Archivio del Tag ‘liberalizzazioni’
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Tanto a pochi, agli altri le briciole: riecco l’antico Draghi
«Il governo Draghi, voluto per la salvezza del paese, con questa prima manovra di bilancio fa il suo compitino tecnocratico». Ovvero: «Comincerà ad attuare i progetti del Recovery, ma la visione di un mondo post-pandemico non c’è». Così Mario Barbati, su “Micromega”, boccia l’aspetto socio-economico dell’attesissimo avvento dell’ex Super-Mario a Palazzo Chigi. La sintesi: «Aumentano il Pil come paradossalmente povertà e lavoro precario. Degli oltre 830.000 nuovi posti di lavoro creati nell’ultimo anno, il 90% sono a termine: solo l’1% dura più di un anno. Tolto il salario minimo legale dal Pnrr, smantellato il ‘decreto dignità’ che limitava i contratti a termine, vengono messi in discussione i redditi di sostegno e le pensioni». Inoltre, si omette di contrastare 203 miliardi di economia sommersa, «che sarebbero decisivi se davvero si volesse attuare una redistribuzione della ricchezza». Rinviata ancora la “plastic tax”, alla faccia della “transizione ecologica”. La legge di bilancio? Una manovra da 30 miliardi, che Draghi definisce «espansiva». Si alleggerisce la pressione fiscale con 12 miliardi, di cui 8 per il taglio delle tasse su società e persone, ma senza ripartizioni (che saranno «definite insieme al Parlamento» nelle prossime settimane).Rinviata la riforma delle pensioni: “Quota 102” è solo un compromesso – scrive Barbati – che «non risolve una questione che dura da anni» e in più «alimenta una narrazione, peraltro falsa, che il lavoro per i giovani si crei innalzando l’età di pensionamento, mettendo lavoratori di diverse generazioni contro». Unica nota positiva: l’aumento delle protezioni sociali per i senza lavoro. Il nodo vero? «Il Pil sale, i salari scendono». Si domanda l’analista: «Ha senso, un sistema in cui aumentano il Pil (oltre il 6% quest’anno, come dichiarato dal premier) e al tempo stesso la povertà, ormai anche tra molti lavoratori? E per quanto tempo può reggere, dopo quasi due anni di pandemia? Superare l’austerità se non si leniscono le profonde disuguaglianze degli ultimi decenni, che anzi sono accresciute con la pandemia, se non si affrontano la questione salariale e la precarietà, non ha senso». In Italia, annota Barbati, più di 5 milioni di lavoratori dipendenti hanno un reddito inferiore ai 10.000 euro annui, determinando il fenomeno della povertà che si diffonde tra chi lavora. «Rappresentazione plastica di un modello sociale da ribaltare».Una delle poche ma significative modifiche del Pnrr targato Draghi (nella versione Conte-Gualtieri c’era) è stata l’eliminazione dell’introduzione del salario orario minimo, cioè di una legge che fissi una soglia di base sotto la quale il datore di lavoro non può scendere. La misura è in vigore in 21 Stati dell’Unione Europea su 27 (comprese Germania, Francia, Spagna) e sarebbe indispensabile – scrive sempre Barbati – in un paese in cui non solo esistono una miriade di contratti collettivi nazionali diversi (900) ma anche milioni di lavoratori fuori dalla contrattazione collettiva, sfruttati con stipendi da fame e zero diritti. In Italia (e non solo) il neoliberismo «si è tradotto con offerte di lavoro, richiesta di manodopera, delle risorse intellettuali al massimo ribasso: trasformando il lavoro in una merce, anche abbastanza scadente». Ma il Belpaese «non poteva che distinguersi tra gli altri». L’Italia è infatti «l’unico Stato in Europa – dati Ocse alla mano – in cui dal 1990 ad oggi gli stipendi sono diminuiti invece che aumentare. E se negli ultimi trent’anni la ricchezza è invece aumentata, se ne deduce facilmente che sia finita in pochissime mani».Con l’aumento del costo delle materie prime dopo i blocchi pandemici (e quindi i rincari di carburante, energia, gas) quella dei salari «dovrebbe essere la priorità di un paese che si vuole rilanciare». In Germania, «l’Spd di Scholz ha vinto le elezioni con la proposta di alzare il salario minino a 12 euro all’ora». La nostra Costituzione prevede che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (articolo 36). «È la Costituzione che andrebbe applicata, ribaltando il concetto della crescita slegata dal benessere e dal lavoro delle persone, cominciando dal salario minimo orario, lasciando la contrattazione collettiva ma fissando una soglia di dignità per tutti». Riassume Barbati: «Oggi 3,5 milioni di dipendenti privati, 600.000 lavoratori domestici, 370.000 operai agricoli non raggiungono i 9 euro lordi all’ora».Vero, dall’inizio del 2021 sono stati creati oltre 830.000 posti di lavoro (in aumento, rispetto agli anni precedenti). Ma quasi il 90% di questi nuovi lavori creati «è stato attivato con un contratto a termine». Modeste – e inferiori al 2020 – le posizioni a tempo indeterminato. «Da luglio, l’eliminazione del vincolo ha prodotto 10.000 licenziamenti». In che modo, si domanda l’analista di “Micromega”, questi dati sono coerenti con le dichiarazioni che Draghi ha dedicato ai giovani? «Il mio impegno – ha detto – è seguire le vostre ambizioni, dopo anni in cui l’Italia si è dimenticata di voi». La promessa: «Fare in modo che questa ripresa sia duratura e sostenibile». La retorica del “niente sarà più come prima”, del “ne usciremo tutti migliori” che ci ha allegramente accompagnato durante la pandemia – scrive Barbati – deve ora fare i conti con una realtà dura a morire, perché frutto di politiche durate decenni. «La pandemia, che ha squadernato un paese in cui pochi hanno tanto e molti hanno poco, rischia di finire esattamente come era iniziata. Senza un cambio di direzione verso una giustizia distributiva e sociale».L’applicazione della Costituzione, continua Barbati, dovrebbe essere la stella polare per le riforme e gli investimenti del Recovery Plan. Invece il Pnrr (230 miliardi di euro di risorse insperate) «rischia di andare a favore dell’alta economia e di cambiare poco o niente nella vita comune di cittadini, studenti, lavoratori e imprese». In effetti, «già prima della pandemia globale, l’Italia era contrassegnata da forti disuguaglianze, gap e divari generazionali, di genere, territoriali e sociali». E ora «il Recovery, che è il più grande piano d’investimenti pubblici della storia repubblicana, rischia di vedere il mercato e non la politica come principale regolatore dell’economia». Non solo. «Concretamente, il Piano rischia di essere una sommatoria di progetti, al momento senza un coordinamento visibile, con misure eterogenee che mancano di un progetto-paese in grado di creare un modello di sviluppo sostenibile non a favore di alta finanza e poche grandi imprese – come avvenuto negli ultimi 30 anni – ma a vantaggio della vita delle persone in armonia con l’ambiente».Per Barbati, «manca un riscontro sulla ricaduta nella creazione di lavoro, nella rigenerazione urbana, nella riconversione ambientale». Il portale che il governo ha dedicato al Recovery Plan (“Italia Domani”) prevede la condivisione sugli esiti dei singoli progetti, ma senza informazioni su ogni fase del processo attuativo, come tra l’altro chiesto dall’Europa. «Sul piatto della transizione ecologica ci sono 70 miliardi, ma nei documenti inviati a Bruxelles mancano impegni chiari sulla sostituzione graduale del carbone e del gas naturale». La mobilità sostenibile? Vale 31 miliardi in nuove infrastrutture: ma «privilegia i treni Av anziché il trasporto locale, regionale e cittadino». C’è anche il rischio di aumentare, anziché diminuire, «il divario tra nord e sud, tra aree ricche e povere». E questo «perché ci saranno enti locali in grado di sfruttare i bandi e altri incapaci di farlo». La quarta missione (istruzione e ricerca) stanzia complessivamente 33 miliardi, di cui quasi 12 per la ricerca. «Sparisce il piano Amaldi, che proponeva un aumento dei fondi per la ricerca pubblica nella misura di 15 miliardi in 5 anni, per far sì che l’Italia passasse dallo 0,5% del Pil in ricerca pubblica allo 0,7% francese».Se Barbati approva (almeno sulla carta) il piano per l’edilizia scolastica e gli asili nido, punta il dito sul tema della concorrenza: la soluzione è davvero aprire ai mercati, in tutti i settori, «in nome dell’ideologia neoliberista superata dai fatti e dalla storia»? Nel Piano si impone agli enti pubblici «una motivazione anticipata e rafforzata che dia conto del mancato ricorso al mercato». Soluzione che in alcuni casi potrebbe essere utile – dice Barbati – per spezzare le rendite, i monopoli troppo garantiti, i legami clientelari con la politica; in altri casi, però, «potrebbe essere deleteria, perché in passato le “liberalizzazioni” hanno riguardato servizi di interesse generale, come i monopoli naturali attraverso concessioni esclusive ai privati». Esempi? «Il caso Autostrade: 11 miliardi di utili per Benetton & soci, continui aumenti delle tariffe, risparmi e negligenza assassina sugli investimenti in sicurezza. La storia recente dimostra che le “public utilities” (il trasporto pubblico, i servizi idrici, le reti ad alta velocità) non dovrebbero più dipendere dal dominio di logiche di profitto, perché sono servizi di interesse generale». Conclude Barbati: non si capisce come il Pnrr possa contrastare la precarietà. «Istruzione, sanità, welfare universale rischiano ancora una volta di essere sacrificate sull’altare delle grandi opere e degli affari per pochi».«Il governo Draghi, voluto per la salvezza del paese, con questa prima manovra di bilancio fa il suo compitino tecnocratico». Ovvero: «Comincerà ad attuare i progetti del Recovery, ma la visione di un mondo post-pandemico non c’è». Così Mario Barbati, su “Micromega”, boccia l’aspetto socio-economico dell’attesissimo avvento dell’ex Super-Mario a Palazzo Chigi. La sintesi: «Aumentano il Pil come paradossalmente povertà e lavoro precario. Degli oltre 830.000 nuovi posti di lavoro creati nell’ultimo anno, il 90% sono a termine: solo l’1% dura più di un anno. Tolto il salario minimo legale dal Pnrr, smantellato il ‘decreto dignità’ che limitava i contratti a termine, vengono messi in discussione i redditi di sostegno e le pensioni». Inoltre, si omette di contrastare 203 miliardi di economia sommersa, «che sarebbero decisivi se davvero si volesse attuare una redistribuzione della ricchezza». Rinviata ancora la “plastic tax”, alla faccia della “transizione ecologica”. La legge di bilancio? Una manovra da 30 miliardi, che Draghi definisce «espansiva». Si alleggerisce la pressione fiscale con 12 miliardi, di cui 8 per il taglio delle tasse su società e persone, ma senza ripartizioni (che saranno «definite insieme al Parlamento» nelle prossime settimane).
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Magaldi: via i D’Alema Boys: ieri Conte, oggi Speranza
Per quanto Mattarella, D’Alema e Bersani perorino la causa di Speranza, il ministro della sanità è un grosso problema, per Draghi. C’è un’inchiesta che porterà fatalmente a lui: non può non portare a lui, come in effetti sta già avvenendo. Non solo: c’è un’inchiesta con la quale il ministero della sanità non è collaborativo. Già soltanto questo dovrebbe bastare, credo, a decretare un allontanamento prudenziale. Faccia Draghi, con il solito stile: spieghi a Speranza che, per l’interesse collettivo, sarebbe più opportuno che facesse un passo indietro. Naturalmente, il Pd di Letta (non avevo dubbi) si è subito attivato in difesa di Speranza: ma questo è un motivo in più, per cacciarlo a calci in culo. Intanto, osservo con piacere che anche il “Corriere della Sera” è arrivato a porsi delle domande, sull’opacità di tutto il Ministero della Malasanità, come lo chiamo io: proprio in queste ore, anche al giornale si pongono il problema, dopo che gli inquirenti di Bergamo si sono trovati in un ministero in cui la mano destra non sa quello che ha fatto la mano sinistra.Ognuno scarica sugli altri le responsabilità: e c’è un ministro che è reticente, e non si prende alcuna responsabilità: ma se un ministero è organizzato così, la responsabilità non è del ministro stesso? Vale anche per Brusaferro, sempre secondo il “Corriere”: mi fa piacere, perché sono le tesi che avevo espresso io qualche giorno fa. In questa storia non si tratta soltanto di Rainieri Guerra. Quella vicenda in cui Francesco Zambon viene rampognato perché ha fatto il suo dovere e perché voleva raccontare la verità, in quanto funzionario dell’Oms, coinvolge Ranieri Guerra, ma coinvolge anche il capo di gabinetto di Speranza (e perciò Speranza) e coinvolge Brusaferro, che nello scambio di chat con Raineri Guerra era del tutto concorde. E non si creda che la posizione di Speranza sia così salda, solo perché è legato al massone D’Alema e magari perché è stato accolto nella Fabian Society: la Fabian resta una entità paramassonica, senza la capacità di incidere a livello decisionale.Ricordo che il “fratello” D’Alema è stato molto in auge, ma dietro le quinte, in tutta la vicenda del governo Conte-bis. E’ lui il padrone di Leu, ha finanziato “Liberi e Uguali” senza riuscire poi a essere eletto. Una beffa, che però l’ha indotto ad accettare il ruolo di burattinaio, anziché stare in prima fila. E’ lui, comunque, che ha messo i quattrini, per fondare Leu: da dove li abbia presi, qualche Procura magari un giorno potrebbe anche indagarlo, visto che correvano tante voci sul fatto che, all’epoca di D’Alema, Palazzo Chigi era visto come una “merchant bank”. Attenzione: D’Alema è stato “l’uomo che sussurrava a Conte”, il quale andava a prendere consigli da D’Alema. In televisione, D’Alema spedisce Bersani, con quell’aria da buon padre di famiglia, da vecchio uomo di sinistra, di estrazione popolare, che si è immolato per chissà quale causa; però ha dimostrato anche la modernità sufficiente per affrontare le liberalizzazioni: è uno strano ibrido, Bersani, molto presente nei salotti televisivi. E in questo triangolo con D’Alema e Speranza è stato molto attivo, in questo anno di malgoverno dell’esecutivo Conte.A D’Alema si deve Arcuri, e ci sono tante altre persone – vari boiardi di Stato – che rispondono alla filiera di D’Alema: sarebbe interessante farne una mappatura adeguata. Speranza, ripeto, non è che sia lì perché collocato dalla Fabian Society, che – come ogni entità paramassonica – non è un luogo decisionale (è un luogo di incontro, un club di confronto tra diversi: consente di “nobilitarsi”, ma non ha una capacità operativa). Speranza è stato sponsorizzato anche e soprattutto da Mattarella. Ma è un castello di carte, quello di Mattarella, di D’Alema e di Bersani. Intanto perché la loro è una forza opaca, che si muove dietro le quinte. Sul piano elettorale hanno avuto il risultato di Leu, che parla da solo. Mattarella, poi, è prossimo al pensionamento. E D’Alema deve stare attento, perché da un giorno all’altro potrebbe risultare implicato in qualcuna delle operazioni che di recente hanno visto i suoi fidi cadere, ad uno ad uno. Quindi non farei Speranza più forte di quello che è.Certamente, Speranza – nella sua pochezza, e nella sua ricettività estrema rispetto alle “suggestioni” che gli vengono da questo o da quello – è stato l’uomo giusto al posto giusto. E’ lo stesso discorso di Conte: le figure di scarsa intelligenza, di scarse capacità e di scarso spessore, ma molto disponibili a portare l’asino dove vuole il padrone (e per “padrone” intendo le circostanze dominanti, che sono rappresentate poi da diversi soggetti) sono una delle chiavi di selezione della attuale classe dirigente italiana, che per questo fa pena. Non ci sono grandi personalità, ci sono soprattutto dei maggiordomi: più sei maggiordomo e cameriere, e meglio è (vedasi il ritorno del grande maggiordomo Enrico Letta). Questo consente il “disordine mondiale” che oggi soffriamo.Finché non vi sia una classe politica di gente forte, in grado di esprimere una propria visione, e quindi di contrastare quelle che sono le linee egemoniche (di matrice privatistica) a livello sovranazionale, non c’è speranza di uscire dal disordine: perché nel disordine politico-sociale globale, a dare le carte è chi è organizzato sul piano privato. Nel libro “Perché guariremo”, che poi non ha osato distribuire nelle librerie, a certo punto Speranza scrive, testualmemte: «Sono nervoso al pensiero di qualsiasi aggregazione di più di due persone. Mi turba persino veder passare le automobili per strada». Uno che si esprime in questi termini sembra un soggetto sociopatico. Aver scritto quel libro, e averlo poi rititato, già di per sé getta una brutta luce sull’uomo. Io Speranza non lo conosco, personalmente. Ma dato che l’albero si giudica dai frutti, credo che Speranza – come uomo e come ministro – abbia bisogno di un lungo periodo di lockdown personale, in qualche convento, a meditare.(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate il 15 aprile 2021 nella trasmissione web-streaming “Massoneria On Air” condotta dal giornalista Fabio Frabetti, direttore di “Border Nights”. Presidente del Movimento Roosevelt e “gran maestro” del Grande Oriente Democratico, Magaldi è un esponente italiano del circuito massonico progressista sovranazionale che oggi incoraggia l’azione del governo Draghi, sia pure in modo vigile. Nel bestseller “Massoni”, pubblicato nel 2014 da Chiarelettere – che contiene un’inedita mappa massonica del potere mondiale, quello esercitato dalle Ur-Lodges – Magaldi presenta l’ex premier Massimo D’Alema come esponente di ben due superlogge di matrice reazionaria e “neoaristocratica”, la “Pan-Europa” e la “Compass Star-Rose / Rosa-Stella Ventorum”, grandi ispiratrici del neoliberismo privatizzatore e dell’atroce stagione dell’austerity europea, che ha minato il welfare e colpito duramente gli strati più fragili della società).Per quanto Mattarella, D’Alema e Bersani perorino la causa di Speranza, il ministro della sanità è un grosso problema, per Draghi. C’è un’inchiesta che porterà fatalmente a lui: non può non portare a lui, come in effetti sta già avvenendo. Non solo: c’è un’inchiesta con la quale il ministero della sanità non è collaborativo. Già soltanto questo dovrebbe bastare, credo, a decretare un allontanamento prudenziale. Faccia Draghi, con il solito stile: spieghi a Speranza che, per l’interesse collettivo, sarebbe più opportuno che facesse un passo indietro. Naturalmente, il Pd di Letta (non avevo dubbi) si è subito attivato in difesa di Speranza: ma questo è un motivo in più, per cacciarlo a calci in culo. Intanto, osservo con piacere che anche il “Corriere della Sera” è arrivato a porsi delle domande, sull’opacità di tutto il Ministero della Malasanità, come lo chiamo io: proprio in queste ore, anche al giornale si pongono il problema, dopo che gli inquirenti di Bergamo si sono trovati in un ministero in cui la mano destra non sa quello che ha fatto la mano sinistra.
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Vox Italia: Dio, patria e famiglia. Chi ha paura di Fusaro?
Lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate: oscurati da Facebook già in partenza, tanto per cominciare. E se si prova a varcare la soglia del sito ufficiale, voxitalia.net, è Google a trasformarsi in Cerbero: sito pericoloso, potrebbero scipparvi la carta di credito e i dati sensibili. Aiuto! Non insperate mai veder lo cielo, specie se vi chiamate Vox Italia. Come mai tanta paura, per il neonato movimento ispirato e guidato dal giovane filosofo torinese Diego Fusaro? Basta fare un giretto sul web per farsene un’idea. Le reazioni vanno dalla minimizzazione all’irrisione, fino alla diffamazione. Cos’è Vox Italia? Un movimento, si legge, che nasce per dar voce all’interesse nazionale. Slogan: “Pensare e agire altrimenti”, e muoversi “obstinate contra”, scrive Fusaro. «In direzione ostinata e contraria», avrebbe detto Fabrizio De Andrè, in un’Italia dove ancora esistevano menti come quella di Fabrizio De Andrè. «Il movimento – chiarisce Fusaro – unisce valori di destra e idee di sinistra». Più precisamente: «Valori dimenticati dalla destra e idee abbandonate dalla sinistra». Vox Italia si smarca dal «coro virtuoso del politicamente corretto», definito «superstruttura santificante i rapporti di forza del globalismo finanziario a beneficio degli apolidi signori del big business sradicato e sradicante».
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Fassina: solo la destra sa che la politica deve proteggerci
Penso che il Ddl firmato da 5 Stelle e Lega sulla Banca d’Italia sia parte della ricostruzione del primato della politica sull’economia. La politica monetaria è uno degli strumenti politici più importanti. E ritenere che la politica debba rimanere fuori dalla politica monetaria è stato un errore, frutto di un pensiero unico che si è affermato in modo assolutamente trasversale. Il disegno di legge che hanno presentato i capigruppo di Lega e 5 Stelle al Senato è sostanzialmente un passo avanti; non è che finisca l’indipendenza di Bankitalia, c’è un richiamo esplicito ai trattati europei. Si introduce il meccanismo previsto per la Bundesbank, quindi non una misura nord-coreana. E cioè: il governo nomina presidente e direttore generale, un membro del direttorio (vicepresidente), e altri due membri del direttorio (anch’essi vicepresidenti) vengono nominati uno dalla Camera e l’altro dal Senato. E’ esattamente il modello vigente in Germania. E solo una sinistra che ha completamente smarrito un minimo di autonomia culturale può considerare eversivo e inaccettabile questa proposizione, che a mio avviso invece fa fare un passettino avanti, alla politica, nel governo di uno strumento fondamentale come quello della politica monetaria.
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Arlacchi: Venezuela nella trappola Usa, sui media solo bugie
Ho appena terminato uno studio della crisi del Venezuela basato su documenti Onu e di centri di ricerca indipendenti. Mi è stato difficile mantenere la calma mentre davanti ai miei occhi si componeva una narrativa opposta a quella corrente. Il caso del Venezuela si configura nei termini di una gigantesca truffa informativa che ci oltraggia ogni giorno con notizie false, omissive e distorte su ciò che accade in quel paese. Sono le barbare sanzioni americane inflitte dal 2015 in poi approfittando del crollo del prezzo del petrolio, e cioè della maggiore fonte di entrate pubbliche del Venezuela, e non le politiche sbagliate dei governi Chavez-Maduro a detenere la massima colpa del dramma odierno sofferto da 32 milioni di persone. L’economia del Venezuela è crollata a causa del blocco delle importazioni dovuto all’impossibilità di usare il dollaro per pagarle dopo l’imposizione delle sanzioni da parte prima di Obama e poi di Trump. Gli ospedali del Venezuela sono rimasti senza medicine perché le banche internazionali si rifiutano di accettare i relativi pagamenti in dollari da parte del governo Maduro. E così sta accadendo per il cibo e per le risorse necessarie a far funzionare la macchina produttiva.L’opera viene completata dall’accaparramento di beni e dal mercato nero dominati dai gruppi mafiosi locali protetti e incoraggiati dall’ opposizione e dalla longa manus del governo Usa. C’è poi una mafia valutaria che ha distrutto la moneta locale, il bolivar, alimentando un’iperinflazione senza riscontro nei fondamentali dell’economia. Mafia protetta anch’essa da chi vuole far crollare il governo legittimo e consegnare uno dei paesi più ricchi di risorse naturali del mondo nelle mani degli Stati Uniti. Come? Tramite la solita ricetta neoliberista di privatizzazioni, liberalizzazioni e tagli della spesa sociale promessa da Guaidò ed altri pupazzi manovrati dal governo Usa e dalle sue estensioni internazionali. Questa è una prima sintesi dei risultati della mia ricerca. In un post successivo approfondirò ancora e vi indicherò le fonti cui ricorrere per contrastare questa industria della menzogna globale.(Pino Arlacchi, “Il grande imbroglio sul Venezuela”, dalla pagina Facebook di Arlacchi del 23 febbraio 2019; post ripreso da “Megachip” il 26 febbraio 2019. Sociologo e criminologo, docente anche alla Columbia University di New York, Arlacchi è stato tra gli ideatori della strategia antimafia, insieme a Falcone e Borsellino, firmando il progetto della Dia, Direzione Investigativa Antimafia. Attivo anche a livello internazionale contro la criminalità organizzata, dal 1997 al 2002 ha ricoperto l’incarico di sottosegretario generale delle Nazioni Unite, direttore dell’Undccp (antidroga e prevenzione del crimine), dirigendo anche l’ufficio delle Nazioni Unite a Vienna. Nel 2000 ha promosso a Palermo la Convenzione Onu contro la criminalità internazionale, firmata da 124 paesi. Nel campo della lotta al riciclaggio del denaro sporco, Arlacchi ha promosso la firma nel 2001 da parte di 34 paradisi fiscali di un accordo che li ha impegnati a lavorare con l’Onu per adeguare le loro legislazioni agli standard internazionali di trasparenza finanziaria. E’ stato impegnato con successo in Tagikistan, Kosovo, Cina. Analista geopolitico, è considerato un esperto internazionale in materia di sicurezza).Ho appena terminato uno studio della crisi del Venezuela basato su documenti Onu e di centri di ricerca indipendenti. Mi è stato difficile mantenere la calma mentre davanti ai miei occhi si componeva una narrativa opposta a quella corrente. Il caso del Venezuela si configura nei termini di una gigantesca truffa informativa che ci oltraggia ogni giorno con notizie false, omissive e distorte su ciò che accade in quel paese. Sono le barbare sanzioni americane inflitte dal 2015 in poi approfittando del crollo del prezzo del petrolio, e cioè della maggiore fonte di entrate pubbliche del Venezuela, e non le politiche sbagliate dei governi Chavez-Maduro a detenere la massima colpa del dramma odierno sofferto da 32 milioni di persone. L’economia del Venezuela è crollata a causa del blocco delle importazioni dovuto all’impossibilità di usare il dollaro per pagarle dopo l’imposizione delle sanzioni da parte prima di Obama e poi di Trump. Gli ospedali del Venezuela sono rimasti senza medicine perché le banche internazionali si rifiutano di accettare i relativi pagamenti in dollari da parte del governo Maduro. E così sta accadendo per il cibo e per le risorse necessarie a far funzionare la macchina produttiva.
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Scie chimiche, Gianini: se smontate un aereo scoprite tutto
«Mi portino pure in tribunale», dice. «Gli dirò di fare una cosa semplicissima: basta prendere un aereo e smontarlo, per capire subito da dove vengono quelle scie». Enrico Gianini, per anni operatore aeroportuale a Milano Malpensa, ha le idee chiarissime sulle strane tracce, bianche e persistenti, che da circa 15 anni intasano letteralmente i nostri cieli. «Tutti sanno tutto, in aeroporto, ma nessuno dice niente», dichiara Gianini ai microfoni di “Border Nights”, denunciando l’omertà generale che coprirebbe la cosiddetta irrorazione quotidiana dell’atmosfera. «Sanno tutto anche i piloti, la cui mortalità sembra sia in aumento: tumori e infarti». Da quando le normative antiterrorismo li obbligano a volare in cabine sigillate, aggiunge, proprio i piloti sono i primi a respirare l’aria inquinata dai composti destinati a essere rilasciati dall’aereo sotto forma di aerosol. Gianini è convinto di aver scoperto il dispositivo clandestino: serbatoi supplementari inseriti in coda, nelle stive dei velivoli. Per trent’anni addetto al carico e scarico dei bagagli, se n’è accorto stazionando sotto gli aerei, da cui sgocciola liquido anomalo, pieno di metalli pesanti. Ne ha parlato tempo fa in un video su YouTube, che ha fatto notizia. E oggi conferma: l’operazione “cieli a strisce” continua, nell’indifferenza generale, senza che nessuna autorità di vigilanza protesti per il costante inquinamento indotto dagli aerei di linea trasformati abusivamente in “tanker”.Alluminio e cadmio, bario, manganese. E poi ferro, torio e stronzio: sono gli elementi chimici riscontrati nel liquido che gli aerei perdono, una volta a terra. L’atmosfera è cambiata, da quando è diventato massiccio il ricorso alla geoingegneria. Sul sito “Tanker Enemy”, Rosario Marcianò spiega che i primi esperimenti risalgono agli anni ‘80, ma il “trattamento dei cieli” è diventato intensivo, anche in Italia, dal 1° gennaio 2001, quando l’allora primo ministro Berlusconi firmò con gli Usa l’accordo “Open Skies Treaty”, divenuto operativo il 23 giugno 2003. Motivazione: il contrasto del surriscaldamento climatico. Di fatto, secondo lo stesso Gianini, era un pretesto per manipolare le condizioni atmosferiche con esiti anche catastrofici, come si è visto anche nella recentissima alluvione che ha devastato il Sud, in particolare la Calabria. Ma in fenomeno è vistoso anche in Sicilia e Sardegna. «Da allora – dice Gianini – è aumentata la concentrazione anomala di piogge, capaci di trasformare ruscelli asciutti in impetuosi torrenti». Gianini crede alla manipolazione sistematica usata come arma: cita i vigneti della Loira e della Borgogna, qualche anno fa distrutti dalle intemperie (caldo africano, seguito da gelate) allo scopo di “convincere” François Hollande a rinunciare alla sua iniziale politica anti-austerity.Nel dossier “Owning the weather”, il generale Fabio Mini, già a capo delle forze Nato in Kosovo, conferma che la “guerra climatica” è ormai una realtà: si possono creare nubi artificiali per “accecare” le difese avversarie, ma quelle stesse nubi possono essere “fabbricate” per provocare siccità o eventi alluvionali, danneggiando l’agricoltura e le infrastrutture. Gianini parla di voli-fantasma, militari, che una volta in Italia vengono classificati civili. Ma cita soprattutto le compagnie low-cost, Ryanair e EasyJet, come i maggiori vettori dell’aerosol atmosferico: sospetta che alcune compagnie campino, letteralmente, con questo “lavoro” clandestino, non essendo sostenibile il bilancio economico del solo trasporto dei passeggeri a bassissimo costo. Inoltre, aggiunge, la recentissima liberalizzazione delle quote da seguire, all’interno delle rotte, rende ancora più efficace l’azione di “disseminazione chimica” del cielo, consentendo sorvoli a minore altitudine. Visivamente, lo strano spettacolo a cui tutti possono assistere è ormai familiare: mentre le ormai rarissime “contrails” (scie di condensazione) svaniscono quasi subito, le “chemtrails” rilasciate dagli aerei restano nell’aria per ore, fino ad espandersi e abbassarsi, creando un velo capace di appannare il sole e cancellare l’azzurro del cielo.Fate un esperimento semplicissimo, dice Gianini: se al mattino trovate la vostra auto cosparsa di una leggera polverina, vedrete che quella polvere – stranamente – si attaccherà alla calamita che avrete cura di far scorrere sul parabrezza. E’ vero che la “sabbia del deserto” può essere anche ferrosa, ammette Gianini, ma ben di rado la sabbia del Sahara “piove” fino alle nostre latitudini, dove invece la “polverina” è pressoché quotidiana. «Oppure – scherza – fate la prova del nove con il comandante di un aereo: quando vi imbarcate, provate a domandargli “scusi, oggi spruzziamo o voliamo puliti?”, e state a vedere che faccia fa». Non teme ritorsioni sul lavoro, Gianini: «Ho di fatto già abbandonato Malpensa, ma per altri motivi. Mai mi avrebbero licenziato per la mia denuncia pubblica: avrebbe fatto troppo rumore e avrebbe costretto i media a parlare del caso, cioè delle scie». Movente e regia? I massimi poteri, secondo Gianini: «I mafiosi, in confronto, sono dei dilettanti». Ma perché nessuno parla, a parte lui? E soprattutto – gli domanda il conduttore di “Border Nights”, Fabio Frabetti – come si fa a custodire un segreto così ingombrante? Non è improbabile che tutte quelle persone – piloti, assistenti, controllori di volo – tengano sempre la bocca chiusa, per anni, senza che a nessuno scappi mai una parola?Enrico Gianini ha una spiegazione anche per questo: il programma di irrorazione dei cieli, dice, è stato avviato in modo graduale, dopo una partenza in sordina affidata a pochissimi voli. Poi l’operazione è cresciuta progressivamente, poco alla volta, ma in modo inesorabile. Quello che ieri poteva sembrare un’anomalia, oggi è la normalità – di cui tutti, sostiene, sono al corrente. «E se lavori in aeroporto a chi la racconti, questa cosa, sapendo che i tuoi colleghi la sanno già?». E la polizia aeroportuale? «Mi rivolsi anche a loro», racconta sempre Gianini, «e ho visto che non erano molto contenti delle mie curiosità». Ma, aggiunge, non è stato mai ostacolato nelle sue ricerche, quando si aggirava sotto la pancia degli aerei armato della bottiglietta con cui raccogliere il liquido, inquinatissimo, che colava sull’asfalto. «In fondo, a nessuno – nemmeno ai poliziotti – fa piacere scoprire che qualcuno può avvelenare impunemente l’aria che poi respiriamo tutti». Che fare? «Semplice: continuare a denunciare il fenomeno, sperando che prima o poi qualcuno si svegli, controlli e intervenga. Ripeto: basta prendere un aereo a caso e smontarlo, per vedere che la coda è ingombra di cisterne piene di liquido».Il caso è clamoroso: di scie chimiche, semplicemente, è vietato parlare. Chi lo fa viene deriso, preso per un cretino visionario e complottista. Le tante interrogazioni parlamentari, sul tema (presentate anche da esponenti del Pd) sono rimaste senza risposta. Ogni tanto, anche sui media mainstream filtra qualche notizia, perlomeno riguardo all’impalpabile mondo dei voli civili, sempre protetto dalla massima discrezione: la “Stampa” ricorda che, se un pilota muore d’infarto mentre è ai comandi, viene sostituito dal suo vice fino all’atterraggio, senza che i passeggeri abbiano il minimo sentore dell’accaduto. Su “Smartweek”, Federico Ciapparoni scrive: «Non è raro che fumi tossici facciano breccia nella cabina di pilotaggio». E aggiunge che molti piloti hanno condotto aerei affollati «mentre respiravano dalle mascherine attraverso cui fluisce l’ossigeno, mentre tutti i passeggeri erano ignari di ciò che accadeva nella cabina». Sulle “chemtrails”, però, la rimozione più eclatante sembra quella della gente comune: ormai ci si è abituati a vedere il cielo “a strisce”, quasi fosse un fatto naturale. Il fenomeno è invece palesemente artificiale: tutti vedono che sono gli aerei a depositare quelle strisce, che poi diventano “nuvole”, ma quasi nessuno si chiede perché. Già: perché, oggi, i cieli sono diventati “sporchi”? Nessuno sente il bisogno di scoprire come mai, oggi – da una quindicina d’anni – i normalissimi aerei di linea “sporcano” il cielo, fino a cancellare l’azzurro?«Mi portino pure in tribunale», dice. «Gli dirò di fare una cosa semplicissima: basta prendere un aereo e smontarlo, per capire subito da dove vengono quelle scie». Enrico Gianini, per anni operatore aeroportuale a Milano Malpensa, ha le idee chiarissime sulle strane tracce, bianche e persistenti, che da circa 15 anni intasano letteralmente i nostri cieli. «Tutti sanno tutto, in aeroporto, ma nessuno dice niente», dichiara Gianini ai microfoni di “Border Nights”, denunciando l’omertà generale che coprirebbe la cosiddetta irrorazione quotidiana dell’atmosfera. «Sanno tutto anche i piloti, la cui mortalità sembra sia in aumento: tumori e infarti». Da quando le normative antiterrorismo li obbligano a volare in cabine sigillate, aggiunge, proprio i piloti sono i primi a respirare l’aria inquinata dai composti destinati a essere rilasciati dall’aereo sotto forma di aerosol. Gianini è convinto di aver scoperto il dispositivo clandestino: serbatoi supplementari inseriti in coda, nelle stive dei velivoli. Per trent’anni addetto al carico e scarico dei bagagli, se n’è accorto stazionando sotto gli aerei, da cui sgocciola liquido anomalo, pieno di metalli pesanti. Ne ha parlato tempo fa in un video su YouTube, che ha fatto notizia. E oggi conferma: l’operazione “cieli a strisce” continua, nell’indifferenza generale, senza che nessuna autorità di vigilanza protesti per il costante inquinamento indotto dai jet di linea trasformati abusivamente in “tanker”, aerei-cisterna.
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Ecco i nomi dei massoni golpisti che hanno creato la crisi
Puoi chiamarli neoliberisti. Monopolisti. Privatizzatori. C’è chi li ha definiti, anche, golpisti bianchi. Ma sono essenzialmente massoni. Attenzione: le obbedienze nazionali non c’entrano. Si tratta di supermassoni in quota alle Ur-Lodes, le oscure superlogge sovranazionali. Precisamente: quelle di segno neo-aristocratico, che detestano la democrazia e confiscano il potere dei cittadini, rimettendolo nelle mani di un’élite pre-moderna, pre-sindacale, ultra-padronale. E’ così che hanno costruito il nuovo medioevo in cui viviamo, il neo-feudalesimo regolato dall’Ue e dalla sua Commissione di non-eletti. Giochi di specchi: laddove si parla di finanza e geopolitica, citando banche centrali e governi, si omette sempre di scoprire chi c’è dietro. Sempre gli stessi, sempre loro: un club ristrettissimo di padreterni, di “contro-iniziati” che si credono onnipotenti e autorizzati, come per diritto divino, a manipolare in eterno il popolo bue, ridotto a bestiame umano. Lo ricorda Patrizia Scanu, segretaria del Movimento Roosevelt, sodalizio fondato dal massone progressista Gioele Magaldi proprio con l’intento di smascherare l’attuale governance europea finto-democratica, dopo la clamorosa denuncia contenuta nel saggio “Massoni”, edito nel 2014 da Chiarelettere. Una rivelazione: dietro ai principali tornanti della nostra storia recente ci sono sempre gli stessi personaggi, i medesimi circoli occulti: grazie a loro, in fondo, poi in Italia crollano anche i viadotti autostradali.
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Disastro privatizzato: così il neoliberismo ci crolla addosso
A poche ore dalla tragedia del crollo del viadotto Morandi a Genova, la prima riflessione di molti cittadini italiani sta andando alla questione tutt’altro che secondaria della privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici. I numerosi crolli di viadotti, strade, scuole, infrastrutture del paese, da sempre giustificata con i vincoli di bilancio, con il debito pubblico, con le richieste di austerity da parte dell’Europa, ci sta mostrando due fatti evidenti: che se non si spende in infrastrutture e manutenzione si mette in pericolo la vita delle persone, il turismo e l’economia di intere zone; e poi che la semplice privatizzazione di infrastrutture lucrose come le autostrade non porta con sé i meravigliosi benefici promessi dalla propaganda neoliberista degli anni ‘80 e ‘90, con la sua retorica del “privato è bello”, della maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico, dei vantaggi per gli utenti. La verità è che con le privatizzazioni si sono spesso creati monopoli, posizioni di rendita di tipo feudale e ingiustificati guadagni per poche famiglie ricche e strettamente legate con i vertici della politica nazionale e internazionale, a danno dei cittadini, che pagano pedaggi assurdamente costosi a fronte di un servizio tutt’altro che ineccepibile.In Italia i principali gruppi privati concessionari delle autostrade sono il Gruppo Gavio (che è il quarto operatore al mondo nella gestione di autostrade a pedaggio con un network di circa 4.156 km di rete e che in Italia, attraverso la società Sias, gestisce circa 1.423 km di rete, fra i quali l’autostrada Genova-Ventimiglia), e il gruppo Atlantia, di proprietà dei Benetton. Un articolo de “Il Fatto Quotidiano” di qualche mese fa, a firma di Fabio Pavesi, metteva in evidenza gli enormi profitti del gruppo Atlantia (le autostrade italiane fino al 1999 furono di proprietà pubblica, del gruppo Iri, con il nome di Società Autostrade, diventata poi nel 2003 Autostrade per l’Italia S.p.A, 100% di proprietà del gruppo Atlantia, che gestisce autostrade a pedaggio anche in altri paesi). Per essere precisi, 1,9 miliardi di utile operativo solo nel 2017 e solo per Autostrade per l’Italia S.p.A e un utile netto di 972 milioni in crescita del 19% sul 2016. Quale vantaggio ne viene ai cittadini italiani? Ovviamente nessuno. La autostrade a pedaggio sono una gallina dalle uova d’oro ad esclusivo appannaggio di potenti gruppi industriali, in assenza di qualsivoglia criterio di efficienza (come periodicamente si legge nelle riflessioni degli economisti più attenti, per esempio in questo articolo de “Il Sole 24 Ore”).Molti ormai cominciano a rimpiangere i tempi dell’Iri, quando era lo Stato a gestire l’immenso patrimonio delle grandi infrastrutture del paese. E molti si chiedono per quale ragione si dovrebbe continuare così. Riflettendo in questi giorni sulle profetiche analisi del sociologo ungherese Karl Polanyi, scritte nel 1944 e pubblicate nel volume “La grande trasformazione”, mi chiedo se il neoliberismo, con i suoi miti di libertà d’impresa, competizione, privatizzazione, deregolamentazione, sia compatibile con la democrazia in generale e con la Costituzione italiana in particolare. La domanda non è originale e la risposta in certa misura è scontata, per chi frequenta la ricca letteratura al riguardo, ma non credo sia inutile ripercorrere le ragioni per le quali la risposta non può che essere negativa. Da queste ragioni deve derivare infatti un giudizio storico e politico nettissimo sulla classe dirigente che ci ha governato dagli anni ‘80 in poi e la motivazione chiara a ribellarci ad uno stato di cose non più tollerabile. Il neoliberismo ha fatto fortuna, anche nelle masse, equivocando sulla parola “libertà”. Chi non è sensibile alle infinite promesse di una parola tanto pregnante? Chi non vorrebbe essere libero? Il problema è però è duplice: quale libertà? E la libertà di chi?La visione liberale dello Stato si fonda sulla difesa delle libertà civili e politiche: libertà di coscienza, di riunione, di associazione, di espressione, eccetera. Esistono però, osserva Polanyi, anche le libertà negative: la libertà di sfruttare i propri simili, di sottrarre all’utilizzo comune scoperte tecnico-scientifiche per proteggere interessi privati, di trarre profitti da calamità collettive, di inquinare l’ambiente. Nell’economia capitalista, queste due forme di libertà sono i due lati della stessa medaglia. Si potrebbe ipotizzare, continua Polanyi, una società futura nella quale le libertà “positive”, accompagnate da una regolamentazione adeguata, possano essere estese a tutti i cittadini. “Regolamentare” vuol dire porre limiti ai privilegi di una minoranza, proteggere i più deboli dal potere soverchiante di chi detiene la proprietà, correggere gli squilibri economici e sociali, controllare e sanzionare i comportamenti dannosi alla collettività, permettere a tutti i cittadini, anche a quelli svantaggiati, di esercitare le libertà “positive”. Questa società futura sarebbe libera e giusta insieme.Ma ad impedire questo esito (la diffusione della libertà) è proprio l’“ostacolo morale” dell’utopismo liberale (quello che chiamiamo “neoliberismo”), di cui lui riconosceva il massimo esponente nell’economista Von Hayek. La visione neoliberista è utopica perché predica l’assenza del controllo e dell’intervento dello Stato in ambito economico e sociale, proprio mentre invoca l’esercizio della forza e anche della violenza dello Stato a difesa della proprietà. Detto in parole povere, per il neoliberismo lo Stato è al servizio della proprietà individuale e della libera impresa, cioè di quei pochi che non hanno bisogno di incrementare il proprio reddito, il proprio tempo libero e la propria sicurezza, e agisce a svantaggio delle libertà di tutti gli altri. La libertà neoliberista è solo prerogativa dei ricchi (anche se a parole è disponibile a tutti) e non può essere estesa a tutti, perché questo minaccerebbe la proprietà. Chi è povero lo è per colpa sua ed è solo un perdente nella competizione per la ricchezza. La libertà è in sostanza la libertà di arricchirsi senza vincoli né regole. Il neoliberismo (l’utopismo liberale), concludeva Polanyi, è intrinsecamente e incorreggibilmente antidemocratico e autoritario, perché piega lo Stato a difendere gli interessi di una minoranza a danno della maggioranza.Non per nulla il primo esperimento di Stato neoliberista fu il Cile di Augusto Pinochet, dove “libertà” significava azzeramento dei sindacati e dei diritti delle comunità, privatizzazioni selvagge, liberalizzazioni finanziarie e repressione delle libertà civili. Qui il neoliberismo si sposa con il fascismo. Ma c’è anche un modo meno cruento per effettuare un colpo di Stato: corrodere un giorno dopo l’altro, per decenni, i diritti e i redditi dei cittadini, asservirli al potere finanziario, vincolarli a norme-capestro che li rendano schiavi di interessi estranei, modificare la Costituzione a danno della sovranità popolare, indebolire i lavoratori e i sindacati, assecondare gli interessi dei più forti, non intervenire a ridurre le disuguaglianze, privatizzare i beni pubblici, ridurre la spesa sociale, distrarre continuamente l’attenzione pubblica con falsi problemi e individuare sempre nuovi bersagli per la rabbia popolare, colpevolizzare i cittadini per la loro condizione e controllare i mass-media, in modo che veicolino continuamente la visione che più fa comodo ai manovratori (quella che Marcello Foa ha chiamato “il frame”, la cornice), martellare per anni e decenni i cittadini con un linguaggio economicista pieno di concetti come imprenditorialità, libertà d’impresa, debiti e crediti, competizione, eccetera – insomma costruendo un’ideologia che giustifichi e renda accettabile la progressiva riduzione in schiavitù di interi popoli, tenendone a bada l’inevitabile scontento con il senso di colpa, la paura e la menzogna.Questo è ciò che è successo da noi in questi ultimi decenni. Questo è l’imperdonabile tradimento della Costituzione e dei suoi valori realizzato da una classe politica avida e asservita a gruppi di potere nazionali e sovranazionali che l’hanno telecomandata a danno nostro. Il neoliberismo non è solo di una teoria economica, ma di un modello complessivo di società, sorretto da un poderoso e contraddittorio apparato ideologico, incompatibile con la democrazia, come sono incompatibili con la democrazia i monopoli privati di beni collettivi. Il viadotto di Genova è un simbolo di ciò che deve finire in Italia e nel mondo se vogliamo avere un futuro democratico. La globalizzazione neoliberista, che esalta il libero mercato, mentre mira a costituire monopoli e posizioni di forza, sta mettendo in ginocchio interi popoli. Povertà e disuguaglianza aumentano di giorno in giorno a livello globale. Non è più accettabile mantenere in piedi privilegi feudali, massacrando sogni e speranze di miliardi di persone.Il filosofo John Rawls sosteneva che una disuguaglianza è accettabile solo se migliora anche le condizioni di chi ha di meno. La ricchezza non è un male, ma lo è l’ingiusta distribuzione di essa. La libertà senza giustizia sociale è solo un guscio vuoto e uno specchio per le allodole. Questo dice in sostanza la nostra Costituzione. Se la vogliamo difendere, dobbiamo consegnare al passato il neoliberismo, memori della sofferenza e dei disastri che ha provocato. Non vedo altra via d’uscita dal tunnel nel quale ci troviamo. Deve essere lo Stato a regolare l’economia e il fine dell’economia deve essere il benessere dei cittadini. Il mercato non è in grado di autoregolarsi affatto e laddove i governi sono collusi con i potentati economici stanno tradendo la sovranità popolare. Non dimentichiamoci la frase pronunciata dal miliardario Warren Buffett (il terzo uomo più ricco al mondo) a proposito della diminuzione delle tasse per i ricchi: «La lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi». Tanto per ricordarci di che cosa c’è in gioco: non la lotta contro la ricchezza, ma la lotta contro una visione predatoria della ricchezza e contro la menzogna che ci rende schiavi da troppo tempo di un’élite che ha consapevolmente e pazientemente costruito il mondo squilibrato nel quale ci troviamo – di cui troviamo il ritratto nel libro di Gioele Magaldi, “Massoni: società a responsabilità illimitata”, editore Chiarelettere.(Patrizia Scanu, “Il neoliberismo è compatibile con la democrazia?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 15 agosto 2018).A poche ore dalla tragedia del crollo del viadotto Morandi a Genova, la prima riflessione di molti cittadini italiani sta andando alla questione tutt’altro che secondaria della privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici. I numerosi crolli di viadotti, strade, scuole, infrastrutture del paese, da sempre giustificata con i vincoli di bilancio, con il debito pubblico, con le richieste di austerity da parte dell’Europa, ci sta mostrando due fatti evidenti: che se non si spende in infrastrutture e manutenzione si mette in pericolo la vita delle persone, il turismo e l’economia di intere zone; e poi che la semplice privatizzazione di infrastrutture lucrose come le autostrade non porta con sé i meravigliosi benefici promessi dalla propaganda neoliberista degli anni ‘80 e ‘90, con la sua retorica del “privato è bello”, della maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico, dei vantaggi per gli utenti. La verità è che con le privatizzazioni si sono spesso creati monopoli, posizioni di rendita di tipo feudale e ingiustificati guadagni per poche famiglie ricche e strettamente legate con i vertici della politica nazionale e internazionale, a danno dei cittadini, che pagano pedaggi assurdamente costosi a fronte di un servizio tutt’altro che ineccepibile.
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Migranti, il business dei predoni globalisti condanna l’Africa
Esiste un nesso fra crescita demografica, povertà ed emigrazione? La popolazione africana sta subendo una vera e propria esplosione demografica: mentre, infatti, nel 1960 si attestava intorno ai 300 milioni di abitanti, oggi è di circa 1,2 miliardi e raggiungerà i 2 miliardi e mezzo entro il 2050. L’Africa si trova intrappolata in una spirale nefasta, nota come “trappola malthusiana”, che rende impossibile adeguare l’aumento della produzione e delle risorse alimentari in modo da compensare il forte incremento della domanda legato a una crescita esponenziale della popolazione. L’emigrazione viene percepita dagli africani come unica opportunità per migliorare le proprie condizioni di vita e uscire dallo stato di miseria. Essa in realtà non fa che peggiorare i problemi economici del Continente, che viene privato così della sua forza lavoro più giovane e intraprendente. Il vaso di Pandora delle Ong è molto difficile da scoperchiare, a causa della fitta trama di interessi economici, politici e finanziari. In particolare esiste una grossa Ong, la più grande al mondo ma poco conosciuta dai media, di nome Brac, che svolge attività di “microcredito per l’emigrazione”. Essa è nata ed è particolarmente attiva in Bangladesh, dove ha finanziato l’imponente emigrazione dei cittadini verso altri paesi ma, come dichiara esplicitamente nel suo sito, fornisce prestiti per l’emigrazione (migration loans) anche in altri paesi, in particolare quelli dell’Africa.Esiste poi la Ong francese Positive Planete (prima Planet Finance), fondata dal francese Jacques Attali – colui che ha scoperto Macron – e dal bengalese Yunus, padre del microcredito, che si prefigge di “combattere la povertà in Africa attraverso lo sviluppo della microfinanza”. Un sodalizio, quello tra finanza, Ong ed emigrazione, molto redditizio e ben occultato. Tutti i paesi che si sono sviluppati l’hanno fatto avviando un piano di sviluppo economico basato sulla protezione dell’industria locale nascente e su politiche pubbliche di tipo keynesiano. Nell’Africa postcoloniale questo non è stato possibile, poiché le forze economiche internazionali hanno imposto il loro modello neoliberista, fatto di massima apertura al commercio estero, liberalizzazioni, privatizzazioni dei servizi pubblici e tagli alla spesa dello Stato. Ciò ha impedito qualsiasi possibilità di sviluppo dell’economia africana. Ogni tentativo in tale direzione è stato represso nel sangue, come nel caso di Lumumba in Congo e di Sankara in Burkina Faso. Questo è esattamente il modus operandi dell’attuale modello unico economico su scala globale: “keynesismo per i ricchi e neoliberismo per i poveri”, utilizzato come strumento di depredazione dei paesi.Mentre sappiamo molto della storia coloniale, quello che è accaduto in Africa con la decolonizzazione è poco conosciuto ai più e distorto da una narrazione mistificatrice che imputa ai vecchi imperi coloniali la causa dell’attuale e persistente stato di sottosviluppo del Continente Nero. Con la nascita degli Stati indipendenti in Africa, come in gran parte del Terzo Mondo, si stava avviando un percorso di crescita economica e di sviluppo locale. I paesi africani avevano adottato la cosiddetta politica di “industrializzazione per sostituzione”, secondo la quale le merci importate venivano sostituite con la produzione interna per tutelare le economie e le industrie nascenti dalla concorrenza internazionale. Questa politica, in aggiunta al riconoscimento da parte del Gatt del “diritto alla protezione asimmetrica” per i paesi in via di sviluppo (1964), generò in molti paesi dell’Africa subsahariana un periodo di crescita e relativo benessere. Ma le ingerenze esterne non tardarono a farsi sentire da parte dei grandi interessi economici internazionali.Con lo scoppiare della crisi del debito del Terzo Mondo nel 1982, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale imposero definitivamente le loro politiche macroeconomiche, che non favorivano lo sviluppo locale, non prevedevano alcun investimento nell’economia nazionale, ma incentivavano gli Stati a importare ingenti quantità di beni di consumo e a destinare la propria produzione all’esportazione per il pagamento del debito. Attraverso la previsione di “condizionalità” legate ai prestiti concessi, si venne a realizzare una nuova forma di imperialismo globale, il colonialismo del debito, da cui banche e prestatori di denaro hanno tratto enormi profitti, congiuntamente alle grandi multinazionali, che hanno depredato il Continente del suo ricco patrimonio di risorse naturali, inibendo ogni possibilità di sviluppo economico locale.La chiusura che incontro è più ideologica che scientifica. Purtroppo non si può parlare di neoliberismo e del fenomeno migratorio senza incorrere in divisioni ideologiche e pregiudizi. Dimostrare che il modello economico imposto dalle grandi istituzioni internazionali in Africa, che è lo stesso a distanza di decenni attuato ora in Italia, sia la causa del suo sottosviluppo lascia sconcertati. Sostenere poi che l’emigrazione non è una soluzione, ma anzi aggrava i problemi del continente africano, arricchendo solo chi specula sulla mercificazione degli esseri umani, suscita contrarietà da parte dei fautori acritici dell’accoglienza illimitata. Rompere dei tabù e dei luoghi comuni non è mai semplice, ma sto riscontrando anche molto interesse e consenso da parte di chi conosce e vive in prima persona la realtà africana. Da parte dei media sapevo, quando ho intrapreso questo percorso, iniziato col mio primo libro sottotitolato “Storia di una bocconiana redenta”, che non sarebbe stato per nulla facile rompere il muro nel mainstream. Tuttavia, l’interesse mostrato nei miei confronti da alcuni programmi televisivi e radiofonici è andato oltre le mie aspettative.Credo che, seppur con grande difficoltà, ci sia un piccolo spiraglio per chi affronta temi scomodi in modo serio e supportato da evidenze scientifiche. Il Decreto Dignità proposto da Di Maio? L’attuale modello economico è basato sulla precarizzazione del lavoro e, di conseguenza, della vita umana. Il Decreto Dignità ha il grosso merito di riportare al centro il lavoratore e i suoi diritti. Mettere un limite alla durata e al numero di rinnovi dei contratti a termine, aumentare la tutela e l’indennità del lavoratore nei casi di licenziamento, sanzionare le imprese che delocalizzano dopo aver usufruito di aiuti di Stato, nonché avviare una dura lotta alla ludopatia sono tutte misure che operano in questa direzione. Lo Stato in questo modo torna a occuparsi del cittadino e del lavoratore, ripudiando il ruolo di servitore dei mercati e degli interessi transnazionali, come vorrebbe il modello neoliberista universale, perfettamente rappresentato dall’attuale Unione Europea.(Ilaria Bifarini, dichiarazioni rilasciate a Marina Simeone per l’intervista “I coloni dell’austerity” pubblicata da “Il Pensiero Forte” il 25 luglio 2018. Economista attiva anche sul proprio seguitissimo blog, laureata alla Bocconi, scrittrice di libri coraggiosi e di successo sul neoliberismo, dopo la risonanza ottenuta dal primo lavoro “Neoliberismo e manipolazione di massa (storia di una Bocconiana redenta)”, Ilaria Bifarini ha presentato “I coloni dell’Austerity. Africa, neoliberismo e immigrazioni di massa”).Esiste un nesso fra crescita demografica, povertà ed emigrazione? La popolazione africana sta subendo una vera e propria esplosione demografica: mentre, infatti, nel 1960 si attestava intorno ai 300 milioni di abitanti, oggi è di circa 1,2 miliardi e raggiungerà i 2 miliardi e mezzo entro il 2050. L’Africa si trova intrappolata in una spirale nefasta, nota come “trappola malthusiana”, che rende impossibile adeguare l’aumento della produzione e delle risorse alimentari in modo da compensare il forte incremento della domanda legato a una crescita esponenziale della popolazione. L’emigrazione viene percepita dagli africani come unica opportunità per migliorare le proprie condizioni di vita e uscire dallo stato di miseria. Essa in realtà non fa che peggiorare i problemi economici del Continente, che viene privato così della sua forza lavoro più giovane e intraprendente. Il vaso di Pandora delle Ong è molto difficile da scoperchiare, a causa della fitta trama di interessi economici, politici e finanziari. In particolare esiste una grossa Ong, la più grande al mondo ma poco conosciuta dai media, di nome Brac, che svolge attività di “microcredito per l’emigrazione”. Essa è nata ed è particolarmente attiva in Bangladesh, dove ha finanziato l’imponente emigrazione dei cittadini verso altri paesi ma, come dichiara esplicitamente nel suo sito, fornisce prestiti per l’emigrazione (migration loans) anche in altri paesi, in particolare quelli dell’Africa.
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Bifarini: dove sono finiti i miliardi di dollari di aiuti all’Africa?
Ingenti prestiti da parte delle organizzazioni finanziarie internazionali, consistenti sgravi del debito statale, fondi raccolti da iniziative private, che hanno mobilitato tutti, dai singoli cittadini occidentali attraverso forme organizzate di beneficenza alle star dello spettacolo, che si sono spese per i diritti dei più deboli attraverso concerti ed esibizioni. Fiumi di miliardi di dollari che non sembrano aver intaccato per nulla il problema del sottosviluppo e della povertà endemica del Terzo Mondo. Anzi. E’ stato riscontrato che, dalla metà degli anni Novanta, circa 60 paesi in via di sviluppo siano diventati più poveri in termini di reddito pro-capite rispetto a 15 anni prima. Entro il 2030 i due terzi dei poveri di tutto il mondo proveranno dall’Africa. L’Africa dunque è sempre più povera, ma di una povertà nuova rispetto a quella del passato coloniale. Il continente africano annovera infatti i paesi con i più alti livelli di disuguaglianza al mondo, in cui il divario tra una ristretta élite dedita al lusso e il resto della popolazione che vive in uno stato di miseria è abissale. Dunque, cosa non ha funzionato? Dove sono finiti i fiumi di miliardi di dollari?La risposta in realtà è alquanto intuitiva: hanno seguito la stessa corrente che trascina la ricchezza collettiva su scala mondiale. Sono finiti in conti offshore, hanno arricchito a dismisura élite locali consenzienti e complici dei grandi speculatori internazionali e soprattutto hanno arricchito loro, i Signori del debito. Dopo essere finita nella spirale micidiale dei prestiti per il pagamento del debito e degli interessi maturati su di esso a seguito della crisi del debito del 1982 che ha coinvolto i paesi del Terzo Mondo, l’Africa post coloniale ha definitivamente perso ogni possibilità di sviluppo. Si stima che per ogni dollaro preso a prestito da banche e organizzazioni finanziarie internazionali ne abbia restituiti 13! Un Piano Marshall al contrario, che ha dirottato i soldi stanziati per il Terzo Mondo verso i finanziatori del debito del Primo Mondo. La stessa depredazione da parte della finanza attraverso l’arma del debito che sta oggi asfissiando il nostro paese (in 20 anni abbiamo pagato ben 1700 miliardi di euro di soli interessi!).Il passaggio dal colonialismo imperialista al post-colonialismo del debito è stato brutale per il Continente Nero e ha soffocato quei timidi tentativi di sviluppo economico nazionale avviati attraverso la politica di sostituzione delle importazioni. Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale sono intervenuti attraverso i cosiddetti “programmi di aggiustamento strutturale” (Pas): in cambio di prestiti e assistenza hanno imposto il controllo economico, monetario e politico dell’Africa. Contravvenendo a ogni logica e a ogni esempio di percorso di sviluppo economico nazionale, hanno imposto l’apertura incondizionata alle liberalizzazioni e al libero scambio a paesi che non avevano ancora avviato la creazione di un tessuto industriale e produttivo su base locale. Il modello coercitivamente introdotto ha previsto l’utilizzo dei prestiti per incentivare le esportazioni, senza nessun investimento nello sviluppo tecnologico e del capitale umano, al fine di ottemperare gli oneri del debito.Sono state abolite tutte le forme di protezionismo necessarie a tutelare l’economia locale e sfruttare le potenzialità di sviluppo industriale nazionale. Così in Ghana nel 2002 sono state abolite le tariffe sull’importazione di prodotti alimentari, con una conseguente impennata di importazioni di prodotti alimentari dall’Unione Europea, come i famosi scarti di pollo congelati che costano un terzo di quelli prodotti localmente. Nello Zambia l’abolizione dei dazi sulle importazioni dei capi di abbigliamento ha soffocato una piccola rete di ditte locali a favore delle importazioni dei capi di abbigliamento usati dall’Occidente. I programmi del Fondo Monetario hanno inoltre imposto tagli alla spesa sanitaria e all’istruzione, i cui livelli erano già molto carenti, e la privatizzazione di servizi pubblici essenziali – come la fornitura idrica- in gran parte dei paesi. Sebbene le due istituzioni di Bretton Woods (Fmi e Bm) abbiano spesso imputato la causa dell’evidente fallimento dei propri “piani di aggiustamento strutturale” al fenomeno radicato della corruzione dei governanti africani, il loro coinvolgimento è ineludibile.Così, nonostante fosse risaputa l’indole cleptomane di Mobutu nello Zaire, che rubò oltre la metà degli aiuti economici ricevuti dal paese, essi continuarono a concedergli prestiti. Non a caso i programmi di privatizzazione del Fondo Monetario sono altresì conosciuti come “programmi di tangentizzazione”. Gran parte di questi fondi sono finiti nelle offshore, dove gran parte dei trilioni di denaro sporco che ogni anno vengono versati provengano dal Terzo Mondo. In questo immenso flusso di denaro «è stato stimato che almeno metà dei fondi presi in prestito dai principali debitori siano tornati indietro dalla porta di servizio, di solito nello stesso anno – se non nello stesso mese – in cui arrivano prestiti» (James S. Henry, “Where the money went”). Non dobbiamo dunque stupirci se la povertà e sottosviluppo dell’Africa sono peggiorati e se al flusso di denaro fanno seguito gli attuali flussi migratori di esseri umani. Il colonialismo mondiale del debito prevede anche questo.(Ilaria Bifarini, “Dove sono finiti i miliardi di dollari degli aiuti all’Africa?”, dal blog della Bifarini del 13 luglio 2018. L’economista Bifarini, che si autodefinisce “bocconiana redenta”, è autrice di saggi sulla catastrofe del neoliberismo e del recentissimo lavoro “I coloni dell’austerity”, ovvero “Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”).Ingenti prestiti da parte delle organizzazioni finanziarie internazionali, consistenti sgravi del debito statale, fondi raccolti da iniziative private, che hanno mobilitato tutti, dai singoli cittadini occidentali attraverso forme organizzate di beneficenza alle star dello spettacolo, che si sono spese per i diritti dei più deboli attraverso concerti ed esibizioni. Fiumi di miliardi di dollari che non sembrano aver intaccato per nulla il problema del sottosviluppo e della povertà endemica del Terzo Mondo. Anzi. E’ stato riscontrato che, dalla metà degli anni Novanta, circa 60 paesi in via di sviluppo siano diventati più poveri in termini di reddito pro-capite rispetto a 15 anni prima. Entro il 2030 i due terzi dei poveri di tutto il mondo proveranno dall’Africa. L’Africa dunque è sempre più povera, ma di una povertà nuova rispetto a quella del passato coloniale. Il continente africano annovera infatti i paesi con i più alti livelli di disuguaglianza al mondo, in cui il divario tra una ristretta élite dedita al lusso e il resto della popolazione che vive in uno stato di miseria è abissale. Dunque, cosa non ha funzionato? Dove sono finiti i fiumi di miliardi di dollari?
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Maddalena a Mattarella: arrendersi ai mercati è un crimine
Di fronte alla scelta di Mattarella di negare a Paolo Savona la nomina ministeriale ho provato disorientamento e abbattimento. Dal punto di vista strettamente costituzionale poteva dire “io non firmo”, perché l’articolo 90 della Costituzione conferisce al presidente potere di nomina. Ma nel caso di specie, dopo aver consentito a Di Maio e Salvini di fare un programma di governo e dopo aver dato l’incarico a Conte, la contrarietà a un singolo ministro per un fatto individuale trovo sia perlomeno politicamente inammissibile, comunque contraria alla volontà del popolo italiano e al corpo elettorale, che si è espresso chiaramente per cambiare il sistema. Gli italiani hanno espresso un voto antisistema, invece Mattarella – chiamando Cottarelli, che proviene dal Fmi – ha voluto ribadire il suo apprezzamento per il sistema neoliberista. Su questo il presidente sbaglia: tutto si può dire, tranne che il sistema neoliberista abbia portato dei buoni frutti. Ha aumentato le disuguaglianze in tutto il mondo. Ha cominciato Pinochet, che ha distrutto il Cile. Poi c’è stata la Thatcher in Inghilterra, dove il divario tra ricchi e poveri ha raggiunto livelli mai visti. Il neoliberismo è stato applicato da Reagan e poi soprattutto da Clinton negli Stati Uniti (che ora hanno reagito non confermando la Clinton e votando Trump: dalla padella alla brace).Il sistema valido è quello keynesiano, che permise agli Usa di superare la Grande Depressione degli anni Trenta. Si tratta di distribuire il denaro alla base della piramide sociale cioè ai lavoratori, facendo sì che i negozi aprano e le imprese assumano, in un circolo virtuoso. Invece, secondo la tesi neoliberista lanciata all’inizio degli anni ‘60 da un certo Milton Friedman della Scuola di Chicago, bisogna concentrare la ricchezza nelle mani di pochi e bisogna estromettere lo Stato dall’economia – cioè, il popolo intero non può partecipare all’economia come comunità statale: non si possono dare aiuti alle imprese, ci vuole una forte competività. Questo crea le premesse per cui il lavoro diventa merce, e quindi si tradisce l’idea stessa di Stato-comunità che è in Costituzione. La comunità è formata dal popolo, che contribuisce alla comunità col suo lavoro, dal territorio che offre i mezzi di sostentamento e le fonti di ricchezza necessarie per il progresso materiale e spirituale della società. La sovranità lascia al popolo l’appartenenza, a titolo di sovranità, del territorio, nonché la possibilità di decidere. Mi sembra che tutti gli elementi dello Stato-comunità vengano attaccati dal pensiero neoliberista, e mi spiace molto.Lo spread? Noi legittimiamo – non so in base a quale principio giuridico – l’azione speculativa, che è vietata dal nostro codice. E’ una sopraffazione, la speculazione: non è che possiamo dire che i mercati sono liberi di fare quello che vogliono. Quando gli Stati si sottomettono ai mercati, compiono un crimine fortissimo: i governanti devono appunto governare il mercato, non esserne governati. Il mercato fa i suoi interessi, e la speculazione non è lo strumento per fare i nostri. E’ vietata, la speculazione: può recare danno e farci morire tutti. E’ vietata dall’articolo 501 del codice penale, che punisce chi rompe la stabilità dei prezzi delle merci. Questa sottomissione al mercato, da parte dei governi di tutto il mondo – specie del mondo occidentale – è un errore madornale. Avere un mercato aperto non significa dare accesso a leggi di mercato arbitrarie. Il mercato dovrebbe seguire una sola legge naturale, quella della domanda e dell’offerta. In realtà, oggi tende solo ad appropriarsi dei beni altrui. Noi abbiamo dato tutto, ormai. Ci hanno tolto tutto: sono rimasti solo i nostri immobili privati, qualche piccola industria. Dobbiamo dare anche questo? Mi pare assurdo. E l’assurdità sta proprio in questo assecondare il pensiero neoliberista, e soprattutto l’azione – non legittima, per usare un eufemismo – che opera la finanza. La speculazione finanziaria è costituzionalmente illegittima: non è possibile darle legittimità. La riteniamo una cosa intoccabile, quasi sacra, quando in televisione stiamo a sentire com’è andata la Borsa.Nel rifiutare Savona, Mattarella ha detto di voler tutelare i piccoli risparmiatori italiani? Su questo sono completamente in disaccordo, tant’è vero che lo spread è salito. Non si possono assecondare i mercati, che agiscono in base a principi egoistici. Noi abbiamo bisogno di una cooperazione internazionale per controllare i mercati, ma lo stesso trattato internazionale sul commercio si è votato a favore della speculazione finanziaria. A mio avviso, la scelta di Sergio Mattarella – che rispetto, come persona – è completamente sbagliata. Ha buttato a mare un percorso che era durato 85 giorni. Lo stesso Savona gli aveva offerto una soluzione, dichiarandosi a favore dell’Europa: un’Europa con più uguaglianza tra gli Stati. La finanza agisce in modo malevolo, come la criminalità organizzata: se alla criminalità organizzata vai a dire “io faccio il tuo interesse”, quella fa il suo interesse e ti uccide lo stesso. Ci stanno uccidendo ugualmente, infatti: non si tratta, col nemico criminale. La trattativa Stato-mafia? Allora furono le stragi a portarci alla trattativa, adesso è la guerra economica cavalcata soprattutto dalla Germania. L’unica nostra salvezza è attuare la Costituzione. Anche se dovessimo andare verso una “decrescita felice”, come afferma Latouche, sarebbe preferibile: manterremmo le nostre cose e non saremmo esposti alla schiavitù. Perché a questo punto ci tolgono tutto il territorio ed è finita la comunità italiana – com’è avvenuto in Grecia, dove i cittadini fanno i camerieri per gli stranieri a cui hanno svenduto le loro case.Ho capito da tempo che nel pensiero neoliberista c’è un meccanismo pratico che prevede la creazione del denaro dal nulla e la commercializzazione di denaro fittizio, come quello dei derivati. Tutto a favore delle multinazionali e contro gli interessi del popolo italiano. Addirittura l’ultimo Gentiloni ha approvato il decreto legislativo incostituzionale “taglia-foreste”, destinate ad alimentare le centrali a biomassa dei nostri grandi imprenditori. Nell’ordinamento italiano è stato recepito il bail-in, cioè: se falliscono le banche, pagano i depositanti. Bella roba: questo è il sistema neoliberista, adottato dal Trattato di Maastricht e dal Trattato di Lisbona. Si tenga presente che, sui trattati europei, prevale la Costituzione della Repubblica italiana: a partire dal 1973, la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha più volte affermato che nell’ordinamento italiano non possono entrare le norme comunitarie contrarie ai diritti fondamentali, ai diritti dell’uomo e ai principi fondanti della Costituzione repubblicana. Il diritto al lavoro è un diritto fondamentale: come facciamo a sostenere questo sistema economico predatorio neoliberista e ridurre il lavoro a merce? Dobbiamo ripristinare il diritto, e l’ha fatto l’Islanda con grande successo – nazionalizzando tutti i fattori della produzione. Se invece in Italia andiamo avanti così, sensa nazionalizzare niente, è sicuro che moriremo tutti.La finanza ci annienta con denaro fittizio: i derivati sono diventati 20 volte il Pil di tutti gli Stati del mondo. Noi italiani cosa siamo, degli imbecilli? Li potremmo far crollare abrogando leggi insulse che abbiamo approvato, facendo il male nostro. Addirittura i nostri rappresentati al Parlamento Europeo hanno detto sì al Ttip e al Ceta, cioè o trattati euro-atlantici che pretendono il risarcimento del danno se le multinazionali non riescono a piazzare in Italia i loro prodotti, che producono magari tumori. Per contro, quando sta succedendo potrebbe aiutare gli italiani a rendersi conto che devono essere uniti e opporsi al sistema predatorio e neoliberista. Evitando le delocalizzazioni, le liberalizzazioni e le privatizzazioni, e nazionalizzando il più possibile, gli italiani devono riprendersi il territorio che ci è stato tolto. Tornando al Quirinale: chi ha consigliato male il nostro presidente vuole il male dell’Italia, non in bene degli italiani. Il meccanismo neoliberista si fonda su precisi passaggi. Primo, creazione del denaro dal nulla. Derivati, cartolarizzazioni, Jobs Act, project-bond e tante altre cose, fatte con leggi incostituzionali. Quindi: privatizzazioni, liberalizzazioni. Nel 1990 abbiamo privatizzato tutte le banche pubbliche, primo atto assolutamente inconcepibile. Poi nel ‘92 abbiamo privatizzato l’Ina, l’Eni, l’Enel e l’Iri, con tutte le sue industrie. Ci siamo spogliati di tutto: il popolo italiano non produce più niente, è emarginato dall’economia. Come facciamo a pagare i nostri debiti? Anche quelli sono diventati una prestazione impossibile, ai sensi del codice civile. In un sistema predatorio, ogni giorno ci impoveriamo di più, ogni giorno il debito cresce.Poi addirittura questi signori pretendono che il debito diminuisca mettendo denaro da parte: ma il denaro non basta più neppure per arrivare a fine mese, è il sistema che deva cambiare. Questo sistema poi finisce con le svendite: tutto il settore alimentare se l’è preso la Francia insieme a quello della moda, il settore meccanico se l’è preso la Germania, mentre la Cina s’è preso il settore agricolo. Siamo mancanti di tutto, e manteniamo ancora questo sistema? Per fortuna la gente sta capendo che bisogna cambiare, sente che questo sistema fa male. E i due partiti che hanno avuto più voti sono stati antisistema. Vogliamo un altro sistema? Questo dovrebbe chiarito, alle prossime elezioni: vogliamo ancora il sistema predatorio che ci fa morire o vogliamo il sistema produttivo che ci fa vivere? Non ci sono più destra, sinistra e centro: sopra c’è la finanza speculativa e sotto ci sono gli schiavi, ci siamo noi. E gli schiavi ci sono anche negli Stati Uniti, in Cile, in Sudamerica, in Germania, in Francia. Bisogna rivitalizzare il senso della comunità politica e il senso della civiltà, perché è nella “civitas” che nasce la comunità. Altrimenti torniamo all’uomo-branco, dove piccoli branchi di speculatori finanziari uccidono tutti gli altri. E li stiamo anche legalizzando: quando il crimine diventa totale, allora lo si legalizza. Ma è un sistema suicida, illogico e riprovevole, dal quale dobbiamo uscire.(Paolo Maddalena, dichiarazioni rilasciate a Roberto Citrigno per l’intervista “E’ il momento di cambiare sistema”, trasmessa da “Pandora Tv” il 31 maggio 2018. Il professor Maddalena è vicepresidente emerito della Corte Costituzionale. Per l’editore Donzelli, Maddalena ha pubblicato nel 2014 il saggio “Il territorio bene comune degli italiani. Proprietà collettiva, proprietà privata e interesse pubblico”, seguito nel 2016 da “Gli inganni della finanza. Come svelarli, come difendersene”).Di fronte alla scelta di Mattarella di negare a Paolo Savona la nomina ministeriale ho provato disorientamento e abbattimento. Dal punto di vista strettamente costituzionale poteva dire “io non firmo”, perché l’articolo 90 della Costituzione conferisce al presidente potere di nomina. Ma nel caso di specie, dopo aver consentito a Di Maio e Salvini di fare un programma di governo e dopo aver dato l’incarico a Conte, la contrarietà a un singolo ministro per un fatto individuale trovo sia perlomeno politicamente inammissibile, comunque contraria alla volontà del popolo italiano e al corpo elettorale, che si è espresso chiaramente per cambiare il sistema. Gli italiani hanno espresso un voto antisistema, invece Mattarella – chiamando Cottarelli, che proviene dal Fmi – ha voluto ribadire il suo apprezzamento per il sistema neoliberista. Su questo il presidente sbaglia: tutto si può dire, tranne che il sistema neoliberista abbia portato dei buoni frutti. Ha aumentato le disuguaglianze in tutto il mondo. Ha cominciato Pinochet, che ha distrutto il Cile. Poi c’è stata la Thatcher in Inghilterra, dove il divario tra ricchi e poveri ha raggiunto livelli mai visti. Il neoliberismo è stato applicato da Reagan e poi soprattutto da Clinton negli Stati Uniti (che ora hanno reagito non confermando la Clinton e votando Trump: dalla padella alla brace).
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Africa impoverita, migranti in fuga dal neoliberismo usuraio
Il suo nuovo libro si chiama “I coloni dell’austerity. Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”. Ilaria Bifarini stavolta si concentra sullo sviluppo mai raggiunto dal continente africano, dopo averci parlato di “Neoliberismo e manipolazione di massa” nella sua prima opera di successo. L’economista, che si definisce ‘bocconiana redenta’ come da sua bio social, parte da alcune domande semplici, ma a cui nessuno ha ancora risposto: dove sono finiti i miliardi di aiuti umanitari ai paesi africani? Perché dopo la fine degli imperi coloniali non si è avviato un modello di sviluppo e di crescita? Cosa spinge gli attuali flussi migratori di massa provenienti dall’Africa subsahariana? “Lo Speciale” ha deciso di fare con lei un “viaggio” nell’economia del continente africano, cercando di scoprire le ragioni di tanto sfruttamento senza alcuna crescita. E’ corretto o è una visione parziale che gli aiuti all’Africa hanno ucciso l’Africa? Tra il 1970 e il 1998, il tasso di povertà è salito da 11% al 66% per questo? «Nonostante la narrazione buonista diffusa dal mainstream, quando si parla di aiuti in Africa si fa riferimento principalmente ai prestiti concessi per rimborsare e rinegoziare il debito, sotto la regia del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale».«Si tratta di somme di denaro legate a delle condizionalità, ossia all’implementazione di politiche neoliberiste, improntate alla massima apertura commerciale, alle liberalizzazioni, ai tagli alla spesa pubblica e alle privatizzazioni. In pratica una forma di ricatto che ha impedito all’Africa postcoloniale di uscire dalla trappola del sottosviluppo e anzi ne ha aumentato la povertà». Ma l’Africa non ha bisogno di investimenti infrastrutturali e modernizzazione dei sistemi per uscire dalla povertà? «L’Africa ha bisogno di liberarsi dal giogo dell’iperglobalizzazione, di proteggere i propri mercati e di sviluppare un’economia propria, basata sulla produzione e il consumo locale. Il modello imposto dalle organizzazioni internazionali, basato sul massimo ricorso al libero scambio, prevede che si esportino beni di prima necessità sottratti al consumo e si importi il resto, impedendo così la nascita di un’industria locale. L’emigrazione non può essere una soluzione per queste economie, sebbene molti sostengano che le rimesse di denaro nei paesi di origine possano aiutare l’economia locale. Esse in realtà non danno alcun impulso allo sviluppo di iniziative e imprese locali, ma arricchiscono solo il fiorente business delle società di trasferimento di denaro».Secondo la sua tesi, invece, il debito pubblico è uno strumento già utilizzato in Africa per impedire crescita e per improntare la globalizzazione della povertà. È proprio un’altra visione. Da quali prove la fa partire? «Proprio a seguito della crisi del debito del Terzo Mondo del 1982 sono stati introdotti i cosiddetti piani di aggiustamento strutturale. Questi programmi prevedono l’accettazione totale e acritica da parte dei paesi poveri del modello economico neoliberista, presentato come condizione indispensabile per lo sviluppo e per l’uscita dalla crisi. Gli effetti disastrosi sono sotto gli occhi di tutti. L’Africa è entrata nella spirale del pagamento degli interessi del debito: dal 1982 al 1990 ha restituito 400 miliardi di dollari di soli interessi. Una situazione che presenta molte analogie con quella che stiamo vivendo in Europa e in Italia in particolare».La Cina è in Africa e più che quella comunista è quella capitalista, le due cose ormai si fondono. Come è potuta accadere questa “rivoluzione” e perché l’Africa è così appetibile da chi commercia e chi vuole produrre «L’Africa è il continente più ricco al mondo di risorse naturali e minerarie, è quindi un ottimo mercato per la Cina, che pure deve far fronte alla propria pressione demografica e alla sempre maggiore richiesta di beni. I funzionari cinesi hanno stimato che il loro paese ha necessità di inviare in Africa ancora 300 milioni di persone per risolvere i problemi interni di sovrappopolazione e inquinamento. La Cina sta occupando l’intero continente africano, concedendo prestiti a tassi bassissimi e appropriandosi di tutti i settori strategici e i ricchi giacimenti di risorse naturali. Per contro la popolazione africana ripone speranze e fiducia nel Dragone cinese che, a differenza dei paesi occidentali, non ha un passato coloniale e non impone il proprio modello economico e sociale».(Ilaria Bifarini, “La spirale del debito neoliberista ha ucciso l’Africa, ora l’Europa”, intervista rilasciata a “Lo Speciale” il 27 marzo 2018. Il libro: Ilaria Bifarini, “I coloni dell’austerity”, sottititolo “Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”, 205 pagine, edito da Amazon, con prefazione di Giulietto Chiesa).Il suo nuovo libro si chiama “I coloni dell’austerity. Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”. Ilaria Bifarini stavolta si concentra sullo sviluppo mai raggiunto dal continente africano, dopo averci parlato di “Neoliberismo e manipolazione di massa” nella sua prima opera di successo. L’economista, che si definisce ‘bocconiana redenta’ come da sua bio social, parte da alcune domande semplici, ma a cui nessuno ha ancora risposto: dove sono finiti i miliardi di aiuti umanitari ai paesi africani? Perché dopo la fine degli imperi coloniali non si è avviato un modello di sviluppo e di crescita? Cosa spinge gli attuali flussi migratori di massa provenienti dall’Africa subsahariana? “Lo Speciale” ha deciso di fare con lei un “viaggio” nell’economia del continente africano, cercando di scoprire le ragioni di tanto sfruttamento senza alcuna crescita. E’ corretto o è una visione parziale che gli aiuti all’Africa hanno ucciso l’Africa? Tra il 1970 e il 1998, il tasso di povertà è salito da 11% al 66% per questo? «Nonostante la narrazione buonista diffusa dal mainstream, quando si parla di aiuti in Africa si fa riferimento principalmente ai prestiti concessi per rimborsare e rinegoziare il debito, sotto la regia del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale».