percorso: «Per tutelare il suo elettorato, Salvini ha deciso di dare alla “pace fiscale” una certa veste, e Di Maio non voleva. Ma la ricomporranno, questa lite».

  • Perché Di Maio spacca il governo mentre l’Ue ci bombarda?

    Scritto il 19/10/18 • nella Categoria: segnalazioni • (9)

    La situazione è grave, ma non seria. Ricorda da vicinissimo quella che ispirò il noto aforisma di Flaiano, modellato su misura per la politica bizantina, a doppio fondo, della Prima Repubblica. Ricapitolando: Di Maio prima congeda il decreto fiscale “leghista” in Consiglio dei ministri, poi cambia idea e s’inventa che il documento sarebbe stato manipolato durante il viaggio verso il Quirinale. Salvini s’infuria, sapendo che le cose non stanno affatto così. E il governo rischia di spezzarsi in due, proprio nel momento più difficile, cioè l’attesissimo braccio di ferro con Bruxelles. Uno scontro annunciato da due super-nemici dell’Italia, il francese Macron che “trasloca” migranti oltre il Monginevro e spedisce addirittura i suoi soldati a fermare cittadini italiani sul suolo italiano, e il tedesco Oettinger (quello secondo cui saranno “i mercati” a insegnare agli italiani come votare) che anticipa il roboante “niet” della Commissione, affidato a Moscovici: impossibile tollerare il Def con quel 2,4% di deficit previsto per il 2019. In pratica: il governo italiano, figlio di regolari elezioni, deve subire l’affronto di un potere “alieno”. Ma, anziché fare quadrato contro gli oligarchi di Bruxelles, Berlino e Francoforte, si mette a litigare al proprio interno, proprio adesso.

  • Onfray: Besson, evasori e lacchè. L’oscena corte di Macron

    Scritto il 11/10/18 • nella Categoria: idee • (5)

    Vostra Altezza, Vostra Eccellenza, Vostra Serenità, Mio caro Manu, Mio Re, la stampa ha da poco riferito che tu hai nominato un mascalzone per rappresentare la nazione a Los Angeles. E, unico titolo di nobiltà diplomatica, dicono le malelingue, i gelosi e gli invidiosi, sarebbe un libro agiografico sulla tua campagna presidenziale. Al di fuori di questo fatto d’armi, tanto poco noto che nessuno ne conosce il titolo, la tua penna è una di quelle che si trovano nelle parti meno nobili della professione: il coccige, poiché è quella che manifesta più sovente il carattere inerente alla comunicazione istituzionale: la prosternazione. Da Sartre a BHL presso Sarko (dopo Mao), da Aragon a André Glucskmann presso lo stesso Sarko (anche lui dopo Mao), da Drieu de La Rochelle a Sollers presso Balladur (parimenti dopo Mao), da Brasillach a Kristeva presso il Bulgaro Jivkov (anche lei dopo Mao), gli ultimi cento anni ne hanno visti di scrivani dotati… per la genuflessione politica! Philippe Besson rientra in questa vecchia categoria dei valletti di penna, ma sappiamo ormai in che tipo di piumaggio risulti rilevante questo giovane uomo. Questo tipo di penna non è quello dei più talentuosi ma quello dei più venduti – io parlo dell’uomo, non dell’autore.

  • Fondi-fantasma, Ue: il bilanco del Sacro Romano Impero

    Scritto il 10/10/18 • nella Categoria: segnalazioni • (12)

    Tutti sappiamo che l’Europa ci frega, ma non immaginiamo fino a che punto la truffa è raffinata. Oh, certo, sì… paghiamo con un euro di debito una banca, per la quale, se quella moneta vale 10 centesimi, è già tutto grasso che cola. Anche una banconota da 500 euro costa pressappoco qualche centesimo, ma il guadagno è maggiore: se poi è denaro elettronico… puf! Non costa niente. E ti sei indebitato per il valore nominale. Un sistema come questo, però, richiede che la gente ci creda, che non possa farne a meno, che abbia paura se taglia i legami con la banca strozzina. Per fare questo, ci vogliono fior di politici e di giornalisti: e chi paga? Sempre noi, paghiamo anche le fruste dei nostri aguzzini. Mai dato uno sguardo ai bilanci dell’Ue? L’Ue è “prodiga e trasparente”, quando si tratta di mostrare quanto sono buoni e onesti con noi, salvo che – come in ogni gioco di un prestigiatore – il trucco c’è, ma non si vede. E non parlo d’ingegneria finanziaria: è più semplice, ma efficientissimo. Vediamo, anzitutto, quanto versano e ricevono i vari paesi, annualmente, all/dall’Ue, considerando che una parte viene restituita sotto forma di finanziamenti. Ogni anno (dati 2015) la “tassa” che l’Italia paga per rimanere nell’Ue è di circa 14-15 miliardi di euro, mentre quelli che ci ritornano sono circa 12-13.
    Così, adesso abbiamo ben cinque livelli di tassazione: Europa, Stato italiano, Regioni, Province (ora “Enti di vasta area”) e Comuni: una bella zuppa, non c’è che dire. Perché, se l’Italia è un paese “in gravi difficoltà” per quanto riguarda il debito pubblico, non riceve più di quanto dà? La Grecia, difatti è nel novero dei “riceventi”, come del resto l’Estonia, che non ha praticamente debito pubblico. Mistero. Chissà poi perché la Spagna riceve parecchio di più rispetto a quanto versa… Insomma, è un guazzabuglio senza senso, dove sembra che più dei dati oggettivi – di bilancio o di bisogno – contino di più appoggi ed alleanze con paesi potenti. Un altro aspetto è che – con un paio di eccezioni – tutti i paesi dell’area euro sono a saldo negativo, mentre i paesi fuori dall’euro sono a saldo positivo: la Polonia, ad esempio, riceve 9 miliardi in più di quanto versa, (l’ammontare del RdC tanto contestato all’Italia), che insieme alla Grecia non ha mai avuto un serio assegno di disoccupazione, quale il RdC è. Si vede che il detto “se lo conosci lo eviti”, riferito all’euro, si è fatto strada e… devono far vedere che sono prodighi! Ci piacerebbe anche sapere come mai il signor Juncker s’arrabbia così tanto per l’Italia quando il suo paese – che è un paradiso fiscale nel bel mezzo dell’Europa – versa pochissimo: eh già, i lussemburghesi sono pochi e il Pil è scarso… in compenso, i bilanci delle banche sono astronomici.
    Tutti i paesi a forte penetrazione economica tedesca (soprattutto industriale) sono a saldo positivo: così è anche per la Spagna, dove i capitali germanici hanno investito in lungo ed in largo. Ma… ciò che riceviamo? Sono pur sempre una dozzina di miliarduzzi… Vediamo come l’Ue li ripartisce per aree economiche. L’Ue riceve, complessivamente, circa 155 miliardi l’anno dagli Stati membri, però i bilanci sono settennali. Perché? Forse un “ricordo” dei piani quinquennali sovietici? Mistero. Ciò che più è importante è notare la ripartizione del bilancio di previsione 2014-2020, che supera la fantasmagorica cifra di 1.000 miliardi di euro e che aumenta ogni anno di 4 miliardi. Beati loro: lo sanciscono per editto, come gli imperatori del Sacro Romano Impero. Curiosità (ma non troppo): l’Ue spende – ogni anno – circa 4 miliardi in compensi, cioè stipendi. Riteniamo che, nella cifra, ci siano sia i politici che i burocrati… oppure i secondi sono pagati con i 10 miliardi annui dell’amministrazione? E Global Europe, cos’è? Sono più di 9 miliardi annui spesi per l’immagine dell’Ue nel mondo e per le spese conseguenti: un bel mistero, visto che l’Ue non ha un’unica politica estera e non è nemmeno un’entità statuale, federale o confederale. E allora?
    Rimangono pochi spiccioli – circa 2,5 miliardi l’anno – per sicurezza e cittadinanza e ben 20 miliardi l’anno per crescita e lavoro. Ma veniamo alle due ripartizioni principali, che sono, rispettivamente, la prima più legata agli aspetti industriali (Coesione, ecc) e la seconda all’agricoltura, che si “beccano” la prima circa 50 miliardi l’anno e la seconda addirittura circa 60 miliardi tondi tondi l’anno. Cosa ci fanno? Beh, se notate la sfilza di finanziamenti a fondo perduto, capite subito che si tratta di soldi dati a soggetti pubblici o altri grandi investitori privati. L’Europa, ai piccoli imprenditori o, comunque, a qualcuno che non abbia dietro “consistenti” appoggi politici, non dà una mazza. Due brevi esempi. Due ragazze avevano deciso d’avviare un’attività legata al loro territorio (Langa), ossia una stalla dove allevare capre per fare formaggi caprini: ci sono riuscite – e adesso vendono le loro formaggette – ma le hanno aiutate le loro famiglie. Pur bussando più volte a molte porte, non hanno ottenuto nulla dalla “grande” Europa. Nella seconda fui coinvolto personalmente.
    L’idea, partita da una parrocchia, era quella di creare una cooperativa fra ex carcerati che si occupasse di restauro ligneo: fui interpellato come esperto del settore (provengo da una famiglia d’antiquari) insieme ad un amico restauratore. Credevamo, essendo le uniche persone esperte, di dirigere la struttura ma non era così: la direzione generale della struttura era affidata ad un “diacono” che nessuno conosceva. Incontrai questo “diacono”, m’offrì una grappa e mi disse: «Tanto è inutile che voi pretendiate la direzione, perché “noi” riceveremo i fondi europei, voi mai». Bevvi d’un sorso la grappa e lo salutai. A mai più. Quella enorme massa di denaro che viene elargita per vari “progetti” non è altro che una colossale regalia al potere politico di una nazione, allo scopo di garantirsi la fedeltà assoluta ai dettami europei. I mille capannoni abbandonati, cosa furono? Altrettante tangenti o, comunque, “provvigioni” ottenute da “progetti” che erano inconsistenti, privi d’utilità economico-sociale, buoni solo per finanziare questo o quello, europeisti convinti, ovvio.
    Infine, c’è la bella favola del Fondo Sociale Europeo – il quale, per sua definizione, potrebbe essere usato anche per il RdC – ma no, non s’ha da fare. Perché? Perché la gestione del Fse era delle Regioni, poi delle Province… e adesso? Sono i famigerati “centri per l’impiego”, ossia posti dove una miriade di burocrati s’affannano per farti credere che il lavoro si troverà… a patto di fare quel certo corso d’aggiornamento, tenuto dal luminare universitario, pagato profumatamente, mediante il quale magari ti daranno anche un punteggio. E tu mangiaci, col punteggio. Mentre loro sono i veri destinatari del Fse: erano la base elettorale dei partiti che prima erano al governo e che temono un’affermazione dei sovranisti alle prossime elezioni europee. Finisce la pacchia? Vedremo. Un bilancio europeo siffatto serve soltanto a un trasferimento di denaro, che passa dai fondi pubblici alle tasche private: difatti, l’Europa è il continente che più esporta capitali nei paradisi fiscali (Isole Cayman, ecc). Ben 2.600 miliardi di dollari! Pronti, all’evenienza, ad acquistare stock di debito pubblico di un certo paese, oppure a venderli: così si ottiene il controllo di un continente, mediante lo spread ed il tipico atteggiamento dei cravattari.
    Del resto, cosa ci si può aspettare da un uomo (Juncker) che ha promosso l’elusione fiscale per le grandi aziende, nel suo paese e nel resto d’Europa, documentata da un’inchiesta di ben 80 giornalisti di 26 paesi, e un processo nel quale i giudici (lussemburghesi) hanno condannato…i giornalisti che avevano indagato?! Ora, torniamo a noi ed a quel famoso 2,4% che ha fatto infuriare Juncker: una nazione, pesantemente indebitata (come quasi tutti i grandi paesi europei), decide – dopo anni d’inconcludenti restrizioni economiche – di provare la via keynesiana, ossia di fornire risorse alle fasce più deboli della popolazione affinché, visto che quei soldi finiranno spesi per necessità (e non alle Cayman!), si possa innalzare la crescita e, in questo modo, ridurre il rapporto debito-Pil. E’ un tentativo plausibile? L’alternativa? Continuare in ristrettezze con il debito che sempre aumenta? Crediamo che Juncker sia arrabbiato, perché loro campano proprio sul debito altrui, come gli usurai: se qual debito non ci fosse, si dovrebbe inventarlo! Però, c’è un però.
    Per la prima volta sono giunti al potere partiti anti-europeisti: non tanto per principio, quanto per la miseria che è diventata questa Europa, che va sempre peggio, nella quale l’Indice di Gini (la disuguaglianza sociale) è sempre in aumento, nella quale in ogni paese s’avvertono solo “necessità di tagliare”, via welfare, via scuole, via ospedali… Il guaio è che è capitato in un grande paese: l’Italia. Al punto che, se si dovesse giungere ad uno scontro veramente duro, quel paese potrebbe sottoporre ai suoi elettori un referendum consultivo (come per il referendum consultivo per l’adesione, nel 1989) e decidere, vista l’impossibilità di rimanere insieme, d’andarsene. E sarebbe la fine dell’Unione Europea. Alcuni burocrati europei l’hanno capito (Moscovici, ad esempio, più “morbido”) mentre Juncker – che non è un gran politico, la sua formazione è prevalentemente economica – sembra non volerlo capire. Alle prossime elezioni europee lo capirà: coraggio, Juncker, non è mai troppo tardi!
    (Carlo Bertani, “I bilanci del Sacro Romano Impero”, dal blog di Bertani del 2 ottobre 2018).

    Tutti sappiamo che l’Europa ci frega, ma non immaginiamo fino a che punto la truffa è raffinata. Oh, certo, sì… paghiamo con un euro di debito una banca, per la quale, se quella moneta vale 10 centesimi, è già tutto grasso che cola. Anche una banconota da 500 euro costa pressappoco qualche centesimo, ma il guadagno è maggiore: se poi è denaro elettronico… puf! Non costa niente. E ti sei indebitato per il valore nominale. Un sistema come questo, però, richiede che la gente ci creda, che non possa farne a meno, che abbia paura se taglia i legami con la banca strozzina. Per fare questo, ci vogliono fior di politici e di giornalisti: e chi paga? Sempre noi, paghiamo anche le fruste dei nostri aguzzini. Mai dato uno sguardo ai bilanci dell’Ue? L’Ue è “prodiga e trasparente”, quando si tratta di mostrare quanto sono buoni e onesti con noi, salvo che – come in ogni gioco di un prestigiatore – il trucco c’è, ma non si vede. E non parlo d’ingegneria finanziaria: è più semplice, ma efficientissimo. Vediamo, anzitutto, quanto versano e ricevono i vari paesi, annualmente, all/dall’Ue, considerando che una parte viene restituita sotto forma di finanziamenti. Ogni anno (dati 2015) la “tassa” che l’Italia paga per rimanere nell’Ue è di circa 14-15 miliardi di euro, mentre quelli che ci ritornano sono circa 12-13.

  • Galloni: perché l’Italia attira e sfrutta lavoratori clandestini

    Scritto il 24/9/18 • nella Categoria: segnalazioni • (25)

    La Guardia di Finanza ha arrestato alcuni malviventi marocchini che gestivano diversi extracomunitari, prevalentemente clandestini, occupati in attività agricole nel forlivese: paghe fino a 6 euro al giorno per giornate di 14 ore di lavoro agricolo durissimo. Prima considerazione: se non ci fossero regole nel mondo del lavoro, il liberismo sfrenato porterebbe a rendere “normali” situazione come quella descritta. Seconda considerazione: gli imprenditori italiani hanno bisogno di lavoratori così sfruttati per tenere bassi i costi di produzione o per realizzare sovraprofitti? Terza considerazione: se è per tenere bassi i costi (e non importare prodotti a basso prezzo, ad esempio dal Nordafrica), non sarebbe meglio cambiare modello economico e basarsi sullo sviluppo locale, l’autoproduzione, i km zero anche introducendo monete complementari che spiazzino le merci della globalizzazione?
    Quarta considerazione: se è per realizzare un sovraprofitto, allora è necessario stabilire minimi salariali tali da interessare l’assorbimento di disoccupati locali e rafforzare i controlli amministrativi perché il supersfruttamento dei lavoratori venga bandito. Conclusione: prima bisogna stabilire il salario minimo e farlo rispettare anche con la forza dello Stato; poi e solo poi, valutare se non ci sono lavoratori disponibili, ovvero se non è meglio modificare il modello economico. Nel senso di favorire la sostituzione delle importazioni anche attraverso il pratico strumento della introduzione, a livello locale, di una valuta di basso pregio, che possa circolare solo su un territorio circoscritto (all’incirca un quarto o un quinto di una provincia media) garantendo, così, lo spiazzamento dei prodotti della globalizzazione.
    Ciò rappresenterebbe un fortissimo sostegno all’occupazione, un importante incentivo all’emergere del nero e del grigio, senza nessuna compromissione di chi volesse risultare in grado di esportare i prodotti del made in Italy di notevole qualità. La qualità dev’essere la forza del made in Italy ed il prezzo di vendita (costo di produzione + profitto) dev’essere la discriminante tra la merce veramente made in Italy (da esportare in valuta internazionale) e quella, sì prodotta in Italia, ma da commercializzare prevalentemente a livello locale.
    (Nino Galloni, “Cosa dobbiamo capire della presenza dei clandestini in Italia”, da “Scenari Economici” del 22 settembre 2018).

    La Guardia di Finanza ha arrestato alcuni malviventi marocchini che gestivano diversi extracomunitari, prevalentemente clandestini, occupati in attività agricole nel forlivese: paghe fino a 6 euro al giorno per giornate di 14 ore di lavoro agricolo durissimo. Prima considerazione: se non ci fossero regole nel mondo del lavoro, il liberismo sfrenato porterebbe a rendere “normali” situazione come quella descritta. Seconda considerazione: gli imprenditori italiani hanno bisogno di lavoratori così sfruttati per tenere bassi i costi di produzione o per realizzare sovraprofitti? Terza considerazione: se è per tenere bassi i costi (e non importare prodotti a basso prezzo, ad esempio dal Nordafrica), non sarebbe meglio cambiare modello economico e basarsi sullo sviluppo locale, l’autoproduzione, i km zero anche introducendo monete complementari che spiazzino le merci della globalizzazione?

  • La rivoluzione gialloverde si ferma alla rissa interna sul 2%

    Scritto il 24/9/18 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    «Non ci impiccheremo agli zero virgola», dice Matteo Salvini. Eppure, sottolinea Stefano Cingolani, editorialista del “Foglio”, si litigherà fino all’ultimo proprio sulle virgole e sui decimali. Il disavanzo pubblico, ad esempio: sarà l’1,6% del Pil, come vuole Giovanni Tria, o attorno al 2% come preferisce Salvini? O addirittura del 2,6%, come spera Luigi Di Maio? «Stando a Giancarlo Giorgetti, plenipotenziario della Lega, saranno rispettati i vincoli europei, quindi non verrà sfondata la barriera del 2%». Il ministro dell’economia sa che dovrà mediare, osserva Cingolani sul “Sussidiario”, ma gioca al ribasso dando retta a Mario Draghi. E cominciano le scommesse: se anche si fermasse sotto il 2%, la spesa 2019 sarebbe «più del doppio rispetto a quello che aveva scritto Pier Carlo Padoan nel Documento di economia e finanza presentato a primavera, prima delle elezioni». La situazione non è allegra: Istat e Ocse dicono che il tasso di crescita frena, 1,2% per il 2018 e poco più dell’1% l’anno prossimo. Peggiora anche il rappoto deficit-Pil: «Il deficit tendenziale previsto nel Def di Padoan per quest’anno è pari allo 0,8% nel 2019, ma il ministro Tria ha indicato che per il 2019 è già all’1,2%, mentre il debito quest’anno migliorerà solo dello 0,1%. E l’aggiornamento del Def non potrà che accettare il ribasso della crescita». Da qui le tensioni nell’alleanza gialloverde, che potrebbero spingere Salvini a rompere con Di Maio?

  • Corbyn: web di Stato, libero e trasparente, per i cittadini

    Scritto il 21/9/18 • nella Categoria: segnalazioni • (50)

    Parliamoci chiaro: uno dei grandi problemi dei nostri tempi è che la politica e il diritto non riescono a stare al passo con i progressi tecnologici, specialmente a partire dall’avvento dell’era di Internet. È accaduto infatti che, mentre alcune grandi aziende informatiche si affermavano e diventavano rapidamente monopoli, i nostri parlamenti sono rimasti perlopiù inermi, sia perché vittime dell’illusione che rappresenta Internet come il regno delle libertà, il massimo terreno di realizzazione della democrazia, sia per semplice inadeguatezza e mancanza di preparazione in materia. Si è dovuta attendere la totale scomparsa della privacy, prima di porsi il problema di come tutelarla. Si son dovuti perdere miliardi di euro in tasse, a fronte degli enormi fatturati di Google, Facebook e Amazon, prima di iniziare a discutere sulla possibilità di una “tassa del web”, da rimandare però in sede europea. I ceti politici invece inizialmente non hanno compreso le potenzialità offerte dai social network, perdendo bruscamente e a causa di ciò i loro consensi in favore di quelle nuove forze che invece ne hanno intuito i vantaggi in termini di propaganda, per poi farne, tutti insieme, un uso sistematico e spregiudicato, riducendo di fatto il loro rapporto con i cittadini ad una manciata di caratteri su Twitter (basti pensare che, a dispetto di una lunga tradizione che vedeva i candidati alla presidenza americani fare il proprio annuncio in discorsi tenuti nelle università, Hillary Clinton palesò le proprie intenzioni su Twitter).
    Quanto al funesto impatto che un sistema così articolato di collezione dei dati personali avrebbe avuto sulla salute nostre democrazie, nessuno se ne è occupato, salvo poi indignarsi in coro di fronte non ad una questione di etica pubblica o di tutela dei cittadini, ma all’effetto che i social network hanno direttamente o indirettamente avuto: l’elezione di Donald Trump. Ma qui non si vuole discutere su come le nuove reti sociali abbiano esacerbato dei problemi più o meno latenti della civiltà occidentale, favorendo l’ascesa di nuove élite reazionarie. Si vuole piuttosto introdurre nel dibattito pubblico, dopo il totale silenzio dei media, dei partiti e in generale dei principali mezzi di informazione e formazione dell’opinione pubblica nella nostra penisola, un nuovo modo di affrontare quella che è una delle questioni più importanti del nuovo millennio. Di fronte a un tale quadro desolante infatti, una risposta sembra provenire dalla Gran Bretagna. Jeremy Corbyn, il leader del Partito Laburista, già noto per le sue proposte di nazionalizzazione dei servizi pubblici principali, in alcune sue dichiarazioni ha avanzato una strategia per far fronte alla realtà che si è solidamente affermata con Internet.
    E il fatto che una simile novità provenga da lui è un’indicazione circa la lucidità e lo stato di salute dei laburisti inglesi, attualmente una delle poche forze politiche di sinistra, in Europa, che potrebbero affermarsi alla guida di un paese. Partendo dal presupposto che il Regno Unito non deve sedersi e restare guardare come poche mega aziende risucchiano diritti digitali, asset e, in definitiva, i nostri soldi, Corbyn ha proposto di affiancare, alla già esistente “Bbc” (British Broadcasting Corporation), una “Bdc” (British Digital Corporation). Tale ente, rigorosamente pubblico, sarà una sorta di grande archivio culturale, centralizzato, per offrire alla popolazione un punto di accesso per le conoscenze, le informazioni e i contenuti attualmente conservati negli archivi della “Bbc”, nella British Library e nel British Museum. Un’istituzione pubblica per definizione non persegue le finalità di un’organizzazione privata. Piattaforme come Google e Facebook erogano sì gratuitamente i loro servizi agli utenti, ma lo fanno solo dopo che questi ultimi hanno acconsentito – e questa è una condizione necessaria e impossibile da contrattare – al trattamento dei loro dati personali per fini quantomeno commerciali.
    Nell’idea di Corbyn, esclusa la logica del profitto, occorrerebbe sfruttare i big data a fin di bene. Sì, ma come? In due modi, entrambi rivoluzionari. In primo luogo una “Bdc” potrebbe sviluppare nuove tecnologie, e utilizzare le informazioni di cui entra in possesso, per la creazione dei programmi in base all’orientamento del pubblico e perfino un social network pubblico, che garantisca la privacy degli utenti e abbia il controllo su quei dati che rendono Facebook e altri così ricchi. Il tema della nazionalizzazione di Facebook diventa sempre più incalzante, dal momento che la conoscenza così accurata di una popolazione può servire a fini tutt’altro che trasparenti: al controllo sociale, per condizionamenti di massa, a bombardamenti mediatici mirati o ad instillare l’odio, inquietudini morali e paure striscianti in grado di modificare i comportamenti, le abitudini, il modo di pensare – o di votare – dei più. Non vogliamo essere apocalittici o tendere necessariamente a scenari di orwelliana memoria, ma occorre stare all’erta: si tratta di cose già successe e che, verosimilmente, senza le opportune contromisure, riaccadranno.
    In seconda misura un ente pubblico digitale potrebbe aprire nuovi spazi per la democrazia diretta, a partire dalla creazione di nuove modalità di coinvolgimento, supervisione e controllo delle leve chiave della nostra economia da parte della popolazione. Tutto ciò si inquadra, nell’ottica di Corbyn, in un più ampio piano di gestione della cosa pubblica. La “Bdc” lavorerà in stretta sinergia con altre istituzioni che il prossimo governo laburista istituirà, come la National Investment Bank, il National Transformation Fund, lo Strategic Investment Board, la Regional Development Banks, fornendo così un collegamento base tra di esse ai fini di una maggiore trasparenza e democrazia. La nuova istituzione è anche un tassello chiave per il rilancio attivo del ruolo dello Stato che, su un piano di servizi e commerciale, potrebbe arrivare ad essere concorrenziale con l’estero e con i privati. Essa infatti potrebbe utilizzare tutte le nostre migliori menti, le tecnologie più recenti e le risorse pubbliche disponibili non solo per fornire informazioni e intrattenimento come quelli di Netflix e Amazon, con la possibilità di competere e vendere bene anche Oltreoceano.
    Le proposte del leader dei Labour, seppur ancora vaghe e poco articolate, sembrano già molto interessanti. L’articolo apparso sul Guardian[2] non ha però praticamente trovato alcuna risonanza in Italia.[3] Si spera che le forze comuniste e della sinistra popolare presenti nella penisola rispondano alle idee proveniente da Oltremanica elaborandone di nuove e più definite, studiando per esempio un sistema di controlli e garanzie per fare in modo che l’enorme mole di dati personali, non più in mani private, non finisca per essere a disposizione dei governi per spiare e monitorare i comportamenti della propria popolazione. Ovviamente questa è solo una delle tante possibilità. Compito nostro è quello di accogliere il contributo iniziale di Corbyn e formulare una proposta politica adatta a contribuire al dibattito e ad arricchirlo.
    (Massimiliano Romanello, “Buone notizie da Oltremanica”, dal blog della Fcgi del 2 settembre 2018).

    Parliamoci chiaro: uno dei grandi problemi dei nostri tempi è che la politica e il diritto non riescono a stare al passo con i progressi tecnologici, specialmente a partire dall’avvento dell’era di Internet. È accaduto infatti che, mentre alcune grandi aziende informatiche si affermavano e diventavano rapidamente monopoli, i nostri parlamenti sono rimasti perlopiù inermi, sia perché vittime dell’illusione che rappresenta Internet come il regno delle libertà, il massimo terreno di realizzazione della democrazia, sia per semplice inadeguatezza e mancanza di preparazione in materia. Si è dovuta attendere la totale scomparsa della privacy, prima di porsi il problema di come tutelarla. Si son dovuti perdere miliardi di euro in tasse, a fronte degli enormi fatturati di Google, Facebook e Amazon, prima di iniziare a discutere sulla possibilità di una “tassa del web”, da rimandare però in sede europea. I ceti politici invece inizialmente non hanno compreso le potenzialità offerte dai social network, perdendo bruscamente e a causa di ciò i loro consensi in favore di quelle nuove forze che invece ne hanno intuito i vantaggi in termini di propaganda, per poi farne, tutti insieme, un uso sistematico e spregiudicato, riducendo di fatto il loro rapporto con i cittadini ad una manciata di caratteri su Twitter (basti pensare che, a dispetto di una lunga tradizione che vedeva i candidati alla presidenza americani fare il proprio annuncio in discorsi tenuti nelle università, Hillary Clinton palesò le proprie intenzioni su Twitter).

  • Carpeoro: il Lussemburgo, fogna d’Europa, accusa Salvini?

    Scritto il 17/9/18 • nella Categoria: idee • (26)

    Si vergogni, il ministro del Lussembugo che osa insultare Matteo Salvini e, con lui, tutti gli italiani: il Granducato è il peggior paese d’Europa. Il ministro degli esteri Jean Asselborn? «E’ veramente uno dei personaggi più volgari e più idioti che io abbia mai visto: spero che mi quereli, perché dovrebbe farlo davanti a un giudice italiano, e lo voglio vedere un giudice italiano che mi condanna di fronte a questo personaggio». Parola di Gianfranco Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, all’indomani delle esternazioni dell’esponente del governo lussemburghese al summit europeo di Vienna. «In Lussemburgo – ha detto Asselborn – avevamo migliaia di italiani che sono venuti a lavorare da noi, erano migranti che guadagnavano i soldi affinché ne poteste avere per i vostri figli». Poi l’elegante chiosa finale («merda!»), pronunciata sbattendo il microfono, in perfetta consonanza con l’aggettivo “vomitevole” con cui il portavoce di Macron ha definito la politica italiana sui migranti. Carpeoro protesta: «Peggio ancora se l’insulto di Asselborn non era riferito a Salvini: vuol dire che era indirizzato a tutti gli italiani». Che hanno sì lavorato come immigrati nel Granducato, arricchendolo, ma mai quanto i maxi-evasori fiscali, anche italiani, di cui il Lussembugo è stato un sontuoso rifugio.
    «Il Lussembugo è lo Stato più volgare dell’Unione Europea», dice Carpeoro, senza giri di parole. «E’ il paradiso fiscale dove finiscono tutte le porcherie». Ne sa qualcosa lo stesso presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, che è stato «l’artefice delle porcherie fiscali più gravi e più importanti». Quindi, aggiunge Carpeoro, «non mi meraviglia se un ministro del Lussembugo dice che ci hanno dato loro i soldi per fare figli, in passato, perché erano i nostri soldi: hanno preso i soldi dai nostri evasori e poi, in qualche modo, li hanno un po’ riciclati». Tutti addosso a Salvini, oggi? Purché non ci si metta anche il Lussembugo, paese che farebbe meglio a tacere. Certo, aggiunge Carpeoro, sui migranti Salvini sta recitando una parte, come del resto lo stesso Trump. «A me le modalità di Salvini non piacciono», premette Carpeoro, che però aggiunge: «Il fatto che in questo momento si sia reso “nemico” di una serie di poteri e di espressioni del potere, per certi aspetti mi fa piacere». In altre parole: «Salvini fa quello che può, in un base a una situazione politica scardinata da una “sovragestione” che ha gestito crisi e risorse in maniera da metterla in ginocchio, l’Italia». Un establishment di cui anche l’increscioso Lussembugo fa parte, anche se il suo ministro degli esteri ha la faccia tosta – attaccando Salvini – di insultare gli italiani come popolo.
    Il Lussembugo, ricorda “Money.it”, è un piccolo paese di appena 550.000 abitanti, al confine con il Belgio, la Francia e la Germania. È a tutti gli effetti un paradiso fiscale, «perché applica una legislazione favorevole alle imprese, che permette alle società di risparmiare miliardi in tasse». Amazon, per esempio, ha la sua sede europea in Lussemburgo e trasferiva tutti i guadagni delle vendite realizzate in Europa attraverso il suo ufficio nel Lussemburgo. Banche e multinazionali: sono almeno 350 le società platenarie domiciliate fiscalmente nel Granducato: tra queste Abn Amro, Axa, Barclays, Bnp Paribas, Black e Decker, Carlyle e Citigroup. E poi Commerzbank, Credit Suisse e Deutsche Bank, FedEx, Gazprom, General Electric, Glaxo, Ikea. Ancora: Hsbc, Heinz, Jp Morgan e Pepsi, Procter & Gamble, Vodafone, Volkswagen, Walmart e Disney. Ben figurano anche marchi italiani come Banca Sella e Dolce e Gabbana, Finmeccanica, Intesa SanPaolo, Prada, Unicredit. Senza contare l’azienda più grande, Fiat-Chrysler, ora Fca. «Il trattamento fiscale ricevuto da Fiat in Lussemburgo grazie agli accordi sottoscritti nel 2012 con il Granducato – scriveva il “Fatto Quotidiano” nel 2016 – ha comportato un “vantaggio illegale”, riducendo di 20 volte l’utile imponibile». Per questo il gruppo automobilistico è stato chiamato a restituire «tra i 20 e i 30 milioni di euro», come stabilito dall’antitrust Ue.
    Quanto a Juncker, che Carpeoro definisce “l’architetto” di questo colossale sistema di evasione fiscale, l’attuale capo dell’Ue – già al vertice della Banca Mondiale, del Fmi e dell’Eurogruppo – guidò proprio il Lussembugo per 18 anni, dopo aver fatto del Granducato un paese-cavia: Juncker, ricorda “Rete Voltaire”, è stato l’uomo che, per anni, ha messo illegalmente sotto sorveglianza i tre quinti dei suoi concittadini, spiati segretamente dallo Srel, l’intelligence lussemburghese. Per questo, accusato nel 2013 da una commissione d’inchiesta, fu costretto alle dimissioni. Storica pedina dei poteri forti, Juncker fu accusato, in patria, di aver fatto schedare migliaia di persone a loro insaputa, dopo aver coperto la strategia della tensione di marca Gladio, basata su attentati “false flag” realizzati in collaborazione con i servizi segreti tedeschi. Strategia accuratamente collaudata proprio in Lussembugo, prima ancora che in Italia, con attentati a industrie, aeroporti, giornali, tribunali e commissariati di polizia. Sciolta ufficialmente la Gladio nel 1990, aggiunge “Rete Voltaire”, i servizi segreti di Juncker avrebbero poi «continuato a spiare illegalmente singoli individui per motivi privati senza che il premier intervenisse». Il loro direttore operativo, inoltre, creò «una società d’intelligence economica, la Sandstone, utilizzando risorse statali».
    Questo è il paese-modello dal quale il ministro Jean Asselborn dà lezioni a Matteo Salvini, ricordandogli che gli italiani “straccioni” dovrebbero dire grazie, in eterno, al generoso e nobile Lussembugo, il paradiso terrestre dei maggiori evasori fiscali. Un posto dove, secondo il giornale lussemburghese “Wort”, l’establishment politico tentò di fermare la magistratura che stava cercando di far luce sui sanguinosi attentati terroristici che avevano scosso il paese. Per zittire il giudice Robert Biever, che era giunto ad accusare direttamente il ministro della giustizia Luc Frieden di sabotare le indagini, fu scatenata una campagna di disinformazione e discredito, arrivando a incolpare il magistrato di turismo pedofilo in Thailandia. Gli oscuri attentati degli anni ‘80 contro l’innocuo Lussemburgo servivano a creare una tensione allarmante nella popolazione, al fine di far accettare leggi restrittive e un controllo totale su ogni singola persona, come afferma lo storico svizzero Daniel Ganser, che denuncia i contatti “coperti” tra l’intelligence lussemburghese e il Bnd, il servizio segreto della Germania. Legami storici: non a caso è stata Angela Merkel a piazzare Juncker a capo della Commissione Ue.

    Si vergogni, il ministro del Lussembugo che osa insultare Matteo Salvini e, con lui, tutti gli italiani: il Granducato è il peggior paese d’Europa. Il ministro degli esteri Jean Asselborn? «E’ veramente uno dei personaggi più volgari e più idioti che io abbia mai visto: spero che mi quereli, perché dovrebbe farlo davanti a un giudice italiano, e lo voglio vedere un giudice italiano che mi condanna di fronte a questo personaggio». Parola di Gianfranco Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, all’indomani delle esternazioni dell’esponente del governo lussemburghese al summit europeo di Vienna. «In Lussemburgo – ha detto Asselborn – avevamo migliaia di italiani che sono venuti a lavorare da noi, erano migranti che guadagnavano i soldi affinché ne poteste avere per i vostri figli». Poi l’elegante chiosa finale («merda!»), pronunciata sbattendo il microfono, in perfetta consonanza con l’aggettivo “vomitevole” con cui il portavoce di Macron ha definito la politica italiana sui migranti. Carpeoro protesta: «Peggio ancora se l’insulto di Asselborn non era riferito a Salvini: vuol dire che era indirizzato a tutti gli italiani». Che hanno sì lavorato come immigrati nel Granducato, arricchendolo, ma mai quanto i maxi-evasori fiscali, anche italiani, di cui il Lussembugo è stato un sontuoso rifugio.

  • Bavaglio al web in Europa: ce l’hanno fatta, ora sarà legge

    Scritto il 12/9/18 • nella Categoria: segnalazioni • (47)

    Bavaglio al web: alla fine ce l’hanno fatta. Il Parlamento Europeo ha dato il via libera alla proposta di direttiva sui diritti d’autore nel mercato unico digitale. La proposta sul copyright avanzata da Axel Voss è stata adottata con 438 voti a favore, 226 contrari e 39 astensioni, modificando leggermente i contestatissimi articoli 11 e 13, che furono bersaglio – a luglio – di una rumorosa campagna a favore della libertà di Internet. L’articolo 11, ricorda il “Corriere della Sera”, è quello che coinvolge anche la stampa e introduce l’obbligo del pagamento, da parte delle piattaforme come Google e Facebook, per l’utilizzo delle notizie, anche sotto forma di “snippet”, l’anteprima formata da titolo, sommario e immagini che i motori di ricerca catturano automaticamente. «Quindi: non si tratta più di riconoscere solo i diritti dell’intero testo, ma anche della sua presentazione online, che spesso è l’unica a essere consultata dai lettori». L’articolo 13 introduce invece l’obbligo per le piattaforme di mettere dei filtri per bloccare il caricamento dei contenuti protetti. YouTube, ad esempio, sarà direttamente responsabile delle copie e degli spezzoni pirata che vengono caricati dagli utenti. Il via libera della plenaria (arrivato il 12 settembre) apre ora la strada ai negoziati con il Consiglio.
    «Con la scusa della riforma del copyright, il Parlamento Europeo ha di fatto legalizzato la censura preventiva. Una pagina nera per la democrazia e la libertà dei cittadini», protesta Isabella Adinolfi, europarlamentare 5 Stelle. «Il testo approvato oggi dall’aula di Strasburgo contiene l’odiosa “link tax” e filtri ai contenuti pubblicati dagli utenti. È vergognoso, ha vinto il partito del bavaglio». Purtroppo, aggiunge la Adinolfi, sono stati respinti tutti gli emendamenti che il Movimento 5 Stelle aveva presentato, «in particolare l’articolo 11, che prevede l’introduzione della cosiddetta “link tax”, e il 13, che mira a introdurre una responsabilità assoluta per le piattaforme, nonché un meccanismo di filtraggio dei contenuti caricati dagli utenti», conclude. Che tirasse brutta aria, a Strasburgo, lo si capiva dalle premesse, anticipate di prima mattina dal “Blog delle Stelle”: «L’Europa dei banchieri e dei lobbisti ha scelto la sua preda: il web libero. Anziché scardinare i paradisi fiscali e salvare in modo serio il diritto d’autore, il Parlamento Europeo rischia di usare il copyright come una mannaia dei diritti dei cittadini».
    Non sono in pochi a ritenere che la riforma – avanzata nel 2016 dall’allora commissario Ue alla Digital Economy Günther Oettinger – potrebbe «distruggere Internet per come lo conosciamo». Per gli europarlamentari rappresentati da Julia Reda, relatrice per il Parlamento Europeo del dossier sulla riforma del copyright e membro del Partito Pirata tedesco, «il progetto limita la libertà di espressione online e mette in difficoltà i piccoli editori e le startup innovative». Di fatto, il divieto di citare liberamente le fonti (con l’introduzione della “link tax”) equivale alla censura preventiva sul web: fine della libera circolazione di contenuti, come finora è stato nella Rete. Gioele Magaldi, massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt, punta il dito contro lo stesso Oettinger, il tedesco secondo cui sarebbero stati “i mercati” a “insegnare agli italiani come votare”. Proprio quell’Oettinger, dice Magaldi, milita nei circuiti supermassonici reazionari che hanno trasformato l’Ue in un mostro giuridico, gestito da tecnocrati al soldo di interessi privatistici che mirano a svuotare le democrazie e privatizzare Stati non più sovrani, a cui viene impedito di investire (sotto forma di deficit) per creare occupazione.
    Comunque lo si legga, l’attacco al web finisce per colpire uno strumento di comunicazione potentissimo, cercando di riportarlo sotto il completo controllo dei media mainstream, spesso protagonisti di un uso pressoché criminale di autentiche “fake news”. Il voto del Parlamento Europeo è stato salutato con soddisfazione da Antonio Tajani, coinvolto – secondo il saggista Gianfranco Carpeoro – nell’operazione che ha portato (premendo su Berlusconi) a bloccare la nomina, alla presidenza della Rai, di Marcello Foa, autorevole giornalista, autore del volume “Gli stregoni della notizia”, che smaschera le tante imposture del mainstream. Secondo Carpeoro, la manovra anti-Foa è nata dalle parti dell’Eliseo: Jacques Attali (mentore di Macron ed esponente della superloggia reazionaria “Three Eyes”) si sarebbe rivolto al massone Tajani e poi allo stesso Berlusconi, dopo essersi consultato con Giorgio Napolitano, che nel libro “Massoni” lo stesso Magaldi presenta come esponente della “Three Eyes”, la medesima superloggia nella quale milita Attali, contigua al mondo supermassonico di cui fa fa parte, da molti anni, il tedesco Oettinger, vero e proprio “architetto” del bavaglio europeo imposto al web.
    E’ noto a tutti che le oligarchie al potere, in Europa e non solo, hanno sviluppato un’enorme diffidenza nei confronti della Rete: un network che si ritiene abbia avuto un ruolo assai rilevante in tutti i “dispiaceri” che gli elettori hanno rifilato, negli ultimi anni, all’establishment – la Brexit e il referendum di Renzi, quindi l’elezione di Trump e infine il boom dei “gialloverdi” in Italia. «Se Grillo vuole fare politica fondi un partito, se ne è capace», disse Piero Fassino, non immaginando che l’ex comico non solo ce l’avrebbe fatta, ma sarebbe finito praticamente al governo, scalzando il Pd. Il Movimento 5 Stelle è stato creato proprio via web, a partire dalle candidature. Colpire il web in Europa, proprio oggi, significa predisporre contromisure in vista delle elezioni europee 2019, in cui i grandi poteri economici e oligarchici che si nascondono dietro la tecnocrazia Ue temono l’exploit dei partiti “sovranisti” e “populisti”, o meglio democratici. Mentre le televisioni sono letteralmente “militarizzate” dall’establishment, le vendite dei giornali sono in caduta libera. Ecco dunque la necessità, per gli oligarchi, di silenziare in ogni modo il web.

    Bavaglio al web: alla fine ce l’hanno fatta. Il Parlamento Europeo ha dato il via libera alla proposta di direttiva sui diritti d’autore nel mercato unico digitale. La proposta sul copyright avanzata da Axel Voss è stata adottata con 438 voti a favore, 226 contrari e 39 astensioni, modificando leggermente i contestatissimi articoli 11 e 13, che furono bersaglio – a luglio – di una rumorosa campagna a favore della libertà di Internet. L’articolo 11, ricorda il “Corriere della Sera”, è quello che coinvolge anche la stampa e introduce l’obbligo del pagamento, da parte delle piattaforme come Google e Facebook, per l’utilizzo delle notizie, anche sotto forma di “snippet”, l’anteprima formata da titolo, sommario e immagini che i motori di ricerca catturano automaticamente. «Quindi: non si tratta più di riconoscere solo i diritti dell’intero testo, ma anche della sua presentazione online, che spesso è l’unica a essere consultata dai lettori». L’articolo 13 introduce invece l’obbligo per le piattaforme di mettere dei filtri per bloccare il caricamento dei contenuti protetti. YouTube, ad esempio, sarà direttamente responsabile delle copie e degli spezzoni pirata che vengono caricati dagli utenti. Il via libera della plenaria (arrivato il 12 settembre) apre ora la strada ai negoziati con il Consiglio.

  • Il potere è una religione: vuole il nostro odio, e lo censura

    Scritto il 02/9/18 • nella Categoria: idee • (18)

    Mi chiedi la mia opinione sul potere. E certo intendi il potere apparente dell’uomo sull’uomo, quello che muove la ruota terrestre. Comma primo: il potere esige, vuole determinatamente farsi odiare dal suddito, dall’impotente sottomesso. Secondo comma: il potere proibisce l’odio stesso che esige. Vuole contemporaneamente farsi odiare, nell’intimo del suddito al quale ha strappato un irrisorio consenso, e farsi ammirare e amare all’esterno, nelle manifestazioni rituali. Gli chiede quindi tutto: amore, odio; reverenza, paura, silenzio, imprecazione, giuramento; obbligazione, ipocrisia; rispetto, distanza, dispetto; e così via. Il potere attira a sé tutto il sottomesso e lo colloca all’opposto di sé, nell’impotenza garantita da leggi e regolamenti che il potere emana contro i sudditi. Il suddito deve essere totalmente tale, non uomo, non umano, ma insetto, unità funzionale, sensore di un’anima-gruppo che produce, raccoglie e mette a memoria (del potere) le esperienze e le fatiche di tutti i sudditi, di generazione in generazione. E questa anima-gruppo, nella quale tutto confluisce e si trasforma irriconoscibilmente, è l’organizzazione, lo Stato.
    Per ottenere la plenitudine della potenza, il potere garantisce di essere tramite tra i sudditi e il Potere, la Divinità, l’Oltre, un oltreprima invisibile per il suddito ma garantito dalla Storia, dai Sacri Libri, dalla Tradizione, dalla paura. Solo il potere conosce, eredita e può gestire il Potere. In tal modo, il potere è la sola religione. La sola religione è il potere… Nella immobilità di questo statuto, che fonda il potere sovrano e la sudditanza totale, sono diverse ma coincidenti le dichiarazioni con le quali il potere si fa erede e garante del Potere: il suo preambolo d’investitura può riferirsi alla Tradizione o alla Rivoluzione, a Dio o al Popolo, allo Spirito o al Sangue, a un Santo o ad un Vendicatore assunti o al cielo dei Martiri o a quello degli Eroi. Le differenze sono puramente formali e vogliono apparire evidenti nei rituali di investitura e di celebrazione – che è una autocelebrazione del potere – allo scopo, non dichiarato per quanto è implicito, di separare i sudditi di un potere dai sudditi degli altri poteri e di proibire ad essi la consapevolezza che la sottomissione e l’impotenza sono totali, che il potere ha questa sola religione, comunque travestita, e tutta la geografia è del potere.
    In quanto religione, cioè in quanto potere tendenzialmente assoluto, il potere non promana dai sudditi, anche se ad essi chiede periodicamente una ratifica formale, ma proviene dall’alto, che è il potere stesso in precedenti codificazioni, discende dall’oltre, divino per assioma o divinizzato per abitudine indotta e obbligata. Ai sudditi non spetta, quindi, che un comportamento religioso, cioè ubbidienza, paura, ossequio, sacrificio, silenzio su ogni argomento e progetto che sia dichiarato lesivo od offensivo del potere. La sua maestà è sacra. La sua storia è, per definizione culturale, la sola storia dei sudditi. A compenso e tacitazione di questa espropriazione tendenzialmente assoluta delle singolarità, il potere ammette ma riservandosene la punizione esemplare – la bestemmia, la ribellione segreta, la rabbia momentanea, la fuga od evaporazione psichica all’interno ingovernabile del suddito. Il misticismo e la demenza sono i due modi apparentemente estremi della stessa evasione dall’invivibile storico, ossia dal potere totalmente subito.
    Appartiene al potere, in certi casi, provocare sia il misticismo che la demenza e garantire l’emarginazione degli evasi immaginari ora in conventi e ora in istituzioni psichiatriche, ora in ghetti e ora in carcere. Le evasioni reali sono immediatamente perseguite. In quanto il potere è religiosamente totale, non ammette scampo. Il suddito può odiarlo in segreto – il potere glielo proibisce per concederglielo meglio. Ma all’esterno, nel rituale pubblico, deve soltanto ubbidire – il potere glielo obbliga per dargli quella sola libertà impotente, l’odio. Nessuna legge o consuetudine permette l’odio manifesto al potere, e nessuna legge o consuetudine lo perdona appena si manifesti. L’odio non è mai neppure nominato come possibile, come non è mai neppure nominata l’ubbidienza come comportamento obbligato. Ma nessuna legge perdona la disubbidienza manifestata, a reprimere la quale ogni legge del potere è dedicata. La legge è dunque pura e totale emanazione del potere da ubbidire e della sudditanza come pura e totale ubbidienza, da prima della nascita a dopo la morte. Infatti la nascita e la morte, in quanto atti religiosi, cioè accadenti all’interno del potere, che significano l’iscrizione o la cancellazione di un suddito, sono possessi del potere stesso. In tal modo esso espropria dell’origine e della fine, e abbiamo visto dell’intera esistenza, i suoi sudditi naturali.
    La volontà del potere sostituisce, con un atto ufficiale, la non volontarietà sia del nascere che del morire in quel tempo e in quello spazio. Il tempo e lo spazio sono possessi del potere divisi con altri poteri confinanti nel tempo e nello spazio. I sudditi non hanno altro spazio e altro tempo che quelli notarizzati e garantiti dal potere. Anche i morti sono suoi sudditi. E i nascituri, immediatamente trasferiti nei suoi registri e nei suoi dati statistici, ricevono una garanzia di esistenza in quanto sudditi incancellabili del potere. Tutto quanto ti ho detto è impossibile ad intendersi, prima ancora che ad accettarsi, essendo la verità stessa del potere, cioè quello che innanzitutto il potere proibisce di sapere. Per il potere, infatti, tutto il sapere è interno al potere e da lui derivato. È proibito sapere che cos’è il potere. Ed è tanto proibito che il potere stesso non lo sa, se lo proibisce. In tal modo il potere ha anche una buona coscienza. Perciò la cattiva coscienza resta tutta ai sudditi che essi possono tenere per sé in silenzio e senza redenzione.
    Non si è mai sufficientemente attenti all’orrore del potere, al karma del ruolo emergente. Chi si inchina ad adorare un potente adora, in realtà, se stesso, l’immagine di una potenza agognata, invidiata e impossibile. Appena ti lasci adorare, sei un potente; appena ti compiaci dell’adorazione, sei un potente che ammette il suddito e in quel momento lo crea, incatenato a quel ruolo. La stessa catena ti lega e ti inganna, senza scampo. La verità interiore dice: niente è adorabile se non ciò che non si può adorare; niente è alto se non ciò che ti innalza; tutta la potenza è in un filo d’erba, e si fa calpestare; tutto il potere del mondo è una tua immagine agognata, invidiata e impossibile: in realtà, il potere è magia, ma il vero mago ha potere solo su se stesso ed è suddito solo di se stesso.
    (Estratto dal libro “L’uomo zero” di Pietro Cimatti, edito da Astrolabio-Ubaldini – 160 pagine, euro 10,33 – ripreso da “La Crepa nel Muro” il 19 agosto 2018).

    Mi chiedi la mia opinione sul potere. E certo intendi il potere apparente dell’uomo sull’uomo, quello che muove la ruota terrestre. Comma primo: il potere esige, vuole determinatamente farsi odiare dal suddito, dall’impotente sottomesso. Secondo comma: il potere proibisce l’odio stesso che esige. Vuole contemporaneamente farsi odiare, nell’intimo del suddito al quale ha strappato un irrisorio consenso, e farsi ammirare e amare all’esterno, nelle manifestazioni rituali. Gli chiede quindi tutto: amore, odio; reverenza, paura, silenzio, imprecazione, giuramento; obbligazione, ipocrisia; rispetto, distanza, dispetto; e così via. Il potere attira a sé tutto il sottomesso e lo colloca all’opposto di sé, nell’impotenza garantita da leggi e regolamenti che il potere emana contro i sudditi. Il suddito deve essere totalmente tale, non uomo, non umano, ma insetto, unità funzionale, sensore di un’anima-gruppo che produce, raccoglie e mette a memoria (del potere) le esperienze e le fatiche di tutti i sudditi, di generazione in generazione. E questa anima-gruppo, nella quale tutto confluisce e si trasforma irriconoscibilmente, è l’organizzazione, lo Stato.

  • Privatizzare acqua, luce, gas, treni: inglesi rapinati e beffati

    Scritto il 01/9/18 • nella Categoria: segnalazioni • (12)

    La maniera in cui le nostre compagnie ferroviarie, dell’energia e dell’acqua sono state gestite da quando sono state privatizzate dai conservatori è uno scandalo assoluto. L’impegno del Manifesto dei Laburisti a riprendere il controllo dell’acqua e delle ferrovie, e ad intervenire per correggere il mercato dell’energia, è decisamente emozionante e porterà a un vero cambiamento. Quando queste industrie furono privatizzate da Margaret Thatcher, ci fu promesso che l’efficienza sarebbe aumentata, che la proprietà si sarebbe allargata e che il processo avrebbe generato investimenti. Ma è accaduto l’esatto contrario. E anziché imparare dai propri errori, i governi conservatori hanno venduto anche il Servizio Postale per una frazione del suo valore, danneggiando i contribuenti ed estendendo ulteriormente l’influenza delle compagnie private e della finanza sulla vita di tutti i giorni. A quasi trent’anni dalla vendita della gestione dell’acqua, la proprietà delle azioni è oggi saldamente in mano a un piccolo gruppo di investitori internazionali – molti dei quali hanno sede in paradisi fiscali. Nel frattempo, i prezzi sono aumentati del 40% e più di un quarto di quanto i consumatori pagano in bolletta finisce a ripagare gli interessi sui debiti delle società private e in dividendi agli azionisti.
    I nuovi investimenti sono stati finanziati con nuovo debito anziché coi soldi degli azionisti. Quando l’acqua è stata privatizzata, il governo si è generosamente fatto carico di tutto il debito del settore – 4,9 miliardi di sterline – in modo da lasciare i nuovi proprietari senza debiti. I nuovi proprietari ne hanno approfittato, accumulando sino al 2016 l’incredibile ammontare di 46 miliardi di sterline di debiti. Mentre accumulavano debiti a discapito dei contribuenti, le compagnie private dell’acqua pagavano miliardi agli azionisti in dividendi. Il totale di 18,8 miliardi di profitti al netto delle tasse degli ultimi 10 anni è  stato tutto distribuito agli azionisti, salvo 700 milioni di sterline. Ciò significa che più di 18 miliardi di sterline sono entrati nelle tasche degli azionisti anziché essere utilizzati per diminuire le bollette e migliorare i servizi. Tre società hanno addirittura pagato più dividendi di quanto siano stati i loro profitti al lordo delle tasse. Si tratta di una situazione semplicemente insostenibile.
    Questa rapina alla luce del sole sta avvenendo anche nel settore energetico. Nel 2016-17, la Rete Nazionale ha ottenuto un profitto di 1,9 miliardi di sterline sulla distribuzione dell’elettricità e del gas. Circa 660 milioni sono stati usati per pagare dividendi, cosa che rappresenta un costo nascosto per i consumatori del 12%. I benefici promessi grazie alla concorrenza del mercato non si sono mai visti: le grandi “sei sorelle” dell’energia hanno sfruttato i consumatori, addebitando agli utenti nel 2015 ben 2 miliardi di sterline. Le persone non vogliono essere costrette a vagliare le diverse opzioni per trovare un contratto decente; vogliono soltanto energia sicura e a un prezzo accessibile. Dobbiamo fare cambiamenti drastici nel nostro sistema energetico entro pochi anni se vogliamo avere la possibilità di affrontare i cambiamenti climatici. Trasferendo la proprietà e la responsabilità delle nostre utilities a organismi di proprietà pubblica e alle comunità locali che devono rispondere ai cittadini, saremo in grado di creare un sistema energetico sostenibile e a basso utilizzo di carbone, adatto al ventunesimo secolo.
    Più importante ancora, la proprietà pubblica metterebbe fine al flusso di denaro dei contribuenti che va a sostenere i profitti privati delle società e dei loro azionisti, mentre i prezzi aumentano, i servizi peggiorano, e i debiti si accumulano. Riportare le utilities sotto controllo pubblico rimetterebbe i profitti nelle tasche dei cittadini e nei servizi stessi, abbassando la bolletta media di 220 sterline all’anno per famiglia e consentendo di investire altri risparmi nelle infrastrutture e per migliorare i servizi. Inoltre, ponendo un freno agli aumenti dei biglietti dei treni – che sono aumentati del 27% a partire dal 2010 – i laburisti farebbero risparmiare ai passeggeri una media di 1.014 sterline all’anno sui biglietti. Si è molto parlato di quanto costerebbe tutto questo, ma i commentatori, pronti a sparare grandi cifre, mostrano tutta la loro ignoranza in economia, e anche in storia. Quando nel 1977 l’industria della costruzione navale venne nazionalizzata, questo fu fatto scambiando le azioni con titoli di Stato – una mossa che non ebbe alcun effetto sull’erario.
    Nel mondo negli ultimi anni c’è stata un’inversione del processo delle privatizzazioni. Negli Stati Uniti, l’85% delle forniture di acqua proviene dal settore pubblico, e l’80% della rete di distribuzione elettrica tedesca è ora posseduta e gestita dalle autorità regionali e locali.
    Una delle più grandi beffe della privatizzazione britannica – che fu dettata da una profonda perdita di fiducia nella capacità dello Stato di gestire queste cose – è che molti dei nostri tesori nazionali sono finiti nelle mani di società pubbliche straniere. I piani di rinazionalizzazione dei laburisti assicureranno la supervisione democratica locale sui servizi, mettendo il potere nelle mani delle comunità. Al di là delle chiacchiere sul rigore dei conti, i conservatori sono più interessati ad aiutare i ricchi evasori a fare soldi facili di quanto non lo siano a fermare l’emorragia di soldi del popolo britannico. Come ho recentemente sottolineato durante un dibattito con Damian Green all’Andrew Marr show, questa posizione ha qualcosa a che fare con il fatto che molti finanziatori dei conservatori, ed effettivamente anche alcuni parlamentari e ministri conservatori, hanno ottenuto profitti dalle privatizzazioni. E’ tempo di mettere fine a questa truffa dei conservatori. I laburisti chiuderanno il rubinetto che versa miliardi di sterline nelle tasche degli azionisti e si assicureranno che questi servizi vitali siano gestiti nell’interesse della maggioranza, non di pochi.
    (John McDonnell, “La privatizzazione dei servizi pubblici nel Regno Unito: storia di un fallimento”, dall’“Independent” del 6 giugno 2017; articolo tradotto e riproposto da “Voci dall’Estero”).

    La maniera in cui le nostre compagnie ferroviarie, dell’energia e dell’acqua sono state gestite da quando sono state privatizzate dai conservatori è uno scandalo assoluto. L’impegno del Manifesto dei Laburisti a riprendere il controllo dell’acqua e delle ferrovie, e ad intervenire per correggere il mercato dell’energia, è decisamente emozionante e porterà a un vero cambiamento. Quando queste industrie furono privatizzate da Margaret Thatcher, ci fu promesso che l’efficienza sarebbe aumentata, che la proprietà si sarebbe allargata e che il processo avrebbe generato investimenti. Ma è accaduto l’esatto contrario. E anziché imparare dai propri errori, i governi conservatori hanno venduto anche il Servizio Postale per una frazione del suo valore, danneggiando i contribuenti ed estendendo ulteriormente l’influenza delle compagnie private e della finanza sulla vita di tutti i giorni. A quasi trent’anni dalla vendita della gestione dell’acqua, la proprietà delle azioni è oggi saldamente in mano a un piccolo gruppo di investitori internazionali – molti dei quali hanno sede in paradisi fiscali. Nel frattempo, i prezzi sono aumentati del 40% e più di un quarto di quanto i consumatori pagano in bolletta finisce a ripagare gli interessi sui debiti delle società private e in dividendi agli azionisti.

  • Tutti più poveri, grazie alle privatizzazioni imposte all’Italia

    Scritto il 30/8/18 • nella Categoria: segnalazioni • (15)

    La tragedia di Genova ha contribuito a spostare l’agenda del dibattito pubblico sull’alternativa fra privatizzazione e nazionalizzazione. In premessa: nel caso italiano, appare difficile negare che le privatizzazioni abbiano prodotto più danni che benefici. Si sono realizzate essenzialmente attraverso la cessione di monopoli pubblici a monopoli privati, con conseguente aumento delle tariffe e, molto spesso, con peggioramento della qualità dei servizi erogati. A partire dagli anni Novanta si è assistito a un rilevante passo indietro dell’intervento pubblico in economica. Ovviamente si è trattato di un fenomeno globale, che, come spesso accade, l’Italia ha sperimentato più tardi (la prima ondata di privatizzazioni in Europa si ha nell’Inghilterra della signora Thatcher negli anni Ottanta) e, quando lo ha sperimentato, lo ha fatto con la massima accelerazione. Il ritiro dello Stato si registra in un notevole dimagrimento del settore pubblico italiano, in particolare per numero di addetti. L’intero settore pubblico italiano nelle due diverse ramificazioni è nei fatti il più sottodimensionato d’Europa.
    L’ultima rilevazione Ocse ci informa che, mentre nel nostro paese la pubblica amministrazione assorbe circa 3.400 lavoratori, in Francia e nel Regno Unito, paesi con una popolazione e un Pil pro-capite di entità simile alla nostra, se ne contano rispettivamente 6.200 e 5800. Negli Stati Uniti – paese tradizionalmente guardato come una vera economia di mercato – il numero di dipendenti pubblici è di circa il 25% superiore al nostro. Si può aggiungere che, in Italia, l’occupazione nel settore pubblico riguarda prevalentemente individui con elevata scolarizzazione.  In più, la convinzione che i dipendenti pubblici siano ben retribuiti e godano di eccesso di protezioni è palesemente smentita sul piano empirico. L’Istat registra un aumento della retribuzione oraria netta del 21% su base annua per i lavoratori del settore privato, a fronte di incrementi pressoché nulli nel settore pubblico. E si calcola che la gran parte dei contratti a tempo determinato sono somministrati dalla pubblica amministrazione. Dunque, i dipendenti pubblici, in media, guadagnano meno dei loro colleghi del settore privato e sono più frequentemente assunti con contratti precari.
    Per quanto riguarda la produttività del lavoro nel settore pubblico, pure a fronte delle rilevanti difficoltà di misurazione, e pur volendo accettare la tesi che questa è più bassa rispetto al settore privato, occorre ricordare che l’operatore pubblico svolge, di norma, le proprie funzioni in quelle che William Baumol definiva “attività stagnanti”, ovvero attività nelle quali (si pensi ai servizi alla persona) risulta impossibile generare avanzamento tecnico e, dunque, incrementi di produttività. In tal senso, se anche si ritiene che il ‘merito’ del singolo lavoratore sia misurabile e che lo sia anche nei servizi nel settore pubblico, da ciò non si può immediatamente dedurre che questa conclusione discende dal basso rendimento degli occupati, potendo più realisticamente dipendere dalla bassa accumulazione di capitale. Si calcola anche che il tasso di assenteismo dei lavoratori del settore pubblico italiano è in linea con la media europea. I fautori delle privatizzazioni sostengono che l’operatore privato è sempre più efficiente dell’operatore pubblico. Lo Stato deve limitarsi a creare le condizioni necessarie affinché l’esercizio della libertà d’impresa avvenga nel rispetto delle norme e dei contratti vigenti.
    Nella fattispecie della società Autostrade, si propone (così Confindustria) l’istituzione di una commissione che esamini le concessioni e vigili sullo svolgimento del servizio. Non si ammette quello che si considera il ritorno ai “carrozzoni di Stato”. Per contro, i fautori delle nazionalizzazioni ritengono che possa essere solo lo Stato a svolgere funzioni di interesse generale e, nel caso della società Autostrade, propongono (in linea con il governo) la revoca della concessione. Quest’ultima posizione è condivisibile, se non altro per come è stato gestito il processo di privatizzazione in Italia, con una puntualizzazione, che riguarda la selezione dei nostri manager pubblici. Si tratta di una questione pressoché ignorata, ma rilevante. Su fonte ministero dell’economia e delle finanze, risulta che l’Italia ha pochi dirigenti pubblici, molto meno dei principali paesi europei. Risulta anche che sono mediamente più anziani. Soprattutto risulta assente una scuola di alta formazione, come esiste in altri paesi europei (si pensi al caso francese).
    Vi è di più. La lunga stagione delle privatizzazioni – durata almeno un ventennio in Italia, nella sostanziale assenza di voci critiche – coincise con la cosiddetta  svolta neoliberista e con la convinzione che oltre a generare maggiore efficienza, la cessione di asset pubblici a privati fosse necessaria per aumentare il gettito fiscale e generare avanzi primari. Le privatizzazioni – intenzionalmente o meno – servivano anche ad accrescere le diseguaglianze distributive, sia per l’aumento delle tariffe, sia perché – e per conseguenza – l’accesso a servizi privati è più difficile per i percettori di redditi bassi. Si riteneva che l’aumento delle diseguaglianze fosse un motore di crescita attraverso i cosiddetti effetti di sgocciolamento: i ricchi, in quanto più produttivi (per ipotesi), contribuiscono maggiormente alla crescita economica, rendendo successivamente possibili misure di trasferimento a vantaggio dei più poveri. La redistribuzione a vantaggio dei più ricchi si è verificata, lo sgocciolamento no.
    La convinzione per la quale le privatizzazioni servono ad aumentare le entrate fiscali e a generare crescita è molto problematica e, nei fatti, sembra essere falsa. Ciò a ragione del fatto che, per definizione, esse implicano – come si è verificato in Italia – una riduzione delle dimensioni del settore pubblico. Come certificato dall’Inps, il primo effetto (ovvio e prevedibile) derivante dalla riduzione del numero di dipendenti pubblici è proprio la riduzione delle entrate fiscali. Il privato può più facilmente evadere o eludere. Il secondo (altrettanto prevedibile) risultato consiste nell’accentuazione della caduta della domanda interna, per il tramite dei minori consumi derivanti dalla decurtazione dei redditi nel pubblico impiego. Il terzo risultato è il peggioramento della qualità dei servizi offerti, come conseguenza (anch’essa ovvia) della riduzione del numero di occupati.
    (Guglielmo Forges Davanzati, “Alcuni effetti indesiderati delle privatizzazioni in Italia”, da “Megachip” del 21 agosto 2018).

    La tragedia di Genova ha contribuito a spostare l’agenda del dibattito pubblico sull’alternativa fra privatizzazione e nazionalizzazione. In premessa: nel caso italiano, appare difficile negare che le privatizzazioni abbiano prodotto più danni che benefici. Si sono realizzate essenzialmente attraverso la cessione di monopoli pubblici a monopoli privati, con conseguente aumento delle tariffe e, molto spesso, con peggioramento della qualità dei servizi erogati. A partire dagli anni Novanta si è assistito a un rilevante passo indietro dell’intervento pubblico in economica. Ovviamente si è trattato di un fenomeno globale, che, come spesso accade, l’Italia ha sperimentato più tardi (la prima ondata di privatizzazioni in Europa si ha nell’Inghilterra della signora Thatcher negli anni Ottanta) e, quando lo ha sperimentato, lo ha fatto con la massima accelerazione. Il ritiro dello Stato si registra in un notevole dimagrimento del settore pubblico italiano, in particolare per numero di addetti. L’intero settore pubblico italiano nelle due diverse ramificazioni è nei fatti il più sottodimensionato d’Europa.

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