Archivio del Tag ‘risarcimenti’
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Mazzucco: vaccini, vergogna nazionale. E i 5 Stelle, complici
Vaccini non sempre utili e non sempre sicuri, non testati come gli altri farmaci, e in alcuni casi pericolosi (letali) per i bambini. Vaccini non “spiegati”, imposti senza la necessaria trasparenza. E pagati dai cittadini con le tasse, a prezzi salatissimi: il costo è schizzato alle stelle dopo l’introduzione dell’obbligatorietà. In caso di problemi, chi paga? Sempre noi, con le imposte, perché è lo Stato a risarcire i danneggiati. Peggio ancora: il piano, evidente, mira a imporre l’obbligo a tutti, anche agli adulti (come in Argentina, dove alle vaccinazioni è vincolato il rinnovo del passaporto, come quello della patente di guida). Come chiamarlo, questo schifo? E poi: possibile che non ci sia un cane di politico che lo denunci? Non dovevano essere lì per quello, i 5 Stelle? Non a caso, infatti, sono stati votati da milioni di italiani. Molti dei quali oggi sono letteralmente inferociti: «Il mio voto non lo avranno mai più», annuncia Massimo Mazzucco, che accusa Giulia Grillo di essere la fotocopia di Beatrice Lorenzin. I militanti più irriducibili “perdonano” i grillini, perché se non cedessero al ricatto-vaccini finirebbero fuori dal governo? Tanto meglio, dice Mazzucco: se avessero il coraggio di denunciare il marcio, avete idea di come la prenderebbero, gli elettori? Se i 5 Stelle si dimettessero in nome della sicurezza sanitaria dei cittadini, il giorno dopo verrebbe giù l’Italia. Ma non lo fanno: e questo ci fa capire chi sono, veramente.
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Le 10 bufale sulla Torino-Lione, il Tav più inutile del mondo
Un sindacalista, un magistrato, un docente universitario. Ci si mettono in tre, a spiegare – ancora una volta – che la maledizione chiamata Tav Torino-Lione è assolutamente evitabile, per il bene di tutti, e senza alcuna conseguenza. O meglio: l’inutile traforo su cui si litiga da decenni, senza che ancora ne sia stato scavato nemmeno un centimetro, né Italia né in Francia, è bene che venga rottamato tra i progetti che raccontano la follia di epoche lontane. Dato che la disinformazione impera a reti unificate, specie dopo la ridicola manifestazione delle “madamine” torinesi (non una parola per spiegare la necessità della grande opera), a fornire ragguagli inoppugnabili provvedono Paolo Mattone dei Cobas, il giudice Livio Pepino (già consigliere della Cassazione) e il professor Angelo Tartaglia del Politecnico di Torino. Su “Volere la Luna”, smontano tutte le dicerie su cui si basa la leggenda (miliardaria) dell’ipotetica alta velocità Italia-Francia: voci e superstizioni che la stampa non si premura mai di verificare, facendo semplicemente da grancassa al declinante establishment italo-piemontese. «La prosecuzione del progetto non ha alcuna utilità economica o necessità giuridica e si spiega solo con gli interessi di gruppi finanziari privati e con le esigenze di immagine di un ceto politico che sarebbe definitivamente travolto dal suo abbandono. Perché, dunque, continuare?».Il “contratto di governo” tra Movimento 5 Stelle e Lega prevede, con riguardo alla nuova linea ferroviaria Torino-Lione, «l’impegno a ridiscutere integralmente il progetto nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia». Tanto è bastato, sostengono i tre, a produrre un duplice effetto: da un lato si è finalmente aperto un dibattito sulla effettiva utilità dell’opera, «fino a ieri esorcizzato dalla rappresentazione del movimento No Tav, complice la Procura della Repubblica di Torino, come un insieme di trogloditi e di terroristi». Dall’altro, l’atteggiamento razionale del governo «ha mandato in fibrillazione i promotori (pubblici e privati) dell’opera, l’establishment affaristico, finanziario e politico che la sostiene e i grandi media che ne sono espressione (“Stampa” e “Repubblica” in testa) che, non paghi di ripetere luoghi comuni ultraventennali sulla necessità dell’opera per evitare l’isolamento del Piemonte dall’Europa (sic!), hanno cominciato ad evocare fantasiose penali in caso di recesso dell’Italia». In attesa delle indicazioni della commissione preposta all’analisi costi-benefici e delle conseguenti decisioni politiche, è dunque utile fare il punto sulla situazione, partendo dall’esame delle affermazioni più diffuse circa l’utilità della Torino-Lione, il cui impatto sarebbe di per sé devastante: vent’anni di cantieri, urbanistica sconvolta, montagne piene di amianto e uranio, rischi idrogeologici catastrofici.Primo assunto “teologico” del Tav in valle di Susa, rilanciato da Sergio Chiamparino: «La nuova linea ha una valenza strategica e unirà l’Europa da est a ovest». Il governatore del Piemonte evoca un collegamento tra l’Atlantico e il Pacifico, «senza considerare che la stazione atlantica è scomparsa nel 2012 con la rinuncia del Portogallo, e che dalla prevista stazione finale di Kiev mancano, per arrivare a Vladivostok e al Pacifico, oltre 7.000 chilometri». Una prospettiva «priva di ogni riscontro reale, posto che una linea ferroviaria ad alta capacità-velocità non è prevista in modo compiuto neppure in Lombardia e Veneto». Peggio: il tratto sloveno non esiste nemmeno sulla carta, mentre in Ungheria e Ucraina nessuno sa che cosa sia il Corridoio 5, come inizialmente si chiamava la linea. «Al netto di bufale interessate e di anacronistici sogni di grandeur – scrivono Mattone, Pepino e Tartaglia – la verità non è quella di una nuova “via della seta” ma, assai più prosaicamente, del solo collegamento ferroviario tra Torino e Lione (235 chilometri, comprensivi di un tunnel di 57 chilometri)», già coperto dall’attuale linea valsusina Torino-Modane «ripetutamente ammodernata e utilizzata per un sesto delle sue potenzialità».Seconda bufala: «La nuova linea creerà nuovi orizzonti di traffico». Non è così, spiegano i tre analisti. Il trasporto merci su rotaia attraverso il Fréjus (di passeggeri non si parla più da vent’anni) è in caduta libera dal 1997, e da allora si è ridotto del 71%. Lo ammette persino l’Osservatorio istituito presso la Presidenza del Consiglio, riconoscendo che «molte previsioni fatte 10 anni fa, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali dell’Unione Europea, sono state smentite dai fatti». Nello stesso periodo, i traffici nella direzione Italia-Svizzera hanno continuato a crescere: del 43% nel periodo 1997-2007, quando pure le linee ferroviarie italo-svizzere, con pendenze analoghe, passavano attraverso tunnel ad altitudine simile a quella del Fréjus: il tunnel del Lötschberg, lungo 14,6 chilometri a 1400 metri di quota, e quello storico del San Gottardo, lungo 15 chilometri a 1151 metri di quota, in uso fino al 2016. Parallelamente, il volume del traffico complessivo attraverso la frontiera italo-francese (compreso quello su strada) è diminuito del 17,7%. Ciò dimostra che le ragioni della caduta di traffico sono strutturali e non hanno nulla a che vedere con le caratteristiche tecniche della linea ferroviaria, il cui ammodernamento non attira di per sé solo nuovo traffico. Lungo la direttrice transalpina est-ovest è in atto da tempo una tendenza al calo del flusso di merci, mentre lungo l’asse italo-svizzero e quello italo-austriaco il traffico ha continuato a crescere, anche se dopo il 2010 ha rallentato.Una interpretazione ragionevole? «Le direttrici nord-sud collegano il cuore dell’Europa con i porti della sponda nord del Mediterraneo e da lì con l’estremo oriente». I mercati della Cina e del Sud-Est Asiatico? «Sono lontani dalla saturazione e per di più quel sistema produttivo è in grado di fornire merci di rimpiazzo delle nostre a prezzi nettamente più bassi». Viceversa, l’asse est-ovest collega mercati intereuropei fra loro simili e in condizioni di saturazione materiale. In altre parole: non ci sono più merci da far circolare. Niente, comunque, che richieda nuovi canali di comunicazione: quelli attuali sono semi-deserti. Già questo smentisce il terzo assunto “teologico” del fronte pro-Tav, secondo cui «il collegamento ferroviario Italia-Francia deve essere ammodernato perché obsoleto e fuori mercato a causa di limiti strutturali inemendabili». Precisa, anche qui, la replica di Mattone, Pepino e Tartaglia: «Dopo la favola dell’imminente saturazione della linea storica, sostenuta contro ogni evidenza per vent’anni, i proponenti dell’opera e i loro sponsor politici si attestano ora su presunte esigenze dettate dalla modernità, che imporrebbe di «trasformare – con il tunnel transfrontaliero di 57 chilometri – l’attuale tratta di valico in una linea di pianura, così permettendo l’attraversamento di treni merci aventi masse di carico pari a quasi il triplo di quelle consentite dal Fréjus».La debolezza della tesi è di tutta evidenza: «Se infatti il traffico è in costante diminuzione e agevolmente assorbito dalla linea storica con le pendenze che la caratterizzano (e che per di più – come si è visto – non sono state di ostacolo all’aumento del traffico ferroviario tra Italia e Svizzera) a che serve un intervento modificativo che comporta rischi ambientali enormi e una spesa di miliardi?». A giustificarlo, secondo i tre analisti, c’è soltanto «una cultura sviluppista senza limiti, sempre più anacronistica». Quarta diceria: «I costi dell’opera sono assai più ridotti di quanto si dica, ammontando per l’Italia a soli 2, massimo 3 miliardi di euro». Per Mattone, Pepino e Tartaglia «siamo di fronte a una sorta di “gioco delle tre carte”, assai poco rispettoso della verità e dell’intelligenza degli italiani (e dei francesi)». Il costo dell’intera opera, infatti, è stato determinato dalla Corte dei Conti francese nel 2012 – senza successivi aggiornamenti o rettifiche – in 26 miliardi di euro, di cui 8,6 miliardi destinati alla tratta transnazionale, per la quale è previsto un finanziamento europeo pari, nella ipotesi più favorevole, al 40% del valore (3,32 miliardi di euro).I dati diffusi dai fautori dell’opera riguardano invece la sola tratta internazionale, che – data la scelta del governo italiano di proceder per fasi (il cosiddetto “progetto low cost”) – dovrebbe essere costruita per prima, anche a prescindere dalla prevedibile dilatazione dei costi: il 28 febbraio 2018, il Cipe ha portato a 6,3 miliardi di euro il «costo complessivo di competenza italiana per la sezione transfrontaliera», indicato poco più di due anni prima in 2,56 miliardi). In altre parole, siamo di fronte a un puro artificio contabile, visto che l’ulteriore spesa «non viene affatto annullata, ma semplicemente differita». Ovvero: si parla solo di quei “2-3 miliardi” (già diventati 6,3) senza più citare gli altri 20-25 miliardi quantificati dalla magistratura contabile francese. Ma non è tutto. I supporter del Tav provano anche a tingersi di verde: «Il potenziamento del trasporto su rotaia – dicono – è finalmente una scelta di tutela dell’ambiente». Giusto, se si intendesse: abbandoniamo le autostrade e trasferiamo i Tir sulla rete ferroviaria esistente (la stessa Torino-Modane in valle di Susa supporterebbe perfettamente i treni con a bordo i camion, se solo esistessero). Qui invece si prevede «la costruzione ex novo di un’opera ciclopica», con un impatto notoriamente insostenibile sul piano ambientale.Mattone, Pepino e Taraglia citano «gli effetti dello scavo di un tunnel di 57 chilometri in una montagna a forte presenza di amianto e uranio con un cantiere ventennale che produrrà un inquinamento certo, a fronte di un recupero successivo del tutto incerto», senza contare gli ingenti consumi energetici per il sistema di raffreddamento del tunnel, la cui temperatura interna sarà superiore ai 50 gradi. E’ dipo ecologista (ma altrettanto infondato) anche il “sesto comandamento” della Torino-Lione: «Con il Tav diminuiranno, comunque, i Tir sull’autostrada e il connesso inquinamento». Anche questa, replicano i tre analisti, è una pura petizione di principio, con la quale si dà per certo lo spontaneo abbandono dell’autostrada da parte dei Tir e il loro passaggio alla ferrovia – tutto da dimostrare, e legato a variabili future e incerte (costi, e non solo). Ma c’è di più. Se davvero si volesse trasferire il traffico dalla gomma alla rotaia, basterebbe imporre – come in Svizzera – pedaggi salatissimi agli autotreni. In Italia si procede al contrario: incentivi per il carburante e pedaggi autostradali in favore dei camionisti. «Passare dagli incentivi alle penalizzazioni sarebbe certo una sfida complessa». La follia italiana dei pro-Tav? «Millantare aspirazioni ecologiste mentre si praticano politiche contrarie».Settima bufala: «La realizzazione della Torino-Lione è una straordinaria occasione di crescita occupazionale che sarebbe assurdo accantonare, soprattutto in epoca di crisi economica». L’affermazione, dicono Mattone, Pepino e Tartaglia, «è un caso scolastico di mezza verità trasformata in colossale inganno». Che la costruzione di un’opera (anche dannosa) produca posti di lavoro, è incontestabile. Ma il punto è un altro: posto che serva, quest’opera, quanto lavoro genera, rispetto ad altri possibili investimenti? Servono calcoli precisi, soprattutto in una situazione come questa, in cui non ci sono risorse per tutto e un investimento ne esclude altri. «Orbene, l’esperienza dimostra in modo inoppugnabile che un piano di messa in sicurezza del territorio è molto più utile (superfluo ricordarlo nell’Italia dei crolli, delle frane e delle esondazioni) e assai più efficace in termini di creazione di posti di lavoro di qualunque infrastruttura ciclopica». Le grandi opere, infatti, sono «investimenti ad alta intensità di capitale e a bassa intensità di mano d’opera (con pochi posti di lavoro per miliardo investito e per un tempo limitato), mentre gli interventi diffusi di riqualificazione del territorio e di aumento dell’efficienza energetica producono un’alta intensità di manodopera a fronte di una relativamente bassa intensità di capitale (con creazione di più posti di lavoro per miliardo investito e per durata indeterminata)». La Torino-Lione, quindi, «è tutt’altro che l’affare evocato dai proponenti e dai loro sponsor politici».Ottava leggenda: «Trent’anni fa si sarebbe potuto discutere, ma oggi i lavori sono ormai in uno stato di avanzata realizzazione e non si può tornare indietro». Affermazione priva di ogni consistenza: «Del tunnel transfrontaliero, infatti, non è stato a tutt’oggi scavato neppure un centimetro». Sono state realizzate solo opere preparatorie, tra cui lo scavo in territorio francese di 5 chilometri di tunnel geognostico «impropriamente spacciato, in decine di filmati e interviste a tecnici e politici, per l’inizio del traforo ferroviario». Le piccole opere propedeutiche si sono già mangiate un miliardo e mezzo di euro, ma ciò rende solo più urgente una decisione, che deve intervenire prima dell’inizio dei lavori per la realizzazione del tunnel di base e i cui termini sono drammaticamente semplici: a fronte di un’opera dannosa per gli equilibri ambientali e per le finanze pubbliche (come dimostrato dalle analisi di costi e benefici effettuate da studiosi accreditati come il francese Prud’Homme e gli italiani Debernardi e Ponti), conviene di più contenere i danni – mettendo una croce sul miliardo e mezzo colpevolmente speso sino ad oggi – o continuare in uno spreco di miliardi?L’ultima nata delle motivazioni pro-Tav è la sicurezza: «Per mettere in sicurezza il tunnel storico del Fréjus serviranno a breve da 1,4 a 1,7 miliardi di euro: meglio, anche sul piano economico, costruirne uno nuovo». Ovvero: «Il tunnel esistente dovrebbe essere adeguato a caro prezzo in quanto a canna singola e doppio binario e senza vie di fuga intermedie; non ne vale la pena e tanto vale abbandonarlo per sostituirlo con il nuovo super-tunnel di base». Se le motivazioni fossero quelle addotte, un intervento ben più urgente ‒ a cui destinare le scarse risorse disponibili (e del quale, curiosamente, nessuno parla) – dovrebbe essere effettuato sulla linea ad alta velocità Bologna-Firenze, con quasi 74 chilometri di gallerie (la più lunga, quella di Vaglia, di 18,713 chilometri, cinque in più del Fréjus) tutte a canna singola e doppio binario, senza tunnel di soccorso, con un traffico molto più intenso che al Fréjus e in buona parte ad alta velocità. Né va dimenticato che nella galleria del Fréjus sono stati effettuati lavori di adeguamento tra il 2003 e il 2011 spendendo qualche centinaio di milioni di euro: per la parte francese, «l’intervento è stato effettuato al risparmio e in difformità da quanto correttamente (una volta tanto) fatto nella parte italiana». Ai francesi, «che già hanno provveduto ad addossare all’Italia (col consenso di un nostro distratto Parlamento) una parte dell’eventuale costo del nuovo tunnel di base decisamente sbilanciata a loro favore», occorrerebbe chieder conto delle carenze del tunnel “storico” dovute al loro modo di lavorare.In conclusione: qualcuno è in grado di spiegare perché mai bruciare 20-30 miliardi nell’inceneritore della Torino-Lione? Per non pagare le salatissime penali previste in caso di rinuncia, ripetono i pro-Tav, che parlano di sanzioni «fino a un ammontare di due miliardi e 500 milioni». Qui, protestano Mattone, Pepino e Tartaglia, «siamo di fronte a una bufala allo stato puro: non esiste, infatti, alcun documento europeo sottoscritto dall’Italia che preveda penali o risarcimenti di qualsivoglia tipo in caso di ritiro dal progetto». Gli accordi bilaterali tra Francia e Italia «non prevedono alcuna clausola che accolli a una delle parti, in caso di recesso, compensazioni per lavori fatti dall’altra parte sul proprio territorio». In caso di appalti aggiudicati, il nostro codice civile prevede che, ove il soggetto appaltante decida di annullarli, le imprese danneggiate hanno diritto a un risarcimento comprensivo della perdita subita e del mancato guadagno che ne sia conseguenza immediata (per un ammontare che, di regola, non supera il 10% del valore dell’appalto). Ma finora non è stato aggiudicato (e nemmeno bandito) nessun appalto, per il tunnel di base. Il Grant Agreement del 25 novembre 2015, sottoscritto da Italia, Francia e Unione Europea, dispone che «nessuna delle parti ha diritto di chiedere un risarcimento in seguito alla risoluzione ad opera di un’altra parte», prevedendo sanzioni amministrative e pecuniarie nel solo caso in cui il beneficiario di un contributo abbia commesso irregolarità o frodi. I finanziamenti europei sono erogati solo in base all’avanzamento dei lavori, quindi la rinuncia non comporta alcun dovere di restituzione dei contributi (mai ricevuti). Dati incontrovertibili: una panoramica decisamente vertiginosa. E’ possibile parlare di una grande opera per vent’anni, esasperando la popolazione, senza mai degnarsi di elargire uno straccio di verità?Un sindacalista, un magistrato, un docente universitario. Ci si mettono in tre, a spiegare – ancora una volta – che la maledizione chiamata Tav Torino-Lione è assolutamente evitabile, per il bene di tutti, e senza alcuna conseguenza. O meglio: l’inutile traforo su cui si litiga da decenni, senza che ancora ne sia stato scavato nemmeno un centimetro, né Italia né in Francia, è bene che venga rottamato tra i progetti che raccontano la follia di epoche lontane. Dato che la disinformazione impera a reti unificate, specie dopo la ridicola manifestazione delle “madamine” torinesi (non una parola per spiegare la necessità della grande opera), a fornire ragguagli inoppugnabili provvedono Paolo Mattone dei Cobas, il giudice Livio Pepino (già consigliere della Cassazione) e il professor Angelo Tartaglia del Politecnico di Torino. Su “Volere la Luna”, smontano tutte le dicerie su cui si basa la leggenda (miliardaria) dell’ipotetica alta velocità Italia-Francia: voci e superstizioni che la stampa non si premura mai di verificare, facendo semplicemente da grancassa al declinante establishment italo-piemontese. «La prosecuzione del progetto non ha alcuna utilità economica o necessità giuridica e si spiega solo con gli interessi di gruppi finanziari privati e con le esigenze di immagine di un ceto politico che sarebbe definitivamente travolto dal suo abbandono. Perché, dunque, continuare?».
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Travaglio: Sì Tav, le ridicole frottole della Banda del Buco
Dopo aver sorseggiato i fiumi d’inchiostro versati dai “giornaloni” sull’oceanica manifestazione Sì Tav del 3 novembre a Torino, «che ha visto sfilare nientepopodimenoché un torinese su 35 o un piemontese su 177», una domanda sorge spontanea: cosa sapeva tutta questa brava gente del Tav Torino-Lione? «Si spera vivamente che ne sapesse un po’ di più di una delle sette “madamine” organizzatrici dell’evento, Patrizia Ghiazza, cacciatrice di teste all’evidenza sfortunata», che l’altra sera esibiva tutta la sua competenza a “Otto e mezzo”, ammettendo: «Né io né le altre organizzatrici siamo competenti per poter entrare nel merito degli aspetti tecnici e ambientali dell’opera». Sul serio? «Non male – scrive Marco Travaglio – per una manifestazione apolitica e apartitica, ma soltanto tecnica, sul merito del treno merci ad alta velocità (anzi, a bassa, perché le merci di solito viaggiano a non più di 100-120 km l’ ora)». Essendosi “informati” sui giornaloni che hanno sponsorizzato la Lunga Marcia, aggiunge Travaglio sul “Fatto Quotidiano”, «era prevedibile che organizzatori e partecipanti ne sapessero pochino, e che quel pochino fosse falso». Infatti «sventolavano cartelli “Sì alla Tav”, ignorando che è l’acronimo di Treno Alta Velocità, dunque è maschile, con buona pace di “Stampubblica” che ha spacciato l’iniziativa per una “rivolta delle donne” contro non si sa bene cosa, anche se in piazza sfilavano soprattutto maschietti di una certa età».L’acronimo, fra l’altro, è una patacca (femminile), perché per le merci l’espressione giusta è Treno ad Alta Capacità (Tac). «I marciatori, e Salvini a ruota, ripetevano che l’opera va assolutamente “completata”: ma un’opera – sottolinea Travaglio – si completa quando è già iniziata, e qui non è stato costruito nemmeno un millimetro di ferrovia». Il cantiere che tutti vedono da 7 anni è quello del tunnel esplorativo di Chiomonte, che «nulla a che vedere con l’opera vera e propria, il “tunnel di base”, cioè il mega-buco dovrebbe attraversare 57 chilometri di montagna e che fortunatamente non esiste: le gare d’appalto non sono state neppure bandite». Dunque, insiste Travaglio, non c’è nulla da completare. Qualcuno sogna di salire un giorno a bordo del mirabolante supertreno? Escludendo che i Sì Tav si considerino merci, resteranno mestamente a terra anche se l’opera venisse realizzata. «Chi volesse invece raggiungere ad alta velocità Parigi o Lione da Milano o da Torino, può montare sul comodo Tgv, che dalla notte dei tempi percorre rapidamente quella tratta». Ma i nostri eroi «strillano contro “l’isolamento dell’Italia” e per il “collegamento con l’Europa”, evidentemente ignari dell’esistenza del Tgv da e per la Francia, dei treni veloci da e per la Svizzera e così via».Forse, aggiunge Travagalio, pensano che per affacciarsi oltre la cinta daziaria sia necessario scalare le Alpi a piedi? “Monsù e madamine” saranno tutti interessati al trasporto merci? «Benissimo, allora possono stare tranquilli: le loro merci da trasportare ad altissima velocità da Torino a Lione possono depositarle in uno a caso dei container (perlopiù vuoti) che ogni giorno viaggiano sui treni della tratta Torino-Modane-Chambéry-Culoz, che dal 1871 attraversa il Frejus, ci è appena costata 400 milioni per lavori di ammodernamento ed è inutilizzata all’80-90%». Alla marcia torinese c’era pure Paolo Foietta, commissario dell’Osservatorio Tav: qualcuno avrebbe potuto domandargli con che faccia sostenga ancora l’utilità dell’opera, dopo avere scritto un anno fa al governo Gentiloni che «molte previsioni fatte 10 anni fa, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali della Ue, sono state smentite dai fatti». E chissà se quanti invocano “lavoro” sanno che «attualmente nel cantiere lavorano appena 800 persone, che salirebbero a non più di 3-4mila per il tunnel di base, con un costo stratosferico per ogni occupato». La delibera 67 emanata dal Cipe nel 2017 stima il costo complessivo del solo tunnel di base in 9,6 miliardi: il 57,9% lo paga l’Italia e solo il 42,1 la Francia (anche se il tunnel insiste per l’80% in territorio francese e solo per il 20 in territorio italiano: perché?). E chissà se chi si riempie la bocca di paroloni come “futuro”, “sviluppo”, “modernità” è stato informato che, in 17 anni di studi e carotaggi, «abbiamo già buttato 1,6 miliardi, oltre a tenere la val di Susa in stato d’assedio permanente».Ora, continua Travaglio, servono sulla carta un’altra quindicina di miliardi, che poi nella realtà salirebbero a 20-25, dato che «le grandi opere in Italia lievitano in media del 45%». È questa la “decrescita infelice” che ci attenderebbe, per colpa del Tav, e non «quella di chi si oppone a un’opera ad altissima voracità e a bassissima occupazione». E chi vaneggia di “penali da pagare” o di “fondi europei da restituire” o “da non perdere”, secondo Travaglio «ignora che la parola “penale” non compare in alcun contratto o accordo con la Francia, con l’Ue o con ditte private». L’Italia, sul suo tracciato, può fare ciò che vuole. Recita la legge 191 del 2009: “Il contraente o l’affidatario dei lavori deve assumere l’impegno di rinunciare a qualunque pretesa risarcitoria eventualmente sorta in relazione alle opere individuate… nonché ad alcuna pretesa, anche futura, connessa al mancato o ritardato finanziamento dell’intera opera o di lotti successivi”. Quanto all’Ue, assicura Travaglio, «finanzia solo lavori ultimati: se il Tav non si fa più, l’Italia non deve restituire un euro». Ora però le nostre disinformate “madamine” si sono montate la testa: «Chiedono udienza al Quirinale, danno ordini alla sindaca Appendino e al governo Conte», come se 25.000 persone in piazza contassero più dei quasi 11 milioni di italiani che hanno votato per i 5 Stelle (NoTav) nel 2018 e degli oltre 202.000 torinesi che nel 2016 hanno eletto la sindaca NoTav Chiara Appendino contro il Sì Tav Piero Fassino. «Invece i NoTav, che negli anni hanno portato in piazza ora 40 ora 50.000 persone, non se li è mai filati nessuno. A parte, si capisce, i manganelli della polizia».Dopo aver sorseggiato i fiumi d’inchiostro versati dai “giornaloni” sull’oceanica manifestazione Sì Tav del 3 novembre a Torino, «che ha visto sfilare nientepopodimenoché un torinese su 35 o un piemontese su 177», una domanda sorge spontanea: cosa sapeva tutta questa brava gente del Tav Torino-Lione? «Si spera vivamente che ne sapesse un po’ di più di una delle sette “madamine” organizzatrici dell’evento, Patrizia Ghiazza, cacciatrice di teste all’evidenza sfortunata», che l’altra sera esibiva tutta la sua competenza a “Otto e mezzo”, ammettendo: «Né io né le altre organizzatrici siamo competenti per poter entrare nel merito degli aspetti tecnici e ambientali dell’opera». Sul serio? «Non male – scrive Marco Travaglio – per una manifestazione apolitica e apartitica, ma soltanto tecnica, sul merito del treno merci ad alta velocità (anzi, a bassa, perché le merci di solito viaggiano a non più di 100-120 km l’ora)». Essendosi “informati” sui giornaloni che hanno sponsorizzato la Lunga Marcia, aggiunge Travaglio sul “Fatto Quotidiano”, «era prevedibile che organizzatori e partecipanti ne sapessero pochino, e che quel pochino fosse falso». Infatti «sventolavano cartelli “Sì alla Tav”, ignorando che è l’acronimo di Treno Alta Velocità, dunque è maschile, con buona pace di “Stampubblica” che ha spacciato l’iniziativa per una “rivolta delle donne” contro non si sa bene cosa, anche se in piazza sfilavano soprattutto maschietti di una certa età».
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“Chi sbaglia paghi, ma non sparate su giudici e carabinieri”
La condanna definitiva all’ergastolo per Massimo Bossetti, sul caso Yara Gambirasio? Direi che “ingiustizia è fatta”, nel senso che il rifiuto di esaminare certe prove, prima della sentenza di primo grado, la dice lunga sul tipo di qualità di questa risposta processuale. C’è anche il rifiuto di considerare le nuove prove: sono emerse soltanto in sede di appello, e solo per l’imperizia e la superficialità delle indagini. Io non sono convinto della colpevolezza di Bossetti. Tutto questo serve a coprire altre responsabilità? Non sono in grado di certificarlo, ma sicuramente ne ho il sospetto. O meglio, più che di “coperture”, parlerei di depistaggio: probabilmente è stata depistata l’indagine. Continuamente, in questo processo, sono successe cose gravi. Altrettanto grave il tentativo di depistaggio, da parte dei carabinieri, delle indagini sull’uccisione di Stefano Cucchi. Credo che sia un caso esemplare di giustizia depistata. La qualità media dei magistrati italiani, beninteso, è ottima. Poi ci sono casi in cui la qualità non è ottima, e c’è anche un ego, una volontà di protagonismo particolare, per cui il magistrato si presta a cadere in errore, incaponendosi nella sua convinzione – magari in buona fede, senza accorgersi di essere stato depistato. Però la fisiologia dell’errore esiste in tutti i meccamismi umani. L’errore non è un’anomalia: la percentuale di errori è una normalità, una fisiologia.Gli esseri umani sbagliano un certo numero di cose che fanno – che siano avvocati, magistrati, geometri, architetti o cuochi, non cambia. E’ assolutamente normale: la gente non si deve scandalizzare, deve sapere che gli uomini sbagliano. Il problema è quando, dietro l’errore, per una scarsa qualità dell’approccio alla situazione, c’è il fatto di non volersi accorgere (o di non riuscire ad accorgersi) di esser stati anche indotti, in errore. Noi però vogliamo le cose perfette: non accettiamo che l’errore sia anche un aspetto fisiologico delle cose che facciamo. Come diceva Luca Pacioli, nel suo meraviglioso “De Divina Proportione” illustrato da Leonardo: sovente, gli errori sono più importanti delle cose “juste”, perché la maggior parte delle cose “juste” nascono proprio dagli errori. Dato che la maggior parte dei magistrati è un buona fede, anche quando vengono depistati, si deve parlare per lo più di “errore”. Solo che, una volta che sono partiti e sono convinti dell’accusa, non si fermano più. Generalmente, lì prevale l’ego. Quella dei magistrati in cattiva fede è una percentuale irrisoria. Il loro è un lavoro per certi aspetti duro, che ti mette continuamente a confronto con la sofferenza: quindi è uno di quei mestieri che migliorano l’essere umano (non lo peggiorano).Chi li induce in errore, invece, è un altro tipo di persona: è il vero criminale. Non sempre le azioni di despistaggio vedono la complicità di chi svolge le indagini. Le azioni di depistaggio sono sofisticate, e vengono sempre dall’esterno. Fa eccezione il caso Cucchi, dove c’era un’autodifesa corporativistica dell’Arma, che è stata un danno drammatico per l’Arma dei carabinieri stessa. L’Arma deri carabinieri non è un organo d’indagine comune. Ha una storia, una rilevanza sociale e una connessione gerarchica fino a poco tempo fa molto particolare, diversa da quella degli altri organi di polizia e dell’esercito. E questo suo nascere a metà strada tra l’esercito e la polizia, tra funzione interna e funzione esterna, questo suo rispondere direttamente alla presidenza della Repubblica (i carabinieri sono gli unici a giurare fedeltà al presidente della Repubblica, oltre che allo Stato e alla Costituzione), ovviamente può produrre anche difese politiche corporativistiche di quest’Arma, che per noi è un punto d’orgoglio.Nei carabinieri, lo spirito di corpo è qualcosa di particolare. E nel caso Cucchi ha prodotto qualcosa di estremamente negativo, oserei dire quasi criminale, per cui bisognerebbe che l’indagine futura risalisse anche alla catena gerarchica per vedere quanti erano al corrente di quello che si stava facendo, incluso il maresciallo che probabilmente verrà accusato di responsabilità nell’aver fatto sparire la nota di servizio del carabiniere che poi si è ravveduto e ha parlato. E quanti altri, nella catena gerarchica, erano al corrente della sparizione di quella nota? Questo va fatto nell’interesse dei carabinieri, e per l’amore che io personalmente, in quanto italiano, porto all’Arma dei carabinieri. Perché, oltre a essere danneggiato il povero Cucchi, insieme alla sua famiglia (alla quale nessuno di noi può negare solidarietà, unendosi al suo dolore), è molto danneggiata anche l’Arma dei carabinieri – che questo danno non se lo merita. L’accaduto pregiudica la dignità dell’Arma, e noi dobbiamo tutelarla da questo pregiudizio. La stessa Arma dei carabinieri deve fare pulizia, per riscattare il proprio onore.Certo, ci sono anche casi come la morte di Marco Pantani o quella di David Rossi a Siena, nella sede centrale del Monte dei Paschi: la contaminazione della scena del crimine è possibile solo con la complicità di chi svolge le indagini. Ma ci sono manipolazioni e depistaggi che non prevedono la complicità di chi indaga: prevedono solo la “fessaggine” occasionale, da parte degli inquirenti. Le cose umane si ripetono sempre secondo gli stessi schemi. Che succedano nell’Arma dei carabinieri, nella Guardia di Finanza o nei paracadutisti (dove ci sono tanti suicidi) è solo una contingenza. Il meccanismo è sempre lo stesso: puntiamo al dito e non guardiamo la luna. Le cose umane hanno le loro complicazioni e complessità, i loro problemi. Questo lo sappiamo, però diamo la colpa ai contesti, anziché alle persone. Io non do la colpa alla Cgil, se si scopre che un sindacalista ruba. Non do la colpa alla massoneria se si scopre che un massone non fa il massone. Quella è una malattia molto italica, oserei dire “italiota”, che non ho mai condiviso. Sono condanne per schemi, per categorie, che generano odio diffuso. Non le ho mai condivise, nei confronti di nessuno.Quando la gente si è scagliata contro il comunismo, additando i Gulag russi, ho sempre detto: guardate che l’ideale del comunismo non era quello, che semmai era l’effetto di un regime che si è trasformato, deviato a corrotto nei tempi, anche in funzione dell’accerchiamento capitalistico che aveva subito. Le dinamiche sociali e politiche, e anche quelle della giustizia, sono complesse: non possono essere giudicate con l’accetta, separando il bene e il male (che sono connessi, intrecciati). E le situazioni complicate richiedono analisi accurate: non tanto per assolvere qualcuno o condannare qualcun altro, ma per evitare di ripetere sempre gli stessi errori. Come spiegare l’attuale rabbia generalizzata nell’opinione pubblica? Ha avuto successo lo schema del potere, che ti dice questo: tu esisti se hai un nemico. Se non hai un nemico, non esisti. Lo schema del potere ti spinge a impegnare tutte le tue energie, le tue risorse e le tue possibilità a distruggere il nemico, anziché a costruire te stesso o ad aiutare i tuoi amici. In questa maniera, il potere si è evitato di essere combattuto. Perché, in realtà, combattere il potere (nella versione che Francesco Saba Sardi presenta come dominio) non significa distruggere dei nemici. Se tu perdi le tue energie nel cercare di distruggere qualcuno o qualcosa, in realtà quelle energie sono tolte da quello che dovrebbe essere il verbo della nostra vita, che è il costruire.L’esempio classico è la massoneria: dovrebbe essere sempre rivolta al costruire (lo dice il suo stesso nome), e invece – nonostante la sua origine e la sua tradizione – da un certo punto in poi si è impegnata a distruggere. E’ una deviazione profonda, che è dipesa dal fatto che il potere si è difeso da tutte quelle energie positive della società che potessero metterne in discussione il monopolio e la gerarchia, il suo schema generale. Oggi noi abbiamo una restrizione dei diritti civili, non un allargamento. Dato che uno, solo perché arrestato (non importa per quale motivo) viene subito bollato come criminale, tutto viene di conseguenza. In Italia c’è uno scarsissimo rispetto per chi viene privato della libertà, da parte dello Stato. Abbiamo avuto casi eclatanti di detenuti che non hanno potuto ricoversarsi in ospedale, perché la durezza del loro regime carcerario non veniva recepita dalla sensibilità dei giudici, al punto da predisporre le cure. Ci sono alcuni magistrati che hanno agito anche per fini politici o per fini personali, ad esempio per fare carriera, ma è sbagliato dire che la magistratura agisce per fini politici. Commettiamo sempre lo stesso errore. Le responsabilità sono sempre personali. Responsabili sono le persone, non le categorie.La categoria dei magistrati è l’unica che non risponde dei propri errori? Questo è un altro aspetto, ma non risolve il problema dell’errore, che in una certa percentuale è sempre fisiologico. La responsabilità dell’errore non è il problema dell’errore: non è che, se un medico sbaglia e uccide il paziente, col risarcimento si risolve il problema. E’ impensabile abolire la possibilità di errore. Si può invece fare il modo che l’errore sia residuale: una quota talmente minima, che i danni siano sopportabili. Certamente, il meccanismo delle responsabilità sugli errori giudiziari, in Italia, io non lo condivido. Ma questo non vale solo per la magistratura, vale anche per gli organi che indagano, per il modo in cui vengono fatte le indagini. E dato che in un processo poi intervengono dai 16 ai 20 magistrati, nel caso di una sentenza sbagliata non si sa mai chi ha commesso l’errore fondamentale. Perché formalmente mettiamo in piedi delle garanzie, ma in realtà le togliamo. Facciamo tribunali del riesame, tribunali della libertà, e poi non si sa chi sbaglia. Io farei una legge per cui il procuratore della Repubblica può fare quello che vuole: arrestare, intercettare, indagare. Ma se sbaglia, paga. Perché la responsabilità è sua. E se mi mette in galera, deve processarmi entro 60 giorni: devono fare presto, se toccano le libertà costituzionali.Li responsabilizzeri di più, i magistrati, con la deterrenza della sanzione contro di loro, proprio perché sono convinto che la maggior parte di loro rappresenti un orgoglio di questo paese, non una vergogna. Impegnare 16 magistrati per processare una persona mi sembra uno sproprosito: un primo magistrato ti arresta, un giudice istruttore lo autorizza, il Tribunale del Riesame (tre soggetti) valuta il caso, poi c’è il processo di primo grado (altri tre soggetti), poi c’è il processo d’appello (idem). Quanti magistrati intervengono? Tutti personaggi che potrebbero essere tranquillamente recuperati all’efficienza del processo: recuperando 10-12 magistrati alle funzioni dirette del processo, si smaltierebbe tutto l’arretrato in un solo anno. Ovviamente i magistrati devono avere più mezzi. Ho conosciuto magistrati che si pagavano da soli le fotocopie. Quelli di Bari si sono dovuti pagare una serie di cose, perché il loro tribunale è crollante. Noi da un lato li attacchiamo, e dall’altro non gli diamo i mezzi? Non si può ragionare così. E’ come accusare i maestri del crollo delle scuole. Innanzitutto devi mettere la gente in condizione di lavorare bene – cosa che, nei confronti dei magistrati, in Italia non viene fatta. Poi li si vuole criminalizzare quando commettono errori? Ma non funziona così, il mondo.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti nella diretta web-streaning su YouTube “Carpeoro Racconta” del 14 ottobre 2018).Massimo Bossetti all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio? «Ingiustizia è fatta: non sono per niente convinto della colpevolezza di Bossetti», vittima di indagini «superficiali». Per non parlare del caso di Stefano Cucchi, massacrato di botte dai carabinieri che l’avevano arrestato. Uno scandalo, che «pregiudica la dignità dell’Arma, che dobbiamo tutelare da questo pregiudizio». In altre parole: «La stessa Arma dei carabinieri deve fare pulizia, per riscattare il proprio onore». Lo afferma Gianfranco Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Avvocato di lungo corso (vero nome, Pecoraro), Carpeoro – saggista e attento osservatore dell’attualità italiana – insiste però su un punto: guai se ci scandalizziamo se la giustizia sbaglia una sentenza, come sul caso di Yara: errare è umano, l’errore è fisiologico. Idem se criminalizziamo l’intera Arma dei carabinieri per colpa dei militari che hanno picchiato Stefano Cucchi provocandone la morte, come confessato da un commilitone, l’appuntato Riccardo Casamassima, a nove anni di distanza dalla tragedia. Si finisce per condannare ingiustamente l’intera categoria – magistrati, carabinieri – quando invece si dovrebbe pretendere che a pagare per i propri errori siano le singole persone che sbagliano: inclusi i magistrati, «spesso ottimi, ma costretti a lavorare in condizioni difficili».
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Salvini assediato, ha tutti contro: perfetto, così stravincerà
Chissà quanti popcorn si sta mangiando, Matteo Salvini, al pensiero che altrove stiano sbocciando champagne per festeggiare la sentenza del tribunale del riesame, quella per cui la Lega dovrà restituire i 49 milioni di rimborsi elettorali fittizi risalenti alla gestione Bossi-Belsito. Perché basterebbe scorrere le cronache a ritroso per capire come è dal 2013 che la Lega e Salvini si stanno preparando a questo momento. E che la strategia politica stessa del partito di Via Bellerio è figlia di questa consapevolezza: allargare la base del consenso e proiettarsi su scala nazionale per dar vita, qualora le condizioni lo richiederanno, a un nuovo movimento autonomo rispetto al passato leghista. Attenzione: non stiamo dicendo che la svolta sovranista della Lega sia esclusivamente figlia della necessità di salvare il partito dallo tsunami giudiziario. Stiamo dicendo che la strategia del leader della Lega è stata contemporaneamente di attacco a uno spazio politico da riempire, e di difesa della sopravvivenza del partito stesso e della sua sostenibilità finanziaria.A Salvini va riconosciuto di aver intuito che ci fosse una domanda di nazionalismo inevasa, che in Italia e in Europa, mentre Renzi veleggiava al 40% e Tsipras e Podemos sembravano le uniche alternative possibili, stesse iniziando a soffiare vento da destra, e dall’Est, che negli Stati Uniti di Obama e nel Regno Unito saldamente tra le mani di David Cameron vi fosse aria di rivoluzione. Nessuno ci credeva, lui sì. Un po’ per virtù, un po’ per necessità. Un po’ perché aveva capito che i voti di Berlusconi in Meridione erano in libera uscita, un po’ perché allargare la propria base elettorale al di fuori del perimetro settentrionale – con tanti saluti alla Padania e al Sole delle Alpi – gli avrebbe consentito di tentare il colpo gobbo: il sorpasso ai danni di Forza Italia e la presa di tutto il centrodestra, nel giorno del tramonto definitivo della stella di Re Silvio, attraverso la creazione di un soggetto politico nuovo. È stato un lavoro lungo e faticoso che Salvini ha intrapreso con una costanza e una tenacia da applausi. Un giorno andava a prendersi sputi e insulti a Napoli, il giorno dopo era ai cancelli dell’Ilva di Taranto, quello dopo ancora in giro sui treni regionali per la campagna elettorale in Sicilia.Nel frattempo, gli antichi feticci della Lega Nord che fu cadevano come petali di un fiore. Prima il simbolo della Padania, poi il colore verde, sostituito dal blu, quindi gli slogan, da “Prima il Nord” a “Prima gli italiani”, lui che nemmeno tifava la nazionale di calcio. Infine il nome stesso del partito, Lega, senza più alcun riferimento al settentrione. Se la strategia ha avuto successo, è perché tutti gli altri gli hanno concesso spazio e libertà per portarla avanti. Né Forza Italia, né il Movimento Cinque Stelle, né il Partito Democratico, ognuno con le proprie responsabilità, sono riusciti a togliere alla Lega e a Salvini mezzo elettore lombardo o veneto, nonostante federalismo e autonomia – al netto della burla dei referendum – siano state messe in soffitta, nonostante gli scandali bancari, nonostante i guai giudiziari. E nessuno, nel contempo, è riuscito a contrapporsi a Salvini nel centrosud, dove oggi, stando ai sondaggi, veleggia attorno al 20%, cinque punti sopra al Partito Democratico, quasi quindici più di Berlusconi.Contemporaneamente, il leader leghista le ha provate tutte per mettere al sicuro i soldi del partito. Ci ha provato col nuovo movimento “Noi con Salvini”, senza successo. E, ancora, con la mossa a sorpresa di Roberto Calderoli, che sul finire della scorsa legislatura è uscito dal gruppo della Lega Nord per fondare quello della Lega e basta. Nessuna scissione: solo la dimostrazione che quello che oggi governa è un nuovo soggetto politico, del tutto indipendente da quello che si era intascato illegalmente i rimborsi elettorali. Se oggi la Lega fosse identica a cinque anni fa sarebbe praticamente spacciata. Oggi, senza Nord, senza Padania, senza felpe e bandane verdi, non lo è. Non sappiamo cosa succederà domani. Se effettivamente la nuova Lega (senza Nord) dovrà sborsare 49 milioni sino all’ultimo centesimo, o se sarà necessario un’ulteriore allontanamento dalle radici della vecchia Lega (col Nord) attraverso la nascita di un nuovo soggetto politico unitario di centrodestra, del tutto alieno, almeno formalmente, alla vicenda giudiziaria che fu.Quel che sappiamo è che Salvini ci è arrivato nelle migliori condizioni possibili in cui ci poteva arrivare: al governo, da ministro dell’interno, con un consenso popolare stellare, con una linea politica completamente diversa da quella del Carroccio di cinque anni fa, con una marea di deputati e senatori di Forza Italia e Fratelli d’Italia che non vedono l’ora di saltare il fossato e di passare armi e bagagli sotto le insegne della Lega. E con la possibilità di guadagnarsi il centro della scena invocando un nuovo complotto, quello della magistratura ai suoi danni, e un nuovo nemico da abbattere. In altre parole, pronto a ogni evenienza. «Io non mollo e lavoro ancora più duro. Sorridente e incazzato», ha scritto sui suoi canali social. Avete capito, adesso, perché sorride?(Francesco Cancellato, “Se sperate che Salvini cada sui 49 milioni, state andando a sbattere contro a un muro”, da “Linkiesta” del 7 settembre 2018).Chissà quanti popcorn si sta mangiando, Matteo Salvini, al pensiero che altrove stiano sbocciando champagne per festeggiare la sentenza del tribunale del riesame, quella per cui la Lega dovrà restituire i 49 milioni di rimborsi elettorali fittizi risalenti alla gestione Bossi-Belsito. Perché basterebbe scorrere le cronache a ritroso per capire come è dal 2013 che la Lega e Salvini si stanno preparando a questo momento. E che la strategia politica stessa del partito di Via Bellerio è figlia di questa consapevolezza: allargare la base del consenso e proiettarsi su scala nazionale per dar vita, qualora le condizioni lo richiederanno, a un nuovo movimento autonomo rispetto al passato leghista. Attenzione: non stiamo dicendo che la svolta sovranista della Lega sia esclusivamente figlia della necessità di salvare il partito dallo tsunami giudiziario. Stiamo dicendo che la strategia del leader della Lega è stata contemporaneamente di attacco a uno spazio politico da riempire, e di difesa della sopravvivenza del partito stesso e della sua sostenibilità finanziaria.
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Morte a Salvini, per legge. Porro: senza soldi, addio Lega
Ci sono quattro cose che, in questo sequestro di 49 milioni di euro alla Lega (disposto al Tribunale del Riesame di Genova), non mi convincono. La prima questione è molto semplice, e la sentenza è mortale: perché un partito che deve pagare 49 milioni – gliene hanno già sequestrati 2, ne ha 5 in cassa, e quindi vede sfumare anche tutti i soldi che entreranno nel futuro (non ci sono più i finanziamenti pubblici, sono stati di fatto sequestrati) – è un partito destinato a morire. Cioè un partito che avrà un ergastolo – peggio che un ergastolo: una sentenza di morte, senza una sentenza definitiva. Questo è il primo dato fondamentale: non c’è una sentenza definitiva. Secondo aspetto: questa vicenda riguarda la gestione di Bossi di Belsito, che sono stati condannati in primo grado (sempre senza la sentenza definitiva). E la cosa incredibile e che Salvini è l’attuale Lega, che certo non è figlia della Lega di Bossi: è totalmente diversa. Bene, la lega di Salvini diventa responsabile penale per degli atti che hanno compiuto persone che non sono esattamente Salvini. Dunque, io rischio di andare in galera se un atto compiuto da un membro di un’associazione di cui oggi faccio parte fa qualche malversazione.Terza questione: è il Partito Democratico, in particolare, che gode come un riccio – nella politica ci sta, ma possiamo sempre pensare di scalzare chi ci governa solo per via giudiziaria? Possiamo godere, se chi ci governa si è indagato per 30 anni di carcere per la questione Diciotti? Possimo godere del fatto che venga completamente azzerato il suo conto in banca da un magistrato? Può essere questa la via all’opposizione? Quarto e ultimo elemento, diciamo, di sostanza – e lo chiedo a voi come lo chiedo a me stesso: magari non mi ricordo tutto, ma secondo voi un partito della Prima Repubblica (o della Seconda Repubblica, della Quarta Repubblica) ha mai pagato 100 miliardi di vecchie lire (49 milioni di euro) per i suoi comportamenti più o meno truffaldini? Lo ha fatto la Dc? Lo ha fatto il Psi? Lo ha fatto il Pli? Lo ha fatto il Pri, il “partito degli onesti”, nel ‘94? Lo ha fatto il Pd? Lo ha fatto il Partito Comunista per i rubli che prendeva da Mosca? Qualcuno ha mai pagato 100 miliardi di vecchie lire? Sono 49 milioni di euro, per un solo partito: mi sembra una cosa enorme. C’è poco da ridere. Si troverà un escamotage, ma questi quattro punti mi sembrano allucinanti.(Nicola Porro, video-messaggio pubblicato sul “Giornale” il 6 settembre 2018, dopo la decisione del Tribunale del Riesame di Genova che ha confermato ciò che nei mesi scorsi la Corte di Cassazione, a sorpresa, aveva fissato sul piano del diritto: finché non si saranno recuperati i 49 milioni di euro che la giustizia considera “percepiti indebitamente” su richiesta di Umberto Bossi e Francesco Belsito, i conti del Carroccio sono “aggredibili” da subito, da parte della Guardia di Finanza. Considerato che un anno fa – quando fu compiuto il primo e finora unico blitz delle Fiamme Gialle – si trovarono solo 3,1 milioni, finché non se ne incamereranno altri 46 il movimento resterà di fatto paralizzato (a luglio dichiarava di avere in pancia 5,6 milioni). Secondo l’attuale Lega, non si può far pagare il prezzo d’un reato a chi quel reato non l’ha mai commesso. Di fatto, alla Lega di Salvini viene ora impedito di fare politica. Il ministro dell’interno, nonché vicepremier, ha così reagito: «Sono assolutamente tranquillo: possono sequestrarci tutto, ma gli italiani sono con noi». In lui si mescolano due sentimenti: la rabbia per una sentenza considerata ingiusta e la consapevolezza che ogni colpo degli avversari sembra accrescere il suo consenso. «Temete l’ira dei giusti», scrive Salvini su Facebook: «Non ci fermeranno». Aggiunge: «Lavoro per la sicurezza degli italiani e mi indagano per sequestro di persona (30 anni di carcere). Lavoro per cambiare l’Italia e l’Europa e mi bloccano tutti i conti correnti, per presunti errori di dieci anni fa». E, rivolto alle toghe: «Se qualcuno pensa di fermarmi o spaventarmi ha capito male»).Ci sono quattro cose che, in questo sequestro di 49 milioni di euro alla Lega (disposto al Tribunale del Riesame di Genova), non mi convincono. La prima questione è molto semplice, e la sentenza è mortale: perché un partito che deve pagare 49 milioni – gliene hanno già sequestrati 2, ne ha 5 in cassa, e quindi vede sfumare anche tutti i soldi che entreranno nel futuro (non ci sono più i finanziamenti pubblici, sono stati di fatto sequestrati) – è un partito destinato a morire. Cioè un partito che avrà un ergastolo – peggio che un ergastolo: una sentenza di morte, senza una sentenza definitiva. Questo è il primo dato fondamentale: non c’è una sentenza definitiva. Secondo aspetto: questa vicenda riguarda la gestione di Bossi e di Belsito, che sono stati condannati in primo grado (sempre senza la sentenza definitiva). E la cosa incredibile e che Salvini è l’attuale Lega, che certo non è figlia della Lega di Bossi: è totalmente diversa. Bene, la Lega di Salvini diventa responsabile penale per degli atti che hanno compiuto persone che non sono esattamente Salvini. Dunque, io rischio di andare in galera se un atto compiuto da un membro di un’associazione di cui oggi faccio parte fa qualche malversazione.
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E le nostre sono anche le autostrade più care d’Europa
La tragedia del ponte Morandi di Genova sta portando alla luce uno dei più grandi scandali del nostro paese, quello legato ai contratti sulle concessioni autostradali a beneficio esclusivo di pochi gruppi industriali privati. Ma come funziona nel resto dell’Europa? Quello italiano è un caso unico: le nostre autostrade sono le più care d’Europa. In Germania, Olanda e Belgio le autostrade sono pubbliche e parzialmente gratuite. Dal primo luglio scorso la Germania ha deciso di inserire un pedaggio solo per i camion, che consentirà di investire entro il 2022 circa 7 miliardi di euro nelle infrastrutture stradali. Per inciso, il governo tedesco ha da poco risolto un contenzioso con alcune aziende a cui aveva dato l’appalto per l’inserimento dei pedaggi per i mezzi pesanti. Il ritardo di 16 mesi nella realizzazione dell’opera, rispetto a quanto previsto dal contratto, è costato alle società una multa di 3,2 miliardi di euro, denaro che è finito nelle casse dello Stato. Esattamente l’opposto di ciò che è accaduto in questi anni in Italia, dove Atlantia si è permessa per anni di non realizzare gli interventi previsti e assolutamente necessari, facendo cassa a scapito dei cittadini senza che lo Stato muovesse un dito. E ora, davanti alla devastazione e ai morti, ha ancora il coraggio di parlare di perdite per gli azionisti, contratti e penali, sostenuta in questa campagna scandalosa dal Partito Democratico e da Forza Italia.Ci sono poi altri paesi come Austria, Svizzera e Slovenia che hanno autostrade a pagamento, ma con prezzi decisamente più convenienti rispetto a quelli italiani. In Austria l’abbonamento alle autostrade costa 87,30 euro l’anno, in Svizzera 40 franchi (circa 38,12 euro), in Slovenia 110 euro. Con questi soldi in Italia si percorrono appena 1.200 chilometri.Regno Unito, Spagna e Francia hanno affidato la gestione delle reti a società private tramite contratti di concessione. A differenza dell’Italia, però, nessun segreto di Stato e soprattutto più gestori, dunque più concorrenza. Nel nostro paese il 70% delle concessioni per la rete autostradale se lo spartiscono da anni due gruppi: il gruppo Atlantia (Benetton) che con Autostrade per l’Italia gestisce oltre 3.000 chilometri, e il gruppo Gavio, che gestisce oltre 1.200 chilometri. Nei pochi paesi dove la concessione è in mano ai privati, inoltre, sono stati stipulati contratti fortemente vincolanti. Nello specifico, in Spagna il pagamento del pedaggio è previsto soltanto sul 20% della rete e viene definito dal ministero dei lavori pubblici. Nel Regno Unito il guadagno degli operatori viene vincolato alla qualità del servizio, al livello di sicurezza e alla capacità di gestire al meglio la circolazione.In Francia sono ben diciannove le società concessionarie, le quali – a fronte della riscossione dei pedaggi – devono assicurare “la costruzione, l’estensione, la manutenzione e il funzionamento della rete”. Ogni cinque anni o in caso di necessità vengono stipulati accordi di piano tra lo Stato e queste società per finanziare ulteriori investimenti inizialmente non previsti. Perché la gestione di un bene pubblico, come la rete autostradale, non deve e non può essere una rendita finanziaria. Chiunque lavori al servizio dello Stato – e dunque dei cittadini italiani – deve garantire una gestione etica di quel bene, ponendo in cima valori quali efficienza, trasparenza, legalità e sicurezza. Se i Benetton hanno potuto lucrare su un bene pubblico indisturbati, però, è perché un’intera classe politica ha offerto loro per anni una sponda politica. I precedenti governi – da Prodi a D’Alema, passando per Berlusconi e Renzi – hanno prima regalato ai Benetton e poi prorogato per periodi sempre più lunghi gran parte della rete autostradale nazionale, senza pretendere investimenti in manutenzione e una compartecipazione degli utili.Tra il 2008 e il 2016, secondo dati del ministero dei trasporti, mancano all’appello 1,5 miliardi di investimenti preventivati sulla rete autostradale, a fronte di un incremento dei pedaggi del 25% (lievitati addirittura del 65,9% dal 1999 al 2013). Insomma, meno investi più guadagni, a scapito della sicurezza. Ma non solo. Oltre a favorire guadagni miliardari, il contratto prevede che, in caso di decadimento della concessione per gravi inadempienze da parte del concessionario, quest’ultimo venga indennizzato di tutti i profitti che avrebbe conseguito per gli anni residui di concessione. In sostanza, un risarcimento per i danni provocati dallo stesso imprenditore negligente. La classica privatizzazione della vecchia politica collusa con le lobbies: del resto, se si può fare un favore a un amico, quest’ultimo poi ricambierà. E in questi casi abbiamo imparato che per certi personaggi le regole non contano, conta solo fare profitti con i soldi dei cittadini italiani (e anche sulla loro pelle). È questa la logica che ha spolpato questo paese negli ultimi trent’anni.(“Italia, le autostrade più care d’Europa. Eccome come funziona degli altri paesi Ue”, dal “Blog delle Stelle” del 24 agosto 2018).La tragedia del ponte Morandi di Genova sta portando alla luce uno dei più grandi scandali del nostro paese, quello legato ai contratti sulle concessioni autostradali a beneficio esclusivo di pochi gruppi industriali privati. Ma come funziona nel resto dell’Europa? Quello italiano è un caso unico: le nostre autostrade sono le più care d’Europa. In Germania, Olanda e Belgio le autostrade sono pubbliche e parzialmente gratuite. Dal primo luglio scorso la Germania ha deciso di inserire un pedaggio solo per i camion, che consentirà di investire entro il 2022 circa 7 miliardi di euro nelle infrastrutture stradali. Per inciso, il governo tedesco ha da poco risolto un contenzioso con alcune aziende a cui aveva dato l’appalto per l’inserimento dei pedaggi per i mezzi pesanti. Il ritardo di 16 mesi nella realizzazione dell’opera, rispetto a quanto previsto dal contratto, è costato alle società una multa di 3,2 miliardi di euro, denaro che è finito nelle casse dello Stato. Esattamente l’opposto di ciò che è accaduto in questi anni in Italia, dove Atlantia si è permessa per anni di non realizzare gli interventi previsti e assolutamente necessari, facendo cassa a scapito dei cittadini senza che lo Stato muovesse un dito. E ora, davanti alla devastazione e ai morti, ha ancora il coraggio di parlare di perdite per gli azionisti, contratti e penali, sostenuta in questa campagna scandalosa dal Partito Democratico e da Forza Italia.
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Magaldi: cade il governo? Tanto meglio per Lega e 5 Stelle
Cade il governo Conte, in autunno? Non reggerà alla prova del fuoco rappresentata dal bilancio 2019 da sottoporre a Bruxelles? Tanto meglio: Lega e 5 Stelle farebbero il pieno di voti, nel caso di elezioni anticipate. Facile profezia: l’eventuale nuovo esecutivo avrebbe un programma meno timido e sarebbe pronto a rompere in modo ancora più netto con l’attuale governance europea, fondata sulla grande menzogna del rigore ammazza-Stati spacciato per amara medicina. Gioele Magaldi non ha dubbi: se l’esecutivo gialloverde dovesse davvero cadere, l’establishment politico-mediatico violentemente ostile a leghisti e pentastellati avrà ben poco di cui rallegrarsi, perché gli elettori premieranno Salvini e Di Maio con un autentico plebiscito, come ben si è visto dagli applausi dei genovesi scrosciati all’arrivo dei due vicepremier ai funerali delle vittime del viadotto Morandi. Tutto si tiene, nei drammi estivi che hanno scosso l’Italia: la responsabilità politica del disastro di Genova ricade sulla stessa élite che ha privatizzato la penisola, regalandola agli “amici degli amici”, salvo poi imporre a un paese impoverito di accogliere senza fiatare i migranti (quasi un milione, negli ultimi tre anni) che l’Europa vorrebbe che restassero interamente a carico nostro.«Ecco perché applaudo Salvini: per una volta, il ministro dell’interno ha “tenuto il punto”, rinunciando a piegarsi ai diktat dell’oligarchia europea», dice Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio”. Troppo comodo – e ipocrita – il moralismo di chi accusa il leader della Lega di mancanza di umanità, specie se l’attacco proviene dal potere neoliberista che ha razziato l’Africa e imposto, ai lavoratori italiani, il “dumping” salariale dei neo-schiavi, costretti a fare concorrenza sleale alla nostra forza lavoro, accettando condizioni disumane di sfruttamento. Dov’era, il centrosinistra che oggi si scaglia con inaudita violenza contro Salvini, quando si trattava di gestire l’economia in modo equo, evitando di far sprofondare il paese nella crisi più nera? Bersani “impiccava” lo Stato al nodo scorsoio del pareggio di bilancio, insieme al cappio della legge Fornero sulle pensioni, prima ancora che Renzi facesse piazza pulita – con il Jobs Act – degli ultimi diritti sindacali. Ed ecco oggi la “guerra tra poveri”, che oppone lavoratori italiani e stranieri, vittime – tutti – della stessa catastrofe macroeconomica: lo Stato in bolletta, impossibilitato a investire denaro per produrre lavoro grazie a una gestione privatistica dell’euro, senza neppure il paracadute degli eurobond a garantire il necessario debito pubblico.Nel lucido ragionamento di Magaldi, la tragedia di Genova e la rissa mediatica sui naufraghi a bordo della nave Diciotti («con le accuse surreali rivolte a Salvini dalla magistratura») sono due facce, drammatiche, della stessa medaglia: da una parte la vecchia élite che ha prodotto solo macerie (infrastrutturali e sociali) e dall’altra il primo governo “sovranista”, da 25 anni a questa parte, che cerca di rimediare allo sfacelo. «Per fortuna – insiste Magaldi – Salvini ha inaugurato la linea necessaria, quella della fermezza: che non ha certo per bersaglio i migranti, ma l’ipocrisia con cui Bruxelles vorrebbe continuare a non-gestire un fenomeno vergognoso come l’esodo da paesi africani letteralmente depredati dell’élite europea». Azione necessaria, quella del governo Conte, ma non sufficiente: «Sarà meglio che, anche sui provvedimenti econonici, Salvini e Di Maio comincino a passare dalle parole ai fatti, cercando di attuare quello che hanno promesso agli italiani. Nel caso non ce la dovessero fare, però – aggiunge Magaldi – non sarebbe affatto un male». Già, perché dopo eventuali elezioni anticipate, aggiunge, la coalizione “gialloverde”, ormai strategicamente coesa, farebbe l’en plein e ripartirebbe con maggiore slancio, per abbattere il Muro di Bruxelles fondato sulla “teologia” dell’austerity.Keynesiano e progressista, Magaldi non ha dubbi: tutta l’Europa è in crisi, perché negli ultimi decenni il continente è caduto, letteralmente, nelle mani di una ristretta cerchia di oligarchi. Hanno contrabbandato per virtù l’ideologia del rigore di bilancio, con trattati-capestro che hanno amputato gli Stati del potere sovrano di investire nell’economia. Risultato: classe media in via di estinzione, popoli impoveriti, democrazie svuotate ed élite divenute improvvisamente miliardarie, padrone di tutto ciò che prima era pubblico – acqua, energia, trasporti, telefonia e Poste, persino le autostrade. Nel bestseller “Massoni”, Magaldi ha fornito nomi e cognomi della cabina di regia – supermassonica – che ha pilotato questa globalizzazione selvaggia e senza diritti, a beneficio esclusivo delle multinazionali finanziarie. Il complottismo degli ultimi anni punta il dito contro le malefatte della Trilaterale? «Ma quella è solo una emanazione, peraltro piuttosto trasparente, della Ur-Lodge “Three Eyes”», a lungo ispirata da personaggi come Kissinger, Rockefeller e Brzezisnki.I blogger più esasperati, come Daniel Estulin, se la prendono con il Bilderberg e i suoi invitati, da Lilli Gruber al segretario di Stato vaticano Pietro Parolin? «Aprite gli occhi: le notizie che lo stesso Bilderberg lascia filtrare servono solo a produrre il gossip necessario a distogliere l’attenzione dai veri manovratori, i “fratelli controiniziati” delle Ur-Lodges reazionarie: personaggi che, certo, non finiscono sui giornali». Che fare, dunque? Esattamente quello che sta facendo il governo Conte, ribadisce Magaldi, fautore di un risveglio democratico europeo, di cui l’Italia “gialloverde” sembra destinata a fare da apripista. Una “profezia” che il presidente del Movimento Roosevelt (“metapartito” nato proprio per rianimare lo scenario politico italiano in senso progressista) aveva formulato in tempi non sospetti: vedrete, aveva annunciato, che alla fine sarà proprio questa scassatissima Italia a invertire il corso della storia, mettendo in campo forze politiche in grado di smascherare la grande impostura neoliberista che ha impoverito l’Europa spolpando Stati e popoli.Quelle a cui stiamo assistendo oggi, in fondo, sono le prove generali di una rivoluzione culturale: verrà il giorno in cui la parola “spread” perderà ogni significato, perché la finanza pubblica sarà tornata a garantire pienamente tutto il deficit necessario a rimettere in piedi il paese, cominciando dalla ricostruzione delle troppe infrastrutture fatiscenti, lasciate agonizzare da governi costretti a elemosinare “a strozzo” gli euro della Bce. «A proposito: spero che i familiari delle vittime di Genova non si rivalgano solo sugli eventuali responsabili della società autostradale, ma chiedano di essere risarciti anche dai governi precedenti, che hanno creato le premesse del disastro». In ogni caso, Magaldi è ottimista: «Che il governo Conte regga o meno alla prova d’autunno, è irrilevante: indietro non si torna. La destrutturazione politica della Seconda Repubblica è ormai nei fatti». Gli italiani sembrano aver capito che centrodestra e centrosinistra fingevano soltanto di essere alternativi. Nella realtà non hanno fatto altro che obbedire ai diktat dei grandi privatizzatori neoliberisti: quelli che oggi sparano su Salvini, temendo che l’Italia si stia davvero risvegliando.Cade il governo Conte, in autunno? Non reggerà alla prova del fuoco rappresentata dal bilancio 2019 da sottoporre a Bruxelles? Tanto meglio: Lega e 5 Stelle farebbero il pieno di voti, nel caso di elezioni anticipate. Facile profezia: l’eventuale nuovo esecutivo avrebbe un programma meno timido e sarebbe pronto a rompere in modo ancora più netto con l’attuale governance europea, fondata sulla grande menzogna del rigore ammazza-Stati spacciato per amara medicina. Gioele Magaldi non ha dubbi: se l’esecutivo gialloverde dovesse davvero cadere, l’establishment politico-mediatico violentemente ostile a leghisti e pentastellati avrà ben poco di cui rallegrarsi, perché gli elettori premieranno Salvini e Di Maio con un autentico plebiscito, come ben si è visto dagli applausi dei genovesi scrosciati all’arrivo dei due vicepremier ai funerali delle vittime del viadotto Morandi. Tutto si tiene, nei drammi estivi che hanno scosso l’Italia: la responsabilità politica del disastro di Genova ricade sulla stessa élite che ha privatizzato la penisola, regalandola agli “amici degli amici”, salvo poi imporre a un paese impoverito di accogliere senza fiatare i migranti (quasi un milione, negli ultimi tre anni) che l’Europa vorrebbe che restassero interamente a carico nostro.
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Blondet: giustizia per Genova? Ho un brutto presentimento
«Se la vicenda dei migranti continua ad essere in mano a Salvini è giunto il momento di pensare alla lotta di popolo armato», scrive su Facebook Guglielmo Allodi, già dirigente del Pci-Pds. «Questo Allodi non è un qualunque militante senza potere e fuori di testa», scrive Maurizio Blondet nel suo blog. «E’ stato il capo della segreteria politica di Bassolino, già ministro nel primo governo D’Alema», quando l’ex sindaco di Napoli divenne presidente della Regione Campania, carica che mantenne fino al 2010. Stiamo quindi parlando di «un grand commis del potere, un esponente di livello della “sinistra”». E ora invoca la “lotta armata” per fermare Salvini? «Ho un orribile presentimento», confessa Blondet, giornalista di lungo corso, già inviato di “Oggi”, “Il Giornale” e “Avvenire”. Sono trascorsi otto giorni – un’enormità, secondo Blondet – prima che l’autorità giudiziaria sequestrasse materiali negli uffici di Autostrade per l’Italia, dopo il collasso del viadotto Morandi. «Cerchiamo il filmato del crollo», disse ai giornali il pm di Genova, ammettendo però che non ci fosse ancora alcun indagato. Dunque, conclude Blondet, il filmato del crollo che non c’è più: «Hanno sequestrato le macerie, ma il 20 agosto non avevano perquisito la sede della concessionaria». E l’iscrizione nel registro degli indagati, spesso considerata un atto dovuto? «Una settimana, e nemmeno un imputato. Neppure un capo d’imputazione: non sanno di cosa accusare chi». La procura di Genova? «E’ la stessa che ha indagato Salvini per la storia dei finanziamenti della Lega».«Ho un orrendo presentimento – insiste Blondet – dovuto alla mia esperienza di vecchio giornalista». Un sospetto, «rafforzato dal fatto che i Benetton non solo hanno offerto una cifra ridicola alle vittime del disastro, ma dopo qualche ora hanno ripreso sicurezza e stanno cominciando ad accusare il governo di aver fatto cadere il titolo in Borsa». Sicché non sarebbe stato il crollo del viadotto Morandi a far precipitare la quotazione della società, ma «gli strilli di Salvini e Di Maio contro la concessionaria», a cui i governi precedenti hanno regalato un monopolio clamoroso e miliardario. «Insomma: sono loro, i Benetton, che pretendono i danni dallo Stato. Lo fanno con uno stuolo di avvocati potentissimi, fra cui la nota Paola Severino: quella che ha fatto la ministra della giustizia nel governo Monti», tanto per capire da che parte stia. «Nessun sospetto di conflitto d’interessi: tutto legale. Ovvio, questi si sono fatti le leggi a loro vantaggio, dunque tutto ciò che fanno loro è legale per definizione». Il “bruttissimo presentimento” di Blondet è questo: «Non avrete mai più il vostro ponte, o genovesi. Non lo rifaranno certo i Benetton – perché dovrebbero spenderci un centesimo, ormai? – né potrà farlo il governo, perché dovrà rifondere i miliardi necessari agli azionisti di Atlantia, oltre che ai Benetton che sono stati così danneggiai dalle esternazioni di Salvini».Lo stesso Blondet invita a tenere d’occhio la “classs action” americana avviata dallo studio legale Bronstein, Gewirtz & Grossman, il quale «sta esaminando potenziali rivendicazioni per conto di acquirenti» dopo che, sulla notizia della possibile revoca della concessione e di una sanzione, il prezzo delle azioni è crollato. Questo studio legale, aggiunge Blondet, vanta una speciale competenza nella «ricerca aggressiva di richieste di contenzioso». Chi conosce queste capacità “aggressive”, aggiunge il giornalista, sa già cosa accadrà: «Si prenderanno tutti i miliardi gli americani per conto dei loro azionisti, poi Atlantia opportunamente “fallirà”, ossia resterà senza un soldo», e così «ai genovesi e alle vittime non resteranno nemmeno le briciole». Secondo il trader finanziario Giovanni Zibordi, i Benetton «non hanno investito niente, comprarono Autostrade con i soldi di Autostrade». O meglio: hanno creato una società apposta che ha fatto un debito immane, poi – ottenuta la concessione da Prodi, D’Alema e soci – l’hanno fusa con Autostrade, a cui hanno accollato l’enorme debito: «Hanno fatto il debito e lo stanno ripagando coi profitti del pedaggio», sottolinea Zibordi, che parla apertamente di “rapina”, benché perfettamente legale grazie ai regaloni dei politici della Seconda Repubblica.Uno di questi, l’avvocato Giovanni Maria Flick, ministro della giustizia nel primo governo Prodi (in carica dal maggio ‘96 all’ottobre del ‘98), ebbe come direttore dell’Ufficio Rapporti con il Parlamento lo stesso Francesco Cozzi, cioè il pm genovese che ora sta indagando sul crollo del viadotto Morandi, dopo aver “dato la caccia” ai miliardi scomparsi dalle casse della Lega. «Insomma, il pm Cozzi ha avuto un incarico altamente politico e di parte nel governo Prodi», ricorda Blondet. Quanto a Flick, legale di Raul Gardini all’epoca del presunto suicidio (“con due colpi alla tempia, entrambi mortali”) del manager Enimont, su Genova e Autostrade l’ex ministro prodiano si schiera, da giurista, contro Salvini e Di Maio, applauditi dalla folla ai funerali delle vittime del disastro. «Mi preoccupa la tendenza all’inversione del principio di non colpevolezza», dichiara Flick. «Mi lascia perplesso l’assunzione di un ruolo molto autoritario e di dogmatica condanna preventiva, fra l’altro sostituendosi alla autorità giudiziaria». Dice ancora Flick: «A me non convince questo modo di procedere. Tutta una serie di sintomi, indicazioni e provocazioni mi lasciano perplesso e non mi paiono in linea con l’impostazione costituzionale della nostra Repubblica».«Se la vicenda dei migranti continua ad essere in mano a Salvini è giunto il momento di pensare alla lotta di popolo armato», scrive su Facebook Guglielmo Allodi, già dirigente del Pci-Pds. «Questo Allodi non è un qualunque militante senza potere e fuori di testa», scrive Maurizio Blondet nel suo blog. «E’ stato il capo della segreteria politica di Bassolino, già ministro nel primo governo D’Alema», quando l’ex sindaco di Napoli divenne presidente della Regione Campania, carica che mantenne fino al 2010. Stiamo quindi parlando di «un grand commis del potere, un esponente di livello della “sinistra”». E ora invoca la “lotta armata” per fermare Salvini? «Ho un orribile presentimento», confessa Blondet, giornalista di lungo corso, già inviato di “Oggi”, “Il Giornale” e “Avvenire”. Sono trascorsi otto giorni – un’enormità, secondo Blondet – prima che l’autorità giudiziaria sequestrasse materiali negli uffici di Autostrade per l’Italia, dopo il collasso del viadotto Morandi. «Cerchiamo il filmato del crollo», disse ai giornali il pm di Genova, ammettendo però che non ci fosse ancora alcun indagato. Dunque, conclude Blondet, il filmato del crollo che non c’è più: «Hanno sequestrato le macerie, ma il 20 agosto non avevano perquisito la sede della concessionaria». E l’iscrizione nel registro degli indagati, spesso considerata un atto dovuto? «Una settimana, e nemmeno un imputato. Neppure un capo d’imputazione: non sanno di cosa accusare chi». La procura di Genova? «E’ la stessa che ha indagato Salvini per la storia dei finanziamenti della Lega».
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Pezzi di merda: fenomenologia dell’odio nell’Italia di Salvini
Succede questo: a proclamarsi paladini dell’uomo dalla pelle scura, oggi, sono i killer politici dell’uomo dalla pelle chiara – quelli che gli hanno tolto tutto, in Europa, dopo aver abbondantemente depredato anche l’Africa, trasformandola in una terra desolata da cui scappare. Così i naufraghi salvati in mare da una nave della Guardia Costiera diventano prigionieri, letteralmente torturati dal vero Uomo Nero, il Ministro della Paura che usurpa la poltrona del Viminale. Ha un problema, l’Uomo Nero, anzi due: non può fare quello che vorrebbe, e che ha promesso agli elettori – tagliare le tasse – e in più deve rispondere di un risarcimento colossale imposto al suo partito dal potere giudiziario. Un risarcimento così anomalo, e così enorme, da ridurre praticamente a zero la possibilità di sostenere qualsiasi attività politica, e quindi di continuare a esistere, come partito. Chi ha paura dell’Uomo Nero? La cosiddetta Europa: quella che impedisce che le tasse vengano abbattute, che le pensioni italiane siano dignitosamente rimpinguate, che giunga un reddito provvisorio ai senza-lavoro. Di questo sono ostaggi, i naufraghi della nave Diciotti: di un’ingiustizia infame, compiuta da Bruxelles.Negli ultimi tre anni, si apprende, l’Italia ha accolto la quasi totalità dei 700.000 migranti sbarcati sulle sue coste. Il resto d’Europa non li vuole. Deve tenerseli, per forza, l’Uomo Nero. Al quale però non si concede – in cambio – di abbassare le imposte, alzare le pensioni, distribuire un reddito di cittadinanza. “Pezzi di merda”, li qualifica senza giri di parole il filosofo televisivo Massimo Cacciari – ma attenzione: l’insulto non è affatto rivolto ai mostri dell’Unione Europea, i fanatici del rigore, gli affamatori della Grecia, i devastatori dell’Italia, i predoni delle autostrade che poi crollano. Su quelli, tuttalpiù, sono piovute fumose analisi, formulate in italiano forbito. L’espressione brutalmente gergale è invece indirizzata agli insensibili criminali che osano trattenere un centinaio di africani, giovani adulti, a bordo di un natante della Guardia Costiera ormeggiato in un porto siciliano. Tra i “pezzi di merda” più autorevoli, se non altro per il ruolo istituzionale che riveste, è il vicepremier Di Maio, il primo a esprimere – sotto forma di minaccia aperta, alla buon’ora – la possibilità di sospendere i finanziamenti miliardari che l’Italia è tenuta, dai trattati, a versare alla burocrazia Ue.Mentre i filosofi incendiano le strade, già lastricate di furore e di violenza, di odio squadristico e mediatico contro l’insolente governo che gli italiani – quei farabutti – hanno osato votare e ora sostanzialmente approvano, maledetti loro, uno dei due consoli che reggono l’esecutivo Conte arriva dunque ad avvertire i cosiddetti partner europei: attenzione, la corda potrebbe spezzarsi. Si comincia ventilando l’indicibile – la renitenza contributiva – e così ci si infila su un sentiero che potrebbe portare addirittura là dove fino a ieri sarebbe stato impensabile: lo spettro dell’uscita dell’Italia dall’Unione Europea, finalmente presentata per quello che è – una cricca di tecnocrati imbroglioni, al soldo della peggiore oligarchia speculativa. Questo è un paese in cui il presidente della Repubblica, parlando con l’allora premier incaricato, lo ha cortesemente (ma irritualmente) invitato a passare a salutare il governatore della Banca d’Italia, l’esimio Ignazio Visco, super-banchiere convinto – al pari del tedesco Günther Oettinger, o del connazionale Carlo Cottarelli – che saranno “i mercati”, in futuro, a “insegnare” agli italiani come votare, pena la scure dello spread, nel caso ripetessero l’errore imperdonabile di premiare gli sciamannati 5 Stelle o, peggio, l’Uomo Nero, cioè l’illuso che voleva il professor Paolo Savona al ministero dell’economia e un principe del giornalismo indipendente come Marcello Foa alla presidenza della Rai.Scherziamo? Siamo impazziti? L’ultima presidente della Rai, Monica Maggioni, è ora presidente della sezione italiana della Commissione Trilaterale, mentre la collega Gruber – quella che ospita frequentemente il noto filosofo, talora affetto da coprolalia – è saldamente ospite dei gagliardi passacarte messi assieme dal conte Étienne Davignon e dall’imperatore David Rockefeller, riuniti per la prima volta nel lontano 1954 all’hotel de Bilderberg a Oosterbeek, in Olanda. Lo stesso Visco, che governa Bankitalia (di proprietà di banche private) è il pupillo di Mario Draghi, che nel 1992 salì a bordo del panfilo Britannia e oggi governa la Bce (di proprietà di banche private). Draghi risulta essere un membro autorevolissimo dello stesso club che annovera tra i suoi eletti il presidente emerito Napolitano e il francese Jacques Attali, l’uomo-ombra di Macron: prontissimo, tramite l’obbediente Tajani, ad attivare il network sotterraneo dimostratosi capace di indurre Berlusconi a venir meno alla parola data a Salvini, sulla nomina di Foa. Tutto è partito dall’Eliseo, cioè dal vertice politico del paese che, oggi anno, depreda 14 Stati africani portandogli via l’equivalente di 500 miliardi di euro, costringendo i loro giovani a imbarcarsi verso le nostre coste.Qualcuno spieghi, ai migranti soccorsi dalla Diciotti, che non possono fidarsi dell’uomo bianco che si finge loro amico. “Timeo Danaos et dona ferentes”: i greci mi fanno paura anche quando portano doni, dice Laocoonte, nell’Eneide, di fronte al Cavallo di Troia appena giunto davanti alle mura della città assediata. Se solo i giornalisti avessero fatto il loro dovere, accusa il Premio Pulitzer americano Seymour Hersh, in questi anni avremmo avuto meno guerre, meno stragi, meno vittime, perché quasi tutte le guerre, così come l’opaco terrorismo stragista, sono state organizzate a tavolino, dalla stessa élite bugiarda, agitando false prove per demonizzare leader che riteneva scomodi. L’hanno potuto fare, sempre, grazie alla connivente reticenza dei giornali, delle televisioni. Lo stesso si può dire dell’intellighenzia nazionale “embedded”, quella che oggi – tra appelli rabbiosi (e schizzi di sterco) – si permette il lusso di criminalizzare l’Uomo Nero, ignorando deliberatamente i crimini mostruosi dell’oligarchia-fantasma che ha declassato il paese, condannandolo al declino dopo averlo svenduto, pezzo su pezzo, fino a farlo crollare come il ponte di Genova. Un’Italia alla frusta, amputata della sua sovranità e taglieggiata dai finti ragionieri di Bruxelles. Eppure, nel paese a cui la Francia impedisce di eleggere il presidente della televisione di Stato, ci si scaglia selvaggiamente contro il ministro che “sequestra” i migranti su una nave.Il crollo delle dittature è spesso preceduto da violenze inconsulte. In Romania, Nicolae Ceaucescu ordinò alla Securitate di sparare nel mucchio, al primo accenno di ribellione popolare. E il satrapo Siad Barre, a lungo padrone della Somalia grazie anche al provvido sostegno post-coloniale italiano, non esitò a ordinare alla polizia di mitragliare il pubblico dello stadio che aveva osato contestarlo. Si dirà che siamo in Italia, dove vige la legge semiseria della “bolla di componenda”, sintetizzata dal genio letterario di Camilleri: ogni conflitto si trasforma in una tempesta in un bicchier d’acqua, se alla fine tutti si portano a casa la loro fetta di torta. Si dirà che il cosiddetto governo gialloverde, quello dell’Uomo Nero, sta esasperando la crisi dei migranti solo per aprire un fronte alternativo da cui attaccare Bruxelles, cioè il super-potere che gli vieterà di mantenere le promesse fatte agli elettori il 4 marzo, pena il ricatto dell’incursione finanziaria sul costo del debito pubblico di un paese reso vulnerabilissimo, come gli altri dell’Eurozona, dall’assenza di una moneta sovrana con la quale difendersi dal racket della Borsa. Sia come sia, lo spettacolo cui si è costretti ad assistere rivela qualcosa di estremamente inedito: mentre giornali e intellettuali lanciano palle di letame, gli elettori osservano con attenzione le mosse del loro governo, il primo esecutivo – nella storia ingloriosa dell’Ue – completamente sgradito da Bruxelles.Succede questo: a proclamarsi paladini dell’uomo dalla pelle scura, oggi, sono i killer politici dell’uomo dalla pelle chiara – quelli che gli hanno tolto tutto, in Europa, dopo aver abbondantemente depredato anche l’Africa, trasformandola in una terra desolata da cui scappare. Così i naufraghi salvati in mare da una nave della Guardia Costiera italiana diventano prigionieri, letteralmente torturati dal vero Uomo Nero, il Ministro della Paura che usurpa la poltrona del Viminale. Ha un problema, l’Uomo Nero, anzi due: non può fare quello che vorrebbe, e che ha promesso agli elettori – tagliare le tasse – e in più deve rispondere di un risarcimento colossale imposto al suo partito dal potere giudiziario. Un risarcimento così anomalo, e così enorme, da ridurre praticamente a zero la possibilità di sostenere qualsiasi attività politica, e quindi di continuare a esistere, come partito. Chi ha paura dell’Uomo Nero? La cosiddetta Europa: quella che impedisce che le tasse vengano abbattute, che le pensioni italiane siano dignitosamente rimpinguate, che giunga un reddito provvisorio ai senza-lavoro. Di questo sono ostaggi, i naufraghi della nave Diciotti: di un’ingiustizia infame, compiuta da Bruxelles.
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Pedofili a Hollywood: il vero scandalo, che non esplode mai
Ho l’impressione, dice, che gli scandali Weinstein, Spacey e Hoffman siano serviti per silenziare una bomba ben peggiore, che stava per scoppiare: l’esistenza di una rete di pedofili seriali a Hollywood. Lei è Enrica Perucchietti, coraggiosa reporter e autrice di saggi su “fake news” (in collaborazione con Marcello Foa) e terrorismo “false flag”, cioè attuato – sotto falsa bandiera – dagli stessi governi, tramite settori dell’intelligence. Una radiografia del potere, quella fornita dalla Perucchietti, che include anche le pagine meno illuminate dei padroni del mondo: la loro vita privata, spesso inquinata da devianze inconfessabili. Ne ha parlato anche con Gianluca Marletta nel libro “Unisex”, che si interroga sull’ambigua manipolazione sociale che affiora, in controluce, dagli sponsor “politicamente corretti” dell’ideologia gender. Ora, dopo l’ennesimo scandalo – la grande accusatrice Asia Argento a sua volta accusata di abuso su un minorenne – Enrica Perucchietti esprime un terribile sospetto: e se lo tsunami inaugurato con il caso Weinstein fosse servito, essenzialmente, a depistare il pubblico e nascondere un orrore ancora più grande, cioè la pedofilia diffusa a Hollywood oltre che tra i palazzi del massimo potere?«Sono stati offerti dettagli morbosi delle violenze di produttori e attori per distrarre l’opinione pubblica da uno scandalo ben peggiore», scrive Enrica Perucchietti in un post su Facebook, ripreso da “Come Don Chisciotte”. Uno scandalo “silenziato” attraverso la tempesta scatenatasi sui presunti abusi del mondo del cinema, attori e produttori accusati di ricatto sessuale su giovani attrici esordienti. L’altro scandalo, quello rimasto tabù, avrebbe potuto «travolgere e distruggere definitivamente Hollywood: e lì non sarebbe bastato un colpo di spugna per cancellare la violenza». Perché in quel caso «le vittime erano una sorta di agnello sacrificiale dato in pasto al Moloch di turno in cambio di denaro e successo: bambini». Per Enrica Perucchietti, si tratta del «peggior crimine che si possa immaginare», ovvero «la violenza su un bambino». Numerosi fatti di cronaca − come l’accusa di stupro dell’ex attore-bambino Michael Egan al regista Bryan Singer − hanno spinto la regista Amy Berg, già premio Oscar nel 2006 al miglior documentario, “Deliver Us from Evil”, a realizzare un documentario (“An Open Secret”), che analizza alcuni casi di abusi sessuali su minori all’interno dell’industria cinematografica hollywoodiana.Dai pettegolezzi, continua Perucchietti, si è passati alle testimonianze, con i nomi degli accusati, «ricostruendo un vero e proprio “cerchio magico” composto da un’élite blindata e deviata». Ne parla anche il “Giornale”: “Ecco i pedofili al potere: Hollywood, il documentario sull’ombra della pedofilia”. Di fatto, “An Open Secret” mostra come potenti e intoccabili personalità di Hollywood convincano bambini e le loro famiglie a fidarsi di loro. «Si assiste cioè a un primo richiamo suadente delle sirene hollywoodiane (i provini, le feste, i primi film) che ti promettono una carriera sfavillante, poi le spire del serpente si stringono sempre di più attorno alla preda, strappando i bambini alla loro infanzia e consegnandoli nelle mani di ricchi pervertiti». Molti, aggiunge Perucchietti, hanno ovviamente gridato allo scandalo, «facendo quadrato attorno ai presunti pedofili e impedendo la distribuzione del film: è però lunga la lista di attrici e attori che hanno raccontato di aver subito (persino da bambini o adolescenti) molestie sul set o ancora prima, durante i provini».Elijah Wood, per esempio, ha denunciato che a Hollywood «la pedofilia è un problema diffuso». L’attore, che ha cominciato a recitare da bambino, ha spiegato che la madre lo ha protetto da quell’ambiente malsano, tenendolo lontano dalle feste del mondo dello spettacolo. Molti altri attori-bambini non sono stati però così fortunati, aggiunge Enrica Perucchietti: «Corey Feldman, star dei “Goonies” e di “Stand by Me”, ha affermato di essere stato molestato nel 1980 e ha portato la testimonianza di altri bambini-attori vittime di abusi. Da anni denuncia pubblicamente l’esistenza della pedofilia ad Hollywood». Nel marzo 2018, pochi giorni dopo aver annunciato di voler rivelare in un documentario tutto quello che sa, Feldman è stato aggredito e pugnalato. «Ecco, temo che questo sia il segreto sotto gli occhi di tutti», chiosa Perucchietti. Un segreto terribile, che però «non verrà mai alla luce». E’ più che un timore: non avrà lo spazio che merita «sui media di massa e nelle aule di tribunale». Troppo imbarazzante lo scandalo, troppo potenti i protagonisti.Il pubblico dovrà accontentarsi della caduta – mediatica – di Asia Argento, trasformata da vittima a carnefice: da grande accusatrice di Harvey Weinstein a peresunta “predatrice” del diciassettenne Jimmy Bennett, al quale – secondo il “New York Times” – la Argento avrebbe proprosto un risarcimento da 380.000 dollari. Per Enrica Perucchietti, il caso dimostrerebbe «la doppia morale di certi personaggi che si ergono a paladini dei diritti, che si fanno bandiera di campagne di linciaggio mediatiche, che fanno i finti buonisti, che hanno (però) ingombranti scheletri negli armadi». Si tratta di personaggi che «fungono da armi di distrazione di massa». Per coprire il vero scandalo, quello indicibile? Cioè gli abusi, inconfessabili, sui bambini? «Chiariamo: un abuso è un abuso – che avvenga su una donna, un uomo o su un ragazzino». Il problema, scrive ancora Enrica Perucchietti, è che a certi livelli «il marcio colpisce uomini e donne in modo indistinto». Anche perché «il potere ti offusca, ti corrompe: il male ti sfiora e ti contamina come un morbo, facendoti perdere qualunque bussola morale e probabilmente ti sconnette dalla realtà». Un altro problema – non certo trascurabile – è che proprio questi personaggi «hanno in mano le chiavi della “fabbrica dei sogni”», e quindi «manipolano l’immaginario di milioni di persone».Ho l’impressione, dice, che gli scandali Weinstein, Spacey e Hoffman siano serviti per silenziare una bomba ben peggiore, che stava per scoppiare: l’esistenza di una rete di pedofili seriali a Hollywood. Lei è Enrica Perucchietti, coraggiosa reporter e autrice di saggi su “fake news” (in collaborazione con Marcello Foa) e terrorismo “false flag”, cioè attuato – sotto falsa bandiera – dagli stessi governi, tramite settori dell’intelligence. Una radiografia del potere, quella fornita dalla Perucchietti, che include anche le pagine meno illuminate dei padroni del mondo: la loro vita privata, spesso inquinata da devianze inconfessabili. Ne ha parlato con Gianluca Marletta nel libro “Unisex”, che si interroga sull’ambigua manipolazione sociale che affiora, in controluce, dagli sponsor “politicamente corretti” dell’ideologia gender. Ora, dopo l’ennesimo scandalo – la grande accusatrice Asia Argento a sua volta accusata di abuso su un minorenne – Enrica Perucchietti esprime un terribile sospetto: e se lo tsunami inaugurato con il caso Weinstein fosse servito, essenzialmente, a depistare il pubblico e nascondere un orrore ancora più grande, cioè la pedofilia diffusa a Hollywood oltre che tra i palazzi del massimo potere?
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Toninelli: nazionalizzare le autostrade conviene agli italiani
Che le indagini facciano il proprio corso mi pare naturale. Qui siamo su un altro piano, quello dell’opportunità: come si può pensare che i vertici di un’azienda che non è stata in grado di evitare una strage, facendo ciò che era obbligata per contratto a fare, cioè la manutenzione, possano rimanere al proprio posto? È semplicemente disumano. Autostrade è una società privata e dunque il governo non può obbligarla? Privata è la società, non il servizio pubblico che avrebbe dovuto garantire. Quindi, oltre che legittima, è assolutamente doverosa la richiesta di dimissioni. Anzi, in un paese civile, non sarebbero nemmeno da chiedere. Accettare la proposta di Autostrade di costruire un ponte in acciaio in 8 mesi o scegliere una soluzione diversa con altri soggetti? Non ci sarà alcuno scambio tra eventuali opere di risarcimento danni a cose e beni, semplicemente doverose e scontate, e la procedura di ritiro della concessione già avviata. A parte che ricostruire il ponte è comunque un obbligo in capo al concessionario. Oggi lo Stato sarebbe in grado di costruire da sé il ponte? Difficile per lo Stato fare peggio di ciò che abbiamo visto il 14 agosto.Toglieremo il segreto dalle parti non note dei contratti fra lo Stato e Autostrade e anche sulle altre concessioni con altre società? Assolutamente sì. Non può esistere segreto commerciale o di Stato di fronte a contenuti di preminente interesse pubblico. Stiamo per mettere fine alla opacità che ha garantito il patto inconfessabile tra vecchia politica e certi potentati economici. Togliendo la concessione ad Autostrade, si dice che gli oneri per lo Stato sarebbero comunque alti, fino a 20 miliardi secondo alcune stime. La nazionalizzazione, al netto di un costo iniziale, sarebbe invece sarebbe più conveniente. Pensate a quanti ricavi e margini tornerebbero in capo allo Stato attraverso i pedaggi, da utilizzare non per elargire dividendi agli azionisti, ma per rafforzare qualità dei servizi e sicurezza delle nostre strade. Autostrade ha accumulato 10 miliardi di utili in 15 anni. Nel frattempo, il concessionario resta obbligato a proseguire nell’ordinaria amministrazione dell’esercizio delle autostrade fino al trasferimento della gestione stessa. E d’ora in poi lo dovrà fare con i livelli di manutenzione e di sicurezza previsti dal contratto e dalla legge.Controlli più adeguati, anche da parte del ministero delle infrastrutture? Non mi nascondo dietro un dito: la vecchia politica ha portato lo Stato ad abdicare prima dal suo ruolo di gestore e poi da quello di efficace controllore. Tuttavia le responsabilità sostanziali sulla tenuta strutturale delle opere sono del concessionario. Autocritica da parte di noi 5 Stelle per alcune prese di posizione sulla Gronda, a cominciare dall’aver definito “una favoletta” il rischio che il ponte Morandi crollasse, e più in generale sull’ostilità alla grandi infrastrutture? Il tema Gronda è un falso problema, meschinamente strumentalizzato in questi giorni. Stiamo parlando di un’opera che ottimisticamente sarebbe pronta nel 2029: cosa c’entra con un ponte crollato nel 2018? Non siamo assolutamente contrari alle grandi opere utili. Anzi, ne servono tante al paese. Ma qui c’è un problema diverso, di manutenzione ordinaria e straordinaria dell’esistente. Che è proprio quello che non hanno fatto quelli delle grandi opere che oggi ci contestano e che invece dovrebbero chiedere scusa e poi tacere.(Danilo Toninelli, dichirazioni rilasciate al “Corriere della Sera” per l’intervista pubblicata il 21 agosto 2018, ripresa dal “Blog delle Stelle”).Che le indagini facciano il proprio corso mi pare naturale. Qui siamo su un altro piano, quello dell’opportunità: come si può pensare che i vertici di un’azienda che non è stata in grado di evitare una strage, facendo ciò che era obbligata per contratto a fare, cioè la manutenzione, possano rimanere al proprio posto? È semplicemente disumano. Autostrade è una società privata e dunque il governo non può obbligarla? Privata è la società, non il servizio pubblico che avrebbe dovuto garantire. Quindi, oltre che legittima, è assolutamente doverosa la richiesta di dimissioni. Anzi, in un paese civile, non sarebbero nemmeno da chiedere. Accettare la proposta di Autostrade di costruire un ponte in acciaio in 8 mesi o scegliere una soluzione diversa con altri soggetti? Non ci sarà alcuno scambio tra eventuali opere di risarcimento danni a cose e beni, semplicemente doverose e scontate, e la procedura di ritiro della concessione già avviata. A parte che ricostruire il ponte è comunque un obbligo in capo al concessionario. Oggi lo Stato sarebbe in grado di costruire da sé il ponte? Difficile per lo Stato fare peggio di ciò che abbiamo visto il 14 agosto.