Archivio del Tag ‘imprese’
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Sono pazzi, dicono ancora che l’Ue si possa democratizzare
Mettetevelo in testa: l’Unione Europea è finita, non è riformabile. E’ la sintesi che fornisce Carlo Formenti su “Micromega”, commentando il numero di maggio-giugno della rivista “Il Ponte”, intitolato “Un’altra Europa”, con 10 mini-saggi firmati da autori come Ernesto Screpanti, Luciano Vasapollo, Giorgio Cremaschi nonché Marco Baldassari, Diego Melegari e Stefano Zai. Fine dell’illusione riformista, nessuna possibile «evoluzione democratica delle istituzioni comunitarie». Tesi scolpite nel marmo: la natura dell’Ue è «costitutivamente oligarchica». Peggio: «Principi e valori dell’ordoliberalismo tedesco ne ispirano il progetto». C’è ormai una «presa d’atto della natura neocoloniale della relazione fra Germania e paesi dell’area mediterranea e dell’Est europeo». Tutti concordi sulla «necessità di rompere con la Ue e di dare avvio a processi alternativi di aggregazione fra paesi periferici». Sbagliato, scrive Formenti, considerare “un errore” la politica economica europea «nel ritorno al dogma dello Stato minimo, tipico del liberismo classico». Sbagliato pensare «che tale errore sia correggibile attraverso il ritorno a politiche neokeynesiane». Con Brxelles la partita è persa, resta solo la fuga.Si insiste sul fatto che la visione ordoliberale, adottata fin dalle origini dalla Germania postbellica, nega la capacità del mercato di autoregolarsi e affida allo Stato – uno Stato forte, dunque – il ruolo di definire un quadro giuridico istituzionale, una vera e propria “costituzione economica”, nel quale i fattori economici possano esplicarsi correttamente (stabilità dei prezzi, protezione della concorrenza da sostegni pubblici e interventi “lobbistici” dei corpi intermedi come i sindacati). La politica non deve dunque compensare gli effetti del mercato (di qui l’obiettivo di smantellare il welfare) ma garantire il libero sviluppo di un’economia che – in quanto “economia sociale di mercato” – si presenta come un vera e propria utopia, una economia “morale” fondata su un mix di spirito imprenditoriale, valore comunitario e ordine sociale armonico. Questa funzione di governance, continua Formenti, non necessita di legittimazione, per cui le critiche alla scarsa democraticità delle istituzioni europee, o alla presunta incompletezza del processo di unificazione politica cadono letteralmente nel vuoto: «l’Unione non è uno stato federale “incompiuto”, bensì una superstruttura parastatale che ha il compito di gestire una governance multilivello». Una superstruttura «rispetto alla quale i trattati assumono valore costituzionale, funzionano come “una costituzione senza Stato e senza popolo”».Di fronte a questa realtà, «l’unico argomento che consente alle sinistre radicali di coltivare l’illusione riformista di poter democratizzare questa Europa è il dogma (fedele a una sorta di internazionalismo astratto che sconfina nel cosmopolitismo borghese) secondo cui il piano sovranazionale sarebbe l’unico sul quale è possibile rappresentare gli interessi delle classi subalterne», osserva Formenti. Altro argomento, la relazione semicoloniale fra la Germania e gli altri paesi, mediterranei e dell’Est, «imposta dai rapporti di forza fra grandi potenze in conflitto reciproco sul mercato globale». Il processo di globalizzazione è stato a lungo trainato «dalla sostanziale convergenza di interessi fra Stati Uniti e Cina: da un lato, la politica americana di espansione della domanda aggregata che alimentava la crescita di consumi, investimenti e importazioni gonfiando il debito pubblico e privato (e facendolo pagare agli altri paesi grazie all’egemonia del dollaro), dall’altro, il mercantislismo cinese che sfruttava la politica americana per alimentare i vertiginosi tassi di crescita del proprio surplus commerciale».La crisi, argomenta Screpanti, ha rotto questi equilibri, inducendo quasi tutti i paesi ad adottare forme di “mercantilismo difensivo” che tendono a rallentare lo sviluppo, nella misura in cui rallentano la domanda mondiale di importazioni. Secondo Screpanti, non è tuttavia corretto parlare di “fine della globalizzazione”, in quanto il processo di internazionalizzazione delle grandi imprese prosegue, anche se entra in contraddizione con il nazionalismo dei grandi Stati. In questo contesto la Germania, «il cui modello di sviluppo è stato fin dall’inizio basto sulle esportazioni», tende ad accentuare ulteriormente la pressione sugli altri paesi dell’Unione, imponendo – come afferma Vasapollo – una divisione del lavoro «che assegna ai paesi mediterranei il ruolo di importatori, mentre trasferisce all’Est il sistema industriale per ridurre ulteriormente il costo del lavoro». Del resto, «il mito della convergenza delle economie nazionali dell’area Ue è tramontato da tempo, di fronte alla forbice che vede un Nord che cresce rapidamente grazie ai surplus commerciali opposto un Sud che cresce lentamente, ha elevati tassi di disoccupazione, debiti pubblici in aumento, bilanci commerciali in deficit e subisce un processo di deindustrializzazione».Ormai, continua Formenti, è evidente che l’euro «è lo strumento che ha consentito alla Germania di imporre ai soci di finanziare i suoi squilibri di bilancio (soprattutto dopo l’unificazione con l’Est), di costruire un nuovo proletariato industriale per le sue multinazionali e di esercitare un inedito colonialismo interno al polo europeo per sostenere le proprie ambizioni di potenza emergente a livello globale». Di fronte a questo scenario, «che rende irrealistico qualsiasi progetto di riforma di questa Europa», tutti gli articoli sostengono l’inevitabilità, per quelle forze politiche che intendano realmente rappresentare gli interessi delle classi subalterne, di lavorare per la rottura della Ue anche prendendo in considerazione l’ipotesi di un’uscita unilaterale (Italexit) del nostro paese – uscita che, scrive Screpanti, mentre rappresenterebbe un processo dirompente per tutta l’Unione, non deve farci dimenticare che implicherebbe un prezzo elevato da pagare. Tema che Vasapollo affronta da un altro punto di vista, sviluppando la prospettiva della costruzione di un’Europa dei popoli mediterranei in analogia all’alleanza politico-economica messa in atto alle rivoluzioni bolivariane in America Latina.Di taglio più politico l’articolo di Cremaschi, che affronta la crisi della globalizzazione dal punto di vista della perdita di consenso delle masse popolari nei confronti delle élite che hanno governato il processo negli ultimi decenni. «A causa della crisi, gli avanzi della ricchezza accumulata non hanno più potuto essere ridistribuiti, aggravando ulteriormente gli effetti di una “guerra di classe dall’alto” che già aveva falcidiato occupazione, salari e welfare, per cui non è un caso se la rivolta è partita proprio in quei paesi – Stati Uniti e Inghilterra, dove quasi mezzo secolo fa è iniziata la controrivoluzione liberista». Che poi questa rivolta abbia assunto connotati di destra (senza dimenticare tuttavia il caso Sanders), sia stata cioè egemonizzata da forze che affidano ogni soluzione a un leader, si concentrano esclusivamente sulla lotta alle caste corrotte e dirottano la rabbia popolare sui migranti, non toglie nulla al fatto che questo dissenso politico di massa sia il punto da cui è necessario partire per produrre qualsiasi cambiamento reale. Le sinistre radicali? Continuano ad allearsi «alle socialdemocrazie in via di estinzione», quando non sono «pienamente convertite al liberismo», e quindi «si autocondannano alla ininfluenza più assoluta». Meglio invece «misurarsi con “l’onda populista”», perché il vero problema ormai «non è se, ma come, usciremo dalla globalizzazione».Mettetevelo in testa: l’Unione Europea è finita, non è riformabile. E’ la sintesi che fornisce Carlo Formenti su “Micromega”, commentando il numero di maggio-giugno della rivista “Il Ponte”, intitolato “Un’altra Europa”, con 10 mini-saggi firmati da autori come Ernesto Screpanti, Luciano Vasapollo, Giorgio Cremaschi nonché Marco Baldassari, Diego Melegari e Stefano Zai. Fine dell’illusione riformista, nessuna possibile «evoluzione democratica delle istituzioni comunitarie». Tesi scolpite nel marmo: la natura dell’Ue è «costitutivamente oligarchica». Peggio: «Principi e valori dell’ordoliberalismo tedesco ne ispirano il progetto». C’è ormai una «presa d’atto della natura neocoloniale della relazione fra Germania e paesi dell’area mediterranea e dell’Est europeo». Tutti concordi sulla «necessità di rompere con la Ue e di dare avvio a processi alternativi di aggregazione fra paesi periferici». Sbagliato, scrive Formenti, considerare “un errore” la politica economica europea «nel ritorno al dogma dello Stato minimo, tipico del liberismo classico». Sbagliato pensare «che tale errore sia correggibile attraverso il ritorno a politiche neokeynesiane». Con Bruxelles la partita è persa, resta solo la fuga.
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La tragedia greca dei salari: vivere con 260 euro al mese
L’alta disoccupazione nella Grecia colpita dall’austerity deprime salari e stipendi. Gli imprenditori vogliono spendere quanto meno possibile in salari, e i lavoratori sono costretti a scendere a compromessi che erano impensabili prima della crisi. Si accetta un posto di lavoro a qualsiasi prezzo, non importa quanto sia basso. Il settore imprenditoriale privato in Grecia ignora spudoratamente le leggi sul lavoro e offre una manciata di noccioline con l’ultimatum “prendere o lasciare”. Un ricatto che i lavoratori disperati non possono rifiutare. Nessuna sorpresa. I dati basati sulle dichiarazioni dei redditi del 2017 relativi all’anno fiscale 2016 mostrano quale sia l’attuale condizione di stipendi e salari nel settore privato greco. Sono spaventosamente bassi, specialmente se si tiene conto del costo della vita nel paese. I dati non rivelano comunque le condizioni di lavoro, se siano lavori a tempo pieno, part time o a turni. I giovani lavoratori sotto 20 anni di età non guadagnano più di 260 euro netti al mese. I lavoratori a 24 anni di età svolgono lavori a tempo pieno per una media di 380 euro netti al mese. I lavoratori fino a trent’anni guadagnano in media 509 euro, e quelli fino a 34 non portano a casa più di 660 euro.La maggiore diminuzione degli stipendi, tra -42% e -25%, colpisce i lavoratori giovani e quelli nell’età più produttiva, cioè i trentenni e i quarantenni. I lavoratori trentenni di solito progettano di formare una famiglia, e quelli verso i 40 e oltre spesso hanno già delle famiglie e dei figli. Hanno quindi da gestire impegni economici maggiori con redditi che diminuiscono. Ci sono 548.000 lavoratori nella fascia di età 40-49 anni. I lavoratori registrati over 50 sono 335.000. Prima della crisi molti di loro guadagnavano più di 1.600 euro lordi al mese. Nel 2012 i salari minimi sono diminuiti da 780 a 580 euro lordi per i lavoratori sopra i 25 anni e sono diminuiti a 510 euro lordi per i lavoratori tra i 15 e i 24 anni. Secondo lo stesso Dataset, le pensioni medie sono diminuite del 13,96% tra il 2012 e il 2016. Nel periodo 2010-2017 le pensioni di base e integrative sono state tagliate 14 volte.Negli ultimi mesi il tasso di disoccupazione è sceso a causa dei lavori stagionali nel settore turistico. Nell’aprile 2017 il tasso di disoccupazione in Grecia era il 21,7% ed è tuttora il più alto dell’Unione Europea. Seconda viene la Spagna, con una disoccupazione al 17,1%. Tuttavia, secondo l’Unione dei Lavoratori nel Turismo e nella Ristorazione, gli imprenditori pongono l’enfasi sull’ingaggio di lavoratori giovani, fino a 25 anni di età, grazie ai loro minori salari. I salari in questo settore per questo gruppo di età sono di 510 euro al mese lordi per un lavoro a tempo pieno, che diventano 410 euro netti dopo aver scalato tasse e contributi previdenziali. Questa tendenza, che i media greci descrivono come “la cattiva cultura degli imprenditori”, impedisce la firma di contratti collettivi che permetterebbero di ingaggiare lavoratori più anziani, con più anni di esperienza e conseguentemente salari più alti.(“La tragedia greca dei salari: la generazione dei 265 euro al mese”, report di “Keep Talking Greece”, 1° agosto 2017, ripreso da “Voci dall’Estero”).L’alta disoccupazione nella Grecia colpita dall’austerity deprime salari e stipendi. Gli imprenditori vogliono spendere quanto meno possibile in salari, e i lavoratori sono costretti a scendere a compromessi che erano impensabili prima della crisi. Si accetta un posto di lavoro a qualsiasi prezzo, non importa quanto sia basso. Il settore imprenditoriale privato in Grecia ignora spudoratamente le leggi sul lavoro e offre una manciata di noccioline con l’ultimatum “prendere o lasciare”. Un ricatto che i lavoratori disperati non possono rifiutare. Nessuna sorpresa. I dati basati sulle dichiarazioni dei redditi del 2017 relativi all’anno fiscale 2016 mostrano quale sia l’attuale condizione di stipendi e salari nel settore privato greco. Sono spaventosamente bassi, specialmente se si tiene conto del costo della vita nel paese. I dati non rivelano comunque le condizioni di lavoro, se siano lavori a tempo pieno, part time o a turni. I giovani lavoratori sotto 20 anni di età non guadagnano più di 260 euro netti al mese. I lavoratori a 24 anni di età svolgono lavori a tempo pieno per una media di 380 euro netti al mese. I lavoratori fino a trent’anni guadagnano in media 509 euro, e quelli fino a 34 non portano a casa più di 660 euro.
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Rivoluzione colorata: l’imbroglio Macron seppellirà i francesi
Dal lontano 2005, la Francia non ha più un vero presidente: all’Eliseo si sono succeduti soltanto dei pallidi figuranti. Compreso l’ultimo arrivato, Emmanuel Macron, “fabbricato” dal supemassone reazionario Jacques Attali e inizialmente scambiato, dagli elettori, per salvatore della patria. Lo afferma Thierry Meyssan, analizzando le prime mosse del nuovo presidente. «Dopo l’incidente cerebrale di Jacques Chirac, la Francia è rimasta senza un presidente», scrive, su “Megachip”. «Durante gli ultimi due anni in cui ha ricoperto la carica, Chirac ha lasciato che i suoi ministri Villepin e Sarkozy si sbranassero a vicenda. In seguito: il popolo francese ha scelto due personalità che non sono riuscite a essere all’altezza dell’ufficio presidenziale: Nicolas Sarkozy e François Hollande». Alla fine hanno scelto di portare Macron all’Eliseo, «ritenendo così che questo giovane impetuoso fosse capace di riprendere il timone». Errore. Una spia evidente è l’atteggiamento verso la Ue, apertamente sostenuta dai grandi candidati, che anziché Bruxelles hanno attaccato genericamente “la corruzione”, colpendo in particolare François Fillon. «Una narrazione tipica delle “rivoluzioni colorate”».L’opinione pubblica, senza eccezioni, «reagisce sostenendo la “rottamazione”: tutto quel che è vecchio è corrotto, mentre tutto quel che è nuovo è giusto e buono», scrive Meyssan. «Tuttavia, non c’erano basi per dimostrare nessuno dei crimini di cui tutti stavano parlando». E’ uno schema, che funziona sempre: «Nelle rivoluzioni colorate precedenti, l’opinione pubblica ci metteva tra i tre mesi (la Rivoluzione dei Cedri in Libano) e i due anni (la Rivoluzione delle Rose in Georgia) prima di svegliarsi e scoprire di essere stata manipolata». L’arte di coloro che organizzano le “rivoluzioni colorate” consiste «nel realizzare senza aspettare un istante tutti i cambiamenti che i loro sponsor intendevano operare nelle istituzioni». Emmanuel Macron, già dirigente della Banca Rothschild, ha annunciato in anticipo le sue intenzoni: riforma d’urgenza del Codice del Lavoro, modifica del Consiglio economico e sociale, dimezzamento del numero degli eletti a tutti i livelli, nonché “moralizzazione” della vita politica. Tutti questi progetti, osserva Meyssan, ricalcano il solco tracciato dalla relazione pubblicata dalla Commissione per la liberalizzazione della crescita francese del 2008, di cui era presidente Jacques Attali, mentre Emmanuel Macron era il vice segretario generale.Il rapporto della Commissione Attali (creata dal presidente Sarkozy) inizia con queste parole: «Questo non è un rapporto, né uno studio, ma un manuale per le riforme urgenti e fondanti. Non è né partisan né bi-partisan: è non partisan». Per quanto riguarda il codice del lavoro, scrive Meyssan, «si punta ad abbandonare il sistema giuridico romano e alla sua sostituzione con il sistema attualmente in vigore negli Stati Uniti: un dipendente e il suo padrone potrebbero così entrare in negoziati bilaterali e concludere un contratto in contrasto con la legge». E il sistema educativo «dovrà produrre studenti bilingui (francese/inglese) già alla fine della scuola primaria». Eppure, aggiunge l’analista, questo cambiamento di paradigma non è mai stato discusso in Francia: «Tutt’al più, è stato evocato durante i dibattiti parlamentari sulla legge El-Khomri/Macron del 2016», detta anche “Loi Travail”, che di fatto “americanizza” la situazione, come il Jobs Act renziano in Italia. E le riforme istituzionali annunciate da Macron? «Nessuna di esse era attesa dai francesi», nonostante una certa insofferenza per «la stratificazione amministrativa (Comuni, Comunità di Comuni, Dipartimenti, Regioni, Stato) e la proliferazione di commissioni inconcludenti».In realtà, sostiene Meyssan, «il presidente Macron avanza indossando una maschera». E spiega: «Il suo obiettivo a medio termine, ampiamente annunciato nel 2008, è quello di abolire Comuni e Dipartimenti. Si tratta di omogeneizzare le collettività locali francesi con il modello già imposto ovunque in altri paesi dall’Unione Europea. L’Eliseo, nel rifiutare l’esperienza storica del popolo francese, considera che possa essere governato come tutti gli altri europei». La riforma del Consiglio economico e sociale, invece, «rimane vaga». Tuttalpiù, «sappiamo che si tratterebbe sia di sciogliere le innumerevoli commissioni inutili, sia di affidargli il dialogo sociale». Aggiunge Meyssan: «Il fallimento di Charles de Gaulle nel raggiungere questo obiettivo nel 1969 ci fa pensare che, qualora questa riforma venisse realizzata, non sarebbe per risolvere un problema, ma per seppellirlo una volta per tutte». In realtà, la proposta di riforma del Codice del Lavoro «priverà questo dialogo del suo oggetto concreto». Nel 1969, ricorda Meyssan, il presidente de Gaulle «si era rassegnato ad abbandonare ancora una volta il suo vecchio progetto di “partecipazione”, cioè di ridistribuzione della crescita del capitale delle imprese tra i loro proprietari e i loro lavoratori», e in cambio aveva proposto «di far partecipare il mondo del lavoro al processo legislativo».Per farlo, de Gaulle aveva pensato di fondere il Consiglio economico e sociale con il Senato, in modo che la Camera Alta riunisse sia i rappresentanti regionali sia quelli del mondo professionale. In particolare, aveva proposto che questa Camera non potesse più redigere essa stessa le leggi, ma che emettesse un parere su ogni testo prima che questo fosse discusso dall’Assemblea Nazionale. «Si trattava dunque di concedere un potere che consisteva in un parere legislativo alle organizzazioni rurali e cittadine, ai sindacati degli operai e del padronato, alle università, alle associazioni familiari, sociali e culturali». Macron si sta muovendo in direzione opposta. Le due priorità che il neopresidente intende perseguire «prima che i suoi elettori si risveglino» possono essere riassunte come segue: «Reggere il mercato del lavoro secondo i principi dell’ordinamento giuridico statunitense; conformare gli enti locali alle norme europee e incistare le organizzazioni rappresentative del mondo del lavoro in un assemblea puramente onorifica. Oltre a cancellare (a vantaggio dei soli capitalisti) qualsiasi traccia proveniente da diversi secoli di lotte sociali, Emmanuel Macron dovrebbe quindi allontanare gli eletti dai loro elettori e scoraggiare questi ultimi dall’impegnarsi nella cosa pubblica».Dal lontano 2005, la Francia non ha più un vero presidente: all’Eliseo si sono succeduti soltanto dei pallidi figuranti. Compreso l’ultimo arrivato, Emmanuel Macron, “fabbricato” dal supemassone reazionario Jacques Attali e inizialmente scambiato, dagli elettori, per salvatore della patria. Lo afferma Thierry Meyssan, analizzando le prime mosse del nuovo presidente. «Dopo l’incidente cerebrale di Jacques Chirac, la Francia è rimasta senza un presidente», scrive, su “Megachip”. «Durante gli ultimi due anni in cui ha ricoperto la carica, Chirac ha lasciato che i suoi ministri Villepin e Sarkozy si sbranassero a vicenda. In seguito: il popolo francese ha scelto due personalità che non sono riuscite a essere all’altezza dell’ufficio presidenziale: Nicolas Sarkozy e François Hollande». Alla fine hanno scelto di portare Macron all’Eliseo, «ritenendo così che questo giovane impetuoso fosse capace di riprendere il timone». Errore. Una spia evidente è l’atteggiamento verso la Ue, apertamente sostenuta dai grandi candidati, che anziché Bruxelles hanno attaccato genericamente “la corruzione”, colpendo in particolare François Fillon. «Una narrazione tipica delle “rivoluzioni colorate”».
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Qe, truffa da record: soldi facili alle banche, solo per i ricchi
Sembra che l’enorme trasferimento di ricchezza verso i ricchi, durato circa un decennio e noto come ‘quantitative easing’, stia per volgere al termine. Delle quattro principali banche centrali del mondo – la Federal Reserve americana, la Bank of England, la Banca Centrale Europea e la Banca del Giappone – due hanno già abbandonato la politica di acquisto di attività finanziarie (la Fed e la BoE), e la Bce intende smettere gli acquisti da dicembre. La Fed dovrebbe infatti iniziare a vendere nei prossimi due mesi i 3500 miliardi di dollari di titoli acquistati in tre cicli di Qe. Dal momento che – valutato alla luce degli obiettivi ufficiali – il Qe è stato un completo disastro, ciò appare perfettamente sensato. Grazie ad un’“iniezione” di denaro nell’economia, il Qe avrebbe dovuto portare le banche a prestare nuovamente, rilanciando gli investimenti e la crescita economica. In realtà, dopo l’introduzione del Qe il credito bancario totale nel Regno Unito è invece diminuito, e il credito a piccole e medie imprese – responsabili per il 60% dell’occupazione – è in caduta verticale.Come notato da Laith Khalaf, senior analyst presso Hargreaves Lansdown, «dopo la crisi finanziaria, le banche centrali hanno inondato l’economia globale con denaro a buon mercato, ma la crescita globale è tuttora in una situazione di stallo, in particolare in Europa ed in Giappone, dove sono state prese imponenti misure di stimolo per fronteggiare il problema». Persino “Forbes” ammette che il Qe ha «in gran parte fallito nel rivitalizzare la crescita economica». Ciò non sorprende, o quanto meno non dovrebbe. Il Qe era destinato fin dall’inizio a mancare i suoi obiettivi dichiarati, perché il motivo per cui le banche non finanziavano investimenti produttivi non era la carenza di denaro – al contrario, già nel 2013, molto prima degli ultimi cicli di Qe, le imprese inglesi disponevano di quasi 500 miliardi di riserve liquide – ma piuttosto perché l’economia globale si trovava (e si trova tuttora) in una profonda crisi di sovrapproduzione. In poche parole, i mercati erano (e sono) saturi, e non ha senso investire in un mercato saturo.Per questo motivo, tutto il nuovo denaro creato dal Qe ed “iniettato” nelle istituzioni finanziarie – come fondi pensione e compagnie d’assicurazione – non è stato poi investito nelle attività produttive, ma si è invece riversato nei mercati azionari ed immobiliari, gonfiando i prezzi delle azioni e degli immobili, senza generare nulla in termini di ricchezza reale o occupazione. I titolari di beni come azioni e immobili hanno tratto molti vantaggi dal Qe, che in Uk si stima abbia accresciuto la ricchezza del 5 percento più ricco mediamente di 128.000 sterline a testa. Com’è stato possibile? Da dove è venuta tutta questa nuova ricchezza? Dopo tutto, anche se il denaro – a dispetto degli slogan dei Tory – può essere effettivamente creato “dal nulla”, precisamente come è stato fatto col Qe, non è così per la ricchezza reale. Ed il Qe non ha prodotto ricchezza reale. Eppure, il 5% più ricco oggi dispone di 128.000 sterline extra da spendere in yacht, ville principesche, diamanti, caviale e così via. Ma da dove viene questo denaro?Semplice. La ricchezza che il Qe ha trasferito ai titolari di asset proviene, in primo luogo, direttamente dai salari dei lavoratori. Poiché ha praticamente svalutato la moneta, il Qe ha ridotto la capacità d’acquisto del denaro, il che ha causato nei fatti una svalutazione dei salari reali, che in Uk sono tuttora del 6% al di sotto dei loro livelli pre-Qe. Il denaro sottratto ai salari forma dunque parte di quel dividendo di 128.000 sterline. Ma viene anche dagli ultimi arrivati nei mercati gonfiati dal Qe – principalmente gli acquirenti di una prima casa e chi è recentemente andato in pensione. Chi oggi acquista una casa (che il Qe ha reso molto più cara), ad esempio, dovrà lavorare migliaia di ore in più per pagare un mutuo a prezzi più alti. Sono queste ore in più a creare la ricchezza che sovvenziona le stravaganti spese del 5% più ricco. Ovviamente, questi prezzi immobiliari più alti sono pagati da chiunque acquisti una casa, non solo da chi lo fa per la prima volta – ma per chi è già proprietario il costo aggiuntivo è compensato dall’aumento di prezzo della casa già di proprietà (o delle azioni, per chi è abbastanza ricco da possederne).Un’altra conseguenza del Qe è che chi va in pensione adesso è costretto a sovvenzionare il 5% più ricco. I nuovi pensionati usano il loro fondo pensione per acquistare una ‘rendita’ – un pacchetto di titoli azionari fruttiferi che produce reddito. Ma poiché il Qe ha causato un’inflazione del prezzo dei titoli, ciò ha ridotto il numero di titoli acquistabili con questo fondo. E dato che all’aumento di prezzo dei titoli non corrisponde un aumento dei dividendi, ciò si traduce in una pensione ridotta. In realtà, la teoria che il Qe servisse ad incoraggiare gli investimenti e stimolare l’occupazione e la crescita è sempre stata un artificio fantasioso creato per dissimulare quello che stava realmente accadendo – un colossale trasferimento di ricchezza verso i più ricchi. L’economista Dhaval Joshi faceva notare nel 2011: «La cosa più sconvolgente è che, dopo due anni di apparente ripresa, i lavoratori [inglesi] in realtà guadagnano meno che nel momento più drammatico della recessione. Salari e stipendi reali sono calati di 4 miliardi di sterline. I profitti sono aumentati di 11 miliardi. I benefici della ripresa sono stati distribuiti nel modo più iniquo possibile».Nel marzo di quest’anno il “Financial Times” riportava che, nonostante il Pil della Gran Bretagna sia ritornato ai livelli pre-crisi già dal 2014, i salari reali sono ancora più bassi del 10% rispetto al 2008. «La contrazione dei salari reali in Uk si è arrestata nel 2015», aggiungeva, «ma ciò non è destinato a durare». Così è stato. Nello stesso mese di pubblicazione di quell’articolo, i salari reali hanno iniziato nuovamente a scendere, e sono da allora in costante diminuzione. Lo stesso è successo in Giappone, dove, secondo “Forbes”, «il reddito delle famiglie si è effettivamente ridotto dopo l’introduzione del Qe». Il Qe ha sortito un effetto simile nei paesi del sud del mondo: aumentare la ricchezza dei detentori di asset a spese di chi non ne ha. Così come l’afflusso di nuovo denaro crea bolle nei mercati immobiliari e finanziari, allo stesso modo crea una bolla nei prezzi delle materie prime, dovuta ad esempio alla corsa degli speculatori all’acquisto di quote di petrolio e di materie prime alimentari.Per alcuni paesi produttori di petrolio ciò ha comportato effetti positivi, con la messa a disposizione di denaro inatteso da investire in programmi sociali, come inizialmente è accaduto nel caso di Venezuela, Libia ed Iran. In tutti e tre i casi, le forze imperialiste sono state costrette a ricorrere a vari livelli di intervento militare per contrastare queste conseguenze indesiderate. Ma l’aumento del prezzo del petrolio è certamente deleterio per paesi che non ne producono – e qualsiasi aumento dei prezzi alimentari è sempre devastante. Nel 2011 il “Daily Telegraph” sottolineava «la correlazione tra i prezzi alimentari e gli acquisti da parte della Fed di titoli di Stato americani (ossia, programmi di quantitative easing)…Si può notare come l’indice dei prezzi alimentari si è pressoché stabilizzato tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010, ed è poi nuovamente salito a partire dalla metà del 2010 dopo il nuovo avvio del quantitative easing… con un aumento dei prezzi di circa il 40% durante un periodo di tempo di otto mesi».L’aumento dei prezzi ha spinto 44 milioni di persone in povertà nel solo 2010 – il “Telegraph” riteneva che ciò stesse alla base del malcontento manifestato nelle cosiddette Primavere Arabe. Robert Zoellick, ex presidente della Banca Mondiale, all’epoca commentava: «L’inflazione dei prezzi alimentari è oggi la più grave minaccia incombente sui poveri del mondo… basta un episodio di maltempo estremo per finire nel baratro». Sono questi i costi del quantitative easing. I paesi Brics erano anche critici nei confronti del Qe per un altro motivo: lo consideravano un metodo subdolo di svalutazione competitiva. Riducendo artificialmente il valore delle loro monete, la “triade imperiale” Usa, Ue e Giappone causavano a tutti gli effetti un apprezzamento delle valute di tutti gli altri paesi, danneggiando così le loro esportazioni.Nel 2015 “Forbes” scriveva: «Gli effetti si iniziano già a sentire anche nei paesi esportatori più dinamici al mondo, nell’est asiatico. Le loro esportazioni in dollari americani hanno subito una drammatica variazione, da una crescita annua del 10% ad una contrazione del 12% nella prima metà di quest’anno, e questi risultati non cambiano, che si tenga conto o no della Cina». Il vantaggio principale del Qe per i paesi in via di sviluppo avrebbe dovuto essere l’enorme afflusso di capitali da esso innescato. Si stima che circa il 40% del denaro generato dalla prima espansione di credito Qe della Fed (‘Qe1’) si è spostato all’estero – in particolare nei cosiddetti ‘mercati emergenti’ del sud del mondo – e circa un terzo durante il Qe. Tuttavia, contrariamente alle apparenze questo non è necessariamente un vantaggio. Gran parte del denaro, come si è visto, è stato utilizzato per acquistare scorte di materie prime (rendendo così beni essenziali come il cibo esorbitanti per i poveri) invece di essere investito in attività di produzione, ed un’altra buona parte è servita per acquistare scorte valutarie, causando ancora una volta un apprezzamento nocivo alle esportazioni.Per di più, un afflusso di ‘hot money’ (capitali speculativi erranti, in contrapposizione al capitale per gli investimenti di lungo termine) accentua la volatilità e vulnerabilità delle valute in caso, ad esempio, di aumenti dei tassi esteri. Se, ad esempio, i tassi d’interesse dovessero nuovamente salire in Usa ed in Europa, ciò rischierebbe di scatenare una fuga di capitali dai mercati emergenti, che potrebbe innescare un tracollo valutario. Fu infatti proprio un afflusso di ‘hot money’ nei mercati valutari asiatici, molto simile a quello visto durante il Qe, a precedere la crisi valutaria asiatica del 1997. La prossima fine del Qe, con il conseguente innalzamento dei tassi d’interesse, rischia di riproporre proprio questa vulnerabilità come una possibilità – se non addirittura come un’opportunità speculativa.(Dan Glazebrook, “Quantitative Easing, il più grande trasferimento di ricchezza della storia”, da un editoriale su “Rt” del 22 luglio 2017, tradotto e ripreso da Margherita Russo per “Voci dall’Estero”. Glazebrook è un giornalista politico freelance che collabora, fra gli altri, con “Russia Today Rt”, “Counterpunch”, “Z Magazine”, il “Morning Star”, il “Guardian”, il “New Statesman”, l’“Independent” e “Middle East Eye”. I suoi saggi esaminano i legami tra la crisi economica, l’ascesa dei Brics, le guerra in Libia e in Siria e l’“austerità” europea. Attualmente conduce ricerche per un libro sull’impiego degli “squadroni della morte” contro Stati sovrani e movimenti politici, dall’Irlanda del Nord e dall’America Centrale negli anni ‘70 e ‘80 fino al Medio Oriente e all’Africa di oggi).Sembra che l’enorme trasferimento di ricchezza verso i ricchi, durato circa un decennio e noto come ‘quantitative easing’, stia per volgere al termine. Delle quattro principali banche centrali del mondo – la Federal Reserve americana, la Bank of England, la Banca Centrale Europea e la Banca del Giappone – due hanno già abbandonato la politica di acquisto di attività finanziarie (la Fed e la BoE), e la Bce intende smettere gli acquisti da dicembre. La Fed dovrebbe infatti iniziare a vendere nei prossimi due mesi i 3500 miliardi di dollari di titoli acquistati in tre cicli di Qe. Dal momento che – valutato alla luce degli obiettivi ufficiali – il Qe è stato un completo disastro, ciò appare perfettamente sensato. Grazie ad un’“iniezione” di denaro nell’economia, il Qe avrebbe dovuto portare le banche a prestare nuovamente, rilanciando gli investimenti e la crescita economica. In realtà, dopo l’introduzione del Qe il credito bancario totale nel Regno Unito è invece diminuito, e il credito a piccole e medie imprese – responsabili per il 60% dell’occupazione – è in caduta verticale.
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Erik Olin Wright: democrazia, per erodere questo capitalismo
In tutte le strutture economiche, gli aspetti chiave che definiscono le relazioni sociali sono i rapporti di potere. In una struttura economica, i rapporti di potere sono basati sul tipo di risorse che possiedi e controlli. Se viviamo in un’economia capitalistica, ciò significa che i rapporti sociali di base nell’economia sono fondati sulla ricchezza, sulla proprietà. Questa è l’economia basata sull’impresa privata: ha al centro la proprietà privata del capitale. Ci sono persone che sono dominate dal capitale. Oggi vedono ancora il capitalismo come un problema serio: molte persone hanno ben chiaro che il capitalismo sta distruggendo l’ambiente, sta producendo insicurezza, sta producendo precarietà, sta producendo una concentrazione di potere che sta devastando i nostri processi democratici. Le persone riconoscono tutti questi problemi e li attribuiscono correttamente al potere del capitale, ma non traducono ciò nella propria identità. E questo è un problema, perché danneggia l’azione collettiva. È in questo senso che sostengo che un progetto di democratizzazione sia in grado di unificare le persone. Se le concentrazioni di potere sono il cuore del problema, rendere quel potere più subordinato alla democrazia è parte della soluzione.Il potere oggi è più difficile da limitare, a causa della globalizzazione e della finanziarizzazione del capitale. E poi emergono due questioni. La prima è quella della riforma democratica: quali sono le politiche che possono estendere la democrazia nell’economia e nella società civile? Come creiamo una società democratica? E la seconda è quella economica: come creiamo le condizioni per una vita economica che sia più geograficamente radicata, nei territori, invece di essere globalmente mobile? Transizione a una società post-capitalistica? Il termine “transizione” tende a dare l’idea che ciò possa avvenire in un lasso di tempo breve, e credo che invece ci dobbiamo immaginare un processo di erosione, questo è il termine geologico che uso: un processo che eroda il capitalismo. Si pone il problema di come realizzare questo processo di democratizzazione all’interno dell’Unione Europea. Non c’è solo la globalizzazione, c’è anche un organizzazione sovranazionale con regole che non sono solo capitalistiche ma proprio neoliberiste. È possibile dare vita a questo processo di alternativa all’interno di questo contesto di governance?Non c’è una ragione intrinseca per cui uno Stato europeo debba essere neoliberista. Lo è, perché questi sono i termini in cui il capitalismo ha forgiato questa istituzione politica transnazionale, ma penso che il progetto di democratizzare il quasi-Stato europeo, rendendolo un’istituzione che abbia più capacità e non meno, ma in maniera subordinata alla democrazia, debba essere parte del progetto di democratizzazione più generale. Uscire dall’Europa renderebbe le cose ancora peggiori: non c’è ragione per cui, all’interno di Stati sovrani di medie dimensioni, che dipenderebbero comunque dall’integrazione economica con altri Stati, altre società e altre economie, ci sarebbe una maggiore capacità di controllare il capitalismo. Avremmo più possibilità di controllare il capitalismo se democratizzassimo l’Unione Europea che se semplicemente democratizzassimo gli Stati membri e ci liberassimo dell’Ue. Abbiamo bisogno di istituzioni politiche sovranazionali che rispondano democraticamente alle persone per risolvere davvero il problema di come limitare il potere del capitalismo.Parlando di globalizzazione, che relazione c’è, oggi, tra le lotte nel mondo occidentale e quelle sul piano globale? Non mi sento in grado di prevedere dove sia più probabile che avvengano i futuri avanzamenti della democrazia, se avverranno. Quanto sono convinto che queste strategie avranno successo? Se dovessi scommettere la mia casa e l’eredità per i miei figli, scommetterei sul fatto che nei prossimi 25 anni avremo una svolta democratica in grado di subordinare il capitalismo e di permettere a forme alternative al capitalismo di svilupparsi dinamicamente, o prevedrei una continuazione del capitalismo con diseguaglianze più profonde, crisi e una diminuzione della democrazia? Probabilmente scommetterei sulla seconda opzione. È la più probabile, ma non è inevitabile. Il pessimismo è facile, non richiede alcun lavoro intellettuale. Ci vuole un sacco di serio lavoro intellettuale, invece, per trovare fonti di ottimismo.Bisogna cominciare da qualche parte. L’idea che non si possa trasformare nessun luogo finché non li si sono trasformati tutti è una ricetta per non trasformare nulla. Questo chiaramente è più importante se si pensa alla trasformazione come rottura: giovedì avremo un’isola felice in Italia, e poi potremo provare ad avere un mondo felice domenica. Questa è la logica della rottura, non quella del processo. Se pensiamo al processo, il punto è dove cominciare a cambiare le dinamiche dello sviluppo, nella direzione di quella che chiamo erosione del capitalismo, perché questo è il meglio che possiamo fare. Qualche volte le politiche rilevanti possono essere locali, non nazionali. Ci sono cose che possono accadere nei Comuni. Ad esempio, gli spazi pubblici, per facilitare l’iniziativa collettiva per nuove forme di attività economica. Questo è un tema locale in molti paesi. Ci sono posti in cui ci sono fabbriche abbandonante, per via della deindustrializzazione: quelli sono spazi sprecati, non utilizzati. Questi spazi potrebbero essere trasformati in spazi per makers, per progetti collettivi, compresi progetti di auto-organizzazione per l’economia solidale e sociale, per le cooperative.Queste cose quando vengono fatte creano delle dinamiche, perché coinvolgono le persone nell’immaginare e nel creare alternative e democrazia. Queste sono cose che le persone possono fare come parte della propria vita in un determinato territorio. E anche se sarà una piccola parte dell’azione che va verso l’alternativa, sarà comunque un passo avanti. Ci potranno essere momenti storici, per colpa di una crisi, o di cambiamenti ideologici o politici, in cui quelle iniziative possono essere portate a livello globale, in cui si può pensare a ridisegnare i trattati commerciali globali, a mettere una Tobin Tax sulle transazioni finanziarie transnazionali; ci potranno essere opportunità per mettere limiti al capitale globale, facilitando ulteriori trasformazioni. Ma non penso che dovremmo mettere tutte le nostre energie, dal punto di vista strategico, nei temi globali, perché sono ovviamente i più importanti, in termini di danno, ma raramente sono i migliori obiettivi. Gli obiettivi locali possono essere più vulnerabili.La strategia di erosione del capitalismo che io propongo ha al centro la democrazia, con l’idea che se si riesce a rendere il capitalismo subordinato alla democrazia, si creano le condizioni per sviluppare alternative al capitalismo. Tradizionalmente, la forma di espressione della democrazia nell’era moderna è stata lo Stato. Sto proponendo che per democratizzare l’economia dobbiamo lavorare per un nuovo ruolo dello Stato nell’economia, o sto immaginando forme di democrazie che non sono basate sulle istituzioni rappresentative? Penso a entrambe le cose. Abbiamo bisogno di uno Stato più forte, con maggiore capacità democratica per intervenire nell’economia, perché abbiamo bisogno di un modo per controllare le esternalità negative della produzione capitalistica e per proteggere meglio i beni comuni. Tutte cose per cui c’è bisogno dello Stato. Ma abbiamo bisogno anche di democrazia fuori dallo Stato: abbiamo bisogno di democratizzare i luoghi di lavoro, di creare nuovi processi democratici anche all’interno di imprese capitalistiche, trasformandole in ibridi che sono capitalistici per certi aspetti e democratici per altri.Abbiamo bisogno anche di democratizzare la società, non solo l’economia e lo Stato. Dobbiamo democratizzare la vita associativa delle comunità. Le tendenze all’esclusione che esistono nella società civile devono essere combattute. Questa è una battaglia molto difficile, perché alcune forme di esclusione sembrano così naturali da essere organiche alla vita delle persone. Penso alla maniera in cui le tradizioni religiose, ad esempio, creano insider e outsider, i salvati e i dannati, tutte queste barriere che impediscono il riconoscimento nella società civile. È piuttosto difficile combatterle, e in certe aree del mondo sono di fatto il problema principale, quando le pratiche di esclusione che sono costruite sulle tradizioni religiose diventano la fonte del dominio più violento. Se fosse vero che lo Stato non è niente di più che l’espressione del potere della classe dominante, se questa non fosse solo un’approssimazione ma tutta la storia, se lo Stato fosse un’espressione senza contraddizioni interne e totalizzante del potere della frazione dominante della classe dominante, allora non avrebbe alcun senso battersi per uno Stato democratico, perché la democraticità dello Stato sarebbe un’illusione.In questo senso lo Stato non sarebbe solo uno Stato capitalistico, sarebbe uno Stato puramente capitalistico. Bene, io non penso che questa sia una teoria dello Stato soddisfacente. Penso che lo Stato sia un assemblaggio ben più complicato e più contraddittorio. Penso che sia un ecosistema, uso questa metafora, che ha i suoi problemi ma che mi sembra funzioni meglio rispetto all’idea dello stato come un organismo, una totalità che esprime pienamente un interesse unificato. No, lo Stato è un’incarnazione contraddittoria delle forze della società, e la componente democratica dello Stato è un elemento profondamente contraddittorio all’interno dello Stato stesso. Per questo penso che la lotta per rendere più profonda la democrazia nello Stato sia sempre problematica, mai facile, ma quando ha successo intensifica questo carattere contraddittorio dello Stato e crea aperture. Qualche volta avviene per temi regionali, articolando il conflitto tra locale e nazionale, qualche volta è una componente dello Stato nazionale, due ministeri che non collaborano.Non possiamo schioccare le dita e trasformare lo Stato in qualcosa di diverso. Se adottiamo la disperazione anarchica e decidiamo che quella nello Stato è una battaglia senza speranza e va evitata, per limitarsi a costruire le alternative, credo che si produca solo marginalizzazione. Dall’altra parte c’è l’illusione della sinistra liberal di credere che lo Stato sia uno strumento neutro: neanche quella funziona. Bisogna vivere le contraddizioni e muoversi al loro interno. I sondaggi sulla popolarità del socialismo tra i millennials negli Stati Uniti e la crescita della quota di giovani britannici che si considerano contrari al capitalismo: un’ondata di anticapitalismo? Penso di sì. Penso che molti giovani si riconoscano nello slogan “Il capitalismo non funziona, un altro mondo è possibile”. Hanno vissuto la crisi del 2008-2010, hanno visto le cose insensate che i politici e le élite dicevano, hanno visto le cose cambiare ben poco, in termini di priorità. Capiscono un fatto bizzarro: anche in mezzo a questa crisi, le società europee sono più ricche di 30 anni fa. Sono società ricche. E quindi come può essere che la precarietà, l’insicurezza e l’ansia aumentino, con tutta la ricchezza della società? È folle.Il capitalismo non sta funzionando. Il capitalismo produce innovazione, lo sappiamo, tutti abbiamo uno smartphone e ci fa piacere averlo. Il capitalismo produce tutti questi cambiamenti tecnologici, eppure non funziona, produce sia meraviglie tecnologiche sia la precarietà. È veramente il meglio che possiamo fare? Una risposta possibile è: “Non c’è alternativa”. Io penso che ci sia un’ondata di giovani che dicono: “Forse c’è un’alternativa”. Il problema è il processo per arrivarci. C’è ancora una grande speranza per una rottura: l’idea che se Corbyn avesse vinto, se Mélenchon fosse stato eletto, allora forse avrebbero potuto mettere in atto un’alternativa. Questa è una fantasia. La transizione tra strutture sociali complesse dev’essere il risultato di un processo di trasformazione piuttosto che di un’azione immediata. Uso la metafora dell’erosione perché suggerisce che si metta in moto qualcosa che abbia quell’effetto. E penso a tutti i modi in cui possiamo promuovere la costruzione di alternative, assicurarne le fondamenta in modo che non siano sempre vulnerabili e poi incoraggiare attraverso l’azione collettiva le persone a parteciparvi: questo per me è il modo di pensare a un’alternativa al capitalismo.(Erik Olin Wright, dichiarazioni rilasciate a Lorenzo Zamponi e Marta Fana per l’intervista “Estendere la democrazia per erodere il capitalismo”, pubblicata da “Micromega” il 5 luglio 2017. Sociologo marxista statunitense, attento osservatore delle diamiche di trasformazione della società, Erik Olin Wright insegna all’università del Wisconsin).In tutte le strutture economiche, gli aspetti chiave che definiscono le relazioni sociali sono i rapporti di potere. In una struttura economica, i rapporti di potere sono basati sul tipo di risorse che possiedi e controlli. Se viviamo in un’economia capitalistica, ciò significa che i rapporti sociali di base nell’economia sono fondati sulla ricchezza, sulla proprietà. Questa è l’economia basata sull’impresa privata: ha al centro la proprietà privata del capitale. Ci sono persone che sono dominate dal capitale. Oggi vedono ancora il capitalismo come un problema serio: molte persone hanno ben chiaro che il capitalismo sta distruggendo l’ambiente, sta producendo insicurezza, sta producendo precarietà, sta producendo una concentrazione di potere che sta devastando i nostri processi democratici. Le persone riconoscono tutti questi problemi e li attribuiscono correttamente al potere del capitale, ma non traducono ciò nella propria identità. E questo è un problema, perché danneggia l’azione collettiva. È in questo senso che sostengo che un progetto di democratizzazione sia in grado di unificare le persone. Se le concentrazioni di potere sono il cuore del problema, rendere quel potere più subordinato alla democrazia è parte della soluzione.
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Brancaccio: il liberismo razzia lo Stato e la sinistra applaude
Siamo giunti ad un sistema che alla luce del sole privatizza i profitti e socializza le perdite. I dati indicano che a livello mondiale, soprattutto in Occidente, dopo la recessione del 2008 si è registrata una quantità enorme di acquisti statali di partecipazioni azionarie in banche e imprese, per un valore addirittura superiore alle vendite di Stato che erano state realizzate nel decennio antecedente alla crisi. E’ un’inversione di tendenza che segna una cesura rispetto all’epoca delle privatizzazioni di massa. Siamo all’inizio di una nuova fase storica. Un tempo lo Stato acquisiva i mezzi di produzione per finalità strategiche di lungo periodo, talvolta anche in aperta competizione con il capitale privato. Oggi questo tipo di acquisizioni pure si verifica, ma è un fenomeno minoritario. La maggior parte degli interventi statali odierni rivela un livello senza precedenti di subalternità agli interessi privati dei principali operatori sul mercato azionario. Lo Stato infatti compra a prezzi più alti dei valori di mercato, assorbe le parti “malate” del capitale e poi rivende le parti “sane” prima di una nuova ascesa dei prezzi, in modo da sgravare i privati dalle perdite e predisporli a ulteriori guadagni.Potremmo dire che in questa fase, più che in passato, lo Stato è “ancella” del capitale privato, nel senso che asseconda i movimenti speculativi dei grandi proprietari, li soccorre quando necessario e ne assorbe le perdite. Questo ruolo dell’apparato pubblico è ormai apertamente riconosciuto ai massimi livelli del capitalismo mondiale, proprio per garantire la ripresa e la stabilizzazione dei profitti dopo la “grande recessione” del 2008. Nella grande maggioranza dei casi l’intervento dello Stato a favore dei capitali privati implica aumenti significativi del debito pubblico. In prospettiva si tratterà di capire se tali aumenti saranno fronteggiati tramite nuovi tagli al welfare oppure attraverso una stagione di “repressione finanziaria”, in cui il debito viene ridotto a colpi di controlli sui capitali e crescita dei redditi monetari e dell’inflazione rispetto ai tassi d’interesse. La scelta tra l’una e l’altra opzione sarà un bivio politico decisivo per i prossimi anni.Gli economisti liberisti continuano a sostenere che lo Stato rappresenta una zavorra, per il capitale privato? Poi però si affrettano a invocare il salvataggio pubblico quando qualche banca privata fallisce, e a ben guardare non si scandalizzano nemmeno quando lo Stato compra a prezzi alti e poi rivende a prezzi bassi qualche spezzone di capitale industriale. Il divario fra le loro teorie e le loro ricette si fa sempre più ampio. L’impresa pubblica può perseguire obiettivi di carattere sistemico, che sfuggono alla ristretta logica capitalistica del profitto. Inoltre, anche adottando criteri di valutazione puramente capitalistici, l’impresa pubblica si rivela più efficiente di quanto si immagini. Da una recente ricerca dell’Ocse effettuata sulle prime 2.000 aziende della classifica mondiale di “Forbes”, si evince che le imprese a partecipazione statale presentano un rapporto tra utili e ricavi significativamente maggiore rispetto alle imprese private e un rapporto tra profitti e capitale pressoché uguale. L’Italia non si discosta molto da queste medie internazionali.Bisognerebbe ricordare che al momento della privatizzazione dell’Iri, molti settori della holding pubblica segnavano ampi attivi, e che nel 1992 le perdite aggregate non si discostavano molto dalle perdite che all’epoca registrava la maggior parte dei gruppi privati italiani.Sono ancora molti i miti liberisti da sfatare, specialmente in Italia. Corbyn in Gran Bretagna e Mélenchon in Francia? Tra le macerie del vecchio socialismo filo-liberista qualcosa lentamente si muove. Ma la nuova concezione dell’intervento pubblico che queste forze emergenti propongono richiederebbe cambiamenti macroeconomici imponenti, tra cui una messa in discussione della centralità del mercato azionario e della connessa libertà dei movimenti di capitale. Mi sembrano propositi molto ambiziosi per movimenti politici ancora incerti, fragili, ai primissimi vagiti. Certo, sono trainati da una nuova generazione di elettori, costituita da giovani lavoratori e studenti. Questa è una delle novità più promettenti della fase attuale. I giovani elettori che istintivamente muovono verso sinistra non esprimono un mero voto d’opinione. La loro scelta sembra piuttosto la risultante di un profondo mutamento dei rapporti di produzione, fatto di deregolamentazioni e precarietà, che negli ultimi anni ha inasprito le disuguaglianze di classe.Questi giovani sperimentano presto lo sfruttamento, crescono già disillusi e sembrano quindi vaccinati contro le vecchie favole dell’individualismo liberista. Tuttavia, organizzare una tale massa di disincantati intorno a un progetto di progresso e di emancipazione sociale non è un’impresa facile. Nell’attuale deserto politico e culturale, la loro rabbia può sfociare facilmente a destra. Che fa la sinistra in Italia? Sembra immobile. Una estenuante, ipertrofica discussione sui contenitori politici che ripropone schemi di un ventennio fa, come se nulla fosse accaduto nel frattempo. E poi, quando provi ad aprire quelle scatole ti ritrovi in un limbo, un oscuro mondo in cui nulla è chiaro. Nel Pd ho sentito esponenti politici di vertice affrettarsi a dichiarare la loro appartenenza alla famiglia liberale e la loro distanza dalle “sirene neo-stataliste” provenienti dalla Gran Bretagna. Ne ho sentiti altri sostenere che le elezioni vanno il più possibile rinviate per evitare che i mercati si “innervosiscano” e lo spread aumenti di nuovo.Soprattutto, ho assistito a un maldestro balletto sui temi cruciali del diritto del lavoro, che dovrebbero situarsi al vertice di qualsiasi proposta politica di sinistra e intorno ai quali, invece, prevalgono la confusione e i miopi tatticismi. A sinistra del Pd noto ancora molta subalternità culturale ai vecchi slogan del liberismo, sebbene la realtà si rivolti da tempo contro di essi.(Emiliano Brancaccio, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Il capitalismo cambia, la sinistra è in ritardo”, pubblicata su “Micromega” il 3 luglio 2017).Siamo giunti ad un sistema che alla luce del sole privatizza i profitti e socializza le perdite. I dati indicano che a livello mondiale, soprattutto in Occidente, dopo la recessione del 2008 si è registrata una quantità enorme di acquisti statali di partecipazioni azionarie in banche e imprese, per un valore addirittura superiore alle vendite di Stato che erano state realizzate nel decennio antecedente alla crisi. E’ un’inversione di tendenza che segna una cesura rispetto all’epoca delle privatizzazioni di massa. Siamo all’inizio di una nuova fase storica. Un tempo lo Stato acquisiva i mezzi di produzione per finalità strategiche di lungo periodo, talvolta anche in aperta competizione con il capitale privato. Oggi questo tipo di acquisizioni pure si verifica, ma è un fenomeno minoritario. La maggior parte degli interventi statali odierni rivela un livello senza precedenti di subalternità agli interessi privati dei principali operatori sul mercato azionario. Lo Stato infatti compra a prezzi più alti dei valori di mercato, assorbe le parti “malate” del capitale e poi rivende le parti “sane” prima di una nuova ascesa dei prezzi, in modo da sgravare i privati dalle perdite e predisporli a ulteriori guadagni.
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Morte lenta, fine dell’Italia. Dopo i partiti arriverà Draghi?
Si sono svolte le elezioni in un centinaio di comuni italiani: l’esito delle urne ha spinto i commentatori a parlare di un “risveglio” del centrodestra, ma l’unico dato significativo è l’esplosione dell’astensionismo che, in costante crescita da anni, ha raggiunto il 54% del corpo elettorale. Parallelamente, la legge elettorale proporzionale è in attesa di riapprodare in Parlamento, archiviando così gli esperimenti maggioritari degli ultimi 20 anni. I due elementi si inseriscono nel più ampio disfacimento del parlamentarismo. L’Italia, guidata da una classe dirigente esautorata, piegata dalla depressione economica, sottoposta ad una molteplicità di crisi concomitanti, si dirige rapida verso l’anno zero: è tempo di chiedersi quali istituzioni rimpiazzeranno le attuali. Parlamento? Non sento più il polso. C’è scarsa o nulla volontà di analizzare la condizione in cui versa l’Italia, anche perché discuterne apertamente non farebbe altro che alimentare le spinte anti-sistema e rendere ancora più palese la Caporetto sociale-economica verso cui ci ha portato l’attuale classe dirigente.Eppure, il nostro paese sta attraversando la peggiore crisi dall’Unità: la vituperata epoca giolittiana fu un periodo roseo a confronto, la Grande Depressione inflisse meno danni al tessuto produttivo, il secondo dopoguerra fu meno traumatico grazie alla conservazione dell’apparato industriale pubblico e dei quadri dirigenziali formati durante il Ventennio fascista. Mai capitò che il nostro paese perdesse in tempo di pace il 10% del Pil, il 25% della base industriale e subisse il crollo demografico che stiamo sperimentando oggi. Per non parlare della crisi bancaria che sta corrodendo il nostro sistema finanziario (circa 200 miliardi di euro), della perdita delle poche grandi imprese operanti nei settori strategici (dalle auto alle telecomunicazioni, dal cemento all’alimentare, dal lusso alla banche) e della crisi migratoria che riversa su un paese già esausto ondate di 150.000-200.000 diseredati all’anno. L’Italia sta pagando a carissimo prezzo la sua “doppia perifericità” geopolitica: periferica rispetto al nocciolo dell’Unione Europea e collocata ai limiti meridionali della Nato, il nostro paese incassa i pesantissimi costi della prima e della seconda.Di fronte a questo foschissimo scenario, la politica ha perso ormai da anni qualsiasi iniziativa. Artefice e complice delle scelte che hanno portato l’Italia verso il baratro, la nostra classe dirigente si adopera da anni per allungare il più possibile lo status quo, conscia che uno stravolgimento degli assetti attuali comporterebbe anche la sua scomparsa. Nell’ordine abbiamo prima assistito alla meteora del “tecnico” Mario Monti (2011-2013), che ha somministrato all’Italia massicce (e letali) dosi di austerità e svalutazione interna; poi alla meteora di Matteo Renzi (2014-2016), “l’ultima speranza dell’élite italiana”, che avrebbe dovuto proseguire le “riforme strutturali” con un piglio dinamico e giovanile; nel frattempo si è consumato il boom ed il successivo sgonfiamento (2013-2017) del Movimento 5 Stelle, studiato per catalizzare e neutralizzare la montante protesta sociale, assolvendo così la funzione di “stampella del potere” dell’establishment.L’impotenza della nostra politica è perfettamente fotografata dal sistema elettorale. La Seconda Repubblica, sinonimo di moneta unica ed Unione Europea, nasce col maggioritario, il cui scopo è quello di garantire a formazioni politiche minoritarie nel paese (che siano di sinistra o di destra) di attuare quelle riforme utili ad “agganciarci” all’Europa ed a farci “restare” in Europa. Il culmine di questo processo si ha, non a caso, nella fase terminale dell’eurocrisi: è la riforma costituzionale di Matteo Renzi, riforma con cui un partito che riscuotesse il 25% dei consensi avrebbe ottenuto la maggioranza della Camera. Fallito il tentativo, stiamo assistendo ad un impetuoso reflusso in senso opposto: abbandonati i sistemi iper-maggioritari, si lavora per reintrodurre il vecchio proporzionale della Prima Repubblica. Per la politica italiana è l’implicita ammissione della sconfitta, quasi una resa incondizionata: i partiti neanche più pensano ad un’alternanza studiano soltanto come sopravvivere, compattandosi in Parlamento come i superstiti di una battaglia persa.Di fronte a questo osceno spettacolo offerto dalla politica, la reazione degli italiani, piegati da disoccupazione e povertà record (7 milioni di disoccupati ed inattivi1 e 4,5 milioni in povertà assoluta2) è essenzialmente una: repulsione. In un paese come l’Italia, dove la partecipazione alle elezioni è storicamente alta, l’astensione dilaga a ritmi sostenuti: 42% di astenuti alle europee del 2014, 48% alle regionali del 2015, 50% al secondo turno delle comunali del 2016, 54% al secondo turno delle recenti comunali. Constato l’immobilismo o la complicità della politica rispetto alle molteplici crisi che affliggono il paese, preso atto del bluff del Movimento 5 Stelle (si vedano le disastrose amministrazioni Raggi ed Appendino, ma soprattutto i voltafaccia sul tema Unione Europea), non rimane altro che rifugiarsi nel non voto. Tra i cittadini e gli organi rappresentativi si scava, anno dopo anno, un fossato profondo quanto l’astensionismo. Se la maggioranza degli elettori disertano le elezioni, significa che il 50% più uno ha espresso la propria fiducia verso le istituzioni “democratiche”.I media, in occasione delle ultime amministrative, hanno parlato di ritorno “alle vecchie coalizioni” ed hanno letto nell’affermazione del centrodestra il segnale di un imminente svolta a livello nazionale: il pendolo dell’alternanza, dopo cinque anni a sinistra, starebbe spostandosi a destra. In realtà l’unico dato utile è quello relativo all’affluenza, sintomo che l’interno meccanismo “democratico” è guasto. Proiettando i dati delle ultime comunali sulle prossime politiche e togliendo il “filtro” del doppio turno, si ottiene una buona rappresentazione del futuro Parlamento: un’istituzione delegittimata dall’astensionismo record, spappolata in un inconcludente tripartitismo, costretta, come nella Spagna di Rajoy, ad instabili governi di minoranza. Né il duo Renzi-Berlusconi avrebbe infatti i numeri per governare, né il M5S accetterebbe ormai di sorreggere una coalizioni di sinistra. L’unico obiettivo della prossima legislatura sarà, quasi certamente, il varo di una qualche legge elettorale che consenta a Mario Draghi di assumere la Presidenza del Consiglio allo scadere del mandato di governatore della Bce, nell’ottobre 2019.Nel frattempo, però, il quadro macroeconomico si sarà deteriorato col rialzo generalizzato dei tassi delle banche centrali mondiali: l’apparente quiete che regna oggi sui mercati finanziari sarà sostituita da uno tsunami che coglierà la nave-Italia senza timoniere, già provata da un decennio di crisi sociale ed economica, portando ai limiti la capacità di tenuta del nostro paese. In questo scenario, la democrazia parlamentare italiana non ha alcuna possibilità di sopravvivere: come nella Francia di De Gaulle o nella Russia di Putin, sarà inevitabile una concentrazione verticale del potere, per impedire che le forze centrifughe prendano il sopravvento e gettino il paese nel caos. Il parlamentarismo italiano, già agonizzante oggi, è destinato ad essere spazzato via dalla tempesta che si profila all’orizzonte. Un dibattito costruttivo non dovrebbe quindi focalizzarsi sulla tenuta o meno delle nostre istituzioni parlamentari, perché il loro tramonto è pressoché inevitabile, ma sulle forme con cui rimpiazzarle e sulle forze politiche che colmeranno il vuoto lasciato dagli attuali partiti prossimi alla scomparsa. L’anno zero per l’Italia (e l’intero Occidente) si avvicina rapidamente: l’incertezza sarà altissima ed i pericoli altrettanto grandi, ma le forze vive del paese avranno almeno l’occasione di riplasmare lo Stato a loro immagine e somiglianza.(Federico Dezzani, “L’Italia e l’irreversibile crisi del parlamentarismo”, dal blog di Dezzani del 29 giugno 2017).Si sono svolte le elezioni in un centinaio di comuni italiani: l’esito delle urne ha spinto i commentatori a parlare di un “risveglio” del centrodestra, ma l’unico dato significativo è l’esplosione dell’astensionismo che, in costante crescita da anni, ha raggiunto il 54% del corpo elettorale. Parallelamente, la legge elettorale proporzionale è in attesa di riapprodare in Parlamento, archiviando così gli esperimenti maggioritari degli ultimi 20 anni. I due elementi si inseriscono nel più ampio disfacimento del parlamentarismo. L’Italia, guidata da una classe dirigente esautorata, piegata dalla depressione economica, sottoposta ad una molteplicità di crisi concomitanti, si dirige rapida verso l’anno zero: è tempo di chiedersi quali istituzioni rimpiazzeranno le attuali. Parlamento? Non sento più il polso. C’è scarsa o nulla volontà di analizzare la condizione in cui versa l’Italia, anche perché discuterne apertamente non farebbe altro che alimentare le spinte anti-sistema e rendere ancora più palese la Caporetto sociale-economica verso cui ci ha portato l’attuale classe dirigente.
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Fanta-epidemie e sciacalli: la salute rende meno dei vaccini
«Radio e giornali continueranno a parlare di democrazia e di libertà, ma quelle due parole non avranno più senso. Intanto l’oligarchia al potere, con la sua addestratissima élite di soldati, poliziotti, fabbricanti del pensiero e manipolatori del cervello, manderà avanti lo spettacolo a suo piacere». Così Aldous Huxley in “Brave New World Rivisited”, 1958. «La vedete la cornice?», scrive Emanuela Lorenzi su “Come Don Chisciotte”, scandalizzata dall’assordante silenzio del mainstream sul decreto-mostro dei 12 vaccini obbligatori. Disinformazione: già nel 2015 si apprese a Washington che gli “untori” contagiosi potrebbero essere proprio «gli individui vaccinati di recente». Lo ricorda il Comilva, comitato per la libertà vaccinale. A tal proposito, la “guida per i pazienti” dell’ospedale John Hopkins in caso di immunodepressione raccomanda di «evitare il contatto» con i bambini appena vaccinati. Si raccomanda ad amici e familiari di «non fargli visita», se i vaccini in questione sono contro varicella, morbillo, rosolia, influenza, poliomielite e vaiolo.«La sanità pubblica incolpa i bambini non vaccinati per l’epidemia di morbillo di Disneyland, ma la malattia potrebbe altrettanto facilmente esser stata provocata dal contatto con un individuo vaccinato di recente», ammette Sally Fallon Morell, presidente della Fondazione Western A. Price. «Le prove indicano che individui vaccinati recentemente dovrebbero esser messi in quarantena al fine di proteggere la popolazione». Entrambi, vaccinati e non vaccinati, sarebbero a rischio esposizione da parte di chi è stato appena sottoposto a vaccino, ribadisce Emanuela Lorenzi sempre su “Come Don Chisciotte”. «I fallimenti vaccinali sono diffusi; l’immunità indotta dal vaccino non è permanente. E recenti epidemie di pertosse, parotite e morbillo hanno avuto luogo in popolazioni completamente vaccinate. Chi riceve il vaccino antinfluenzale diventa più suscettibile ad infezioni future dopo vaccinazioni ripetute».«Basta volerli conoscere, gli studi», aggiunge la Lorenzi: «Provano che gli “untori” possono essere i vaccinati». In più, «avendo sostituito il morbillo selvaggio con quello vaccinale e avendo modificato in modi ancora non del tutto prevedibili l’epidemiologia di una malattia ciclica quale il morbillo», si sono create «nicchie ecologiche, presto riempite da genotipi a più elevata morbilità». Sicché, «il danno della vaccinazioni di massa, che comunque non garantiscono immunizzazione a fronte di rischi invece ben documentati», sembra superare di gran lunga i presunti benefici. «La vedete la cornice?». Nulla che traspaia, ovviamente, nel dibattito italiano, dove – secondo la Lorenzi – siamo di fronte a «un regime» che non esita a «imporre un decreto folle», quello dei 12 vaccini, «scritto da Big Pharma», grazie a «multinazionali invitate a Palazzo Chigi con promessa di investimenti» e presentato «quasi direttamente dalla Glaxo nella persona di Ranieri Guerra».Emanuela Lorenzi accusa chi cerca di «scatenare epidemie per favorire la cupola dei vaccini che lucra sul traffico di virus». E afferma: «Dopo la falsa epidemia di meningite e la falsa epidemia di morbillo che esiste solo nelle teste di chi deve farle fruttare, la prossima sarabanda sarà magari la polio: quanti di voi sanno che ci hanno già provato in Belgio nel 2014 sversando “accidentalmente” nel fiume Lasne 45 litri di virus concentrato di polio vivo?». La Lorenzi accusa Big Pharma di «fare terrorismo e disinformazione per imporre un piano vaccinale che ricalca esattamente quello delle industrie farmaceutiche, senza neppure darsi pena di nascondere i conflitti di interesse». Insiste: vogliono sacrificare i bambini italiani «sull’altare del falso dogma vaccinale, come prime cavie di un piano mondiale», nascondendo i dati dei bambini uccisi dalle reazioni avverse, già sottostimati «grazie alla inefficace farmacovigilanza». E si può persino «arrivare a strumentalizzare», con un atto di vero sciacallaggio, «la morte di un bambino immunodepresso che, non trovando posto in oncologia, è stato messo in un reparto infettivo di pediatria dove in aprile c’era stata una “epidemia di morbillo” (ma dove qualunque infezione sarebbe stata compresa nelle 12 vaccinazioni imposte dal decreto-canaglia) incolpando persino i fratellini sani non vaccinati».Aggiunge Lorenzi: «Che i pianificatori vaccinali mondiali “filantropi” (Gates Foundation e Oms in primis) non abbiano scrupoli è evidente dalla lunga scia di sperimentazioni sulle bambine indiane, sia con l’anti-Hpv che con l’antipolio, che hanno portato a migliaia di bambini con paralisi flaccida postvaccinica in India (47.000 solo nel 2011), sui bambini pachistani, per non parlare dell’antimeningite A ai bambini africani (500 bambini chiusi dentro la loro scuola e costretti a ricevere un vaccino sperimentale all’insaputa dei genitori, tutti danneggiati in modo più o meno grave)». E nessuno ha pagato, nessuno ha parlato di eugenetica. Poi ci sono «le sterilizzazioni attuate negli anni 70 dalla task force sui vaccini per la regolazione della fertilità ad opera di Oms, Banca Mondiale e Fondo per la popolazione delle Nazioni Unite «La vedete la cornice?», insiste Lorenzi, che propone una sinistra cronologia di lutti. Usa, 2014: il dottor William Thompson sta per denunciare la più grossa frode scientifica ad opera dei vaccinisti di Atlanta, ma il film “Vaxxed”, che ne parla, è oggetto di censura anche in Italia. Poi scoppia la «falsa ma funzionale» epidemia di morbillo a Disneyland. Al che, la Disney-story causa l’accelerazione dell’approvazione del Senate Bill 277 proposto dai senatori Pan e Alley, «che tramite un atto di lobbismo senza precedenti (e via mazzetta di 95.000 dollari a Pan secondo il “Sacramento Bee”) impone vaccinazioni obbligatorie per tutti i bambini per accedere alle scuole pubbliche o private escludendo ogni possibilità di esenzione».A Bari, nel 2014 Renzi promette alle Pharma: «Noi vi garantiamo un progetto di lungo-medio periodo, invitiamo le università, le imprese a investire i territori a credere nel settore farmaceutico, perché il made in Italy non deve significare solo food e fashion ma anche settore farmaceutico». Poco dopo, Renzi va da Obama e l’Italia viene incensata come capofila della Ghsa, Global Health Security Agenda: «L’Italia – riportarono le cronache – guiderà nei prossimi cinque anni le strategie e le campagne vaccinali nel mondo». Il nostro paese, rappresentato dal ministro della salute Beatrice Lorenzin «accompagnata dal presidente dell’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) professor Sergio Pecorelli, ha ricevuto l’incarico dal Summit di 40 paesi». E’ un importante riconoscimento all’Italia, disse Pecorelli, «soprattutto in questo momento, in cui stanno crescendo atteggiamenti ostili contro i vaccini». L’Italia come battistrada pro-vax in Europa. Quindi, a ottobre 2014, Renzi raduna a Palazzo Chigi i Ceo del settore farmaceutico. Ad aprile 2016, la Gsk investe un ulteriore miliardo in Italia: leader mondiale nei vaccini con 3,7 miliardi di sterline di fatturato su 23,9 totali, è da questo settore (profittevole in due casi su 10 nel mondo) che la multinazionale britannica si aspetta una autentica escalation nei prossimi anni. Fino ad arrivare a 6 miliardi di sterline entro il 2020. «Per questo Gsk crede nell’eccellenza italiana», sottolineano le fonti ufficiali. «E in questa eccellenza continueremo a investire, chissà, forse anche di più», promette l’azienda, a patto che l’Italia saprà essere un paese «ospitale» per gli investitori.A giugno 2017, abbiamo finalmente la nostra Disneyland: Beatrice Lorenzin dice che «l’Austria invita a non andare a Gardaland per colpa dei mancati vaccini», come riporta “Il Gazzettino”, ma la ministra «dovrebbe ripassare la geografia», visto che a parlare non è l’Austria ma la Slovenia, precisa Emanuela Lorenzi. Solo che la notizia è falsa: né Vienna né Lubiana hanno mai fatto un’affermazione simile. «La fake news viene smentita, ma la prima boutade – come si sa – è quella che rimane impressa a supportare il “frame”». Infine, arriva il decreto legge «nazi-fascista» che impone 12 vaccini per l’accesso scolastico e pene pecuniarie, inclusa la minaccia di sospensione della responsabilità genitoriale, «con i dirigenti scolastici a fare da delatori di regime: una misura ingiustificata e coercitiva (nessuna necessità e urgenza), nonché odiosamente classista (con poteri parascientifici di eliminare l’ipotetico virus tramite pizzo di Stato) palesemente anticostituzionale (ma anche contraria a una serie di carte internazionali fra le quali la Convenzione di Oviedo, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, il mai troppo citato Codice di Norimberga che vieta sperimentazioni su esseri umani e, recentemente, la sentenza della Corte Europea per i Diritti Umani che stabilisce che le vaccinazioni obbligatorie sono lesive della vita privata dei cittadini».Così, il decreto «viene incredibilmente firmato da un costituzionalista come Mattarella» e la sua presunta costituzionalità «viene orwellianamente sancita dal Ministero della Verità grazie al voto favorevole di questi senatori della Repubblica di Oceania». Emanuela Lorenzi denuncia la a-scientificità del decreto, «che impone all’Italia, caso unico al mondo, uno scellerato piano vaccinale interamente firmato Glaxo», tra «frodi e sperimentazioni eugenetiche». Di fatto, «non esistono studi di sicurezza su 12 vaccini combinati fatti a un bimbo di pochi mesi», e neppure su quelli singoli, «in quanto i vaccini sono considerati presidi di prevenzione, e non farmaci, e sono di fatto i farmaci meno sicuri al mondo testati direttamente sui bambini». Dietro alla creazione dei vaccini combinati come l’esavalente «ci sono le grasse risate di Jean Stèphane, direttore della Glaxo Smith Kline, che spiega il trucco dell’antiepatite B davanti ad una platea di dirigenti». Vaccini che «non sono fatti per fare “meno punture” al bambino, come vorrebbe la propaganda per acquietare le mamme ansiose». Si tratterebbe di sperimentazioni imprudenti, sulla pelle dei bambini, con vaccini come l’antinfluenzale il cui «fallimento» sarebbe ormai «dimostrato da studi inequivocabili».E mentre in Svizzera il Consiglio federale si pronuncia per il rimborso delle cure omeopatiche (ma anche della medicina cinese, antroposofica, fitoterapica) a tempo indeterminato, l’Italia «conduce una battaglia cieca nei confronti di queste medicine», visto che «la salute fa troppa concorrenza alla malattia», sottolinea Lorenzi. «Alzando lo sguardo, è slittata al Senato l’approvazione del Ceta, accordo che quasi in segreto attribuisce alle multinazionali gli stessi privilegi del più noto Ttip, consentendo loro di inibire i legislatori degli Stati citando i governi nazionali presso i tribunali sovranazionali con l’obiettivo di chiedere risarcimenti in caso di regolamentazioni avverse al loro interesse. La vedete adesso la cornice?». Tutto si tiene, a quanto pare: «Siamo noi l’investimento della Glaxo». Siamo nel “frame” di cui parla spesso Marcello Foa: è «il recinto dell’immaginario che fa da contorno a tutti i pensieri già pensati da altri e dentro il quale il gregge può muoversi belando le stesse menzogne all’infinito». Dentro al “frame” delle vaccinazioni, «la narrazione già vista assicura sudditanza financo nella sceneggiatura con i dettagli nostrani, incluso il vergognoso sciacallaggio della morte di un bambino».«Radio e giornali continueranno a parlare di democrazia e di libertà, ma quelle due parole non avranno più senso. Intanto l’oligarchia al potere, con la sua addestratissima élite di soldati, poliziotti, fabbricanti del pensiero e manipolatori del cervello, manderà avanti lo spettacolo a suo piacere». Così Aldous Huxley in “Brave New World Rivisited”, 1958. «La vedete la cornice?», scrive Emanuela Lorenzi su “Come Don Chisciotte”, scandalizzata dall’assordante silenzio del mainstream sul decreto-mostro dei 12 vaccini obbligatori. Disinformazione: già nel 2015 si apprese a Washington che gli “untori” contagiosi potrebbero essere proprio «gli individui vaccinati di recente». Lo ricorda il Comilva, comitato per la libertà vaccinale. A tal proposito, la “guida per i pazienti” dell’ospedale John Hopkins in caso di immunodepressione raccomanda di «evitare il contatto» con i bambini appena vaccinati. Si raccomanda ad amici e familiari di «non fargli visita», se i vaccini in questione sono contro varicella, morbillo, rosolia, influenza, poliomielite e vaiolo.
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Crisi banche venete, la Germania vuol mangiarsi il Nord-Est
«In caso di una crisi non risolta delle due banche venete che si sono recentemente trovate a navigare in cattive acque, gli effetti non sarebbero molto inferiori a quelli generati dal default della Grecia». Queste le parole che Fabrizio Viola, ad della Banca Popolare di Vicenza, ha rilasciato al “Corriere della Sera” il 2 giugno e poi riportate anche da “Business Insider Italia”. Se consideriamo, infatti, che Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca hanno concesso prestiti “buoni” (ovvero al netto di sofferenze e incagli) per circa 30 miliardi di euro concentrati in gran parte nel nord-est Italia, cioè il territorio più importante per l’economia nazionale, è facile intuire quale sia lo sconquasso che si verrebbe a creare tramite la procedura del bail-in, che impone il rientro forzoso degli impegni a tutela dei depositi. Il debito è il motore dell’economia e intervenire in questo modo sarebbe come togliere ossigeno a tutti quegli imprenditori che fanno affidamento sui prestiti ricevuti dalle due banche; da qui, si innescherebbe la chiusura di un numero importantissimo di piccole e medie aziende, ovvero quelle che caratterizzano il tessuto industriale del nord-est ma anche italiano (le piccolissime, piccole e medie imprese costituiscono circa il 95% del tessuto indistriale italiano).La lente di ingrandimento, secondo opinioni del settore, è stata posta volutamente sulle banche operanti in questo territorio sotto la spinta della Germania; le aziende tedesche hanno un forte interscambio con quelle operanti nel nord-est Italia e potrebbero sostituirsi ad esse o comprarle a basso prezzo in caso di fallimento. Chiudere il motore dell’economia italiana significherebbe per la Germania avere il controllo del mercato e rafforzare sempre più la propria posizione di leader in tutta Europa. Il processo sarebbe quello di usare la medesima strategia usata con la Grecia, ovvero sollecitare da una parte tramite le autorità europee dei piani di risanamento improntati su manovre “lacrime e sangue” e, dall’altro, acquisire le aziende in totale crisi per una manciata di euro (l’aeroporto di Atene è stato acquisito dalla tedesca AviAllance per 600 milioni, così come altri 14 aeroporti, per lo più turistici, erano stati acquisiti in precedenza sempre dai tedeschi per un totale di 1,2 miliardi).Il fondato sospetto prende forma studiando a ritroso le strategie messe in pratiche dalla Germania: prima ha salvato le proprie banche impiegando più di 200 miliardi tenendo impegnata l’Italia a recuperare lo spread (2011/2012), poi ha creato la procedura del bail-il (2015) che vincola l’intervento pubblico ad ultima spiaggia facendo ricorrere gli istituti bancari a salvarsi con i soldi dei correntisti, infine sta cercando di accelerare la chiusura dei due istituti bancari tramite le pressioni fatte in sede europea da Jens Weidmann (presidente della Bundesbank e candidato alla successione di Mario Draghi al vertice della Bce nell’autunno del 2018) visto il rischio di elezioni anticipate, che sotto l’effetto dell’onda populista potrebbe mettere i bastoni tra le ruote al progetto tedesco tramite un cambio di governo italiano.I tedeschi non intendono l’Europa come un processo di progressiva integrazione tra economie tra loro diverse sotto un’ottica di socializzazione, avendone invece una concezione egemonica espressa tramite le misure di austerity fiscale che finora non ha fornito esempi di successo tra gli Stati dell’Unione Europea, se non a favore della Germania stessa. Tutto questo, insieme al colpevole ritardo con cui le autorità italiane hanno compreso il fine del bail-in, potrebbe mettere in serio rischio l’economia italiana dando il definitivo via libera alla Germania per il controllo dell’Europa.(Francesco Puppato, “Dietro il dissesto delle banche venete spunta l’ombra della Germania”, da “Wall Street Italia” dell’11 giugno 2017).«In caso di una crisi non risolta delle due banche venete che si sono recentemente trovate a navigare in cattive acque, gli effetti non sarebbero molto inferiori a quelli generati dal default della Grecia». Queste le parole che Fabrizio Viola, ad della Banca Popolare di Vicenza, ha rilasciato al “Corriere della Sera” il 2 giugno e poi riportate anche da “Business Insider Italia”. Se consideriamo, infatti, che Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca hanno concesso prestiti “buoni” (ovvero al netto di sofferenze e incagli) per circa 30 miliardi di euro concentrati in gran parte nel nord-est Italia, cioè il territorio più importante per l’economia nazionale, è facile intuire quale sia lo sconquasso che si verrebbe a creare tramite la procedura del bail-in, che impone il rientro forzoso degli impegni a tutela dei depositi. Il debito è il motore dell’economia e intervenire in questo modo sarebbe come togliere ossigeno a tutti quegli imprenditori che fanno affidamento sui prestiti ricevuti dalle due banche; da qui, si innescherebbe la chiusura di un numero importantissimo di piccole e medie aziende, ovvero quelle che caratterizzano il tessuto industriale del nord-est ma anche italiano (le piccolissime, piccole e medie imprese costituiscono circa il 95% del tessuto industriale italiano).
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Presto l’Italia avrà 150.000 centenari: chi penserà a loro?
I dati dell’Istat sui centenari in Italia sono a dir poco sconcertanti: erano meno di mille negli anni Ottanta, oggi sono 17mila, saranno 150mila nel 2050. Non a caso, da molti anni le maggiori organizzazioni internazionali si affannano con scarso successo a richiamare l’attenzione degli Stati sul problema dell’invecchiamento della popolazione e su quello, strettamente connesso al primo, dell’aumento del numero delle persone non autosufficienti. Già nel 2012 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) denunciava 35 milioni di casi di Alzheimer nel mondo, prevedendo che nei soli Stati Uniti questa malattia, verso la metà del secolo, colpirà circa 18 milioni di persone, come gli abitanti dell’Australia. Il rischio di demenze è già di 1 a 8 per gli over 65 e di uno scioccante 1 a 2,5 per gli over 85, con un impatto sempre maggiore con il passare dei decenni. In sintesi, su 18 over 85 4 si ammalano di Alzheimer. I costi sanitari stimati attualmente per controllare le varie forme di demenza esistenti nel mondo sono superiori a 600 miliardi di dollari l’anno e si avvicinano rapidamente ai 900 miliardi destinati alla cura del cancro, con grande preoccupazione del Fondo Monetario Internazionale.Malgrado questa drammatica realtà, solo 8 paesi su 194 hanno un piano nazionale per affrontare il fenomeno delle demenze, benché vivamente raccomandato non solo dall’Oms ma anche dal Parlamento Europeo. In Italia le stime parlano di un milione di casi, di cui 700 mila malati di Alzheimer. E il fenomeno si aggraverà molto e rapidamente, visto che la Ue prevede che nel 2030 gli over 65 (oggi il 19,9% della popolazione) saranno il 26,5%, cioè 14,4 milioni. Eppure, il sistema sanitario nazionale non fa sostanzialmente nulla per affrontare questo problema: una realtà che ciascuno di noi può vedere nei casi di cui ha diretta conoscenza. I malati di Alzheimer sono affidati totalmente alle cure dei familiari, i quali ricorrono al ricovero in una casa di riposo se ne hanno la possibilità economica, ma più spesso devono farsi carico di una assistenza massacrante dal punto di visto economico, fisico e psichico.Il solo paese che ha adottato fin dal 1995 un soluzione organica – e molto onerosa per i datori di lavoro e i lavoratori – è la Germania, che con una legge federale, dunque impegnativa per tutti i lander, ha dato vita ad un “quinto pilastro assicurativo” (oltre a quelli per pensioni, malattie, disoccupazione e infortuni su lavoro): una assicurazione obbligatoria che aggiunge un onere del 2,5%, prelevato sulla busta paga ma addebitato per metà al lavoratore e per metà al datore di lavoro. Questa assicurazione fornisce alle persone che cadono in condizioni di non autosufficienza ogni tipo di assistenza, basata soprattutto (oltre il 50% dei casi) su quella a domicilio, dove la persona non autosufficiente è assistita da medici, infermieri e fisioterapisti. Oggi circa tre milioni di tedeschi fruiscono delle prestazioni della Pflegeversicherung, con un costo che va dai mille ai duemila euro al mese, a seconda della gravità della non autosufficienza, suddivisa in tre livelli, dal più lieve al più grave.L’assicurazione è entrata in vigore il 1 gennaio 1995 mediante l’aggiunta dell’XI libro del Codice sociale ed è gestita da apposite Casse (Pflegekassen), istituite presso le Casse malati, che sono enti autonomi di diritto pubblico. L’assistenza è fornita da società private convenzionate con il Ssn. Questo crea qualche problema perché non sempre le società private sono all’altezza del compito e talvolta non si comportano con piena correttezza.Per sostenere finanziariamente i datori di lavoro nella corresponsione della loro quota è stato abolito un giorno festivo religioso (il giorno della penitenza e della preghiera). Un altro paese che ha dimostrato se non altro la buona volontà è la Francia, il cui governo ha commissionato e tre diverse commissioni lo studio della situazione e della soluzioni possibili per la “reforme de la dépendance”. Da un ampio supplemento di “Le Monde” del marzo 2013 ho appreso i principali risultati degli studi.Da un lato mi hanno colpito i dati sulle conseguenze negative per i caregiver, molto spesso in preda a forme gravi o gravissime di depressione, e in molti casi costretti ad impoverirsi svendendo la nuda proprietà della casa dei genitori per potersi permettere il loro accudimento, costosissimo sia nel caso delle case di risposo sia in quello del ricorso ad una o più badanti. Dall’altro sono interessanti le proposte in positivo per consentire ai malati ed ai “grandi vecchi” di restare nelle loro case con interventi innovativi nel capo della robotica e della domotica, con conseguente creazione di nuove imprese spedalizzate in questi domini e di post di lavoro aggiuntivi. Temo però che in Francia, a causa della crisi economica degli ultimi anni, non si sia passati dai progetti ai fatti, visto che i corrispondenti da Roma di “Le Monde” e del “Nouvel Observateur” non hanno notizia della concreta realizzazione di politiche in questo campo.L’Associazione Luca Coscioni ha organizzato un seminario sul tema in cui si sono confrontati i maggiori esperti italiani, mentre la corrispondente dall’Italia del quotidiano “Die Welt”, Constance Reuscher, ha spiegato il sistema in vigore in Germania. E’ nostra intenzione riassumere in un documento le possibilità di intervento emerse dal nostro seminario e sottoporre delle proposte alle forze politiche, perché in vista delle ormai non lontane elezioni dicano cosa pensano di fare per il gran numero di italiani coinvolti in queste dolorose vicende: quasi tre milioni di persone fra disabili gravi, malati di Alzheimer e “grandi vecchi”. Ed a loro vanno aggiunti almeno tre milioni di “caregiver”, lasciati soli dallo Stato a risolvere i gravosi problemi esistenziali ed economici connessi alla non autosufficienza. Basterebbe, per far fronte a questo problema, recuperare il 20% dei 150 miliardi di evasione fiscale, anche (per i grandi evasori) con il ricorso al carcere: in Italia i detenuti per reati fiscali sono 155, in Germania 5.600, negli Usa 12mila. Chi se la sente di metterlo nel proprio programma politico?(Carlo Troilo, “150mila centenari italiani nel 2050: chi pensa alla loro condizione di vita?”, da “Micromega” del 23 maggio 2017. Troilo è un esponente dell’Associazione Luca Coscioni).I dati dell’Istat sui centenari in Italia sono a dir poco sconcertanti: erano meno di mille negli anni Ottanta, oggi sono 17mila, saranno 150mila nel 2050. Non a caso, da molti anni le maggiori organizzazioni internazionali si affannano con scarso successo a richiamare l’attenzione degli Stati sul problema dell’invecchiamento della popolazione e su quello, strettamente connesso al primo, dell’aumento del numero delle persone non autosufficienti. Già nel 2012 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) denunciava 35 milioni di casi di Alzheimer nel mondo, prevedendo che nei soli Stati Uniti questa malattia, verso la metà del secolo, colpirà circa 18 milioni di persone, come gli abitanti dell’Australia. Il rischio di demenze è già di 1 a 8 per gli over 65 e di uno scioccante 1 a 2,5 per gli over 85, con un impatto sempre maggiore con il passare dei decenni. In sintesi, su 18 over 85 4 si ammalano di Alzheimer. I costi sanitari stimati attualmente per controllare le varie forme di demenza esistenti nel mondo sono superiori a 600 miliardi di dollari l’anno e si avvicinano rapidamente ai 900 miliardi destinati alla cura del cancro, con grande preoccupazione del Fondo Monetario Internazionale.
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Attali: Isis e leggi speciali, verso il dominio del mercato
Emmanuel Macron ha un progetto: rendere permanente lo “stato d’emergenza” in vigore dalla strage terroristica di Charlie Hebdo. Lo rivela “Le Monde”, anticipando un progetto di legge in arrivo: domicilio coatto, perquisizioni diurne e notturne, chiusura dei luoghi di culto, zone di protezione e di sicurezza, cioè le misure adottate in questi 19 mesi di regime d’eccezione, diverranno “normali”. «Si tratta in sostanza delle misure emblematiche prese durante la guerra d’Algeria del 1955, stato d’eccezione vero», scrive Maurizio Blondet. A giustificarle, ora, è la “guerra il terrorismo”. Secondo Blondet, Macron ha preso l’idea direttamente dal “futurologo principe” Jacques Attali, il suo padrino, mentore e “creatore”, potentissimo supermassone reazionario e mondialista, intimo consigliere di tutti i presidenti socialisti. «Nessun governo, oggi, oserà più rinunciare allo stato d’eccezione», dice Attali in una video-intervista del 2016. «Non se ne uscirà mai più, perché ogni governo che uscisse dallo stato d’emergenza darebbe un segnale di debolezza». Una dinamica inesorabile, irreversibile. Con un anno di anticipo, Attali si disse certo che Macron sarebbe finito all’Eliseo. E dopo di lui, aggiunse, toccherà a una donna. Ma saranno presidenze dimezzate: l’unico vero vincitore sarà il mercato globalizzato.Il punto è che il presidente della repubblica ha molto meno potere di prima, si rammarica Attali: «Anzitutto non c’è più la pena di morte e non c’è più l’Unione Sovietica, quindi le due dimensioni fondamentali della taumaturgia, il diritto di vita e di morte, sono scomparse». Poi c’è l’euro: «Ecco un’altra buona ragione: fa sì che gran parte dell’economia politica sia divenuta europea». Quindi la decentralizzazione: «I grandi investimenti non sono più nello Stato, e la politica delle grandi infrastrutture non gli appartiene più». Avanti con le privatizzazioni: «Non c’è più politica industriale possibile». E’ la globalizzazione: «Il mercato ha ampiamente vinto. Ci sono moltissime cose che si credevano alla portata dello Stato, e non lo sono più». E’ stato “il mercato”, aggiunge Attali, a designare Macron come candidato: avrà solo la parte residua di potere che “il mercato” gli concederà. Cosa che ormai accade alla maggior parte dei politici: «Sì, appunto: non hanno potere reale. A parte la grandezza d’essere eletti dal popolo, non hanno potere reale sulla società». Men che meno in Europa: «Tutti coloro, fra cui io, che hanno avuto il privilegio di tenere la penna per stilare le prime versioni del trattato di Maastricht – scandisce Attali – si sono impegnati a fare in modo che uscire dalla Ue non sia possibile. Abbiamo avuto cura di dimenticare di scrivere l’articolo che permetta l’uscita».In pratica, osserva Blondet, Attali si dice onorato di aver impedito al popolo di auto-determinarsi: solo il mercato decide. Il suo obbiettivo è di ampliarne ulteriormente il potere. Ed ecco il futuro già segnato delle ulteriori vittorie del “mercato”, che «si estenderà a settori dove fino ad oggi non aveva accesso: per esempio la sanità, l’istruzione, la polizia, la giustizia, gli affari esteri». Contemporaneamente, «nella misura in cui non ci sono regole di diritto», il “mercato” «si estenderà a settori oggi considerati illegali, criminali: come la prostituzione, il commercio degli organi, delle armi, il racket». Quindi, aggiunge Attali, «si avrà un mercato che dominerà sempre più, determinando una concentrazione di ricchezze, una diseguaglianza crescente, una priorità data al breve termine e alla tirannia dell’istante e del denaro». Fino ad arrivare, alla fine, «alla commercializzazione della cosa più importante, ossia la vita: la trasformazione dell’essere umano in merce di scambio: lui stesso divenuto un clone e un robot di se stesso». Questa la visione dello stratega supermassonico Attali, esposta quasi con candore agli esterrefatti giornalisti televisivi francesi.Quanto a Internet, «rappresenta una minaccia per quelli che sanno e che decidono, perché dà accesso al sapere non secondo il cururs gerarchico». Nel video, una voce fuori campo prova a riassumere: il web è potenzialmente pericoloso per questo nuovo establishment, che utilizza presidenti e ministri come semplici comparse, incaricate di trasferire ulteriore potere al “mercato”: «Deregolare, impoverire e svuotare i servizi pubblici, aprire tutti i settori alla concorrenza, distruggere le protezioni dei salariati e dei cittadini. Si tratta di consegnare al mercato gli ultimi bastioni ancora tenuti dal popolo». E perché i cittadini tacciano, evitando di ribellarsi, è provvidenziale l’emergenza terroristica con le leggi speciali. «Nessun governo oserà più rinunciare allo stato d’eccezione», infatti. «Per natura – afferma Attali – dobbiamo essere in permanenza nello stato d’eccezione; e il fatto di iscriverlo nelle istituzioni non è altro che esprimere e riconoscere una realtà». Un percorso tracciato, al quale sarà impossibile sfuggire, secondo Attali, che si spinge oltre all’attuale presidente: «So chi è colei che succederà a Macron», dice. E poco dopo, sogghignando, ribadisce: credo di conoscere colei che diventerà presidente dopo di lui.Dunque Attali, «cedendo alla vanità, la sua debolezza», dice di conoscere il nome del successore di Macron: sarà una donna. «Uno sguardo nel futuro lontano», aggiunge Blondet: «Se Macron completa il doppio mandato, se ne parla nel 2022». E Attali vuol far sapere che sarà “colei”, a salire all’Eliseo, secondo i piani invisibili dei poteri forti, quelli che stanno “mercatizzando” ogni forma di vita: «La sola legge del mondo – insiste Attali – sarà quella del mercato, che formerà un iper-impero inafferrabile e planetario dove anche la natura sarà messa a contribuzione». Così, osserva Blondet, si deduce che lo stato d’eccezione permanente, basato su misure repressive liberticide, «diventa necessario perché il “mercato” possa estendersi a settori da cui oggi è escluso, facendone fonte di profitti privati. Non solo sanità e istruzione, ma secondo Attali anche polizia, giustizia, affari esteri». Un incubo, nel quale compare anche il «commercio degli organi» (sottratto al mondo criminale, quindi legalizzato). E «alla fine del percorso, la commercializzazione della cosa più importante, la vita umana». Scrisse Attali: «Andiamo verso un’umanità unisex. Ciò risolverà un problema importante: le nostre capacità cognitive sono limitate dalla dimensione del cervello. Se il bambino nascesse da una matrice artficiale, la dimensione del suo cervello non avrebbe più limiti».E mentre il popolo francese sembra scomparso, consegnando proprio a Macron una schiacciante maggioranza parlamentare, la Francia dovrà vedersela innanzitutto con la riforma del lavoro imposta dal “mercato”, col trasferimento alle imprese di tutto il potere negoziale, a scapito dei lavoratori. Un po’ troppo, persino per i francesi “macronizzati” con la ricetta Attali? Nel caso dovesse svegliarsi l’opposizione, in Parlamento e in piazza, «ecco dunque lo stato d’eccezione reso permanente», dice Blondet. «Ed ecco l’utilità del “terrorismo islamico” che lo rende così inevitabile», grazie all’alibi della sicurezza. Chiosa Blondet: «Un mio cugino è stato addetto del consolato americano a Genova, quando ancora Genova era sede consolare. Il console un giorno buttò lì: “Le Brigate Rosse? Le controlliamo dalla nostra base di Lisbona”. Da quegli anni, molto prima di me, mio cugino è convinto – o meglio sa – che non esistono terroristi, atti terroristici, terrorismo alcuno che non sia gestito e teleguidato da servizi. Senza eccezione. Sono azioni che servono a imprimere nell’opinione pubblica spaventata reazioni, calcolate e previste al millimetro: “Ormai è una scienza esatta”).Emmanuel Macron ha un progetto: rendere permanente lo “stato d’emergenza” in vigore dalla strage terroristica di Charlie Hebdo. Lo rivela “Le Monde”, anticipando un progetto di legge in arrivo: domicilio coatto, perquisizioni diurne e notturne, chiusura dei luoghi di culto, zone di protezione e di sicurezza, cioè le misure adottate in questi 19 mesi di regime d’eccezione, diverranno “normali”. «Si tratta in sostanza delle misure emblematiche prese durante la guerra d’Algeria del 1955, stato d’eccezione vero», scrive Maurizio Blondet. A giustificarle, ora, è la “guerra il terrorismo”. Secondo Blondet, Macron ha preso l’idea direttamente dal “futurologo principe” Jacques Attali, il suo padrino, mentore e “creatore”, potentissimo supermassone reazionario e mondialista, intimo consigliere di tutti i presidenti socialisti. «Nessun governo, oggi, oserà più rinunciare allo stato d’eccezione», dice Attali in una video-intervista del 2016. «Non se ne uscirà mai più, perché ogni governo che uscisse dallo stato d’emergenza darebbe un segnale di debolezza». Una dinamica inesorabile, irreversibile. Con un anno di anticipo, Attali si disse certo che Macron sarebbe finito all’Eliseo. E dopo di lui, aggiunse, toccherà a una donna. Ma saranno presidenze dimezzate: l’unico vero vincitore sarà il mercato globalizzato.
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La povertà è il più grosso business inventato dai ricchi
La pubblicazione dei dati Eurostat sull’aumento della povertà e del rischio-povertà in Europa ha suscitato sui media il solito dibattito, viziato in partenza dal rappresentare l’impoverimento come un “problema”, come un effetto indesiderato delle politiche di rigore. «In realtà il bombardamento sociale del rigore finanziario non è sostanzialmente diverso dai bombardamenti militari, nei quali l’obbiettivo dichiarato è un pretesto non soltanto per il consumismo delle bombe (tanto paga il contribuente), ma anche per fare il maggior numero possibile di “danni collaterali”, cioè di vittime civili». Lo scriveva “Comidad” nel 2012, ma sembra scritto oggi. «Anche il rigore è un business, e il “danno collaterale” della maggiore povertà apre a sua volta nuove frontiere al business». In questi anni, aggiunge il blog, è risultato sempre più evidente il nesso consequenziale tra l’aumento della povertà e la finanziarizzazione dei rapporti sociali: «La povertà diventa un business finanziario, costringendo i poveri all’indebitamento crescente». Lo confermano annunci come quello del governo tedesco, che si vantà di aver raggiunto il pareggio di bilancio con un anno di anticipo. Ma la Germania «ha potuto finanziare il suo debito pubblico a tasso zero, poiché, contestualmente, sono stati i paesi del Sud dell’Europa non solo a pagare tassi di interesse più alti, ma anche a indebitarsi maggiormente».Dopo il funesto 2011, in cui il mainstream ha ripetuto in modo martellante il “mantra del debito”, visto come problema e colpa sociale, «si è poi scoperto che il governo Monti non soltanto non ha ridotto il debito pubblico, ma lo ha aumentato», annota “Comidad”, in un post ripreso dal blog “La Crepa nel Muro”. «Il cosiddetto spread si è rivelato così una tassa sulla povertà, un’elemosina dei poveri nei confronti dei ricchi». E intanto ha fatto passi da gigante «l’addestramento dei poveri all’uso degli strumenti finanziari». Lo stesso governo Monti rilanciò la Social Card di tremontiana memoria: viste le cifre in ballo per quella carta prepagata, il vantaggio per le famiglie è apparso subito «pressoché inesistente». Semmai a incassare sarebbe stato il gestore finanziario, BancoPosta. Lo scopo della Social Card, in realtà, era quello di «allargare il target dei servizi finanziari», tanto per cambiare sul modello degli Usa, dove «anche lì in via sperimentale, la Social Security Card si è diffusa a macchia d’olio», arrivando nel 2013 a dieci milioni di utenti.«I paesi anglosassoni stanno dimostrando che i poveri costituiscono un target inesauribile per l’offerta di servizi finanziari», sottolinea “Comidad”. «Non soltanto la carta di credito viene oggi concessa anche ai disoccupati, ma questi sono anche fatti oggetto di un vero e proprio allettamento per dotarsi di questo “servizio” finanziario. Il fatto è comprensibile, se si considera che disoccupati e precari possono essere ridotti ad un livello assoluto di dipendenza da questi strumenti finanziari; cosa che non sarebbe possibile nei confronti di chi disponesse di fonti regolari di reddito». Se i prestiti ai poveri fossero ancora in contanti, allora i rischi di insolvenza «sarebbero mortali per un business del genere». Ma oggi c’è il denaro elettronico, e quindi «le banche non devono compromettere la propria liquidità per concedere carte di credito». I poveri tendono ancora a servirsi soprattutto di contanti, «ma le banche intendono sollevare le masse da questa condizione primitiva, attraverso quello che chiamano un programma di “inclusione finanziaria”».Aggiunge “Comidad”: «Il suono nobile e commovente della parola “inclusione” serve a nascondere il fatto che si tratta di un programma a basso rischio d’impresa per lo sfruttamento delle possibilità di indebitamento delle masse più povere». Il blog ricorda che già nel 2007 il governo britannico elaborò un piano di inclusione finanziaria «per salvare le masse di “unbanked” dal loro misero destino e per metterle a disposizione dell’amorevole offerta di servizi bancari». Lo stesso governo britannico «ha ritenuto di porre una deroga ai limiti della sua “spending review” pur di stanziare dei fondi per questo piano umanitario». Anche la Banca d’Italia «ha impostato un piano analogo, in attuazione delle indicazioni del G-20 a riguardo». A quanto pare, continua “Comidad”, «il denaro elettronico ha un club di supporter piuttosto nutrito». La Banca Mondiale, nella sua veste di agenzia specializzata dell’Onu, rappresenta l’avanguardia in questo progetto di “soccorso mondiale agli unbanked”. Robert Zoellick, presidente della Banca Mondiale sino al 2011, ha profuso più di tutti il suo personale impegno nella “financial inclusion”.«Zoellick costituisce il prototipo del perfetto “bombanchiere”: proviene da Goldman Sachs e, nel periodo in cui ha fatto parte dell’amministrazione Bush, è stato uno dei promotori più zelanti dell’aggressione all’Iraq. Zoellick è anche un ospite d’onore, pressoché fisso, del Consiglio Atlantico della Nato». Le banche hanno ormai una pessima reputazione e, spesso, persino una pessima stampa. «Ma le denunce possono rimanere sul vago, mentre, come si dice, il diavolo si annida nei dettagli. C’è qualche prestigioso commentatore che auspica addirittura un passaggio completo al denaro elettronico, con l’abbandono definitivo del contante; ciò in nome della lotta all’evasione fiscale, come se l’elettronica fosse intrinsecamente onesta, e fosse in grado solo di “tracciare” e non potesse anche sviare». Per “Comidad”, l’unico risultato certo dell’adozione integrale del denaro elettronico «sarebbe invece quello di rendere definitiva la “financial inclusion”, cioè di non porre più limiti alle possibilità per le banche di impoverire e sfruttare i popoli».La pubblicazione dei dati Eurostat sull’aumento della povertà e del rischio-povertà in Europa ha suscitato sui media il solito dibattito, viziato in partenza dal rappresentare l’impoverimento come un “problema”, come un effetto indesiderato delle politiche di rigore. «In realtà il bombardamento sociale del rigore finanziario non è sostanzialmente diverso dai bombardamenti militari, nei quali l’obbiettivo dichiarato è un pretesto non soltanto per il consumismo delle bombe (tanto paga il contribuente), ma anche per fare il maggior numero possibile di “danni collaterali”, cioè di vittime civili». Lo scriveva “Comidad” nel 2012, ma sembra scritto oggi. «Anche il rigore è un business, e il “danno collaterale” della maggiore povertà apre a sua volta nuove frontiere al business». In questi anni, aggiunge il blog, è risultato sempre più evidente il nesso consequenziale tra l’aumento della povertà e la finanziarizzazione dei rapporti sociali: «La povertà diventa un business finanziario, costringendo i poveri all’indebitamento crescente». Lo confermano annunci come quello del governo tedesco, che si vantà di aver raggiunto il pareggio di bilancio con un anno di anticipo. Ma la Germania «ha potuto finanziare il suo debito pubblico a tasso zero, poiché, contestualmente, sono stati i paesi del Sud dell’Europa non solo a pagare tassi di interesse più alti, ma anche a indebitarsi maggiormente».