Archivio del Tag ‘governo gialloverde’
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Barnard: i buffoni che scoprono solo ora il bluff gialloverde
Italiani “buffoni”. Non quelli al governo, o quelli che l’esecutivo gialloverde l’hanno sempre e solo visto come un’epidemia di colera fascio-razzista in salsa populista. No, peggio: i veri buffoni, secondo Paolo Barnard, sono i connazionali che oggi – a fine 2018 – si stracciano le vesti, gridando al tradimento dei loro ex paladini. Lega e 5 Stelle: ieri bellicosi e polemici con la “dittatura” finto-europeista dell’Ue, e adesso già belanti e pronti a trattare, di fronte al muro di minacce e di ricatti innalzato da Bruxelles alle prime avvisaglie di deficit. E’ bastato poco: le provocazioni speculative dello spread, le intimidazioni di Moscovici e Juncker, la complicità mercenaria dell’eterno establishment italico “venduto allo straniero”. Fine del sogno irredentista: l’Italia si appresta a farsi rimettere in riga dai ragionieri dell’Unione Europea, tanto disonesti da accanirsi con noi – non tollerando neppure quel timido 2,4% di disavanzo – per poi affrettarsi a perdonare la Francia del “fratello” Macron, che per difendersi dalla rivolta dei Gilet Gialli annuncia che sforerà persino il mitologico 3% sancito da Maastricht sulla base di mere asserzioni “teologiche”, senza alcun rapporto con l’economia reale. O meglio: chi impose quel limite artificioso al deficit lo fece nella più clamorosa malafede, ben sapendo che tagliare le unghie agli Stati avrebbe terremotato i consumi e fatto sparire la classe media, deformando l’economia a esclusivo vantaggio dell’élite finanziaria.Il primo a raccontarlo, in Italia, fu proprio Paolo Barnard, solitario giornalista a tutto tondo (uno dei pochissimi in circolazione), capace di divorziare da “Report”, che aveva fondato insieme alla Gabanelli, per trasformarsi in un attivista d’avanguardia, impegnato a spiegare ai non-addetti le perverse alchimie della finanza e di una moneta, l’euro, fabbricata a scopo di dominazione, per confiscare la democrazia in Europa. Nel saggio “Il più grande crimine, uscito nel 2010, Barnard ricostruisce in termini addirittura criminologici la genesi dell’attuale Ue, imputandola all’azione (molto subdola) delle nuove oligarchie del denaro, vere e proprie eredi delle aristocrazie che furono. Missione: rimettere in piedi una sorta di Sacro Romano Impero governato da dogmi, da imporre agli ex-cittadini trasformati in neo-sudditi, cui infliggere crisi e disoccupazione, precarietà e insicurezza sociale, erosione dei risparmi, salari ridicoli e pensioni da fame. La scusa: non ci sono più soldi, il debito pubblico ci divora. La grande omissione: la moneta. Chi la controlla? Chi la detiene? Chi la emette? E’ lei, la moneta, la sola misura del debito. Un debito pubblico denominato in moneta sovrana non è un problema, in nessun caso. Usa, Cina e Russia non potranno fallire mai. Il Giappone ha il doppio del debito italiano, eppure non ne soffre. Solo in Europa – caso unico al mondo – mezzo miliardo di persone è in balia di macellai, come nel caso della Grecia, senza che nessuno si ribelli davvero.Potevano farlo Di Maio e Salvini? Dovevano farlo, stando alle rispettive campagne elettorali. In tanti li avevano presi sul serio: i loro avversari, Pd in testa, dichiaramente spaventati dal possibile nuovo corso, e poi ovviamente i loro sostenitori (almeno il 60% degli italiani, stando ai sondaggi), convinti di potersi fidare di questi due nuovissimi “salvatori della patria”. A storcere il naso fin dal principio, viaggiando come sempre “in direzione ostinata e contraria”, c’era lui: Paolo Barnard. Lo ricorda impietosamente, oggi, sul suo blog. Era il 31 maggio 2018 quando scriveva: «Luigi Di Maio e Matteo Salvini hanno inflitto agli elettori euroscettici italiani la più desolante umiliazione che chiunque potesse immaginare. Non male, per due “paladini” delle sovranità italiane. Ma molto peggio: hanno seppellito per sempre le speranze sovraniste italiane in un colpo solo». Nel senso: prima di sfidarlo, il nemico devi conoscerlo. E se è così potente, distruggendo te, scoraggerà chiunque altro vorrà provare a combatterlo. I gialloverdi? Pericolosamente velleitari, irresponsabili e cialtroni.«Esauriti i primi proclami di cosmesi, hanno già intrapreso il camino delle ceneri sul capo, verso le vie di Bruxelles e del Quirinale, precisamente come ogni altro fantoccio italiano dal 1993 in poi». Questo, aggiunge Barnard, accade «a tristissime spese dell’elettorato per l’impreparazione e la sprovvedutezza di Lega e 5 Stelle nell’aver grossolanamente sottovalutato l’avversario». Maggio 2018, e Barnard già scriveva: «Siamo infatti all’ennesima umiliazione nazionale, ora certa». Sei mesi dopo, qualche sassolino dalla scarpa se lo toglie, Barnard: «Chi fra i Socci, Fusaro, Becchi, e tutti ’sti delusi ragazzetti/e web che ora ragliano sui social “vi avevamo creduto! traditori!” condivise la mia previsione? Nessuno». E perché? «Perché ’sti personaggetti e i loro adoranti “ti metto 1 miliardo di like” tenevano i piedi in due staffe», scrive Barnard, che non perdona chi oggi – fuori tempo massimo – sta cambiando idea, giorno per giorno, di fronte al crollo della scommessa gialloverde. I supporter del “governo del cambiamento”? Piccoli opportunisti: «Sapete, non si sa mai: e se il carro dei vincitori vinceva? Comodo adesso saltar giù, buffoni».Italiani “buffoni”. Non quelli al governo, o quelli che l’esecutivo gialloverde l’hanno sempre e solo visto come un’epidemia di colera fascio-razzista in salsa populista. No, peggio: i veri buffoni, secondo Paolo Barnard, sono i connazionali che oggi – a fine 2018 – si stracciano le vesti, gridando al tradimento dei loro ex paladini. Lega e 5 Stelle: ieri bellicosi e polemici con la “dittatura” finto-europeista dell’Ue, e adesso già belanti e pronti a trattare, di fronte al muro di minacce e di ricatti innalzato da Bruxelles alle prime avvisaglie di deficit. E’ bastato poco: le provocazioni speculative dello spread, le intimidazioni di Moscovici e Juncker, la complicità mercenaria dell’eterno establishment italico “venduto allo straniero”. Fine del sogno irredentista: l’Italia si appresta a farsi rimettere in riga dai ragionieri dell’Unione Europea, tanto disonesti da accanirsi con noi – non tollerando neppure quel timido 2,4% di disavanzo – per poi affrettarsi a perdonare la Francia del “fratello” Macron, che per difendersi dalla rivolta dei Gilet Gialli annuncia che sforerà persino il mitologico 3% sancito da Maastricht sulla base di mere asserzioni “teologiche”, senza alcun rapporto con l’economia reale. O meglio: chi impose quel limite artificioso al deficit lo fece nella più clamorosa malafede, ben sapendo che tagliare le unghie agli Stati avrebbe terremotato i consumi e fatto sparire la classe media, deformando l’economia a esclusivo vantaggio dell’élite finanziaria.
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Cremaschi: Governo del Cedimento, pagheranno gli italiani
Il governo si è incamminato verso il cedimento completo alla Ue. Per questo la Borsa sta festeggiando da giorni e la finanza che manovra sullo spread ha preso atto della svolta e ha cominciato ad stringere la corda. Salvini e Di Maio sono e si sono incastrati sullo spread: dopo la sua discesa, a seguito della loro disponibilità a trattare con la Ue, non potranno certo farlo risalire con frasi né tantomeno con comportamenti di rottura. D’altra parte anche la Commissione Ue ha tutto l’interesse all’accordo, perché questo confermerebbe la sovranità limitata degli Stati del sud Europa, ridarebbe forza a trattati feroci come il Fiscal Compact, che in realtà nessuno Stato sta rispettando e può rispettare. E inoltre consoliderebbe la sempre più chiara alleanza tra la nuova Europa dei governi reazionari di Kurz e Orban e quella dei vecchi governi liberisti di Macron e Merkel. Salvini e Di Maio hanno preso una cantonata devastante quando si sono illusi che i partiti e i governi che li hanno sostenuti quando chiudevano i porti, li avrebbero appoggiati anche sulle pensioni e sul reddito. Non hanno capito che i reazionari del nord ed est Europa odiano i migranti, così come disprezzano gli italiani e tutti i popoli meridionali fannulloni e spendaccioni. E neppure hanno capito che i fascisti del sud, come il partito neofranchista Vox che è appena entrato nel Parlamento regionale dell’Andalusia in Spagna, sono tanto reazionari quanto europeisti.Salvini e Di Maio hanno subìto dai mercati, dal grande padronato, dalla Ue, una pressione ben più leggera di quanto toccò alla Grecia di Tsipras nel 2014. Ma è bastato solo alludere alla stessa medicina somministrata allora dalla Troika, lo ha fatto anche Monti che ne possiede adeguate conoscenze, e i due fieri sovranisti si sono piegati come fuscelli. Dopo la tragedia greca la farsa italiana. Oramai la trattativa governo Ue ha un solo vero scopo: permettere di salvare la faccia ai gialloverdi, almeno fino alle elezioni europee. Il deficit infatti sarà ridotto dal 2,4 al 2 o anche più in basso. Questo vuol dire che, rispetto alla sua stessa manovra, il governo dovrà tagliare dai 7 ai 9 miliardi le misure che intende fare, o altre spese su altre voci. Complessivamente la manovra si configurerà come quella più liberista e austera dai tempi di Monti. Verrà stretto ancora il cappio che da più di venti anni strangola l’economia del paese, quello dell’attivo primario di bilancio. Cioè lo Stato, alla fine di tutte le partite di giro, ancora una volta restituirà ai cittadini molto meno di quello che riscuoterà in tasse e contributi.Tria ha inoltre promesso 18 miliardi di privatizzazioni all’anno per abbassare il debito. Non c’è male per chi aveva commentato la strage del Ponte Morandi riproponendo la necessità delle privatizzazioni. Ma con la disinvoltura che lo distingue è stato proprio Di Maio a propagandare la nuova grande privatizzazione. Aggiungendo che non riguarderà aziende, ma solo edifici e terreni. Se fosse vero, considerato che dopo averla regalata alla Ue questa svendita di beni pubblici sarà sottoposta a obblighi brutali, saremmo alla più grande dismissione di suolo pubblico ai privati da cento anni in qua. Nel paese dei disastri idrogeologici questa sarebbe davvero una scelta criminale. Il governo Salvini Di Maio era partito come il contestatore delle regole Ue e ne diventerà uno dei più ligi esecutori, privatizzazioni ed austerità saranno la sua vera politica, il resto propaganda. È vero dunque che la finanziaria che concorderanno Conte e Moscovici aggraverà la crisi economica, visto che l’Italia, assieme alla Germania e ad altri paesi di Europa, sta entrando in recessione. Gli industriali se ne sono accorti e, come hanno sempre fatto quando i guadagni calavano, dopo aver appoggiato il governo hanno iniziati a criticarlo. Con il solo scopo di rafforzare le posizioni liberiste di Salvini e di portarlo alla fine a guidare da solo il paese.Ma cosa resterà allora della manovra del popolo festeggiata dal balcone, tra tagli, privatizzazioni, rinvii di spesa? Ben poco. Le due operazioni bandiera, il reddito di cittadinanza e l’abolizione della legge Fornero si sgonfieranno e si ridurranno a poche misure di facciata, dello stesso segno e dimensione degli 80 euro e delle varie mance elettorali del governo Renzi. Il reddito di cittadinanza da tempo non è più tale, ma è diventato una social card come quella di Tremonti, che si aggiunge al reddito di inclusione del governo Gentiloni. Sì darà qualche soldo in più, da spendere subito e bene col bancomat di Stato, ad una ristretta platea di poveri, ma soprattutto si finanzieranno con danaro pubblico le paghe di fame di chi lavora. Se il padrone dà 400 euro al mese, lo Stato contribuirà per arrivare a 780, ammesso che questa cifra finale resti. Quindi il reddito di cittadinanza diventerà il mezzo per introdurre in Italia il sottolavoro finanziato dallo Stato, come ha fatto la famigerata legge Hartz IV, che in Germania ha prodotto milioni di lavori sottopagati. Le aziende saranno incentivate ad assunzioni precarie con salari vergognosi, perché lo Stato ci metterà una parte della paga. Come ha preteso la lega alla fine il reddito di cittadinanza diventerà soprattutto un finanziamento alle imprese.Per quanto riguarda la legge Fornero, Salvini e Di Maio dovranno sottoscrivere con la Ue la rinuncia ad ogni sua reale abolizione. Era questa infatti la misura che più preoccupava i governi europei, tutti intenzionati ad innalzare l’età della pensione. Nessun governo farebbe invece vere obiezioni di fronte a prepensionamenti temporanei, perché questi avvengono in ogni paese. Quindi il governo dovrà giurare alla Ue che i 67 anni, a crescere, dell’età della pensione per tutte e tutti non verranno toccati. Poi potrà contrattare, ovviamente coprendo i costi con altri tagli, per quanti si allargheranno le maglie della gabbia. Le ultime proposte cancellano definitivamente quota 100 come diritto valido per sempre e promettono il pensionamento anticipato, naturalmente con le penalizzazioni di legge, solo a chi avrà maturato il requisito negli ultimi due o tre anni. Per chi ci arriva dopo ciccia. Centomila prepensionamenti da spendere in campagna elettorale e poi chi s’è visto s’è visto. Questo è il tradimento più sfacciato delle promesse elettorali di Salvini e Di Maio.Tuttavia nulla cambierà fino a che l’opposizione ufficiale al governo sarà rappresentata dai residui del centrosinistra e del centrodestra e fino a che Salvini riuscirà, grazie anche ai mass media, a distrarre l’opinione pubblica con la caccia ai migranti e con la libertà di sparare. Il governo del cambiamento diventerà il governò del cedimento, ma continuerà a servire i potenti e a spadroneggiare coi più deboli, fino a che avrà di fronte chi ha fatto le stesse politiche liberiste e ora lo accusa di non farle altrettanto bene. Per questo bisogna costruire ed estendere una opposizione sociale e politica diversa, che lotti sia contro gli imbrogli e la resa di Salvini e Di Maio, sia contro l’austerità, le regole liberiste e i diktat della Ue. La Francia, in rivolta contro quel Macron che aveva votato quasi al settanta per cento, conferma che le glorie politiche oggi sono molto effimere e che le politiche di austerità divorano chi le fa, ma anche chi finge di combatterle.(Giorgio Cremaschi, “Il governo del cedimento”, da “Micromega” del 7 dicembre 2018).Il governo si è incamminato verso il cedimento completo alla Ue. Per questo la Borsa sta festeggiando da giorni e la finanza che manovra sullo spread ha preso atto della svolta e ha cominciato ad stringere la corda. Salvini e Di Maio sono e si sono incastrati sullo spread: dopo la sua discesa, a seguito della loro disponibilità a trattare con la Ue, non potranno certo farlo risalire con frasi né tantomeno con comportamenti di rottura. D’altra parte anche la Commissione Ue ha tutto l’interesse all’accordo, perché questo confermerebbe la sovranità limitata degli Stati del sud Europa, ridarebbe forza a trattati feroci come il Fiscal Compact, che in realtà nessuno Stato sta rispettando e può rispettare. E inoltre consoliderebbe la sempre più chiara alleanza tra la nuova Europa dei governi reazionari di Kurz e Orban e quella dei vecchi governi liberisti di Macron e Merkel. Salvini e Di Maio hanno preso una cantonata devastante quando si sono illusi che i partiti e i governi che li hanno sostenuti quando chiudevano i porti, li avrebbero appoggiati anche sulle pensioni e sul reddito. Non hanno capito che i reazionari del nord ed est Europa odiano i migranti, così come disprezzano gli italiani e tutti i popoli meridionali fannulloni e spendaccioni. E neppure hanno capito che i fascisti del sud, come il partito neofranchista Vox che è appena entrato nel Parlamento regionale dell’Andalusia in Spagna, sono tanto reazionari quanto europeisti.
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Boccia contro il governo, ma tutela solo il 5% delle imprese
Un governo come quello in carica, che si propone di rilanciare la domanda interna e la produzione industriale, dovrebbe avere il gradimento della Confindustria, cosa che invece non avviene, almeno a giudicare dalle dichiarazioni del suo presidente Boccia. Secondo il leader degli imprenditori italiani, infatti, i provvedimenti contenuti nel Def non aiutano la crescita. Mancherebbero gli investimenti per le grandi opere infrastrutturali e soprattutto le risorse per diminuire il cuneo fiscale, che è la somma delle imposte dirette, indirette e dei contributi previdenziali che pesano sul costo del lavoro, sia per quanto riguarda i datori di lavoro, sia per quanto riguarda i dipendenti. Più semplicemente: il cuneo fiscale è la differenza tra quanto un dipendente costa all’azienda e quanto lo stesso dipendente incassa al netto in busta paga e questa differenza in Italia è molto alta. Rilievi giusti, di fronte ai quali il reddito di cittadinanza proposto dal Movimento 5 Stelle sembrerebbe completamente fuori contesto e prospettiva. Tuttavia, chiedere più investimenti, meno imposte e tasse e nel contempo il rispetto delle assurde norme europee, ancorché accettate dai governi precedenti, diventa un vero e proprio ossimoro economico. E’ come aspettarsi la crescita dalla recessione, la diminuzione delle imposte dall’aumento delle stesse.Dalle dichiarazioni di Boccia assolutamente non si capisce dove voglia andare la classe imprenditoriale italiana, ma forse si capisce fin troppo bene. Valerio Malvezzi ci fornisce una prima chiave di lettura. Infatti nell’industria e nei servizi le imprese italiane sono poco più di quattro milioni. Orbene, su quattro milioni di imprese, le grandi imprese, quelle con oltre duecentocinquanta addetti, sono 3.140 e assorbono il 18% dei lavoratori. Le restanti aziende, pari al 94,9% del totale, hanno una media di 3,8 lavoratori ed impiegano il 48% di tutti gli addetti, praticamente assorbono la metà dell’occupazione italiana. Dette imprese, con meno di 10 operai, giuridicamente sono denominate micro-imprese. In definitiva, il sistema Italia si regge sugli artigiani, sui commercianti, sui piccoli agricoltori, sui piccoli imprenditori. Boccia parla nell’interesse di queste micro-imprese o delle poche aziende che hanno dimensioni tali per potere esportare? La risposta è univoca. La Confindustria è strettamente legata al progetto globalista degli anni ‘90, che assume la forma più compiuta con la creazione dell’Unione Europea, e che può essere così riassunto: stabilità dei prezzi, indipendenza della banca centrale, basso costo del denaro, delocalizzazioni, grande attenzione all’export.Sappiamo anche, però, che questo nel medio-lungo periodo ha comportato la ristrutturazione del sistema-paese, da grande potenza industriale a mera piattaforma logistica di trasformazione e consumo di prodotti non nazionali. Ma perché portare avanti questa visione ottusa, che ormai da anni caratterizza tutto l’ambiente confindustriale, priva di impegno per la stragrande maggioranza degli imprenditori? Per il potere. I vincoli esterni, il giudizio dei mercati, l’arbitraggio fiscale, le strutture sovranazionali non elette hanno marginalizzato il ruolo della politica, ridotto il Parlamento o mero gabelliere di Bruxelles, hanno evirato le organizzazioni sindacali e impedito qualsiasi lotta di classe degna di questo nome conferendo così un grande potere politico e decisionale alle imprese multinazionali. In definitiva, che la politica economica del governo 5 Stelle-Lega possa avere successo e alleviare i problemi del 95% degli imprenditori italiani alla Confindustria interessa poco. In fondo essa rappresenta solamente ed esclusivamente gli interessi delle lobby nostrane, che sono pronte ad immolare l’Italia nel perseguimento del progetto distopico globalista secondo i dettami dei suoi cattivi maestri. Ça va sans dire: cummannari è megghiu ca futtiri.(Raffaele Salomone-Megna, “Cummannari è megghiu ca futtiri”, da “Scenari Economici” del 10 dicembre 2018).Un governo come quello in carica, che si propone di rilanciare la domanda interna e la produzione industriale, dovrebbe avere il gradimento della Confindustria, cosa che invece non avviene, almeno a giudicare dalle dichiarazioni del suo presidente Boccia. Secondo il leader degli imprenditori italiani, infatti, i provvedimenti contenuti nel Def non aiutano la crescita. Mancherebbero gli investimenti per le grandi opere infrastrutturali e soprattutto le risorse per diminuire il cuneo fiscale, che è la somma delle imposte dirette, indirette e dei contributi previdenziali che pesano sul costo del lavoro, sia per quanto riguarda i datori di lavoro, sia per quanto riguarda i dipendenti. Più semplicemente: il cuneo fiscale è la differenza tra quanto un dipendente costa all’azienda e quanto lo stesso dipendente incassa al netto in busta paga e questa differenza in Italia è molto alta. Rilievi giusti, di fronte ai quali il reddito di cittadinanza proposto dal Movimento 5 Stelle sembrerebbe completamente fuori contesto e prospettiva. Tuttavia, chiedere più investimenti, meno imposte e tasse e nel contempo il rispetto delle assurde norme europee, ancorché accettate dai governi precedenti, diventa un vero e proprio ossimoro economico. E’ come aspettarsi la crescita dalla recessione, la diminuzione delle imposte dall’aumento delle stesse.
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Magaldi: altro che Global Compact, serve una rivoluzione
Global Compact? “Ma mi faccia il piacere”, avrebbe detto Totò. Chi dovrebbe globalizzarli, i diritti? L’élite neoliberista che ha imbrogliato i francesi imponendo loro un ducetto come Macron, al quale infatti oggi la Francia si ribella? Non è più tempo di buonismi pelosi, o di dichiarazioni di principio altisonanti e destinate a restare lettera morta. Secondo Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, c’è poco da scherzare: l’Italia gialloverde traballa ingloriosamente sotto la scure dell’Ue, proprio mentre i Gilet Gialli paralizzano Parigi e almeno 7 francesi su 10 parteggiano per la rivolta di strada. E’ lo specchio perfetto, dice Magaldi, del vero volto della globalizzazione-canaglia, a senso unico, messa in piedi a esclusivo beneficio delle multinazionali finanziarie. La stessa élite vorrebbe imporre l’accoglienza illimitata dei migranti col patrocinio dell’Onu? Ridicolo, anche perché le Nazioni Unite non sono più una cosa seria. «Hanno fallito, come prima di loro la Società delle Nazioni». Che fare? «Per esempio creare una Organizzazione Mondiale delle Democrazie, capace di gestire il mondo rimettendo al centro la politica». Sogni? Sì e no: dipende da quali meccanismi si mettono in moto. «E la situazione, oggi, per molti aspetti è pre-rivoluzionaria, non solo nella Francia di Macron».In una conversazione a ruota libera su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” all’indomani della “resa” di Macron alle richieste dei Gilet Gialli, che chiedono che il governo annulli tutte le misure di austerity annunciate, Magaldi parte proprio dalle polemiche sul Global Compact. Un’intesa solo pletorica e fondata su impegni non cogenti, peraltro già boicottata da vari pesi massimi della politica mondiale. Eppure c’è chi la indica come pericoloso cavallo di Troia dell’élite neoliberista, che promuove l’emigrazione di massa per abbassare il costo del lavoro in Occidente a spese dei lavoratori autoctoni. Sdoganare l’emigrazione come fenomeno fisiologico? Mai e poi mai, protesta – sempre in web-streaming con Frabetti – un altro “roosveltiano” come Gianfranco Carpeoro: «Vorrei vedere nelle nostre strade solo studenti africani e turisti africani, non africani che abbiamo costretto a scappare dai loro paesi». Magaldi concorda: il potere che oggi difende l’esodo di massa è il primo responsabile dell’impoverimento di milioni di persone, nel cosiddetto terzo mondo. L’immigrazione va controllata, è ovvio. Ma per scoraggiarla serve una riconversione globale della politica, ad esempio mettendo fine al saccheggio dell’Africa. A patto comunque che non si pretenda di alzare muri: impensabile isolare le popolazioni entro le gabbie nazionali, in un pianeta ormai completamente interconnesso (e spesso felicemente, grazie al contatto tra culture diverse).Il problema semmai è nel manico, insiste Magaldi: è impossibile far applicare un qualsiasi Global Compact, così come gli stessi innumerevoli trattati sul clima, perché manca un potere decisionale democratico mondiale. Manca, per lo spesso motivo per cui finora la mondializzazione non è stata certo democratica: è stata finora condotta da oligarchie private, ricorda Magaldi, a partire dall’inizio degli anni ‘90, subito dopo il crollo dell’Urss e la nascita dell’Ue, e poi con la deregulation finanziaria e l’ingresso del colosso cinese nel Wto. Ad oggi abbiamo visto solo una globalizzazione di merci e capitali. «La libera circolazione delle persone? Si è favorita un’immigrazione incontrollata, creando competizione tra poveri e abbassamento del costo della manodopera». Altri danni, ai sistemi sociali occidentali (leggasi: lavoratori) sono stati provocati dalle delocalizzazioni industriali. Fermare tutto e tornare ai dazi nazionali degli uni contro gli altri? Pessima idea: «In passato, le politiche protezionistiche sono sfociate in guerre sanguinose. E oggi si avrebbero comunque guerre economiche cruente, alla fine non convenienti per nessuno».Per Magaldi, serve «una globalizzazione di diritti, opportunità e democrazia». Facile a dirsi, certo. Ma intanto, chi lo dice, nel mainstream politico dominato da polemiche sempre più accese? «In Italia – aggiunge Magaldi – l’immigrazione rischia di diventare solo un mezzo, strumentale, per creare tensioni sociali (e in questo caos, poi, sappiamo che le solite “manine” si muovono in termini opachi)». Che fare? Semplice, in teoria: dobbiamo «mettere all’ordine del giorno mondiale una rivalutazione della politica, che deve tornare a essere il centro decisionale di ogni cosa che riguardi i livelli locali e globali». E cioè: «Ripensare gli interessi globali, valorizzando gli equilibri e le risorse locali». Sarebbe la migliore risposta a questa globalizzazione, «sorretta dall’ideologia neoliberista e gestita soprattutto da poteri privati». Al contrario, bisogna «puntare una globalizzazione gestita, a livello apicale, da poteri politici globali». Dovevano farlo prima la Società delle Nazioni e poi l’Onu. Due fallimenti storici. Una cosa è certa: così non si andrà lontano. Meglio allora «pensare a una trasformazione dell’Onu, verso una nuova politica democratica che abbia l’ultima parola nei grandi processi decisionali».Sbaglia, chi pensa di poter contrastare poteri sovranazionali e apolidi (cioè incarnati da avventurieri senza patria), rintanandosi «nel fittizio calduccio delle comunità nazionali». Quelle stesse comunità, sostiene Magaldi, le vedremmo «sempre scosse da poteri più ampi, di natura globale: che vanno contrastati e ricollocati nella loro giusta dimensione da poteri politici altrettanto globali». Poteri che – a quel punto – potrebbero anche costruire democraticamente un vero Global Compact, ben diverso da questa aleatoria dichiarazione d’intenti non vincolante («molto rumore per nulla, salvo enunciazioni sottoscrivibili, a favore dell’estensione dei diritti umani, se non sapessimo che sono soltanto parole»). In altri termini: «Se vogliamo essere concreti, bisogna che gli organi preposti ad attuare questi principi abbiano un potere cogente, però democratico e non calato dall’alto». Premessa: «Dobbiamo essere capaci di riflettere sulla natura del mondo che vogliamo». Prima di scrivere qualsiasi Global Compact, cioè, occorrerebbe disporre di una vera Organizzazione Mondiale delle Democrazie, «che sostituisca l’attuale Onu ed escluda anche dal circuito commerciale delle merci e dei capitali i paesi privi di standard democratici, premendo su di essi – anche con sanzioni economiche – perché i loro regimi evolvano verso forme democratiche».La verità, insiste Magaldi, è che questo tipo di globalizzazione – l’unica vista finora – ha deluso molti, perché al primo posto non c’è la diffusione mondiale della democrazia e dei diritti. Ultima cartina di tornasole: i francesi. «Alle elezioni sono stati obnubilati dalla mistificazione mediatica: bastava guardare cos’era Macron, consulente economico di Hollande e poi ministro del governo Valls voluto da Hollande». Appunto: «In che modo poteva rappresentare una soluzione di continuità rispetto a Hollande che, eletto a furor di popolo per rappresentare il campione anti-austerity e anti-Merkel in Europa, aveva tradito tutte le aspettative? Le ha tradite anche Macron». Al primo turno, Macron aveva ottenuto solo pochi decimali più dei concorrenti, «poi al ballottaggio contro Marine Le Pen avrebbe vinto chiunque». Oggi la democrazia francese appare bloccata: «Fintanto che un certo tipo di opposizione si radicalizzerà in gruppi politici infecondi, l’altro candidato avrà sempre la meglio». Vincerà sempre il più “moderato”, si sarebbe detto un tempo. Non è più vero: «In Francia come altrove, oggi la parola “moderazione” non significa più nulla», se è vero che Macron – dietro l’apparenza – era il candidato dell’élite economica più pericolosamente estremista, come dimostra l’esasperazione di massa dei Gilet Gialli.Insurrezione, la loro – non proprio rivoluzione, «che però ha un enorme valore per lo spirito messo in evidenza», sottolinea Magaldi: «Qui c’è un popolo, un’avanguardia popolare largamente sostenuta dal paese, che dice basta: denuncia l’insostenibilità di salari che, al netto delle tasse, non consentono di arrivare alla fine del mese. Ed è la fotografia, appunto, di una cattiva globalizzazione, dove i ricchi sono sempre più ricchi, mentre per la gran parte della popolazione la fetta da spartire si è ridotta, e la classe media è stata compressa persino nella ricca e opulenta Francia». Qualunque economista, oggi, ammette che è cresciuta enormemente la disuguaglianza: si è fatto enorme il divario tra ricchi e poveri, in questa «iniqua e stupida modalità di gestire la globalizzazione». Stupida ma, beninteso, «figlia di un’impostazione raffinata, perversa e intelligente nel produrre i suoi effetti, che spero – dice Magadi – saranno l’occasione per produrre una grande rivoluzione democratica».La stupidità di questi globalizzatori, spiega il presidente del Movimento Roosevelt, sta «nel pensare che si poteva impunemente gestire la globalizzazione in questi termini, e che in Francia – dopo il bluff e la delusione di Hollande – si poteva impunemente imporre al popolo francese un damerino, un cicisbeo inconsistente come il fratello massone Macron, fintamente progressista e fintamente europeista». Un personaggio che invece di proporsi come presidente della Francia, «propinando ricette economiche analoghe a quelle del suo più modesto alter ego italiano Matteo Renzi», avrebbe fatto meglio a «rimanere nella sua vita privata di collaboratore bancario», uomo di fiducia della filiera Rothschild. «Oggi più che mai – aggiunge Magaldi – gestire il futuro dell’Europa è un compito che richiede persone con uno spessore molto diverso. Purtroppo invece abbiamo una classe dirigente europea che è fatta di cialtroni e di mediocri. E infatti, «da bravo cialtrone», dopo aver sbagliato «adesso Macron fa atto di contrizione e torna sui suoi passi», rimangiandosi i provvedimenti che hanno provocato la rivolta dei Gilet Gialli.«Io credo che Macron dovrebbe invece dimettersi», taglia corto Magaldi. E già che c’è, all’ex enfant prodige dell’Eliseo converrebbe «confessare che stessa costruzione della sua presidenza è figlia di una visione sbagliata dei rapporti sociali ed economici». Lo stesso Magaldi ne approfitta per citare il filosofo statunitense John Rawls, massone progressista come i Roosevelt, i Kennedy e lo stesso Keynes, tutti sostenitori del libero mercato integrato nel welfare: «Non c’è niente di male nell’arricchirsi, purché non si tolga agli altri l’essenziale per una vita dignitosa e felice. Invece, la pretesa perversa che ha guidato sin qui la globalizzazione e la stessa Europa, sia a livello di tecnocrazie continentali che di singoli governi, è che i ricchi possano arricchirsi a dismisura, mentre masse di diseredati si debbono contendere le periferie e la stessa classe media, ormai scomparsa, vede ridotta sempre di più la propria capacità di spesa, in un mondo occidentale che peraltro è ricco di opulenza – altro che penuria di risorse! – ma sono sempre di meno quelli che possono approfittarne in modo adeguato». Questa, aggiunge Magaldi, «è la pretesa, la hybris, l’arroganza infingarda» dell’attuale élite neoliberista.Quanto ai Gilet Gialli, «sebbene questa non credo sia una rivoluzione ma un’insurrezione ancora scomposta», il clima generale – francese, ma anche europeo e mondiale (senza contare l’Italia, dove si gioca una partita importante) – secondo Magaldi «è quello che in qualche modo precede una rivoluzione, spero pacifica e democratica». Il governo italiano, fra l’altro, «ha il dovere di guardare a quello che accade in Francia, e di capire che – così come ha deluso le aspettative Macron – rischia di deludere le aspettative del popolo italiano (e anche di altri popoli, che guardano all’Italia come a una possibile avanguardia)». Stiano attenti, i gialloverdi: «Con una spallata potrebbero abbattere questo Mago di Oz collettivo, di cui Macron era parte». O meglio: “potevano”, con una spallata, «tener davvero fede a quell’atteggiamento muscolare che Salvini realizza soltanto a chiacchiere». E invece l’Italia «sta come uno scolaretto che si fa prendere per le orecchie e si fa riscrivere la manovra per restare dentro quegli stessi parametri astratti che adesso Macron, campione di quei parametri e di quella cattiva Europa, si appresta a violare in modo netto». Ora è “pentito” e “contrito”, Macron: ma se farà quello che oggi promette, cioè quello che chiedono i Gilet Gialli, andrà ben oltre i limiti imposti dall’Europa all’Italia. In altre parole: ne vedremo delle belle. Insiste Magaldi: fidatevi, tutto è in rapida evoluzione. E clima lascia presagire esiti rivoluzionari.Global Compact? “Ma mi faccia il piacere”, avrebbe detto Totò. Chi dovrebbe globalizzarli, i diritti? L’élite neoliberista che ha imbrogliato i francesi imponendo loro un ducetto come Macron, al quale infatti oggi la Francia si ribella? Non è più tempo di buonismi pelosi, o di dichiarazioni di principio altisonanti e destinate a restare lettera morta. Secondo Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, c’è poco da scherzare: l’Italia gialloverde traballa ingloriosamente sotto la scure dell’Ue, proprio mentre i Gilet Gialli paralizzano Parigi e almeno 7 francesi su 10 parteggiano per la rivolta di strada. E’ lo specchio perfetto, dice Magaldi, del vero volto della globalizzazione-canaglia, a senso unico, messa in piedi a esclusivo beneficio delle multinazionali finanziarie. La stessa élite vorrebbe imporre l’accoglienza illimitata dei migranti col patrocinio dell’Onu? Ridicolo, anche perché le Nazioni Unite non sono più una cosa seria. «Hanno fallito, come prima di loro la Società delle Nazioni». Che fare? «Per esempio creare una Organizzazione Mondiale delle Democrazie, capace di gestire il mondo rimettendo al centro la politica». Sogni? Sì e no: dipende da quali meccanismi si metteranno in moto. «E la situazione, oggi, per molti aspetti è pre-rivoluzionaria, non solo nella Francia di Macron».
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Je suis NoTav, i sindaci francesi a Torino: basta frottole Ue
Fa parte del paesaggio mentale artificiale: è il solito balletto dei numeri esibiti per gonfiare o sgonfiare le manifestazioni di piazza. Le folkloristiche “madamine” Sì-Tav, da Marco Revelli definite “fate ignoranti” perché dichiaratamente all’oscuro delle ipotetiche ragioni a supporto della Torino-Lione, lo scorso 10 novembre erano 20-25.000 per la questura di Torino, ma una volta sbarcate su “Stampa” e “Repubblica” sono diventate 30.000. Tempo un mese, di fronte alla marea NoTav che l’8 dicembre ha invaso la città, sempre le stesse “madamine” sono magicamente diventate 40.000, per la letteratura giornalistica di una metropoli tramortita dal fiume umano non-ignorante, anzi informatissimo, sceso in corteo fino a intasare piazza Castello. Missione: avvertire il governo gialloverde che una vasta avanguardia democratica della popolazione italiana non tollera che si tenga in piedi a tutti i costi, a beneficio di quella che appare un’esigua ciurma di affaristi, il miraggio della grande opera più inutile d’Europa: una ferrovia di cui non è ancora stato costruito neppure un metro. E a proposito di Europa, ha scaldato i torinesi la generosa presenza dei sindaci francesi, benché oscurata dai media mainstream che hanno preferito parlare solo della rappresentanza transalpina di Gilet Gialli, aggiornati alla bisogna (“Je suis NoTav”). La verità vale oro, specie se recitata in francese nel cuore di Torino: la Francia non sa che farsene, della ipotetica Torino-Lione.Lo hanno scandito dal palco, di fronte alle decine di migliaia di torinesi e valligiani (almeno 70.000, secondo i NoTav), i sindaci delle cittadine francesi al di là del confine, spintisi fino a Torino per contribuire a bonificare i cervelli dalle grossolane menzogne della vecchia élite cementiera subalpina affamata di soldi pubblici: «La Francia ha finora accettato il progetto Torino-Lione solo perché i costi sono per lo più a carico dell’Italia. Ma, anche qualora l’inutile tunnel si scavasse, Parigi non prenderebbe in considerazione la costruzione della nuova linea: documenti alla mano, di quella ferrovia se ne riparlerebbe solo a partire dal 2038». Perché sarebbe inutile, il traforo miliardario? «Perché la linea ferroviaria già esistente è semi-deserta: non ci sono merci da trasportare (né ce ne saranno, secondo tutte le proiezioni). E’ così sotto-utilizzata, la Torino-Modane che collega stabilmente Torino a Lione attraverso la valle di Susa e il Traforo del Fréjus, che basterebbe già oggi a togliere tutti i Tir dalle strade e dall’autostrada, facendoli viaggiare sui treni».Per i passeggeri, va da sé, il problema non esiste: senza contare i voli low-cost, che hanno annullato la concorrenza ferroviaria sulle lunghe tratte, sono comunque quotidiane in valle di Susa le corse del Tgv francese che collega rapidamente Milano a Parigi. La manciata di minuti che si risparmierebbero con il nuovo euro-tunnel da 57 chilometri costerebbero 30-40 miliardi, ma le cifre sono solo teoriche: in Italia la rete Tav è costata quasi il triplo che nel resto d’Europa, con il prezzo degli appalti lievitato anche del 400% rispetto alla stima iniziale. Quello che lascia sgomenti, di fronte al delirio narrativo che ha nutrito la leggenda della Torino-Lione, è la totale assenza di certezze: nonostante la tenacia della protesta della valle di Susa, che ha raccolto la solidarietà di vastissimi strati dell’opinione pubblica italiana, nessuno dei governi degli ultimi vent’anni – Berlusconi, Prodi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni – ha mai voluto o potuto spiegare perché mai l’Italia dovrebbe spendere miliardi per un’infrastruttura dall’impatto sicuramente devastante.Il territorio alpino sarebbe infatti terremotato da anni di cantieri e irrimediabilmente compromesso, visto che si scaverebbe tra montagne piene di amianto e persino di uranio (negli anni ‘70, al tempo del nucleare italiano, l’Agip realizzò decine di tunnel esplorativi proprio sui monti alle spalle di Susa, dato che il Massiccio dell’Ambin è il più grande giacimento di minerale radioattivo di tutte le Alpi Occidentali). Quanto allo spinoso problema idrogeologico, sono gli stessi geologi – tra i redattori del progetto – ad ammettere di non poter valutare l’impatto dell’euro-tunnel: le viscere di quei monti ospitano un’immensa riserva idrica, una sorta di grande lago sommerso. Perforare il bacino sotterraneo potrebbe voler dire far cambiare corso ai fiumi ed esporre più valli alpine al rischio di inondazioni catastrofiche. Citando tecnici della Regione Piemonte, nel saggio “Binario morto” (Chiarelettere), il compianto Luca Rastello, giornalista di “Repubblica”, spiega che – una volta realizzato il tunnel e poi la nuova ferrovia – il raccordo con la rete Tav italiana potrebbe avvenire solo a 30 metri di profondità, “bucando” la falda idropotabile che alimenta l’area metropolitana di Torino.Senza contare l’esborso folle, per un’Europa che muove guerra all’Italia per lo 0,1% del deficit 2019, i maggiori trasportisti italiani – come il professor Marco Ponti, del Politecnico di Milano – ricordano che la chiave logistica per le merci (che per motivi di sicurezza devono viaggiare lentamente) non è la rapidità, ma la puntualità. Nel miglior sistema di smistamento del mondo, quello degli Usa, i treni merci viaggiano a 60 miglia; ma dispongono di efficienti piattaforme logistiche, di cui non c’è traccia né in Piemonte né sulle Alpi del Rodano – dove il trend dei trasporti è in calo da anni, le ferrovie esistenti sono semi-abbandonate e tutte le proiezioni per il futuro dicono che la direttrice commerciale su cui il mercato punta non è la Torino-Lione, ma la Genova-Rotterdam. Se i tecnici universitari a cui si sono rivolti i NoTav hanno prodotto chilometri di documentazione a sfavore del maxi-progetto, sul versante opposto non si è mai usciti dal lobbismo vecchia maniera, fino all’imbarazzante gossip meta-politico delle sedicenti “madamine” torinesi, pronte a invocare “sviluppo e progresso” ma – per loro stessa ammissione – senza conoscere una sola virgola del dossier Torino-Lione. Se si possono capire i piccoli circuiti industriali della vecchia Torino tradita dall’esodo della Fiat, traslocata a Detroit grazie a Marchionne, non è comprensibile il silenzio assordante della politica.Gilet Gialli a Torino ed77eDietro alle “madamine” non è difficile scorgere l’ombra di personaggi multiruolo come Sergio Chiamparino, emblema vivente della sinistra neoliberista, passato senza colpo ferire dalla guida del Comune a quella della Regione, dopo aver presieduto la Compagnia di San Paolo, potentissima fondazione bancaria. Quello che sconcerta, semmai, è la politica nazionale: lungi dal rappresentare, tutelare ed eventualmente rassicurare i 60.000 abitanti della valle di Susa, preoccupati per la loro sicurezza, dopo decenni di proteste i governanti non hanno ancora spiegato, ai cittadini, perché mai dovrebbero sacrificare in modo così devastante il loro territorio. I vari esecutivi, di ogni colore, non hanno mai avuto la cortesia di motivarla, la Torino-Lione: non hanno mai chiarito a cosa servirebbe, in cosa sarebbe strategica per il sistema-Italia o almeno per il Piemonte. Gli unici dati oggettivi vengono, come sempre, dal fronte avverso: il profilo occupazionale della maxi-opera sarebbe così insignificante (qualche centinaio di addetti) che il costo medio di ogni singolo lavoratore supererebbe il milione di euro.Prima e meglio di altre battaglie politiche italiane, quella contro la Torino-Lione ha precisato i termini reali della questione, cioè il diritto democratico di essere innanzitutto informati. Si può discutere se un’opera serva o meno, ma quello che non è accettabile – di fronte alla prove negative fornite dgli oppositori – è che si continui a imporla senza spiegarla, limitandosi a criminalizzare comodamente la protesta. Prima e meglio di ogni altro evento politico recente, la battaglia democratica della valle di Susa – esplosa nel lontano 8 dicembre 2005 – ha illuminato lo scenario con il quale l’intero paese avrebbe fatto i conti, molti di anni dopo, insieme al resto d’Europa: da una parte un’élite autoritaria, la stessa che oggi spinge la polizia di Macron a trattare gli studenti francesi come prigionieri di Guantanamo, e dall’altra il cosiddetto popolo ex-sovrano, quello dei cittadini declassati al rango di neo-sudditi, in balia di un potere apolide e senza volto, che impone decisioni senza mai fornire adeguate spiegazioni.Anche per questo, l’8 dicembre 2018 a Torino, è stata particolarmente istruttiva – oltre che rincuorante – la presenza dei sindaci delle valli francesi interessate dal progetto: nel ribadire la loro piena solidarietà alle migliaia di famiglie del corteo NoTav, hanno sottolineato una vicinanza civile e politica con i “cugini” italiani, alla faccia di Macron e degli altri burattini dell’attuale Disunione Europea. In quel loro “Je suis NoTav”, i francesi rivendicano la loro (e nostra) parte d’Europa, intesa come piattaforma di convivenza democratica popolata di cittadini liberi di pensare, di esprimere la loro voce, di contribuire a un mondo meno ingiusto e meno incomprensibile. Un mondo fatto di “vicini di casa” che si parlano e si capiscono. Quella delle nazioni contrapposte, sembrano dire i francesi accorsi a Torino, è solo una fiaba sinistra, che fa comodo ai sovragestori del potere europeo e magari ai loro oppositori apparenti, arruolati dal neo-sovranismo. La guerra non conviene mai, al popolo: l’antagonismo nazionistico è un imbroglio ridicolo. C’era più Europa, l’8 dicembre a Torino, di quanta non se ne sia vista a Bruxelles negli ultimi vent’anni.(Giorgio Cattaneo, “Je suis NoTav, i sindaci francesi a Torino: amici italiani, fermiamo insieme il treno di questa Ue che ci deruba e ci divide”, dal blog del Movimento Roosevelt del 9 dicembre 2018).Fa parte del paesaggio mentale artificiale: è il solito balletto dei numeri esibiti per gonfiare o sgonfiare le manifestazioni di piazza. Le folkloristiche “madamine” Sì-Tav, da Marco Revelli definite “fate ignoranti” perché dichiaratamente all’oscuro delle ipotetiche ragioni a supporto della Torino-Lione, lo scorso 10 novembre erano 20-25.000 per la questura di Torino, ma una volta sbarcate su “Stampa” e “Repubblica” sono diventate 30.000. Tempo un mese, di fronte alla marea NoTav che l’8 dicembre ha invaso la città, sempre le stesse “madamine” sono magicamente diventate 40.000, per la letteratura giornalistica di una metropoli tramortita dal fiume umano non-ignorante, anzi informatissimo, sceso in corteo fino a intasare piazza Castello. Missione: avvertire il governo gialloverde che una vasta avanguardia democratica della popolazione italiana non tollera che si tenga in piedi a tutti i costi, a beneficio di quella che appare un’esigua ciurma di affaristi, il miraggio della grande opera più inutile d’Europa: una ferrovia di cui non è ancora stato costruito neppure un metro. E a proposito di Europa, ha scaldato i torinesi la generosa presenza dei sindaci francesi, benché oscurata dai media mainstream che hanno preferito parlare solo della rappresentanza transalpina di Gilet Gialli, aggiornati alla bisogna (“Je suis NoTav”). La verità vale oro, specie se recitata in francese nel cuore di Torino: la Francia non sa che farsene, della ipotetica Torino-Lione.
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Bifarini: agonia Ue, elettori traditi. Unica chance, l’Italexit
Dopo la bocciatura definitiva della manovra da parte della Commissione Europea con la prospettiva dell’apertura della procedura d’infrazione contro l’Italia per deficit eccessivo, da più parti ci si chiede quale strada percorrere. Scendere a patti con Bruxelles, come sembrerebbe chiedere il ministro degli affari europei Paolo Savona, o andare avanti con il muro contro muro come chiedono invece Salvini e Di Maio? Ha senso cercare ancora un accordo con l’Unione Europea sulla manovra? Credo a questo punto che non ci siano più le condizioni. C’è un accanimento da parte dell’Unione Europea nei confronti dell’Italia che è motivato più da ragioni ideologiche e politiche che da questioni economiche. La spesa a deficit prevista da questa manovra è assolutamente in linea con quanto attuato dai governi precedenti, anzi anche inferiore. Il debito pubblico, dovuto al pagamento degli interessi sul debito stesso, è cresciuto con lo stesso Monti, a riprova che le misure di austerity non funzionano, così come con Letta, Gentiloni e Renzi. Ma mai come con la coalizione giallo-verde c’era stato un attacco così duro e ostinato da parte sia di Bruxelles che dei media e di tutta la potente macchina della propaganda.Siamo di fronte a un bivio: è giunto il momento di scelte coraggiose. Continuare a sottostare a regole e parametri infondati, assurti a dogmi, significa rinunciare per sempre alla propria sovranità economica e politica. Una perdita di democrazia inaccettabile per i cittadini, che alle urne hanno espresso la loro volontà di cambiamento. C’è uno scollamento troppo forte ormai tra le istanze delle popolazioni e quelle dei tecnocrati di Bruxelles, che non le rappresentano. Attraverso l’imposizione di parametri contabili si è creata una dittatura dei mercati che sta generando solo povertà e disoccupazione. L’unica possibile via d’uscita è recuperare la propria sovranità monetaria. Continuare a ‘trattare’ con l’Ue che ci somministra la pillola mortifera dell’austerity significa condannarsi a una lenta e dolorosa agonia. Nonostante il terrorismo creato dal mainstream, tornare a una nostra moneta – che si chiami lira o qualsiasi altro nome – non rappresenterebbe nulla di trascendentale. Al mondo, a parte l’Eurozona e le ex colonie francesi che adottano il franco Cfa, ogni paese ha la propria moneta. Non si verificherebbe nessuna delle catastrofi prospettate da chi fa volutamente terrorismo.Lo spauracchio dell’inflazione, ad esempio, è infondato, perché attualmente ci troviamo in una situazione di deflazione con crisi della domanda e alta disoccupazione. Così come la corsa agli sportelli, essendo nell’epoca delle transazioni elettroniche. Insomma, niente cavallette. Il ministro Paolo Savona dice che bisogna cambiare anche il governo, non soltanto la manovra? Pare che le dichiarazioni siano state smentite, o comunque ridimensionate. Sicuramente c’è nervosismo, vista la situazione di forte scontro con l’Ue. D’altra parte c’è una stampa e un apparato di comunicazione che tifa contro il governo e fa di tutto per ridicolizzarlo e delegittimarlo. Neanche ai tempi di Berlusconi c’era tanto accanimento. Questo tende a esacerbare lo scontro e a radicalizzare le posizioni, creando un clima per nulla favorevole.(Ilaria Bifarini, dichiarazioni rilasciate ad Americo Mascarucci per l’Intervista “Vi spiego perchè è il momento dell’Italexit”, pubblicata su “Lo Speciale” il 23 novembre 2018 e ripresa sul blog della Bifarini).Dopo la bocciatura definitiva della manovra da parte della Commissione Europea con la prospettiva dell’apertura della procedura d’infrazione contro l’Italia per deficit eccessivo, da più parti ci si chiede quale strada percorrere. Scendere a patti con Bruxelles, come sembrerebbe chiedere il ministro degli affari europei Paolo Savona, o andare avanti con il muro contro muro come chiedono invece Salvini e Di Maio? Ha senso cercare ancora un accordo con l’Unione Europea sulla manovra? Credo a questo punto che non ci siano più le condizioni. C’è un accanimento da parte dell’Unione Europea nei confronti dell’Italia che è motivato più da ragioni ideologiche e politiche che da questioni economiche. La spesa a deficit prevista da questa manovra è assolutamente in linea con quanto attuato dai governi precedenti, anzi anche inferiore. Il debito pubblico, dovuto al pagamento degli interessi sul debito stesso, è cresciuto con lo stesso Monti, a riprova che le misure di austerity non funzionano, così come con Letta, Gentiloni e Renzi. Ma mai come con la coalizione giallo-verde c’era stato un attacco così duro e ostinato da parte sia di Bruxelles che dei media e di tutta la potente macchina della propaganda.
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Barnard: torniamo Italia, via da questa chemio-Eurozona
L’Italia deve uscire dall’Eurozona. L’Italia si deve ricordare come stavamo – sì, certo, con le nostre mafie, le mazzette, i politucoli puzzoni, le parrocchiette industriali – quello che volete, ma come stavamo prima di diventare un intero popolo di straccioni che spendono una moneta tedesca. Ma vi ricordate? Si lavorava, si compravano case e si risparmiava per i figli più di chiunque altro al mondo. L’Italia deve capire che non ce ne facciamo un cazzo di un gruppo di ragazzetti stellati che vogliono farci tutti più onesti e corretti, ma che concordano in pieno col mantenere 60 milioni d’italiani annichiliti sotto la Chemioeconomia della moneta tedesca. L’Italia deve capire che non ce ne facciamo un cazzo di non vedere più Rom e neri per strada, ma che invece ce ne faremmo tantissimo di avere un ‘duro con l’Europa’ che lo fosse davvero, e non un falsario cagasotto bulletto che ci ha ingannati perché tira proprio lui a diventare un Vip proprio in quell’Europa.L’Italia deve, prima di tutto, raccontare ai suoi cittadini cosa devono e dovranno pagare per tornare italiani, proprio i prezzi uno dopo l’altro, con precisione di somme e di tempi, e chiedersi: siamo disposti a pagarli per pochi anni, o forse solo mesi, per poi però tornare italiani? Rispondete sì o no. L’Italia deve allo stesso tempo raccontare ai suoi cittadini, anzi, ricordargli, quali sono i premi che dopo la burrasca gli pioveranno addosso se molliamo la moneta tedesca della Chemioeconomia. E che premi. Questo è un paese che solo-solo accettasse i prezzi della sfida all’abominio della moneta tedesca, poi diventa il Paradiso, e allora sì che andranno fatti i muri alle frontiere, ma non contro i Rom e i neri, contro australiani, tedeschi, olandesi, americani, belgi, russi…Non ci vuole molto. Basta stare compatti e stretti gli uni agli altri per il poco tempo della tempesta. Poi, mentre ci piovono addosso quei premi, ricordarsi sempre di questa regola al ministero del Tesoro: con moneta sovrana italiana, la spesa pubblica sarà maggiore delle tasse, e si scrive deficit senza nessun riguardo per le %, per tutto il tempo necessario fino a che l’ultimo disoccupato sarà stato assunto, fino a che i pensionati poveri saranno solo un brutto ricordo, fino a che le parole malattia e liste d’attesa saranno introvabili su Google Italia. L’Italia deve tornare Italia, e questa è la via. L’Italia deve.(Paolo Barnard, “L’Italia deve”, dal blog di Barnard del 6 dicembre 2018).L’Italia deve uscire dall’Eurozona. L’Italia si deve ricordare come stavamo – sì, certo, con le nostre mafie, le mazzette, i politucoli puzzoni, le parrocchiette industriali – quello che volete, ma come stavamo prima di diventare un intero popolo di straccioni che spendono una moneta tedesca. Ma vi ricordate? Si lavorava, si compravano case e si risparmiava per i figli più di chiunque altro al mondo. L’Italia deve capire che non ce ne facciamo un cazzo di un gruppo di ragazzetti stellati che vogliono farci tutti più onesti e corretti, ma che concordano in pieno col mantenere 60 milioni d’italiani annichiliti sotto la Chemioeconomia della moneta tedesca. L’Italia deve capire che non ce ne facciamo un cazzo di non vedere più Rom e neri per strada, ma che invece ce ne faremmo tantissimo di avere un ‘duro con l’Europa’ che lo fosse davvero, e non un falsario cagasotto bulletto che ci ha ingannati perché tira proprio lui a diventare un Vip proprio in quell’Europa.
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Galloni: folle tagliare il deficit, se è in arrivo la recessione
Fino a qualche settimana fa il governo italiano aveva annunciato il grande cambiamento: obiettivo strategico la crescita del Pil. Ma la trappola è scattata subito: obiettivo, sì, il Pil, ma vincolo – e come non potrebbe essere così? – i conti di bilancio. La Commissione sembra accanirsi sui decimali del deficit dopo il 2… quindi si passa dalle tragedie antiche dello 0 virgola e dell’1 virgola a quelle del 2 virgola. Salvini e Di Maio annunciano che il 2,4 di rapporto deficit/Pil è la linea del Piave. Tutti alzano la voce per consumare la tempesta perfetta nel bicchiere d’acqua. Intanto, fuori dal bicchiere d’acqua avvengono altre cose evidenti: i cosiddetti mercati si rallegrano se l’Italia crescerà un pochino; ma nessuno osserva che l’Italia sta registrando avanzi primari (lo Stato incamera sistematicamente imposte superiori alla spesa senza interessi, e poi si va in deficit con questi ultimi) e, che quindi l’effetto della manovra sul Pil non potrà essere significativo. Dopo qualche settimana di braccio di ferro Ue-Italia, la doccia fredda per tutti: Germania ed altri paesi, tra cui la stessa Italia, cominciano ad intravvedere il chiaro inizio di una recessione.A quel punto la Commissione cambia toni (ma è costretta a farlo pure l’Italia) e chiede più Pil. Se si fosse in presenza di gente seria, l’affacciarsi della recessione avrebbe dovuto imporre un maggiore deficit per stimolare investimenti e spese capaci di contrastare la caduta del Pil: certo, con un maggior deficit, l’Italia dovrà spendere di più anche di interessi sui nuovi titoli. In realtà, obiettivo Pil e vincolo di bilancio significherà che, per mantenere un deficit del 2% di Pil, se il Pil non cresce come programmato, bisognerà tagliare la spesa della differenza tra le previsioni della manovra e l’andamento effettivo. E saremmo punto e daccapo: lacrime e sangue, vale a dire la bella ricetta che ci porta in recessione. Ci sarebbero, almeno, tre considerazioni da fare. Primo, il Pil non può aumentare se, nei comparti ad alta redditività, la domanda di lavoro decresce più rapidamente dei risultati economico-finanziari; e se, nei comparti dove l’occupazione potrebbe crescere (cura delle persone, dell’ambiente e del patrimonio esistente), il costo – in gran parte il lavoro necessario – supera, salvo una minoranza di eccezioni, il fatturato. Quindi, o si interviene sul paradigma economico sociale o il Pil non crescerà o non crescerà abbastanza.Secondo, non si dovrebbe insistere sul parametro debito pubblico/Pil che era già sfavorevole all’Italia dalla fine degli anni ’80 ed è poco peggiorato in seguito; infatti, per valutare solidità e sostenibilità del debito di un paese, bisognerebbe aggiungere – al numeratore – il debito delle famiglie e quello delle imprese non finanziarie. Così si scoprirebbe che i paesi hanno debiti complessivi che vanno da poco più del 300% a meno del 500%, considerata dalle banche e dall’esperienza il limite da non valicare: non è forse vero che si ottiene un mutuo pari fino a 5 volte il reddito annuale del mutuatario? Non guasterebbe nemmeno la istituzione di un’agenzia di rating che impedisse la trasformazione in titoli spazzatura di effetti che, invece, il mercato chiede e sa apprezzare. Terzo, in funzione delle difficoltà di una crescita responsabile ed in rapporto alla esistenza di risorse inoccupate o sotto-utilizzate, perché non esercitare un po’ di sovranità monetaria degli Stati?L’euro resterebbe come unità di conto e come moneta avente corso legale in tutta l’Eurolandia (articolo 128 del Trattato di Lisbona), mentre una moneta parallela avente corso legale solo nazionale servirebbe per affrontare le maggiori spese per l’ambiente, la cura delle persone, il fabbisogno di giovani laureati nelle pubbliche amministrazioni. Non piace la parola moneta? Draghi dice che una moneta parallela sarebbe illegale? Ma quale legge la rende illegale? Essa, tuttalpiù, non è disciplinata perché il Trattato di Lisbona si occupa di altro. Ma niente paura! Lo Stato può emettere buoni spesa che poi accetterà in pagamento delle tasse: 200 euro per ogni occupato, disoccupato e pensionato per otto mesi genererà alla fine dell’anno un aumento di Pil di 48 miliardi e non si determinerà maggior deficit.(Nino Galloni, “Involuzione nel rapporto Ue-Italia, come uscirne?”, da “Scenari Economici” del 5 dicembre 2018).Fino a qualche settimana fa il governo italiano aveva annunciato il grande cambiamento: obiettivo strategico la crescita del Pil. Ma la trappola è scattata subito: obiettivo, sì, il Pil, ma vincolo – e come non potrebbe essere così? – i conti di bilancio. La Commissione sembra accanirsi sui decimali del deficit dopo il 2… quindi si passa dalle tragedie antiche dello 0 virgola e dell’1 virgola a quelle del 2 virgola. Salvini e Di Maio annunciano che il 2,4 di rapporto deficit/Pil è la linea del Piave. Tutti alzano la voce per consumare la tempesta perfetta nel bicchiere d’acqua. Intanto, fuori dal bicchiere d’acqua avvengono altre cose evidenti: i cosiddetti mercati si rallegrano se l’Italia crescerà un pochino; ma nessuno osserva che l’Italia sta registrando avanzi primari (lo Stato incamera sistematicamente imposte superiori alla spesa senza interessi, e poi si va in deficit con questi ultimi) e, che quindi l’effetto della manovra sul Pil non potrà essere significativo. Dopo qualche settimana di braccio di ferro Ue-Italia, la doccia fredda per tutti: Germania ed altri paesi, tra cui la stessa Italia, cominciano ad intravvedere il chiaro inizio di una recessione.
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Pelanda: il Quirinale guida il governo verso la resa all’Ue
Il rischio di recessione dipende da una contrazione della domanda globale che ha colpito l’export e da una crisi di fiducia sull’Italia che ha ridotto gli investimenti esterni e interni quando il governo ha esplicitato una linea de-sviluppista e assistenzialista finanziata in extradeficit, nonché una violazione aggressiva delle regole europee. Ora il governo sta cercando di evitare la procedura di infrazione da parte dell’Ue che peggiorerebbe la situazione compromettendo il sistema del credito a imprese e famiglie, causa certa di ostacolo alla crescita-ripresa. Forse è meglio dire che il Quirinale ha preso in mano, dietro le quinte, la materia, cercando un compromesso tra requisiti di ordine economico euroconvergenti e progetto politico eurodivergente della maggioranza. Tecnicamente, si tratta di ridurre dai 7 ai 10 miliardi il finanziamento in deficit del progetto di bilancio per portare il deficit proiettivo stesso sotto il 2%, dal 2,4% annunciato, e di allocare le risorse più sul lato degli investimenti e degli stimoli fiscali e meno sulla spesa assistenziale per rendere credibile almeno un minimo potenziale di crescita che non faccia peggiorare il rapporto debito/Pil nel 2019 e quindi permetta di evitare la procedura di infrazione Ue.Non sarà facile, perché ciò implica un’inversione imbarazzante dei leader della maggioranza dai loro linguaggi che disprezzano i “numerini” e antagonizzano l’Ue. Ma il Quirinale sembra aiutarli, guidando Conte e Tria nel negoziato con la Commissione, ad arrendersi senza perdere la faccia. Bene che vada, comunque, la politica economica risultante comporterà stagnazione. Pertanto l’inversione della tendenza recessiva nel 2019 dipende dalla ripresa della domanda globale, cioè dell’export. La tregua nella guerra dei dazi concordata tra America e Cina sabato sera fa tornare un certo ottimismo che, se produttiva di un accordo pur nel confronto geopolitico duraturo tra le due potenze, stimolerà nuovamente gli investimenti. Altrettanto importante per l’industria italiana è l’accordo tra America e Germania, di cui è fornitrice, per evitare dazi sull’export europeo. Trump vuole un trattato di libero scambio simmetrico e bilaterale con l’Ue che, però, mette in grave difficoltà il modello protezionista europeo. Questo è un motivo in più di riconvergenza rapida dell’Italia con l’Ue allo scopo di contribuire a un compromesso con l’America, interesse vitale per Roma e Berlino, ma che Parigi non vuole.(Carlo Pelanda, “Così il Quirinale guida il governo verso la resa all’Ue”, da “Il Sussidiario” del 2 dicembre 2018. Politico ed economista, Pelanda è specializzato in studi strategici e scenari internazionali ed economici. Insegna scienze politiche e relazioni internazionali alla University of Georgia di Athens, ed è co-direttore di Globis (Centro per gli studi globali) presso la medesima università. In Italia è editorialista de “Il Foglio”, “Libero”, “La Verità”, “L’Arena” e “Il Sussidiario”. Fa parte della Fondazione Italia-Usa. In campo politico, si legge nel suo profilo su Wikipedia, Pelanda è portatore dell’ideologia liberista, «ma con la consapevolezza che la libertà è conseguenza di un investimento di qualificazione della società e va organizzata entro istituzioni che la difendano». In generale, propugna l’idea di “nuovo progresso” basato sulla fiducia che tecnologia e conoscenza siano i risolutori più potenti dei problemi della condizione umana. Fin dal 2007, con il saggio “La grande alleanza”, ha avvertito che è ormai in via di esaurimento il sistema di governo mondiale centrato sul predominio degli Stati Uniti, sul dollaro e sui criteri occidentali nelle istituzioni internazionali. Pelanda propone «un nuovo soggetto di governance globale che non sia il G-20, o analogo tavolo di potenze troppo diluito, ma un’alleanza tra le democrazie fondata sulla convergenza euroamericana»).Il rischio di recessione dipende da una contrazione della domanda globale che ha colpito l’export e da una crisi di fiducia sull’Italia che ha ridotto gli investimenti esterni e interni quando il governo ha esplicitato una linea de-sviluppista e assistenzialista finanziata in extradeficit, nonché una violazione aggressiva delle regole europee. Ora il governo sta cercando di evitare la procedura di infrazione da parte dell’Ue che peggiorerebbe la situazione compromettendo il sistema del credito a imprese e famiglie, causa certa di ostacolo alla crescita-ripresa. Forse è meglio dire che il Quirinale ha preso in mano, dietro le quinte, la materia, cercando un compromesso tra requisiti di ordine economico euroconvergenti e progetto politico eurodivergente della maggioranza. Tecnicamente, si tratta di ridurre dai 7 ai 10 miliardi il finanziamento in deficit del progetto di bilancio per portare il deficit proiettivo stesso sotto il 2%, dal 2,4% annunciato, e di allocare le risorse più sul lato degli investimenti e degli stimoli fiscali e meno sulla spesa assistenziale per rendere credibile almeno un minimo potenziale di crescita che non faccia peggiorare il rapporto debito/Pil nel 2019 e quindi permetta di evitare la procedura di infrazione Ue.
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Magaldi: che delusione, l’esperienza gialloverde sta fallendo
«Diciamocelo: l’esperienza gialloverde sta fallendo. Lega e 5 Stelle rischiano grosso, di fronte alla cocente delusione degli elettori che avevano creduto nella loro scommessa». Parola di Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014), che svela la natura supermassonica del vero potere, che in Europa si nasconde dietro la tecnocrazia di Bruxelles e le cancellerie che contano, Berlino e Parigi in primis. Spettacolo penoso, la retromarcia tattica del governo Conte di fronte alle minacce dell’euro-establishment, «come se il problema fosse davvero il deficit al 2,4%», che ora peraltro il governo si sta preparando a “sacrificare”. Linea perdente, dice Magaldi: guai, a cedere al ricatto. Perché siamo di fronte a una colossale farsa: tutti sanno benissimo che Bruxelles non ha affatto a cuore il benessere del sistema-Italia. L’unico vero obiettivo dei nostri censori – Moscovici e Juncker, Macron e Merkel – è stroncare sul nascere qualsiasi tentativo di rovesciare il paradigma neoliberista dell’austerity, propagandato e difeso “militarmente” a colpi di spread. Sul piano contabile non può far paura a nessuno, l’esiguo incremento del deficit inizialmente previsto dal Def per il 2019. Lo sanno Di Maio e Salvini, ma lo sanno anche i signori di Bruxelles. A inquietare gli oligarchi, semmai, è la bandiera della ribellione, sventolata dall’Italia per qualche settimana.L’orgogliosa rivendicazione post-keynesiana del governo Conte, sottolineata dal richiamo al New Deal rooseveltiano da parte di Paolo Savona, poteva innescare un benefico contagio europeo, basato sulla richiesta di sovranità democratica. Se invece ora l’Italia fa retromarcia e dice “abbiamo scherzato”, per Lega e 5 Stelle può essere l’inizio della fine, sostiene Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Una riflessione a tutto campo, quella del presidente del metapartitico Movimento Roosevelt, nato per rigenerare la politica italiana scuotendola dal torpore conformistico dell’equivoca Seconda Repubblica, durante la quale la finta alternanza dei partiti al potere – centrodestra e centrosinistra – ha costretto l’Italia a imboccare la via del declino, tra delocalizzazioni e privatizzazioni improntate alla “teologia” neoliberale che demonizza la spesa pubblica al solo scopo di trasferire potere e ricchezza ai grandi oligopoli privati. Magaldi è stato uno sponsor del governo Conte, che ha lungamente supportato e incoraggiato – a patto però che rompesse l’incantesimo che vieta all’Italia di riappropriarsi della sua sovranità, a cominciare da quella monetaria.L’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, invoca il ricorso a una moneta parallela. Proprio la gestione dell’euro – monopolizzata dal cartello finanziario che detiene il controllo della Bce – è uno dei punti strategici su cui farà leva il “partito che serve all’Italia”, cantiere politico roosveltiano che il prossimo 22 dicembre a Roma comincerà a costruire un’agenda concreta. Le delusione di fronte al cedimento all’Ue non impedisce a Magaldi di continuare a considerare Lega e 5 Stelle gli unici interlocutori potenzialmente credibili: certo, se si alza bandiera bianca sul deficit 2019, la partita è destinata a slittare al 2020, dopo le europee, traguardo al quale il governo intende presentarsi senza avere sulle spalle il peso dell’eventuale procedura d’infrazione per eccesso di debito. Ma così, obietta Magaldi, non si può sperare di andare lontano. Per un motivo essenziale: è perdente, sempre e comunque, piegarsi a un ricatto. E quello degli oligarchi Ue è un ricatto ipocrita, travestito da economicismo: il rigore viene spacciato per strada maestra, quando gli stessi ideologi dell’austerity sanno perfettamente che il taglio della spesa produce solo recessione e disoccupazione.La stessa manovra gialloverde non è certo impeccabile, annota Magaldi: non c’è ancora la più pallida idea di come applicare l’eventuale reddito di cittadinanza sbandierato da Di Maio, mentre – sul fronte leghista – siamo lontani anni luce dal decisivo sgravio fiscale promesso alle elezioni. «E’ di quello che hanno bisogno come il pane gli ambienti imprenditoriali che avevano sostenuto Salvini: cosa importa, alle aziende, del “decreto sicurezza” appena approvato? Oltretutto, quel decreto – davvero pessimo – potrebbe anche configurare pesanti e inaccettabili limitazioni alle libertà personali». Neppure nella versione con il deficit al 2,4%, insiste Magaldi, la manovra mostrava sufficienti investimenti nei settori in grado di rilanciare l’economia: un impegno troppo esiguo, non certo adeguato a garantire quel “moltiplicatore economico” di cui il paese ha bisogno. Premessa: «Aumentare il deficit è doveroso, per rimettere in moto l’economia, purché però si investa nei settori che garantiscano la crescita dell’occupazione». Si corre il rischio di fare «la stessa figura di Tsipras, che ha tradito i greci per piegarsi all’Ue». Altro paragone increscioso, quello con Matteo Renzi: «Era andato a Bruxelles facendo il fanfarone, annunciando svolte epocali per uscire dall’austerity di Monti e Letta, ma poi ha ceduto su tutta la linea».Tsipras e Renzi sappiamo che fine hanno fatto. A Salvini e Di Maio, un analogo scivolone costerebbe l’osso del collo. Anche perché ormai l’opinione pubblica italiana ha preso le misure, ai padreterni di Bruxelles: oggi, a Mario Monti ed Elsa Fornero l’italiano medio non stenderebbe più il tappeto rosso. S’è messo in moto qualcosa di profondo, nel paese, anche grazie alla politica pre-elettorale della Lega e dei 5 Stelle, carica di aspettative. Ora, come dire, sarebbe folle rimangiarsi la parola data. Guai ad arretrare, di fronte alle minacce dei burattini di quella che resta una cupola finanziaria supermassonica, la stessa che ha insediato all’Eliseo il micro-oligarca Macron, contro il quale oggi la Francia stessa si sta sonoramente ribellando. E l’Italia che fa, resta a guardare? Si lascia intimidire da uno spaventapasseri come Juncker dopo aver promesso cataclismi epocali? Grave errore, sottolinea Magaldi, aver usato toni irridenti con l’Ue, se poi ci si prepara a genuflettersi a Bruexelles come Renzi e Gentiloni. Meglio un dialogo franco e leale, giusto per dire: cari amici, che ne direste di farla davvero, l’Europa?Sottinteso: questo obbrobrio di Ue va cestinato, perché ha disastrato l’economia del continente seminando crisi su crisi. Da dove ripartire? Ovvio, dall’inizio: la parola chiave è antica, si chiama “democrazia”. E in questa pseudo-Europa, purtroppo, oggi è sinonimo di “rivoluzione”. Magaldi preferisce il termine “radicalismo”, ma il senso è quello: radere al suolo l’impalcatura (marcia dalle fondamenta) dell’attuale Disunione Europea, dove la Germania – come segnala l’imprenditore Fabio Zoffi – bacchetta l’Italia per il suo 130% di debito, mentre quello di Berlino (occulto) veleggia verso il 300% del Pil. Negli ultimi anni, a scuotere l’opinione pubblica hanno provveduto celebri “whistleblower” come Julian Assange (Wikileaks) e Edward Snowden (la disinvoltura della Nsa nella gestione dei Big Data, in termini di spionaggio di massa). Dal canto suo Magaldi – altro “insider”, se vogliamo, ma proveniente dal mondo delle Ur-Lodges – ha scoperchiato il vaso di Pandora delle quasi onnipotenti superlogge sovranazionali. Obiettivo: consentire al pubblico di aprire gli occhi, imparando a riconoscere la vera identità dei tanti oligarchi che si spacciano per guide illuminate.L’Ue? Un loro prodotto. Movente: confiscare diritti, sovranità e democrazia, per organizzare il più grande trasferimento di ricchezza della storia, dal basso verso l’alto. Narrazione mainstream: è giusto tagliare lo Stato. Risultato scontato: sofferenze sociali. Parla da solo il caso italiano: 25 anni di decandenza ininterrotta, presentata come fisiologica. Una farsa colossale, abilmente inscenata da partiti “comprati” e disinformatori di corte. Poi è arrivato l’inciampo elettorale dei gialloverdi. E ora che fanno, tornano a casa con la coda tra le gambe? Sappiano, ribadisce Magadi, che non possono farlo: l’Italia non li perdonerebbe. Perché la vera sfida è solo all’inizio. E tutti i falsi dogmi del dominio – rigore, austerity, pareggio di bilancio – saranno spazzati via, il giorno che l’Europa nascerà davvero, con la sua Costituzione democratica e il suo governo federale, finalmente eletto dagli europarlamentari votati dai cittadini europei. Utopia? Non per Gioele Magaldi, intenzionato a incalzare «gli amici gialloverdi» senza fare sconti a nessuno, avendo chiaro «quello che serve davvero all’Italia». Non la diplomazia, con Bruxelles, ma il confronto (durissimo) che in tanti avevano sperato potesse essere inaugrato proprio da Salvini e Di Maio.«Diciamocelo: l’esperienza gialloverde sta fallendo. Lega e 5 Stelle rischiano grosso, di fronte alla cocente delusione degli elettori che avevano creduto nella loro scommessa». Parola di Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014), che svela la natura supermassonica del vero potere, che in Europa si nasconde dietro la tecnocrazia di Bruxelles e le cancellerie che contano, Berlino e Parigi in primis. Spettacolo penoso, la retromarcia tattica del governo Conte di fronte alle minacce dell’euro-establishment, «come se il problema fosse davvero il deficit al 2,4%», che ora peraltro il governo si sta preparando a “sacrificare”. Linea perdente, dice Magaldi: guai, a cedere al ricatto. Perché siamo di fronte a una colossale farsa: tutti sanno benissimo che Bruxelles non ha affatto a cuore il benessere del sistema-Italia. L’unico vero obiettivo dei nostri censori – Moscovici e Juncker, Macron e Merkel – è stroncare sul nascere qualsiasi tentativo di rovesciare il paradigma neoliberista dell’austerity, propagandato e difeso “militarmente” a colpi di spread. Sul piano contabile non può far paura a nessuno, l’esiguo incremento del deficit inizialmente previsto dal Def per il 2019. Lo sanno Di Maio e Salvini, ma lo sanno anche i signori di Bruxelles. A inquietare gli oligarchi, semmai, è la bandiera della ribellione, sventolata dall’Italia per qualche settimana.
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Carpeoro: viene dall’estero l’attacco personale a Di Maio
Tutti a sbranare Di Maio a reti unificate per la vicenda del padre, piccolo imprenditore, accusato di aver fatto lavorare in nero alcuni dipendenti. Scatenati i giornalisti nei talkshow, ma anche politici come Renzi e Maria Elena Boschi, che usò i suoi canali per aiutare la banca di famiglia (Di Maio invece sarebbe completamente estraneo all’incidente paterno). Inutile far finta che l’offensiva contro il capo dei 5 Stelle sia casuale: l’attacco personale al vicepremier gialloverde è palesemente orchestrato dai super-poteri europei ai quali il governo Conte ha tentato di opporsi, provando a difendere il deficit al 2,4% nel Def 2019. Lo sostiene Gianfranco Carpeoro, autore di saggi come “Dalla massoneria al terrorismo” e acuto osservatore, anche tramite canali privilegiati, dell’attualità italiana: mesi fa denunciò il siluramento di Marcello Foa alla presidenza della Rai imputandolo a pressioni francesi su Berlusconi tramite Antonio Tajani, contattato da Jacques Attali (padrino di Macron) su consiglio di Giorgio Napolitano. Ora ci risiamo: se il governo gialloverde sfida il rigore di Bruxelles, è dall’estero che proviene l’attacco – durissimo, personale – a Luigi Di Maio: un boccone da gettare in pasto alla grande stampa, allineata col vecchio establishment.Ecco spiegata, probabilmente, l’improvvisa distensione nei toni tra Roma e Bruxelles: «I mezzi coercitivi di un certo potere sono molto forti», dichiara Carpeoro, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. I gialloverdi sotto attacco? «Forse questa classe politica non è sufficientemente forte da poter affrontare questo tipo di situazione: lo vedremo, nei prossimi giorni». Di certo, sottolinea Carpeoro, la difesa del deficit 2019 – in controtendenza rispetto all’austerity imposta dall’Ue – non era una messinscena: Lega e 5 Stelle ci hanno provato davvero, a rompere la consegna neoliberista dei tagli ciechi alla spesa pubblica. Ora però devono vedersela con quelli che Carpeoro definisce “mezzi coercitivi”, ovvero «ricatti personali, manovre: ti buttano fango addosso». Per esempio, «nell’operazione “papà di Di Maio” io vedo mani fuori dai confini». Assurdo attaccare il figlio per un’accusa come il lavoro nero a carico del padre, d’accordo. Ma chi la fa, l’aspetti: «Gli attacchi dei 5 Stelle, grazie a cui sono andati al potere, non erano molto diversi».Per affondare Di Maio «si attaccano dove possono», aggiunge Carpeoro, che ribadisce: «Questa manovra viene dall’estero. Di Maio non è stato attaccato per una questione di moralismo, è stato attaccato per fiaccargli le reni su una cosa che stava facendo». Ovvero: far indietraggiare l’Italia sulla manovra col deficit al 2,4%. «E pare ci siano riusciti – o meglio, vedremo». Di Maio è stato dunque ritenuto più attaccabile di Salvini? Non è detto: «Forse, a quei poteri, Salvini aveva già detto di sì: del resto, attacchi chi hai bisogno di attaccare». Aggiunge Carpeoro: «Con chi si è sentito, negli ultimi giorni, Salvini? Con Berlusconi. Probabilmente lo hanno fatto ragionare in un certo modo. Di Maio era più difficile farlo ragionale, e allora gli hanno preparato il “piattino”». Sempre secondo Carpeoro, per Di Maio ormai questa non è più una battaglia politica: «E’ una battaglia per capire se vive o muore, politicamente. C’è chi dice che nel Movimento 5 Stelle sia accerchiato? Sono cose che si accavallano. Ci sono altri cavalli che scalpitano, nei 5 Stelle, per cui ognuno cerca di fare il “piattino” all’altro. Dall’estero, Di Battista gli ha già detto “stai sereno”», come Renzi disse a Letta. Se non altro, possiamo star certi che non ci saranno elezioni anticipate in primavera: «Sarebbe pazzo, Di Maio, ad andare alle elezioni in questa situazione».Tutti a sbranare Di Maio a reti unificate per la vicenda del padre, piccolo imprenditore, accusato di aver fatto lavorare in nero alcuni dipendenti. Scatenati i giornalisti nei talkshow, ma anche politici come Renzi e Maria Elena Boschi, che usò i suoi canali per aiutare la banca di famiglia (Di Maio invece sarebbe completamente estraneo all’incidente paterno). Inutile far finta che l’offensiva contro il capo dei 5 Stelle sia casuale: l’attacco personale al vicepremier gialloverde è palesemente orchestrato dai super-poteri europei ai quali il governo Conte ha tentato di opporsi, provando a difendere il deficit al 2,4% nel Def 2019. Lo sostiene Gianfranco Carpeoro, autore di saggi come “Dalla massoneria al terrorismo” e acuto osservatore, anche grazie a fonti privilegiate, dell’attualità italiana: mesi fa denunciò il siluramento di Marcello Foa alla presidenza della Rai imputandolo a pressioni francesi su Berlusconi tramite Antonio Tajani, contattato da Jacques Attali (padrino di Macron) su consiglio di Giorgio Napolitano. Ora ci risiamo: se il governo gialloverde sfida il rigore di Bruxelles, è dall’estero che proviene l’attacco – durissimo, personale – a Luigi Di Maio: un boccone da gettare in pasto alla grande stampa, allineata col vecchio establishment.
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La lotteria dell’universo e i numeri sbagliati del pianeta
La verità. La verità è che siamo fuori di qualche trilione. Lo so, ammise il supremo contabile; ma il problema, come sempre, è politico. Occorre ben altro che il pallottoliere: servono narrazioni, e il guaio è che i narratori ormai scarseggiano. Il Supremo aveva superato i sessant’anni ed era cresciuto al riparo dei migliori istituti, poi l’avevano messo alla prova per vedere se sarebbe stato capace di premere il pulsante. Intuì che premere il pulsante era l’unico modo per restare a bordo, e lo premette. Quando poi vide la reale dimensione del dramma, ormai era tardi: c’erano altri pulsanti, da far premere ad altri esordienti. Si fece portare un caffè lungo, senza zucchero, e provò il desiderio selvaggio di tornare bambino. Rivide un prato senza fine, gremito di sorrisi e volti amici, tutte persone innocue. Devo proprio aver sbagliato mondo, concluse, tornando alla sua contabilità infernale.Il messia. Alla mia destra, aveva detto, e alla mia sinistra. Sedevano a tavola, semplicemente. Avevano sprecato un sacco di tempo in chiacchiere inconcludenti, e lo sapevano. Con colpevole ritardo, dopo inenarrabili vicissitudini dai risvolti turpemente malavitosi, si erano infine rimessi al nuovo sire, l’inviato dall’alto. Familiarmente, tra loro, lo chiamavano messia, essendo certi che avrebbe fatto miracoli e rimesso le cose al loro posto, ma non osavano consentirsi confidenze di sorta: ne avevano un timoroso rispetto. Quell’uomo incuteva soggezione, designato com’era dal massimo potere superiore. Non restava che ascoltarlo, in composto silenzio, assecondandolo in tutto e sopportandone la postura da tartufo. La sua grottesca affettazione si trasformava inevitabilmente, per i servi, in squisita eleganza. Gareggiavano, i sudditi, in arte adulatoria. Stili retorici differenti, a tratti, permettevano ancora di distinguere i servitori seduti a destra da quelli accomodati a sinistra.Tungsteno. L’isoletta era prospera e felice, o almeno così piaceva ripetere al governatore, sempre un po’ duro d’orecchi con chi osava avanzare pretese impudenti, specie in materia di politica economica, magari predicando la necessità di sani investimenti in campo agricolo. Il popolo si sentì magnificare le virtù del nuovo super-caccia al tungsteno, ideale per la difesa aerea. Ma noi non abbiamo nemici, protestarono. Errore: potremmo sempre scoprirne. Il dibattito si trascinò per mesi. I contadini volevano reti irrigue, agronomi, serre sperimentali, esperti universitari in grado di rimediare alle periodiche siccità. Una mattina il cielo si annuvolò e i coloni esultarono. Pioverà, concluse il governatore, firmando un pezzo di carta che indebitava l’isola per trent’anni, giusto il prezzo di un’intera squadriglia di super-caccia al tungsteno.Stiamo pensando. Stiamo pensando alla situazione nella sua inevitabile complessità, alle sue cause, alle incidenze coincidenti ma nient’affatto scontate. Stiamo pensando a come affrontare una volta per tutte la grana del famosissimo debito pubblico, voi capite, il debito pubblico che è come la mafia, la camorra, l’evasione fiscale, l’Ebola, gli striscioni razzisti negli stadi, la rissa sui dividendi della grande fabbrica scappata oltremare, l’abrogazione di tutto l’abrogabile. Perché abbiamo perso? Stiamo pensando a come non perdere sempre, a come non farvi perdere sempre. Stiamo pensando, compagni. E, in confidenza, di tutte queste problematiche così immense, così universali, così globalmente complicate, be’, diciamocelo: non ne veniamo mai a capo. Il fatto è che non capiamo, compagni. Non capiamo mai niente. Ma, questa è la novità, ci siamo finalmente ragionando su. Stiamo pensando. Una friggitoria di meningi – non lo sentite, l’odore?Unni. Scrosciarono elezioni, ma il personale di controllo era scadente e il grande mago cominciò a preoccuparsi, dato che i replicanti selezionati non erano esattamente del modello previsto. Lo confermavano a reti unificate gli strilli dei telegiornali, allarmati anche loro dall’invasione degli Unni. Non si capiva quanto fossero sinceri i loro slogan, quanto pericolosi. Provò il dominus ad armeggiare con i soliti tasti, deformando gli indici borsistici, ma non era più nemmeno certo che il trucco funzionasse per l’eternità. Vide un codazzo di Bentley avvicinarsi alla reggia e si sentì come Stalin accerchiato dai suoi fidi, nei giorni in cui i carri di Hitler minacciavano Mosca. Ripensò ai tempi d’oro, quando gli asini volavano e persino gli arcangeli facevano la fila, senza protestare, per l’ultimissimo iPhone.(Estratto da “La lotteria dell’universo”, di Giorgio Cattaneo. “Siamo in guerra, anche se non si sentono spari. Nessuno sa più quello che sta succedendo, ma tutti credono ancora di saperlo: e vivono come in tempo di pace, limitandosi a scavalcare macerie. Fotogrammi: 144 pillole narrative descrivono quello che ha l’aria di essere l’inesorabile disfacimento di una civiltà”. Il libro: Giorgio Cattaneo, “La lotteria dell’universo”, Youcanprint, 148 pagine, 12 euro).La verità. La verità è che siamo fuori di qualche trilione. Lo so, ammise il supremo contabile; ma il problema, come sempre, è politico. Occorre ben altro che il pallottoliere: servono narrazioni, e il guaio è che i narratori ormai scarseggiano. Il Supremo aveva superato i sessant’anni ed era cresciuto al riparo dei migliori istituti, poi l’avevano messo alla prova per vedere se sarebbe stato capace di premere il pulsante. Intuì che premere il pulsante era l’unico modo per restare a bordo, e lo premette. Quando poi vide la reale dimensione del dramma, ormai era tardi: c’erano altri pulsanti, da far premere ad altri esordienti. Si fece portare un caffè lungo, senza zucchero, e provò il desiderio selvaggio di tornare bambino. Rivide un prato senza fine, gremito di sorrisi e volti amici, tutte persone innocue. Devo proprio aver sbagliato mondo, concluse, tornando alla sua contabilità infernale.