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Traviare la Germania? Ci riescono sempre, e sono guai
Così seria, rigorosa, diligente. E così facile da manipolare. Per questo la Germania finisce per essere il problema numero uno dell’Europa: lo fu con Hitler, lo è oggi con la Merkel e il suo rigore devastante. Lo afferma “Grande Oriente Democratico”, sito curato da Gioele Magaldi, autore del saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere) che svela il ruolo fondamentale, a livello internazionale, di 36 Ur-Lodges che rappresentano il vertice occulto, apolide e massonico, del supremo potere mondiale, decisivo nella storia del ‘900 e nell’attualità dei nostri giorni. «A fronte delle giuste considerazioni sui vantaggi (cinici) conseguiti dal sistema-Germania grazie alle attuali politiche suicide della Ue – premette il post – bisogna tuttavia rifuggire da qualsivoglia demonizzazione del popolo tedesco», composto da «grandi filosofi, artisti, intellettuali di spessore», ma anche da «una genia piuttosto facile da manipolare». Ovvero: «Non è colpa loro e non è un problema razziale-biologico, quanto piuttosto socio-culturale». In altre parole: a scadenze fisse, l’Europa (che non è “innocente”) paga il prezzo, tremendo, della grande fragilità psicologica della Germania.«Per le stesse ragioni per le quali la cultura clerical-fascista e poi comunista e democristiana ha reso larghe fasce di italiani ipocriti, corrotti, doppiogiochisti e vili (dimenticando la grande lezione dei patrioti risorgimentali), i tedeschi si innamorano di dogmi fideistici in modo assoluto e ne deducono una serie di comportamenti scellerati, almeno fino a quando qualche shock traumatico non li ridesta alla ragione e allo spirito critico», scrive “Grande Oriente Democratico”, ricordando che negli anni ‘30 «la crescita economica e militare della Germania hitleriana fu finanziata anche da ingenti capitali provenienti da determinati ambienti finanziari massonici inglesi e statunitensi (di matrice conservatrice e reazionaria)». Ambienti «simpatizzanti con l’esperimento nazionalsocialista tedesco e con quello fascista italiano». E tutto questo «proprio mentre, con spregiudicata mistificazione manipolatrice per le solite masse di gonzi, fascisti e nazisti imprecavano contro le consorterie demo-pluto-giudaico-massoniche». In realtà, «i massoni progressisti furono ovunque perseguitati, nell’Europa a dominazione nazi-fascista», e la massoneria in quanto istituzione ufficiale fu messa fuori legge. L’altra massoneria, quella reazionaria, era invece pienamente in sella.«La regia economica dell’Italia fu affidata da Mussolini al massone (ed ex socialista) Alberto Beneduce», continua il sito curato da Magaldi, osservando che, nel contempo, il Gran Consiglio del Fascismo «era quasi completamente composto di ex massoni reazionari». E in parallelo, la direzione dell’economia della Germania nazista fu coordinata dal massone Hjalmar Schacht. Intendendiamoci: «Non c’è dubbio che il popolo tedesco, esasperato dalle dissennate politiche vessatorie propugnate dagli anglo-francesi dopo la fine della Prima Guerra Mondiale e ancor più dal ritiro dei capitali statunitensi a seguito della Grande Crisi del 1929, fu abilmente condotto ad affidarsi alle cure del nazionalsocialismo». Il partito di Hitler «fu finanziato originariamente dalla più influente, cosmopolita e massonica (di inclinazione reazionaria) industria e alta finanza tedesca, significativamente collegata con ambienti “fraterni” della City di Londra e di Wall Street, i quali a loro volta intervennero a far ri-affluire capitali in Germania dopo che Hitler fu salito al potere».L’esperimento tedesco avrebbe letteralmente seppellito la democrazia in Europa, se non fosse stato bloccato da forze determinanti. “Grande Oriente Democratico” sottolinea «l’intervento provvidenziale (e in extremis) dei massoni progressisti euro-atlantici (a partire dalla cerchia di Roosevelt e con l’apporto dei massoni conservatori riuniti attorno a Winston Churchill, “guariti” dalla simpatia per il fascismo, pur in presenza di certa aristocrazia massonica britannica legata a filo doppio con il regime nazista». Senza l’intervento statunitense del 1941, ovviamente, «l’Europa sarebbe divenuta un continente egemonizzato da un’oligarchia sovranazionale che aveva nella Germania hitleriana la sua formidabile e parzialmente dissimulata testa di ponte». E ora, «a distanza di molti decenni e in uno scenario altrettanto complesso di dissimulazioni e mistificazioni mediatico-politiche», ecco che «il veleno della manipolazione del popolo teutonico» è stato nuovamente «cosparso a piene mani», da quando nel 2005 Angela Merkel ha iniziato la sua esperienza di governo alla guida dei tedeschi riunificati. Corsi e ricorsi: così come la congiura anti-germanica dopo la Prima Guerra Mondiale spinse i tedeschi tra le braccia di Hitler (e dei suoi sostenitori occulti), analogamente – con qualche eccezione – la coscienza collettiva tedesca «è stata plasmata negli ultimi anni per concordare e convergere su un progetto egemonico neo-nazionalista, che è anche sostanzialmente anti-europeista».Il sito curato da Magaldi accusa la Germania odierna di «perseguire sfacciatamente un disegno di destrutturazione degli Stati europei più fragili, al fine di realizzare una odiosa forma di egemonia cinica e predatoria», peraltro – come già negli anni ‘30 – anche oggi «guidata da fili che riconducono a burattinai sovra-nazionali, globali e cosmopoliti, indifferenti ai destini dei popoli europei nello stesso grado in cui lo sono della manovalanza cinese, asiatica, africana o sudamericana». Di nuovo, «la popolazione della Germania è stata irretita e manipolata». Il miraggio è quello di «una straordinaria egemonia continentale esattamente come lo fu ieri, negli anni del regime hitleriano». Non a caso, «le politiche di austerità, rigore, suicidio e de-crescita del resto d’Europa sono il fondamento su cui il governo della Merkel sta edificando un luciferino e cinico benessere per larghe fasce (anche se non tutte) della sua nazione. E intanto altri soggetti hanno realizzato e realizzeranno colossali profitti speculando sul balletto degli spread che coinvolge i bond di tutte le nazioni europee che non siano la Germania».Se la Germania riuscirà a completare, con le legislazioni del rigore, «quella egemonia razzista e nazionalista che non fu raggiunta dal regime hitleriano» a suon di bombe e stragim, i veri burattinai di tutta l’operazione anti-europea in corso «si godranno i dividendi economici, con l’acquisizione e sostituzione a prezzi stracciati di industrie private dei paesi schiacciati dalla crisi, nonché mediante il business colossale della privatizzazione dei servizi locali di pubblica utilità e della dismissione di beni e industrie statali». Magaldi include anche i dividendi “politici” di quella che definisce «una involuzione tecnocratica ed oligarchica del Vecchio Continente». Corsi e ricorsi, anche nel bene? Magaldi, che è presidente del Movimento Roosevelt (metapolitico e trasversale, per il “risveglio” democratico dei partiti) si augura che «salti fuori un nuovo gruppo di combattenti come quello che permise al “fratello” Franklin Delano Roosevelt (e poi ai “fratelli” Truman e Marshall) di ristabilire libertà, democrazia e benessere per l’Europa e per l’Occidente».Così seria, rigorosa, diligente. E così facile da manipolare. Per questo la Germania finisce per essere il problema numero uno dell’Europa: lo fu con Hitler, lo è oggi con la Merkel e il suo rigore devastante. Lo afferma “Grande Oriente Democratico”, sito curato da Gioele Magaldi, autore del saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere) che svela il ruolo fondamentale, a livello internazionale, di 36 Ur-Lodges che rappresentano il vertice occulto, apolide e massonico, del supremo potere mondiale, decisivo nella storia del ‘900 e nell’attualità dei nostri giorni. «A fronte delle giuste considerazioni sui vantaggi (cinici) conseguiti dal sistema-Germania grazie alle attuali politiche suicide della Ue – premette il post – bisogna tuttavia rifuggire da qualsivoglia demonizzazione del popolo tedesco», composto da «grandi filosofi, artisti, intellettuali di spessore», ma anche da «una genia piuttosto facile da manipolare». Ovvero: «Non è colpa loro e non è un problema razziale-biologico, quanto piuttosto socio-culturale». In altre parole: a scadenze fisse, l’Europa (che non è “innocente”) paga il prezzo, tremendo, della grande fragilità psicologica della Germania.
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Barnard: ci sveglieremo in altro pianeta, e nessuno ne parla
«Casaleggio vide lungo: voleva creare la società civile del click da casa, tutto si fa in casa sul divano, in rete», ma «era un principiante: Facebook-Vr sarà la più devastante paralisi civica dlla storia, un fenomeno che non sfiorò neppure i sogni del padre della paralisi civica programmata, Edward Bernays». Parola di Paolo Barnard, secondo cui il dilagare della cosiddetta realtà virtuale, da Zuckerberg a Oculus con i visori “Rift Headset”, ben fotografa i mutamenti epocali ormai dietro l’angolo: «Il mondo si sta letteralmente trasformando in un altro pianeta», mentre in Italia le news sono ancora firmate da Grillo e Formigoni, Mediaset-Vivendi, Gentiloni e Poletti. Il capo di stato maggiore dell’esercito britannico e il suo futuro omologo americano, scrive Barnard, stanno preparando gli eserciti alla guerra futura, che sarà “cyber”. Alla “Bbc” il generale Richard Barrons ha detto: «Non ci saranno più bombardieri e soldati, ma “cyber fighters”. La Russia di Putin ha fatto il primo passo, in questo, ed è avanti: hanno un milione di programmatori già affiliati a 40 reti illegali. Silicon Valley, Google e Nsa stanno arrancando dietro a Mosca».Le guerre, aggiunge il generale Barrons, saranno combattute «infiltrando le infrastrutture vitali di un paese avversario». Esempio: «Una notte le luci di tutta la Francia salteranno, e nel panico i francesi scopriranno che sono saltati anche i back-up, i server saranno tutti muti. Una potenza Nato messa in ginocchio in meno di un secondo, senza bombe». E che dire dell’energia? «Le rinnovabili uccideranno gli idrocarburi», scrive Barnard nel suo blog. «Questo lo si è capito ai massimi livelli in Usa, Cina, Arabia Saudita, ma soprattutto fra i colossi d’investimento. Chi segue “Carbon Tracker” si fa un’idea della furiosa corsa dei poteri mondiali per l’energia di domani, ma soprattutto del potenziale di conflitti mostruosi per la spartizione della torta. Tutti i paradigmi politici legati all’energia sono saltati, e l’energia è tutto. Miliardi di poveri del mondo rischiano di finire nelle mani degli investitori per accendere una lampadina, mille volte più di quanto non lo siano già oggi».Oltre ai conflitti “cyber”, poi, rimane l’atomica: «Se ci sarà conflitto nucleare sarà in due luoghi: il mar del Sud della Cina, dove gli Usa stanno tentando di tagliare le comunicazioni mercantili ed energetiche di Pechino; oppure nel Jammu-Kashmir, dove fra India e Pakistan la miccia atomica è letteralmente tutti i giorni a un centimetro dal fuoco», sostiene Barnard. Per non parlare della finanza: «Tutta Europa, e tutta la vita economica di ogni vivente oggi in Ue, è appesa al filo del “tapering” della Bce di Draghi. Il “tapering” è il momento certo e già annunciato nel quale la Bce finirà di tenere viva l’Europa comprandogli trilioni di euro di assets (statali e privati) che altrimenti nessuno vorrebbe o che avrebbero prezzi stracciati e tassi alle stelle». Il quantitative easing di Draghi «è oggi l’oggetto di discussione frenetica di tutti gli Ad di ogni singolo istituto finanziario del pianeta. C’è il totale panico, ed è panico vero», ma in Italia a tener banco sono solo la Raggi, Equitalia, i 104 indagati del Pd.Poche settimane fa, aggiunge Barnard, il più grande gruppo assicurativo del mondo, Ing, ha convocato un seminario con oltre 600 esperti mondiali sulla “glocalization”. Letteralmente, per Google: «Diffusione su scala mondiale, grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, di elementi culturali, idee, stili di vita propri di realtà locali». Ma anche: «Strategia economica e politica volta a correggere gli aspetti più problematici della globalizzazione, sfruttandone le opportunità per valorizzare a livello mondiale il ruolo di governi, mercati o imprese locali». Per Wikipedia, il neologismo introdotto dal sociologo Zygmunt Bauman significa: «Adeguare il panorama della globalizzazione alle realtà locali, così da studiarne meglio le loro relazioni con gli ambienti internazionali». E quindi: «La creazione o distribuzione di prodotti e servizi ideati per un mercato globale o internazionale, ma modificati in base alle leggi o alla cultura locale», nonché «l’uso di tecnologie di comunicazione elettronica, come Internet, per fornire servizi locali su base globale o internazionale. Craigslist e Meetup sono esempi di applicazioni web glocalizzate». E infine: «La creazione di strutture organizzative locali, che operano su culture e bisogni locali, al fine di diventare multinazionali o globali. Questo comportamento è stato seguito da varie aziende e corporation, ad esempio dall’Ibm».Per Barnard, «è il fenomeno inverso della vecchia globalizzazione e dell’“outsourcing” dei posti di lavoro verso paesi a manodopera per pochi centesimi (Cina, Thailandia, Messico, Bangladesh)». Domanda: perché la “glocalization” sta diventando un altro tema di fibrillazione dei colossi e delle think-tank del mondo occidentale? «Perché anche qui tutti i paradigmi della produzione industriale sono saltati: siamo in un incubo d’incognite su cosa accadrà nel processo di “glocalization” ai nostri impieghi, alle nostre economie. Un intero mondo è di nuovo saltato in frantumi nel cosmo». Da noi chi ne parla? Nessuno. «Oggi le parole di filosofia politica e morale più impressionanti escono dalla bocca di uomini come Ray Dalio, Ceo di Bridgewater, hedge fund “monster”. O da Bill Gross, l’ex Re Mida di Pimco, il più grande gestore di “fixed income” del mondo», investitori in azioni private e titoli di Stato. «Parlano di informazione, di moralità nell’economia, delle strutture sociali, del senso della morte persino, ma lo fanno però con la conoscenza degli strumenti dei padroni del mondo, cioè con la conoscenza del motore che fa vivere o morire 7 miliardi di umani. Questo fa una differenza incredibile». Perfettamente inutili, dice Barnard, «gli sproloqui di filosofi o intellettuali contemporanei», perché «non sanno nulla del motore che fa vivere o morire 7 miliardi di umani». Conclusione: tutto sta cambiando alla velocità della luce, e nessuno ce lo spiega.«Casaleggio vide lungo: voleva creare la società civile del click da casa, tutto si fa in casa sul divano, in rete», ma «era un principiante: Facebook-Vr sarà la più devastante paralisi civica dlla storia, un fenomeno che non sfiorò neppure i sogni del padre della paralisi civica programmata, Edward Bernays». Parola di Paolo Barnard, secondo cui il dilagare della cosiddetta realtà virtuale, da Zuckerberg a Oculus con i visori “Rift Headset”, ben fotografa i mutamenti epocali ormai dietro l’angolo: «Il mondo si sta letteralmente trasformando in un altro pianeta», mentre in Italia le news sono ancora firmate da Grillo e Formigoni, Mediaset-Vivendi, Gentiloni e Poletti. Il capo di stato maggiore dell’esercito britannico e il suo futuro omologo americano, scrive Barnard, stanno preparando gli eserciti alla guerra futura, che sarà “cyber”. Alla “Bbc” il generale Richard Barrons ha detto: «Non ci saranno più bombardieri e soldati, ma “cyber fighters”. La Russia di Putin ha fatto il primo passo, in questo, ed è avanti: hanno un milione di programmatori già affiliati a 40 reti illegali. Silicon Valley, Google e Nsa stanno arrancando dietro a Mosca».
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La giudice: questo regime fascista chiamato neoliberismo
Il tempo della retorica è finito, le cose vanno chiamate con il loro nome: il neoliberismo è il fascismo del XXI secolo. Lo afferma Manuela Cadelli su “Off-Guardian”, sito d’opinione creato da alcuni autori del celebre quotidiano inglese, scontenti della linea ufficiale del giornale. La Cadelli è presidente del sindacato dei magistrati belgi. Se il liberismo originario deriva dalla filosofia dell’Illuminismo, sviluppata per garantire ai cittadini «il rispetto delle libertà e l’emancipazione democratica», divenendo «il motore per l’ascesa, e il continuo progresso, delle democrazie occidentali», il neoliberalismo dei nostri giorni è invece «una forma di economicismo che colpisce continuamente tutti i settori della nostra comunità». In altre parole, «si tratta di una forma di estremismo». Il fascismo? Era «la subordinazione di ogni parte dello Stato a una ideologia totalitaria e nichilista». E dunque, «il neoliberalismo è una specie di fascismo, perché l’economia ha soggiogato non solo il governo dei paesi democratici, ma anche tutti gli aspetti del nostro pensiero: lo Stato è ora agli ordini dell’economia e della finanza, che lo trattano come un subordinato e spadroneggiano su di esso in misura tale da mettere in pericolo il bene comune».«L’austerità richiesta dall’ambiente finanziario è diventata un valore supremo, che sostituisce la politica», scrive Manuela Cadelli, nel post tradotto da “Voci dall’Estero”. «La necessità di risparmiare preclude il perseguimento di qualsiasi altro obiettivo pubblico». Siamo arrivati al punto in cui «si rivendica che il principio di ortodossia di bilancio dovrebbe essere incluso nelle Costituzioni statali», cosa che per l’Italia è già legge grazie al governo Monti, sorretto da Berlusconi e dal Pd. «La nozione di servizio pubblico è stata trasformata in una presa in giro», continua la Cadelli. «Il nichilismo che ne deriva rende possibile il rigetto dell’universalismo e dei valori umanistici più ovvi: la solidarietà, la fraternità, l’integrazione e il rispetto per tutti e per le differenze». Non c’è nemmeno più posto per la teoria economica classica: se prima il lavoro era «un elemento della domanda», e quindi «c’era rispetto per i lavoratori», da tempo «la finanza internazionale ne ha fatto una mera variabile di compensazione».Ogni totalitarismo, continua Cadelli, inizia con uno stravolgimento del linguaggio, come nel romanzo di George Orwell: «Il neoliberalismo ha la sua Neolingua e le sue strategie di comunicazione che gli permettono di deformare la realtà». In questo spirito, «ogni taglio di bilancio è rappresentato come un esempio di modernizzazione». Alcuni dei più poveri non hanno più accesso al rimborso per le spese mediche e di conseguenza interrompono le visite dal dentista? Pazienza, «è la modernizzazione della previdenza sociale in azione». Nella discussione pubblica «predomina l’astrazione, in modo da nascondere le concrete implicazioni per gli esseri umani». Così per tutto: «In relazione ai migranti, è imperativo che la necessità di ospitarli non conduca a lanciare pubblici appelli che le nostre finanze non potrebbero sostenere», trascurando il diritto (primario) alla solidarietà nazionale verso chi ha bisogno di assistenza.Ormai «predomina il darwinismo sociale», che assoggetta tutti a «criteri di efficienza nelle prestazioni assolutamente inflessibili», sicché «essere deboli vuol dire fallire». Per Manuela Cadelli, «vengono ribaltate le fondamenta della nostra cultura: ogni premessa umanista viene squalificata o demonizzata perché il neoliberalismo ha il monopolio della razionalità e del realismo». Margaret Thatcher nel 1985 disse: «Non c’è alternativa». Tutto il resto è utopia, irrazionalità e regressione. «La virtù del dibattito e i punti di vista differenti sono screditati perché la storia è governata dalla necessità». Questa sottocultura «ospita una propria minaccia esistenziale: prestazioni carenti condannano alla scomparsa, mentre allo stesso tempo chiunque è accusato di essere inefficiente e obbligato a giustificare tutto». Una catastrofe antropologica: «La fiducia è infranta. Regna la valutazione, e con essa la burocrazia che impone la definizione e la ricerca di una pletora di obiettivi e indicatori che l’individuo deve rispettare. La creatività e lo spirito critico sono soffocati dall’amministrazione. E ognuno si batte il petto per lo spreco e l’inerzia di cui è colpevole».Fiducia infranta, e giustizia ignorata: l’ideologia neoliberale produce norme «in concorrenza con le leggi del Parlamento», al punto che «lo Stato di diritto democratico è compromesso», e le sue regole – che mirano a tutelare i cittadini, al riparo dagli abusi – vengono ormai «guardate come ostacoli». Questo perché «il potere giudiziario, che ha la capacità di opporsi alla volontà dei gruppi dominanti, deve essere messo sotto scacco». In Belgio, accusa Manuela Cadelli, la magistratura è stata privata dell’indipendenza assegnatale dalla Costituzione in modo che potesse svolgere il ruolo di contrappeso che i cittadini si aspettano. «L’obiettivo di questo progetto chiaramente è che non ci dovrebbe più essere giustizia in Belgio». Ma la classe dominante, «una casta al di sopra degli altri», non prescrive per sé la stessa medicina che deve essere presa dai normali cittadini: l’austerità ben organizzata è sempre “per gli altri”. Come ricorda Thomas Piketty, nonostante la crisi esplosa nel 2008 «non è stato fatto nulla per sorvegliare la comunità finanziaria». Chi ha pagato? «La gente comune, voi e io».Anche il Belgio conferma la tendenza generale: sgravi fiscali da 7 miliardi alle multinazionali, e tasse aggiuntive (il 21% delle spese legali) per i cittadini che ricorrono alla magistratura: «D’ora in poi, per ottenere un risarcimento, le vittime dell’ingiustizia dovranno essere ricche», scrive Cabelli. «Tutto questo, in uno Stato in cui il numero dei dipendenti pubblici batte tutti i record internazionali». Lì non valgono gli standard di efficienza imposti agli altri lavoratori: «La razionalizzazione e l’ideologia manageriale si sono comodamente fermate alle porte del mondo politico». E la situazione peggiorerà ancora, secondo la sindacalista dei giudici del Belgio, grazie all’uso strumentale del terrorismo: «Presto sarà possibile aggirare la giustizia, già priva di potere su tutte le violazioni delle nostre libertà e dei nostri diritti, riducendo ulteriormente la protezione sociale per i poveri, che saranno sacrificati al “sogno della sicurezza”».Siamo condannati allo scoraggiamento e alla disperazione? «Certamente no», dice Cabelli, ricordando che «cinquecento anni fa, al culmine delle sconfitte che avevano abbattuto la maggior parte degli Stati italiani con l’imposizione dell’occupazione straniera per più di tre secoli», Niccolò Machiavelli esortava gli uomini virtuosi «a sfidare il destino e a ergersi contro le avversità del tempo, a preferire l’azione e il coraggio alla cautela», anche perché «più è tragica la situazione, più sono richieste l’azione e il rifiuto della “rinuncia”». Questo, insiste Cabelli, è l’insegnamento necessario oggi: «La determinazione dei cittadini attaccati alla radicalità dei valori democratici è una risorsa preziosa». Non ha ancora rivelato appieno il suo potenziale? I mezzi non mancano: «Attraverso i social network e la potenza della parola scritta, oggi tutti possono essere coinvolti a portare il bene comune e la giustizia sociale al cuore del dibattito pubblico e dell’amministrazione dello Stato e della comunità, in particolare quando si tratta di servizi pubblici, università, mondo studentesco, magistratura».Il tempo della retorica è finito, le cose vanno chiamate con il loro nome: il neoliberismo è il fascismo del XXI secolo. Lo afferma Manuela Cadelli su “Off-Guardian”, sito d’opinione creato da alcuni autori del celebre quotidiano inglese, scontenti della linea ufficiale del giornale. La Cadelli è un giudice, presidente del sindacato dei magistrati belgi. Se il liberismo originario deriva dalla filosofia dell’Illuminismo, sviluppata per garantire ai cittadini «il rispetto delle libertà e l’emancipazione democratica», divenendo «il motore per l’ascesa, e il continuo progresso, delle democrazie occidentali», il neoliberalismo dei nostri giorni è invece «una forma di economicismo che colpisce continuamente tutti i settori della nostra comunità». In altre parole, «si tratta di una forma di estremismo». Il fascismo? Era «la subordinazione di ogni parte dello Stato a una ideologia totalitaria e nichilista». E dunque, «il neoliberalismo è una specie di fascismo, perché l’economia ha soggiogato non solo il governo dei paesi democratici, ma anche tutti gli aspetti del nostro pensiero: lo Stato è ora agli ordini dell’economia e della finanza, che lo trattano come un subordinato e spadroneggiano su di esso in misura tale da mettere in pericolo il bene comune».
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Il Censis: i giovani non hanno nulla. L’Italia sta crollando
Lo scenario “follow the money” è un’altra volta imminente, avverte Pepe Escobar: le banche dell’Unione Europea sono preoccupate della vittoria del No, e questo renderà molto più difficile salvare il Monte dei Paschi di Siena, la banca più antica del mondo e attualmente la terza più grande dell’Italia, che ha urgente bisogno di raccogliere 5 miliardi di euro in equity e di svendere 28 miliardi di crediti deteriorati. «L’intero sistema bancario italiano è alle corde, ha bisogno di un pacchetto di salvataggio da almeno 40 miliardi di euro», scrive Escobar su “Rt”, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. «L’Italia si è affidata alla Jp Morgan per trovare una soluzione». Un uomo come Ewald Nowotny, membro del board della Bce nonché capo della banca centrale austriaca, «insiste che l’Italia potrebbe dover spendere tanti soldi pubblici per il salvataggio», e questo «sarà considerato deleterio dalla maggioranza degli italiani», alle prese con una crisi devastante: la produzione industriale ha perso il 10%. E la disoccupazione, ad un pesante 13%, è «il doppio di quanto non lo fosse durante la crisi economica del 2008». Una fotografia impietosa, aggiunge Paolo Barnard, è quella scattata dal Censis. Che scrive: «Gli anziani si tengono stretto ciò che hanno accumulato dagli anni ’70, i giovani non hanno nulla».La verità, sottolinea Barnard sul suo blog, è che il No «viene da milioni di cittadini furiosi fino all’odio con quel fesso fiorentino che prometteva ma ha solo leccato culi negli executive offices d’Europa, per lasciare a chi già aveva, ma togliere a chi già aveva troppo poco. Guardatevi la mappa del No». Le Austerità, «mai veramente sfidate da Matteo Renzi», secondo il Censis «hanno lasciato 11 milioni di italiani a rimandare esami diagnostici o a cancellarli del tutto». Per l’istituto di statistica, «i poveri assoluti in Italia sono oggi 4,5 milioni». I risparmiatori? «Accumulano, ma non spendono», perché «terrorizzati dal dover pagare di tasca propria i servizi essenziali», cosa che funzionava all’incontrario prima dell’Eurozona, ricorda Barnard, quando cioè era lo Stato a sostenere il welfare, attraverso la lira. Ma a pesare sono soprattutto i giovani, che – infatti – hanno votato No in massa. «Non hanno niente», afferma il Censis. I giovani sono «intrappolati in mini-lavori a bassissimo reddito e zero produttività a causa del Job Act di Renzi». Una riforma che – lo denunciò a “La Gabbia” lo stesso Barnard – è stata scritta «quasi del tutto dalla lobby Business Europe a Bruxelles».E così, conclude il Censis, «la classe media italiana sta scomparendo sotto la ritirata degli investimenti». In più, aggiunge Barnard, «Renzi ha lasciato il 50% delle pensioni sotto i 1.000 euro al mese, ha regalato solo mance di Nano-Economia spostando eurini da un salvadanaio all’altro, la produzione industriale italiana è collassata al 22% nel 2016, il dato peggiore dal 2007, e il Pmi Index delle aziende è al punto più basso da 2 anni». La verità è che a Renzi non glien’è mai importato nulla dell’interesse nazionale, continua Barnard: «Infatti la sua eminenza grigia in economia, Yoram Gutgeld, era un ex executive della McKinsey con l’ossessione della spending review di Bruxelles piantata in testa». Alla fine, «gli italiani più dimenticati hanno impiccato Renzi in piazza». E Goldman Sachs scrive, in un “paper” destinato agli investitori: «Il rapporto fra la disoccupazione giovanile in ogni data regione di voto e il voto No è incredibilmente diretto». E state attenti, avverte Barnard: «Questi sono gli stessi italiani che nelle europee del 2014 avevano dato a Renzi un trionfo. Cosa cazzo ha combinato in soli 2 anni e un po’? Semplice: non ha mantenuto nulla, perché l’uomo di Bruxelles gli diceva sempre No».Dunque che cosa c’è in vista, ora? Una crisi politica «contenibile», secondo Escobar, visto che lo scenario dell’offerta politica italiana «non è esattamente edificante»: c’è un Renzi azzoppato col Pd in rivolta, poi Silvio “bunga bunga” Berlusconi, Grillo, Salvini. In altre parole: nessun Piano-B in campo. «Mentre l’Unione Europea osserva», scrive Escobar, «la linea di fondo è che l’Italia non è vicina ad alcun referendum per lasciare l’Eurozona, per non parlare dell’Unione Europea, in quanto la maggior parte degli italiani sono europeisti (eccetto quando si parla della dominazione tedesca nella Banca Centrale Europea)». La prossima battaglia elettorale vedrà opporsi «l’anti-casta Movimento 5 Stelle» che non sfida apertamente l’Ue né ripudia l’euro, il Pd renziano «ora allo sfascio» e comunque “fedele alla linea” di Bruxelles, e Forza Italia di “nonno Silvio”, probabilmente alleato con la Lega. A tutto penserà, l’Italia, fuorché liberarsi dell’euro, scrive Escobar. «Ma questo implica un intreccio secondario: Angela Merkel, proprio lei, dovrà farsi avanti per dare una mano a “salvare” l’Unione Europea, salvando il Partito Democratico di Renzi».Lo scenario “follow the money” è un’altra volta imminente, avverte Pepe Escobar: le banche dell’Unione Europea sono preoccupate della vittoria del No, e questo renderà molto più difficile salvare il Monte dei Paschi di Siena, la banca più antica del mondo e attualmente la terza più grande dell’Italia, che ha urgente bisogno di raccogliere 5 miliardi di euro in equity e di svendere 28 miliardi di crediti deteriorati. «L’intero sistema bancario italiano è alle corde, ha bisogno di un pacchetto di salvataggio da almeno 40 miliardi di euro», scrive Escobar su “Rt”, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. «L’Italia si è affidata alla Jp Morgan per trovare una soluzione». Un uomo come Ewald Nowotny, membro del board della Bce nonché capo della banca centrale austriaca, «insiste che l’Italia potrebbe dover spendere tanti soldi pubblici per il salvataggio», e questo «sarà considerato deleterio dalla maggioranza degli italiani», alle prese con una crisi devastante: la produzione industriale ha perso il 10%. E la disoccupazione, ad un pesante 13%, è «il doppio di quanto non lo fosse durante la crisi economica del 2008». Una fotografia impietosa, aggiunge Paolo Barnard, è quella scattata dal Censis. Che scrive: «Gli anziani si tengono stretto ciò che hanno accumulato dagli anni ’70, i giovani non hanno nulla».
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Hayek, il profeta dell’élite che ha rottamato la democrazia
Le origini dell’ascesa di Trump, ovvero: come una rete spietata di ideologi super-ricchi ha ucciso il potere di scelta e distrutto la fede della gente nella politica. «L’uomo che ha affondato la candidatura di Hillary Clinton alla presidenza non è stato Donald Trump. È stato suo marito», Bill Clinton. Lo afferma l’analista inglese George Monbiot, secondo cui Clinton è stato l’ultimo epigono dell’aberrante visione del mondo proposta dal pensatore austriaco neo-aristocratico Frederick von Hayek, sinistro profeta della dittatura dell’élite finanziaria in nome di presunti valori. «La serie di eventi che ha portato all’elezione di Donald Trump è iniziata in Inghilterra nel 1975», sostiene Monbiot. Durante un incontro pochi mesi dopo che Margaret Thatcher era diventata leader del partito conservatore, uno dei suoi colleghi stava esponendo quelli che secondo lui erano i valori fondanti del conservativismo, o almeno questo è ciò che si dice. Lei aprì di scatto la sua borsetta, tirò fuori un libro consumato, e lo sbatté sul tavolo. «Questo è ciò che noi crediamo», disse. «Era appena iniziata una rivoluzione politica che sarebbe dilagata in tutto il mondo. Il libro era “The Constitution of Liberty” di Frederick Hayek».La sua pubblicazione nel 1960 segnò la transizione da una filosofia rispettabile, anche se estrema, ad un caos totale, scrive Monbiot, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. Quella filosofia era chiamata neoliberalismo. «Considerava la competizione come la caratteristica distintiva delle relazioni umane. Il mercato avrebbe trovato la sua naturale gerarchia di vincitori e perdenti, e ne sarebbe risultato un sistema più efficiente di quanto sarebbe stato possibile attraverso la programmazione o la progettazione». Attenzione: «Qualsiasi cosa impedisse tale processo, come tasse sostanziose, regole, attività sindacali o incentivi statali, era controproducente. L’imprenditorialità senza restrizioni avrebbe prodotto una ricchezza con effetti positivi a cascata su tutti». Quando Hayek iniziò a scrivere “The Constitution of Liberty”, «la rete di lobbisti e pensatori che aveva creato stava ricevendo generosi finanziamenti da parte di multi-milionari che vedevano questa dottrina come un modo per difendere se stessi dalla democrazia». Hayek inizia il libro suggerendo la concezione più semplice possibile di libertà: l’assenza di coercizione. Rifiuta nozioni come libertà politica, diritti universali, uguaglianza degli esseri umani e distribuzione equa della ricchezza.Tutti concetti che, limitando il campo d’azione di ricchi e potenti, si interpongono tra loro e l’assoluta libertà dai vincoli a cui ambiscono. La democrazia, al contrario, «non è un valore supremo o gradito a tutti». Infatti, la libertà consiste nell’impedire che la maggioranza abbia potere decisionale sulla direzione che la politica e la società decidono di prendere. Hayek «giustifica questa visione delineando una narrativa epica di estrema prosperità», e identifica l’élite economica «con un gruppo di pionieri della filosofia e della scienza che spenderanno il loro denaro in modi nuovi». Così come il filosofo politico dovrebbe essere libero di “pensare l’impensabile”, allo stesso modo «chi è molto ricco dovrebbe essere libero di tentare l’infattibile, senza vincoli posti dall’interesse collettivo o dall’opinione pubblica». E allora i super-ricchi diventano «esploratori» che «sperimentano nuovi stili di vita», tracciando la strada che il resto della società seguirà. Il progresso della società «dipende dalla libertà di questi “indipendenti” di guadagnare tutto il denaro che vogliono e di spenderlo come meglio credono. Tutto ciò che è buono e utile, quindi, deriva dall’ineguaglianza». Non ci dovrebbe essere connessione tra merito e ricompensa, nessuna distinzione tra guadagni giusti e immeritati e alcun limite agli affitti che possono far pagare.Inoltre, la ricchezza ereditata è socialmente più utile di quella guadagnata: «Il ricco indolente», che non deve lavorare per denaro, può dedicarsi a influenzare «aree di pensiero e opinione, gusti e idee». Anche quando sembra che spenda soldi solo per uno «sfoggio senza senso», sta in realtà agendo da avanguardia della società. Tutto ciò che il ricco fa è, per definizione, positivo. Hayek ammorbidì l’opposizione ai monopoli e irrigidì quella verso i sindacati. Criticò la tassazione progressiva e ogni tentativo da parte dello Stato di elevare il benessere generale dei cittadini. Insistette che ci fossero «argomentazioni schiaccianti contro la sanità pubblica gratuita per tutti» e respinse l’idea della salvaguardia delle risorse naturali (non stupisce che abbiano dato il Nobel per l’economia). Sicché, «quando la signora Thatcher sbatté il suo libro sul tavolo, si era già formata su entrambe le rive dell’Atlantico una vivace rete di think tank, lobbisti e accademici che promuovevano la dottrina di Hayek, abbondantemente finanziata da alcune delle persone e compagnie più ricche del pianeta, compresi DuPont, General Electric, la società di birrificazione Coors, Charles Koch, Richard Mellon Scaife, Lawrence Fertig, il William Volcker Fund e la Earhart Foundation».Usando in modo geniale la psicologia e la linguistica, continua Monbiot, i pensatori sponsorizzati da queste persone trovarono le parole e le argomentazioni necessarie per trasformare l’inno all’élite di Hayek in un programma politico plausibile. Il Thatcherismo e il Reaganismo? Due facce del medesimo neoliberismo: «L’imponente taglio alle tasse per i ricchi, l’attacco ai sindacati, la riduzione degli alloggi popolari, la liberalizzazione, privatizzazione, delocalizzazione e la concorrenza nei servizi pubblici erano già stati teorizzati da Hayek e dai suoi discepoli». Ma il vero trionfo di questo network, sottolinea Monbiot, non fu la sua “innovativa” concezione del diritto, bensì «la conquista di partiti che un tempo erano schierati a favore di tutto ciò che Hayek detestava», cioè le formazioni politiche “di sinistra”, che furono completamente “colonizzate”. Bill Clinton e Tony Blair «estrapolarono alcuni elementi di ciò che un tempo i loro partiti avevano creduto, lo combinarono con idee prese in prestito dai loro oppositori, e da questa improbabile combinazione diedero vita alla “terza via”. Era inevitabile che lo sfavillante e rivoluzionario entusiasmo del neoliberalismo avrebbe esercitato una forza di attrazione più potente della stella morente della democrazia sociale».Dovunque, allora, si poteva assistere al trionfo di Hayek: dall’ampliamento della Private Finance Initiative di Blair alla revoca da parte di Clinton del Glass-Steagal Act, che regolava il settore finanziario. «Nonostante le sue lodevoli intenzioni, nemmeno Barack Obama aveva una narrativa politica ben definita (eccetto la “speranza”), e lentamente è stato cooptato da coloro che detenevano migliori mezzi di persuasione». Il risultato di tutto ciò è stato «prima l’indebolimento del potere e poi la privazione dei diritti civili». Se l’ideologia dominante consiglia ai governi di non garantire più la giustizia sociale, «essi non possono più rispondere ai bisogni dell’elettorato», e così «la politica diventa irrilevante per le vite dei cittadini». Al che, il cittadino defraudato dei propri diritti «si rivolge verso un’astiosa anti-politica, dove fatti e ragionamenti vengono sostituiti da slogan». Il risultato di oggi è paradossale, dice Monbiot: proprio la sollevazione popolare contro la “dittatura” del neoliberismo «ha portato al successo proprio quel tipo di uomo che Hayek mitizzava», cioè Donald Trump, ovvero un uomo «che non ha una visione politica coerente, non è un neoliberale classico, ma è la perfetta rappresentazione dell’“indipendente” di Hayek: è il beneficiario di una fortuna ereditata, non assoggettato ai comuni limiti della moralità, le cui rozze inclinazioni aprono nuove strade che altri potrebbero seguire».I pensatori neoliberali adesso «brulicano intorno a questo uomo vacuo, a questo vaso vuoto che aspetta di essere riempito da coloro che sanno bene cosa vogliono». Il probabile risultato «sarà la demolizione di tutto ciò che ancora ci fa onore, a cominciare dall’accordo sulla limitazione del riscaldamento globale». Conclude Monbiot: «Coloro che raccontano storie governano il mondo. La politica è fallita a causa della mancanza di narrative valide. La sfida principale adesso è raccontare una storia nuova, quella di cosa significhi “umanità” nel ventunesimo secolo». Un nuovo “racconto”, dunque, che «deve essere tanto seducente per coloro che hanno votato Trump e lo Ukip, quanto per i sostenitori di Hillary Clinton, Bernie Sanders o Jeremy Corbyn». La psicologia e le neuroscienze riconoscono che gli esseri umani, rispetto ad altri animali, sono al tempo stesso fortemente sociali e fortemente egoisti? Certo, e «l’atomizzazione e il comportamento cinico che il neoliberalismo promuove va contro quasi tutto ciò che caratterizza la natura umana. Hayek ci ha detto chi siamo, e si sbagliava. Il primo passo da compiere è riappropriarci della nostra umanità».Le origini dell’ascesa di Trump, ovvero: come una rete spietata di ideologi super-ricchi ha ucciso il potere di scelta e distrutto la fede della gente nella politica. «L’uomo che ha affondato la candidatura di Hillary Clinton alla presidenza non è stato Donald Trump. È stato suo marito», Bill Clinton. Lo afferma l’analista inglese George Monbiot, secondo cui Clinton è stato l’ultimo epigono dell’aberrante visione del mondo proposta dal pensatore austriaco neo-aristocratico Frederick von Hayek, sinistro profeta della dittatura dell’élite finanziaria in nome di presunti valori. «La serie di eventi che ha portato all’elezione di Donald Trump è iniziata in Inghilterra nel 1975», sostiene Monbiot. Durante un incontro pochi mesi dopo che Margaret Thatcher era diventata leader del partito conservatore, uno dei suoi colleghi stava esponendo quelli che secondo lui erano i valori fondanti del conservativismo, o almeno questo è ciò che si dice. Lei aprì di scatto la sua borsetta, tirò fuori un libro consumato, e lo sbatté sul tavolo. «Questo è ciò che noi crediamo», disse. «Era appena iniziata una rivoluzione politica che sarebbe dilagata in tutto il mondo. Il libro era “The Constitution of Liberty” di Frederick Hayek».
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Meno democrazia, più diseguaglianze. Così saltiamo in aria
Se vince il Sì, il governo sarà più forte e i cittadini conteranno ancora di meno. Come ha scritto don Ciotti, chi ha voluto questa “nuova” Costituzione vede «la democrazia come un ostacolo», e il bene comune come «una faccenda in cui il popolo non deve immischiarsi». Come siamo arrivati a questo? La risposta, per Tomaso Montanari, è racchiusa in una parola: diseguaglianza. Secondo l’Istat, l’Italia è il paese in cui – tra 1990 e 2010 – la diseguaglianza sociale è aumentata di più. «Succede in tutto l’Occidente: pochi ricchi sono sempre più ricchi, mentre si allarga la fascia degli impoveriti e la classe media non arriva agevolmente alla fine del mese». Anche per Joseph Stiglitz, «la stragrande maggioranza sta soffrendo insieme», mentre l’1% accumula fortune. «Ma quando la diseguaglianza arriva a questi livelli – osserva Montanari – l’establishment ha un problema: la democrazia. Perché in democrazia il voto di un ricco vale quanto quello di un povero». E i ricchi, osserva lo storico britannico Tony Judt, «non vogliono le stesse cose che vogliono i poveri». La cosa più semplice, per il potere? Silenziare il 99%, restringendo la democrazia.«Chi dipende dal posto di lavoro per la propria sussistenza non vuole le stesse cose di chi vive di investimenti e dividendi», scrive Judt in “Guasto è il mondo”. «Chi non ha bisogno di servizi pubblici (perché può comprare trasporti, istruzione e protezione sul mercato privato) non cerca le stesse cose di chi dipende esclusivamente dal settore pubblico». E se i poveri votano tutti insieme, il sistema può essere rovesciato, conclude Montanari, in una riflessione sull’“Huffington Post”. «Fino a un certo punto la soluzione è a portata di mano: incoraggiare l’astensione di massa». Non a caso il messaggio (dalla Thatcher a Blair, a Renzi) è: “non c’è alternativa”. Tradotto: “non votate, tanto è inutile”. Ma, da un certo punto in poi, l’astensione non basta più: «Per tenere il conflitto sociale fuori dai luoghi in cui si decide bisogna separare questi luoghi (il Parlamento e il governo) dal suffragio popolare, dai cittadini. È per questo che non voteremmo più il Senato e i governi delle Provincie, che le leggi di iniziativa popolare sarebbero in balìa della maggioranza parlamentare, che le Regioni verrebbero espropriate di ogni potere reale».In breve, continua Montanari, «se la diseguaglianza è tale da rendere “pericolosa” la democrazia ci sono due soluzioni: diminuire la diseguaglianza, o diminuire la democrazia. Il governo Renzi ha scelto quest’ultima strada». Il progetto di Renzi è chiaro: ridurre la partecipazione per consentire il perdurare della diseguaglianza. «È per questo che Confindustria, Marchionne, Jp Morgan, l’establishment tedesco e in generale il mercato votano Sì», mentre «la Fiom e tutta la Cgil, Libera, l’Arci, l’Anpi e infinite associazioni di cittadini votano No». Le poche riserve del mondo della finanza (per esempio quelle dell’“Economist”) «non vengono certo da un disaccordo politico, ma dal dubbio (fondato) che le riforme siano così mal congegnate che rischiano di dare un potere blindato nelle mani non dell’establishment», ma di un soggetto percepito come non-complice, cioè Grillo. Per Montanari, votare No significa «aver compreso che così non si può andare avanti: se restringiamo ancora la democrazia, invece di ridurre la diseguaglianza, lo schianto sarà ancora più forte».Secondo Montanari, «una vera classe dirigente» dovrebbe capire che, «se vogliamo evitare lo schianto, gli Stati devono ricominciare a esercitare la sovranità». Ovvero: «La libera circolazione delle merci non può continuare a essere l’unico dogma che regge il mondo: se la Cina continuerà a inondare il mondo di prodotti a costo zero (perché frutto di schiavitù di massa) l’Africa non avrà alcuna possibilità di sviluppo, con conseguenze drammatiche sulle migrazioni». E dato che le sfide sono di questa portata, «il Sì è come un’aspirina per uno che ha bisogno di un trapianto: il No vuol dire mettersi in lista per l’operazione». Ancora: «Il Sì è come mettere il dito nel buco della diga: il No vuol dire avviarsi a svuotare il bacino che sta per tracimare». Qualcuno pensa davvero che si possa andare avanti così? Qualcuno sì, e cioè «chi ha qualcosa da difendere», soprattutto «i benestanti anziani, che preferiscono non chiedersi come faranno i loro figli e i loro nipoti a tenere insieme diseguaglianza e democrazia». Magari «pensano che non ci saranno più quando tutto questo salterà in aria».Se vince il Sì, il governo sarà più forte e i cittadini conteranno ancora di meno. Come ha scritto don Ciotti, chi ha voluto questa “nuova” Costituzione vede «la democrazia come un ostacolo», e il bene comune come «una faccenda in cui il popolo non deve immischiarsi». Come siamo arrivati a questo? La risposta, per Tomaso Montanari, è racchiusa in una parola: diseguaglianza. Secondo l’Istat, l’Italia è il paese in cui – tra 1990 e 2010 – la diseguaglianza sociale è aumentata di più. «Succede in tutto l’Occidente: pochi ricchi sono sempre più ricchi, mentre si allarga la fascia degli impoveriti e la classe media non arriva agevolmente alla fine del mese». Anche per Joseph Stiglitz, «la stragrande maggioranza sta soffrendo insieme», mentre l’1% accumula fortune. «Ma quando la diseguaglianza arriva a questi livelli – osserva Montanari – l’establishment ha un problema: la democrazia. Perché in democrazia il voto di un ricco vale quanto quello di un povero». E i ricchi, osserva lo storico britannico Tony Judt, «non vogliono le stesse cose che vogliono i poveri». La cosa più semplice, per il potere? Silenziare il 99%, restringendo la democrazia.
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Crivella, sindaco-vescovo di Rio: il Brasile diverrà teocrazia
Marcelo Crivella, 59 anni, pastore pentecostale e vescovo della Chiesa Universale del Regno di Dio, è il nuovo primo cittadino di Rio de Janeiro, seconda città carioca dopo San Paolo. Difensore della teoria creazionista e ultraconservatore, parla tranquillamente di teocrazia per il Brasile: sono a rischio i diritti civili e la secolarizzazione del maggior paese sudamericano, secondo Giacomo Russo Spena. «Alla notizia della vittoria, è esplosa la festa nella Chiesa evangelica di Rio de Janeiro: “È il trionfo di Dio”, hanno urlato i fedeli». Al ballottaggio, Crivella ha sconfitto con il 59% dei consensi Marcelo Freixo, esponente di sinistra del Psol, il “Partito Socialismo e Libertà”. «Mi prenderò cura del popolo e sotto il mio governo finalmente si proteggerà la famiglia», ha annunciato a caldo Crivella, che ha promesso di migliorare i servizi e contrastare la corruzione dilagante, che fa esplodere il malcontento nel Brasile post-olimpionico, soprattutto tra le fasce sociali più deboli: «È tra le classi lavoratrici che il suo partito ha intercettato la maggioranza dei voti: la classe media e i poveri hanno espresso infatti la propria preferenza per il partito repubblicano brasiliano (Prb), forza fondata nel 2002 dallo stesso Crivella».Secondo “El Pais”, la vittoria di Crivella e del suo Prb, il braccio politico della Chiesa, è stata trainata dall’elettorato evangelico, che rappresenta un terzo dei quasi 4,9 milioni di elettori, oltre agli elettori più poveri e meno istruiti. Gli evangelici sono rappresentati anche in Parlamento con 80 esponenti (il 14% in più rispetto alla scorsa legislatura), a dimostrazione della loro crescita. Ma chi è Marcello Crivella? A leggere il suo curriculum, scrive Russo Spena su “Micromega”, siamo di fronte a una clamorosa svolta religiosa che, in prospettiva, può mettere a repentaglio la stessa laicità del Brasile. Ingegnere, senatore dal 2002 e cantante gospel, il nuovo sindaco di Rio parla tranquillamente di teocrazia per il paese carioca ed è vescovo della Chiesa Universale del Regno di Dio. Ha sempre fatto della religione un perno centrale della sua vita e per anni ha vissuto in Africa per missioni di evangelizzazione delle tribù locali. Nel 1999 ha redatto un libro pubblicato in inglese con il titolo “Mutis, Sangomas e Nyanga: tradizione o stregoneria”, che comprende anche fotografie in cui l’allora giovane Crivella esegue rituali di esorcismo in paesi come Kenya e Sud Africa.«Nel testo i gay sono condannati per la loro “condotta maligna”, l’aborto viene considerato un abominio e le altre religioni sono etichettate come “demoniache”». Inoltre, continua Russo Spena, si accusano la Chiesa cattolica e l’induismo per “il sacrificio di bambini”. «L’omosessualità è il male supremo, concetto ribadito più volte durante la sua campagna elettorale a Rio». Crivella, tra l’altro, è nipote di Edir Macedo, fondatore della chiesa pentecostale Igreja Universal do Reino do Deus, «un impero miliardario e punta di diamante per l’avanzata dei neopentecostali nella politica brasiliana». Lo zio possiede un canale televisivo importante, “Record”. «E grazie anche all’influenza dei media, in Brasile è in corso una forte processo di evangelizzazione. Nell’era della crisi economica e del discredito dei politici (dopo l’impeachment col quale è stata incastrata la ex presidente Dilma Rousself), il paese è stato travolto da un’onda conservatrice». L’ideale conservatore, osserva il blog “Terradamerica.com”, «ha le sue radici nel dovere morale di resistere all’insicurezza», come sostiene Rogério Baptistini, professore di sociologia dell’Università Presbiteriana Mackenzie.Anche lo storico Boris Fausto, in un’intervista rilasciata alla rivista “Veja”, afferma che un fenomeno (la crescita evangelica) alimenta l’altro (l’onda conservatrice). «L’espansione di queste chiese – si legge su “Terraamerica.com” – favorisce un discorso conservatore a causa di alcuni dei principi che esse sostengono, come il veto al matrimonio omosessuale e il divieto di aborto. I pastori non intervengono nel vuoto: questo discorso trova eco in una tendenza conservatrice già latente nella società brasiliana». L’epicentro di influenza politica evangelica «non è più a livello globale gli Stati Uniti, ma il Brasile», rivela sul “Wall Street Journal” Andrew Chesnut, professore di religione presso la Virginia Commonwealth University, il quale sottolinea come il censimento del 2010 ha mostrato che il numero di brasiliani evangelici sia più che raddoppiato, con vaste aree della popolazione convertite in massa. «Da anni l’avanzata è inarrestabile. Una guerra di proselitismo nella quale le chiese di culto evangelico brasiliane raccolgono successi incredibili dal punto di vista del numero di fedeli, delle donazioni, ottenendo anche l’elezione di politici di area». Lo stesso Prb, la forza di Crivella, ha registrato una grande crescita: se nel 2008 aveva 54 sindaci, oggi ne ha 105, più oltre 1.600 assessori. E contende lo scranno di primo cittadino in altre cinque città nel prossimo ballottaggio. Per Russo Spena, i diritti civili in Brasile sono a rischio, «più di quanto si possa pensare».Marcelo Crivella, 59 anni, pastore pentecostale e vescovo della Chiesa Universale del Regno di Dio, è il nuovo primo cittadino di Rio de Janeiro, seconda città carioca dopo San Paolo. Difensore della teoria creazionista e ultraconservatore, parla tranquillamente di teocrazia per il Brasile: sono a rischio i diritti civili e la secolarizzazione del maggior paese sudamericano, secondo Giacomo Russo Spena. «Alla notizia della vittoria, è esplosa la festa nella Chiesa evangelica di Rio de Janeiro: “È il trionfo di Dio”, hanno urlato i fedeli». Al ballottaggio, Crivella ha sconfitto con il 59% dei consensi Marcelo Freixo, esponente di sinistra del Psol, il “Partito Socialismo e Libertà”. «Mi prenderò cura del popolo e sotto il mio governo finalmente si proteggerà la famiglia», ha annunciato a caldo Crivella, che ha promesso di migliorare i servizi e contrastare la corruzione dilagante, che fa esplodere il malcontento nel Brasile post-olimpionico, soprattutto tra le fasce sociali più deboli: «È tra le classi lavoratrici che il suo partito ha intercettato la maggioranza dei voti: la classe media e i poveri hanno espresso infatti la propria preferenza per il partito repubblicano brasiliano (Prb), forza fondata nel 2002 dallo stesso Crivella».
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Proteste al soldo dell’1%, per deporre Trump (o ucciderlo)
Delegittimare Trump serve a indebolirlo, per poi magari arrivare a ucciderlo. Milioni di americani in piazza contro di lui? Non capiscono il pericolo che corrono: sono manipolati da organizzazioni criminali, le stesse che hanno organizzato il golpe in Ucraina pagando manifestanti (anche non ucraini) per abbattere il governo regolarmente eletto. I “progressisti” che contestano la vittoria di Trump, firmando la petizione eversiva di “Change.org” che chiede ai grandi elettori di scippare il risultato elettorale facendo eleggere Hillary presidente? Sono gli stessi che, ieri, condannavano Trump quando disse che non avrebbe accettato un verdetto elettorale a lui contrario, se fossero emersi sospetti di irregolarità. Quello che non comprendono, i manifestanti anti-Trump, è che stanno lavorando per l’oligarchia, per il famigerato 1% che aveva imposto Hillary come unica scelta possibile, con il concorso criminoso di tutti i grandi media. Questi i ragionamenti che un analista di primo piano come Paul Craig Roberts propone, di fronte alle clamorose agitazioni post-elettorali. Roberts cita il sociologo progressista Arthur Schlesinger Jr., che avvertiva: tutti i grandi scossoni «provocano sempre rabbia da parte di chi traeva profitto dal vecchio ordine». E Marx chiariva: nessuna rivoluzione ha successo, se la vecchia classe dirigente resta al suo posto.Per Craig Roberts, la colossale manipolazione in corso per tentare di “scippare” a Trump la vittoria è pericolosa, perché mina la tenuta democratica degli Stati Uniti – paese su cui pesano ombre gigantesche, dal coinvolgimento di settori dell’intelligence negli omicidi eccellenti della storia (i Kennedy, Martin Luther King) alle “inspiegabili” falle nella sicurezza in occasione di tutti i grandi attentati, dall’11 Settembre in poi. Tradotto: Donald Trump – chiunque sia davvero, politicamente – non può non sapere di essere in serio pericolo: potrebbe essere travolto dalle proteste o ricattato dagli organizzatori della “rivolta”, affinché accetti di “prendere a bordo” gli uomini-chiave di Hillary. E’ per loro, in ogni caso, che i manifestanti anti-Trump lavorano: alla guida della rivolta ci sono «teppisti prezzolati, pagati dall’oligarchia», proprio come «Washington e il German Marshall Fund pagarono gli studenti di Kiev per contestare il governo ucraino democraticamente eletto al fine di preparare il colpo di Stato». L’organizzazione “Change.org”, secondo Craig Roberts «sta distruggendo la reputazione di tutti i progressisti facendo circolare una petizione per chiedere all’Electoral College di annullare le elezioni».Tutto già visto nel 2014 a Kiev, dove «la paga era abbastanza buona da attirare persone che non erano nemmeno ucraine ma erano pagate per protestare come se lo fossero». Ci risiamo? Per la “Cnn”, moltissimi americani rifiutano di accettare la vittoria di Trump, e così hanno riempito le strade in non meno di 25 città statunitensi, dall’oggi al domani. «Spero che nessuno creda veramente che proteste simultanee in 25 città siano un evento spontaneo», sottolinea Craig Roberts nel suo blog, in un post ripreso da “Megachip”. «Gli stessi slogan e gli stessi simboli, la notte stessa dopo le elezioni? Quali interessi stanno servendo? E, come sempre si chiedevano gli antichi romani, “cui prodest”? C’è solo una risposta: l’oligarchia e solo l’oligarchia ne trae beneficio». La lettura di Roberts: «Trump è una minaccia per l’oligarchia, perché intende fermare la svendita all’estero dei posti di lavoro americani. Questa svendita, santificata come “libero mercato” dagli economisti-spazzatura neoliberisti, è una delle ragioni principali del peggioramento nel XXI secolo della distribuzione del reddito negli Usa».In altre parole, «i soldi che erano pagati come salario e stipendi per la classe media a impiegati dell’industria manifatturiera americana e ai diplomati, sono stati dirottati nelle tasche dell’Uno Percento. Quando le corporation americane spostano la loro produzione di merci e servizi venduti agli americani, nei paesi asiatici come la Cina e l’India, il loro costo in stipendi crolla. I soldi prima pagati come reddito per la classe media diventano invece bonus per gli executive, dividendi e profitti sui capitali per gli azionisti». Risultato: «La scala per la mobilità verso l’alto che ha fatto dell’America la terra delle opportunità è stata smantellata per il solo obiettivo di rendere multimiliardaria una manciata di persone». Inotre, Trump è «una minaccia per l’oligarchia», anche perché «vuole relazioni pacifiche con la Russia». Tutto si spiega: «Per rimpiazzare la tanto profittevole “minaccia sovietica”, l’oligarchia e i loro agenti neocon hanno lavorato incessantemente per creare la “minaccia russa” demonizzando la Russia». Craig Roberts sa di cosa parla: era al governo con Reagan, di cui è stato viceministro del Tesoro. «Abituato a molti decenni di profitti in eccesso dalla profittevole Guerra Fredda, il complesso militare-securitario si arrabbiò quando il presidente Reagan mise fine alla Guerra Fredda. Prima che queste idrovore di contribuenti americani riuscissero a prolungare la Guerra Fredda, l’Unione Sovietica collassò come risultato del colpo di Stato della destra contro il presidente sovietico Mikhail Gorbaciov».Al che, continua Craig Roberts, «il complesso militare-securitario e i suoi agenti neocon e sionisti cucinarono allora la “guerra al terrore” per continuare a far fluire i soldi all’Uno Percento. Ma per quanto duramente lavorassero i media “presstitute” per creare la paura del “pericolo musulmano”, persino gli americani indifferenti sapevano che i musulmani non possiedono migliaia di missili intercontinentali con testate termonucleari capaci di distruggere gli interi Stati Uniti in pochi minuti». Non ce l’avevano, i musulmani, «l’Armata Rossa capace di invadere l’Europa in un paio di giorni». Di fatto, i musulmani non avevano neppure bisogno di armate: «I rifugiati dalle guerre scatenate da Washington stanno invadendo l’Europa». Caduta l’Urss, comunque, «la scusa per il trilione di dollari annuale per il complesso militare-industriale non c’era più. Così l’oligarchia creò il “nuovo Hitler” in Russia. Hillary fu il principale agente dell’oligarchia per surriscaldare la nuova Guerra Fredda. Hillary è lo strumento, arricchito dall’oligarchia, il cui lavoro da presidente sarebbe stato quello di proteggere e aumentare il budget da un trilione di dollari al complesso militare-securitario. Con Hillary alla Casa Bianca, il saccheggio dei contribuenti americani, in nome dell’opulenza dell’Uno Percento, sarebbe andato avanti senza ostacoli. Ma se Trump mette fine alla “minaccia russa”, la rendita dell’oligarchia si prende un bel colpo».Inoltre, le proteste contro Trump sono sospette anche per un altro motivo: «Al contrario di Hillary, Obama e George W. Bush, Donald Trump non ha fatto a pezzi e disperso milioni di persone in sette nazioni, mandando milioni di rifugiati delle guerre dell’oligarchia a invadere l’Europa». Trump ha fatto fortuna «senza vendere l’influenza del governo degli Usa ad agenti stranieri, come invece hanno fatto Bill e Hillary». E allora, perché stanno protestando i contestatori? «Sono stati ingaggiati per protestare. Così come i contestatori di Maidan a Kiev erano ingaggiati per protestare dalle Ong finanziate dagli Usa e dalla Germania». In Ucraina, gli Usa riuscirono a infiltrare i loro agenti nel nuovo governo ucraino, così come ha confermato Victoria Nuland, una neocon piazzata al Dipartimento di Stato da Hillary Clinton col proposito di creare un conflitto con la Russia. Dunque, conclude Paul Craig Roberts, l’esplosione della protesta anti-Trump dimostra che l’oligarchia lo teme davvero, anche se «alcuni pensano che Trump sia uno stratagemma dell’oligarchia». Non ha senso: visto l’investimento su Hillary, per gli oligarchi era preferibile «vincere con la propria piattaforma», anziché «installare un presidente con una piattaforma opposta e poi cercare di rivoltarselo», anche perché «un’altra svendita aumenterebbe la rabbia del popolo».La dura verità, però, è che «Trump ha vinto la presidenza, ma l’oligarchia è ancora al potere», e questo «rende difficile ogni riforma». Aggiunge Craig Roberts: Marx comprese dall’esperienza storica un drammatico insegnamento che poi Lenin e Stalin impararono da lui. E cioè: «Il cambiamento non può avere successo se la classe dirigente scalzata è lasciata intatta dopo una rivoluzione contro di essa». Lo dimostra il Sud America: «Ogni rivoluzione degli indigeni ha lasciato senza fastidi la classe dirigente, e ogni rivoluzione è stata sconfitta dalla collusione tra la classe dirigente e Washington», che «ha cospirato con le élite tradizionali per rimuovere i presidenti eletti», come accaduto in Honduras «moltissime volte». Di recente, Washington «ha aiutato le élite a rimuovere le presidentesse dell’Argentina e del Brasile». I presidenti del Venezuela, dell’Ecuador e della Bolivia «sono a mezz’aria e probabilmente non sopravvivranno». In più, l’oligarchia «è determinata a mettere le mani su Julian Assange», il fondatore di Wikileaks. «A tal fine Washington intende abbattere il governo dell’Ecuador che, a scorno di Washington, ha dato a Julian Assange asilo politico». Ancora più cruento lo scontro in Venezuela, dove – secondo Craig Roberts – il presidente socialista Hugo Chavez è stato addirittura assassinato. Il suo errore? Aver graziato i golpisti che avevano cospirato contro di lui.«Secondo Marx, Lenin e Stalin, questo è il classico errore per un rivoluzionario: contare sulla buona volontà da parte della classe dirigente scalzata è il modo più sicuro per lasciar sconfiggere la rivoluzione». Secondo Craig Roberts, l’America Latina si è dimostrata incapace di capire questa lezione: le rivoluzioni non possono essere concilianti. Donald Trump? «E’ un uomo d’affari. L’oligarchia gli può permettere l’aura del successo in cambio di nessun cambiamento reale». Intendiamoci: «Trump non è perfetto. Potrebbe fallire da solo. Ma noi lo sosterremo sui suoi due punti del suo programma più importanti: ridurre le tensioni tra le due maggiori potenze nucleari e bloccare la politica di Washington che permette al globalismo di distruggere le prospettive economiche degli americani», insiste Craig Roberts. «La combinazione di un’economia svuotata dal globalismo ed immigrazione è un incubo. Che Trump lo abbia capito è una ragione per sostenerlo». E per temere per la sua incolumità: «Una volta che il presidente Trump sarà delegittimato, sarà facile per l’oligarchia assassinarlo, a meno che l’oligarchia possa nominare e controllare il suo governo». Per ora, comunque, «Trump è il primo candidato per un assassinio».Delegittimare Trump serve a indebolirlo, per poi magari arrivare a ucciderlo. Decine di migliaia di americani in piazza contro di lui? Non capiscono il pericolo che corrono: sono manipolati da organizzazioni criminali, le stesse che hanno organizzato il golpe in Ucraina pagando manifestanti (anche non ucraini) per abbattere il governo regolarmente eletto. I “progressisti” che contestano la vittoria di Trump, firmando la petizione eversiva di “Change.org” che chiede ai grandi elettori di scippare il risultato elettorale facendo eleggere Hillary presidente? Sono gli stessi che, ieri, condannavano Trump quando disse che non avrebbe accettato un verdetto elettorale a lui contrario, se fossero emersi sospetti di irregolarità. Quello che non comprendono, i manifestanti anti-Trump, è che stanno lavorando per l’oligarchia, per il famigerato 1% che aveva imposto Hillary come unica scelta possibile, con il concorso criminoso di tutti i grandi media. Questi i ragionamenti che un analista di primo piano come Paul Craig Roberts propone, di fronte alle clamorose agitazioni post-elettorali. Roberts cita il sociologo progressista Arthur Schlesinger Jr., che avvertiva: tutti i grandi scossoni «provocano sempre rabbia da parte di chi traeva profitto dal vecchio ordine». E Marx chiariva: nessuna rivoluzione ha successo, se la vecchia classe dirigente resta al suo posto.
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Sylos Labini: solo lo Stato può salvarci dall’inferno dell’euro
Scrisse Antonio Gramsci: «La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere». Questa citazione descrive bene ciò che sta succedendo nel periodo attuale, sostiene Stefano Sylos Labini: il capitalismo finanziario neoliberista è entrato in crisi ormai da anni e sta utilizzando l’intervento delle banche centrali per rimanere in piedi. Si è capito che i vecchi approcci sono ormai superati perché non riescono più a garantire crescita e benessere diffuso. «L’intervento pubblico è paralizzato dal peso del debito mentre il sistema bancario si è inceppato e non sta finanziando in modo adeguato le famiglie e le imprese». Per questo servono nuove logiche di intervento per sostenere l’economia reale. Sylos Labini cita il Sardex, moneta complementare lanciata in Sardegna come “sistema di compensazione di credito reciproco”, attraverso cui l’economia reale crea la sua moneta per finanziare scambi e investimenti evitando l’intermediazione del sistema bancario. Ma ovviamente non basta: «E qui in Europa abbiamo anche il problema dell’euro», aggiunge l’economista, «che si fonda su delle regole che impediscono di promuovere la crescita dell’economia e non consentono di attuare politiche per ridurre la disoccupazione».Si tratta di una situazione preoccupante, se consideriamo gli imponenti fenomeni migratori che si stanno riversando sul Vecchio Continente, osserva Sylos Labini in una riflessione prooposta al festival “Mitzas” di Cagliari e ripresa da “Megachip”. «Si parla di piani di accoglienza e di re-distribuzione dei migranti, ma quello che serve è un grande Piano del Lavoro: questa gente se si ferma in Europa deve lavorare per avere un reddito. Ma in tal caso il Piano del Lavoro deve riguardare – e con diritto di precedenza – i disoccupati europei, che sono circa 20 milioni di persone». Attenzione: «Solo lo Stato può garantire quel contributo fondamentale all’impiego in lavori di pubblica utilità, servizi sociali, manutenzione del territorio e delle infrastrutture». Il settore privato può fare la sua parte, certo, «ma da solo non sarà mai in grado di risolvere il problema della disoccupazione». Non esiste alternativa allo Stato, che «deve avere le risorse finanziarie nonché le capacità organizzative per offrire un impiego a tutti coloro che sono in grado di lavorare».E se non riusciremo a mettere in campo delle nuove politiche economiche per assicurare una vita dignitosa alla popolazione europea, continua Sylos Labini, corriamo il rischio di entrare in quella che Giorgio Ruffolo ha definito una “Nuova Età dei Torbidi”: dopo la fase socialdemocratica dell’Età dell’Oro e la fase neoliberista dell’Età del Capitalismo Finanziario, oggi si sta profilando una nuova fase storica dominata dalla destra protezionista e nazionalista. A Bretton Woods nel 1944 si era stabilito un sistema che prevedeva una forte limitazione dei trasferimenti di capitale da un paese all’altro dando piena libertà agli scambi commerciali. Questo sistema, ricorda l’economista, lasciava ai governi nazionali un largo spazio di autonomia nella gestione della politica monetaria e della politica economica. «In tal modo si consolidò un compromesso tra capitalismo e democrazia che in Europa permise ai governi socialdemocratici di assicurare benessere diffuso e piena occupazione».Alla fine degli anni ‘70, però, «si scatenò la controffensiva capitalistica: Reagan e la Thatcher avviarono un processo di deregolamentazione e di liberalizzazione dei movimenti di capitale che determinò un completo rovesciamento dei rapporti di forza sia tra capitale e lavoro, sia tra capitalismo e democrazia», creando «una condizione di fortissimo vantaggio per le grandi imprese private nei confronti degli Stati nazionali». Da quel momento, prosegue Sylos Labini, la capacità di intervento dello Stato nell’economia andò incontro ad un drastico ridimensionamento, mentre i lavoratori iniziarono a subire i ricatti delle delocalizzazioni produttive: imprese trasferite nel terzo mondo, dove il lavoro costa pochissimo, a tutto vantaggio del nuovo capitalismo finanziario. «Si è creato così un mercato finanziario integrato che ha consentito al capitale di tutto il mondo di entrare in collegamento e di dar luogo all’“internazionale dei capitalisti”, un’élite globale che concentra in sé un potere immenso». Ironia della storia: «L’appello di Karl Marx, “proletari di tutto il mondo unitevi”, si è realizzato, ma al contrario».Oggi, i mercati finanziari sono diventati un’istituzione strutturata. E si esprimono come gli Stati. «È ben noto, infatti, che a Wall Street si tengono riunioni periodiche dei capi delle grandi banche e delle società finanziarie che stabiliscono i tassi di interesse e, attraverso le decisioni di investimento, possono sfiduciare i governi che attuano politiche economiche non gradite, condizionando il destino di intere popolazioni». Di fatto, «la democrazia è stata svuotata e la sovranità popolare umiliata». Vie d’uscita? Una: «Superare la globalizzazione gestita dal capitale finanziario». Ma costruire un nuovo modello di sviluppo non sarà semplice, «perché il vasto schieramento che è contro l’austerità e il liberismo non ha una strategia unitaria». Troppe fazioni, in contrasto tra loro. «Una situazione particolarmente grave in Europa, dove esiste il problema di una moneta unica che sta allargando i divari tra il blocco dell’euro-marco e i paesi della periferia». Per Sylos Labini, «ci troviamo in una trappola infernale», perché «uscire dalla moneta unica è complicato», ma «continuare con queste politiche economiche ci porterà al disastro». E sperare in una svolta progressista dell’Europa è «un’ingenua illusione».Scrisse Antonio Gramsci: «La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere». Questa citazione descrive bene ciò che sta succedendo nel periodo attuale, sostiene Stefano Sylos Labini: il capitalismo finanziario neoliberista è entrato in crisi ormai da anni e sta utilizzando l’intervento delle banche centrali per rimanere in piedi. Si è capito che i vecchi approcci sono ormai superati perché non riescono più a garantire crescita e benessere diffuso. «L’intervento pubblico è paralizzato dal peso del debito mentre il sistema bancario si è inceppato e non sta finanziando in modo adeguato le famiglie e le imprese». Per questo servono nuove logiche di intervento per sostenere l’economia reale. Sylos Labini cita il Sardex, moneta complementare lanciata in Sardegna come “sistema di compensazione di credito reciproco”, attraverso cui l’economia reale crea la sua moneta per finanziare scambi e investimenti evitando l’intermediazione del sistema bancario. Ma ovviamente non basta: «E qui in Europa abbiamo anche il problema dell’euro», aggiunge l’economista, «che si fonda su delle regole che impediscono di promuovere la crescita dell’economia e non consentono di attuare politiche per ridurre la disoccupazione».
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Il regno del Cigno Nero, la crisi come orizzonte definitivo
Il cigno nero, la crisi (ossia recessione-stagnazione più disoccupazione e disinvestimenti, migrazione, instabilità, incertezza di prospettive) permane, compie otto anni e non si intravede alcuna uscita da essa. Da un lato, permane perché è la conseguenza del nuovo tipo di economia, cioè dell’economia finanziaria che opera ormai apertamente attraverso la costruzione e lo svuotamento delle bolle, come strumento di aumento e di concentrazione del reddito e del potere, anche politico, nelle mani di chi la gestisce. Dall’altro lato, permane perché è uno strumento di riforma della società, della legge, dell’uomo, nel senso che consente a chi la gestisce di ridurre a chi la subisce, sostanzialmente col suo consenso, i diritti di lavoratore, di risparmiatore, di utente dei servizi pubblici, di partecipazione politica: di cittadino, in una parola. Quindi essa dissolve anche la polis, cioè lo Stato nazionale, l’organizzazione del demos, nella globalizzazione e nella migrazione di massa. Consente insomma di sottomettere e controllare, eliminando gradualmente il diritto anche alla privacy, alla quasi totalità della popolazione che non detiene il potere.Essa gradualmente demolisce i processi di partecipazione, decisione, controllo che salgono dal basso per via elettorale, e lo fa soprattutto togliendo rappresentatività e facoltà ai parlamenti in favore di governi e di organismi tecnici; però al contempo pretende il consenso della base alle sue decisioni e alle sue riforme, ma non lo recepisce per come esso spontaneamente si forma, bensì lo produce come le serve agendo dall’alto, guidando l’informazione, ripetendo incessantemente dogmi spesso falsi finché vengono percepiti come realtà scontata, fissando l’agenda dei temi di cui parlare e i limiti entro cui farlo, delegittimando a priori le posizioni diverse con etichette quali euroscettico, razzista, islamofobo, omofobo, populista. E talora sanziona anche penalmente l’espressione critica o alternativa. Per contro, elargisce sovvenzioni, appoggio, massima visibilità mediatica e autorevolezza istituzionale alle idee guida per il nuovo ordine sociale che sta formando. La crisi non è in realtà crisi, ma struttura; e permane perché è utile, ed è l’elemento portante del nuovo ordinamento globale.In questa logica comprendiamo il senso profondo, strutturale, dell’aumento verticale dei poveri e bisognosi, degli esclusi dal reddito dalle rendite, dal welfare, dalle garanzie. Cioè dal lavoro, dalla pensione, dalla pubblica assistenza come diritti. Sottolineo: come diritti, diritti stabili, non come concessioni volta per volta. Quando si rileva che in Italia gli indigenti, nell’arco di cinque anni, sono passati da 1 milione e mezzo a 4 milioni, quando si rileva che si stanno formando masse di milioni di immigrati, esodati, disoccupati, e quando si rileva che si preparano milioni di futuri pensionati che non avranno una rendita pensionistica sufficiente a vivere – quando si rileva tutto questo, si dovrebbe capire il volto della società che stanno costruendo, aiutandosi molto anche con l’ideale tedesco di austerità elevato a metodo inflessibile di governo: un corpo sociale saldamente nelle mani dell’oligarchia dominante, anche grazie al fatto che gran parte di esso sarà costituita da masse miste di indigenti, di impoveriti, di disoccupati, di immigrati, di pensionati, che sopravvivono grazie a interventi caritatevoli ed emergenziali del governo e di agenzie ampiamente finanziate dal governo, come Caritas, chiesa e sindacati, cioè alti prelati e alti sindacalisti, molto lautamente remunerati, essi già svolgono un importante ruolo di direzione, consolazione e collegamento in questo schema sociale.La mancanza di reddito e servizi sicuri, quindi la dipendenza da interventi anno per anno, bilancio dopo bilancio, da parte del governo, rende gradualmente queste masse sempre più passive, remissive, politicamente inattive. Il cigno nero non è volato via, ha costruito il suo trono per restare. Effettivamente, il reddito di cittadinanza, al quale in linea di principio sono contrario per varie ragioni anche pedagogiche, sarebbe il miglior antidoto a questa strategia di ingegneria sociale. Ma non potrà mai funzionare se prima non si sarà capito che il denaro oggi è un mero simbolo a costo zero di produzione, e che dunque l’unico ma decisivo vincolo alla politica di spesa è l’efficacia produttiva della spesa, mentre gli attuali dogmi di austerità e pareggio di bilancio sono un mero inganno genocida e liberticida.(Marco Della Luna, “Il regno del Cigno Nero”, dal blog di Della Luna dell’8 ottobre 2016).Il cigno nero, la crisi (ossia recessione-stagnazione più disoccupazione e disinvestimenti, migrazione, instabilità, incertezza di prospettive) permane, compie otto anni e non si intravede alcuna uscita da essa. Da un lato, permane perché è la conseguenza del nuovo tipo di economia, cioè dell’economia finanziaria che opera ormai apertamente attraverso la costruzione e lo svuotamento delle bolle, come strumento di aumento e di concentrazione del reddito e del potere, anche politico, nelle mani di chi la gestisce. Dall’altro lato, permane perché è uno strumento di riforma della società, della legge, dell’uomo, nel senso che consente a chi la gestisce di ridurre a chi la subisce, sostanzialmente col suo consenso, i diritti di lavoratore, di risparmiatore, di utente dei servizi pubblici, di partecipazione politica: di cittadino, in una parola. Quindi essa dissolve anche la polis, cioè lo Stato nazionale, l’organizzazione del demos, nella globalizzazione e nella migrazione di massa. Consente insomma di sottomettere e controllare, eliminando gradualmente il diritto anche alla privacy, alla quasi totalità della popolazione che non detiene il potere.
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Perkins: dopo il terzo mondo, ora stanno depredando noi
La situazione è molto peggiorata negli ultimi 12 anni, rispetto a quando pubblicai “Confessioni di un sicario dell’economia”. Gli assassini economici e gli sciacalli si sono diffusi tremendamente, anche in Europa e negli Stati Uniti. In passato si concentravano essenzialmente sul cosiddetto Terzo Mondo, o sui paesi in via di sviluppo, ma ormai vanno dappertutto. E infatti, il cancro dell’impero delle multinazionali ha metastasi in tutta quella che chiamo la moribonda economia fallita globale. Questa economia è basata sulla distruzione di quelle stesse risorse da cui dipende, e sul potere militare. E’ ormai completamente globalizzata, ed è fallimentare. Siamo passati da essere beneficiari di questa economia assassina ad essere ora le sue vittime. In passato, questa economia di assassini economici era propagandata per poter rendere l’America più ricca e presumibilmente per arricchire tutti i cittadini, ma nel momento in cui questo processo si è esteso agli Stati Uniti e all’Europa, il risultato è stato una enorme beneficio per i molto ricchi a spese di tutti gli altri. Su scala globale sappiamo che 62 persone hanno ormai in mano gli stessi mezzi della metà più povera del mondo.Naturalmente in America vediamo come il governo sia paralizzato, semplicemente non funziona. Viene controllato dalle grandi multinazionali. Queste hanno capito che il nuovo obiettivo, la nuova risorsa, sono gli Usa e l’Europa, e gli orribili avvenimenti successi in Grecia, e Irlanda e Islanda, stanno ormai avvenendo anche da noi, negli Usa. Le statistiche ci mostrano una crescita economica, ma allo stesso tempo aumentano i pignoramenti di case e la disoccupazione. Si tratta della stessa dinamica debitoria che porta a amministratori di emergenza, i quali consegnano le redini dell’economia alle multinazionali private: lo stesso meccanismo che vediamo nei paesi del terzo mondo. Quando ero un “sicario dell’economia”, una delle cose che facevamo era concedere enormi prestiti a questi paesi, ma quei soldi non finivano mai davvero ai paesi, finivano alle nostre stesse multinazionali che vi costruivano le infrastrutture. E quando i paesi non riuscivano a ripagare i loro debiti, imponevamo la privatizzazione della gestione dell’acqua, delle fognature e della distribuzione elettrica. Ormai vediamo succedere la stessa cosa negli Stati Uniti. Flint nel Michigan ne è un ottimo esempio.Non stiamo parlando di un impero degli Stati Uniti, si tratta di un impero delle multinazionali protette e appoggiate dall’esercito Usa e dalla Cia. Ma non è un impero degli americani, non aiuta gli americani. Ci sfrutta nella stessa maniera in cui noi abbiamo sfruttato gli altri paesi del mondo. Viaggiando attraverso gli Usa e nel mondo, vedo davvero che la gente si sta svegliando. Stiamo capendo. Capiamo che viviamo in una stazione spaziale molto fragile: non abbiamo alcuna navetta spaziale, e non possiamo andarcene. Dobbiamo risolvere la situazione, dobbiamo prendercene carico, perché stiamo distruggendo la stazione spaziale. Le grandi multinazionali la stanno distruggendo, ma queste vengono gestite da persone, e queste sono vulnerabili. Se ci pensiamo bene, i mercati sono una democrazia, se li usiamo nel modo giusto. Certo, gli accordi come il Ttip sono devastanti, danno alle multinazionali la sovranità sui governi. E’ ridicolo. Vediamo i popoli dell’America Centrale terribilmente disperati, cercano di uscire da un sistema marcio, in primo luogo a causa degli accordi commerciali e delle nostre politiche nei confronti dell’America Latina.E naturalmente vediamo queste stesse politiche nel Medio Oriente e in Africa, queste onde migratorie che stanno investendo l’Europa dal Medio Oriente. Questi problemi terribili sono stati creati dall’ingordigia delle multinazionali. Sono appena stato in America Centrale e quello che da noi viene definito un problema di immigrazione, in realtà è un problema di accordi commerciali. Non si possono imporre dazi a causa degli accordi commerciali – Nafta e Cafta – ma gli Usa possono dare aiuti di Stato ai loro agricoltori. Gli altri governi non si possono permettere di aiutare i propri agricoltori. Perciò i nostri agricoltori riescono ad avere la meglio sui loro, a questo distrugge le altre economie, e anche altre cose, ed ecco perché si creano problemi di immigrazione. Tre o quattro anni fa la Cia ha organizzato un colpo di Stato contro il presidente democraticamente eletto dell’Honduras, Zelaya, perché non si è piegato a multinazionali grandi, globali e con legami con gli Usa come Dole e Chiquita.Il presidente voleva alzare il salario minimo a un livello ragionevole, e voleva una riforma agraria che garantisse che queste persone riuscissero a guadagnare dalla loro terra, anziché assistere alle multinazionali che lo facevano. Le multinazionali non l’hanno potuto tollerare. Non è stato assassinato, ma è stato disarcionato con un colpo di Stato, e spedito in un altro paese, rimpiazzandolo con un dittatore brutale. Oggi l’Honduras è uno dei paesi più violenti e sanguinari dell’emisfero. Quello che abbiamo fatto fa paura. E quando una cosa così accade a un presidente, manda un messaggio a tutti gli altri presidenti dell’emisfero, e anzi di tutto il mondo: non intralciate i nostri piani. Non intralciate le multinazionali. O cooperate e vi arricchite, e tutti i vostri amici e le vostre famiglie si arricchiscono, oppure verrette disarcionati o assassinati. Si tratta di un messaggio molto forte.(John Perkins, dichiarazioni rilasciate a Sarah van Gelder per l’intervista “Nuove confessioni di un sicario dell’economia: stavolta vengono a prendersi la democrazia”, pubblicata da “Yes Magazine” e ripresa da “Voci dall’Estero” il 6 ottobre 2016. Perkins è celebre per il bestseller “Confessioni di un sicario dell’economia”, ora aggiornato con una nuova edizione).La situazione è molto peggiorata negli ultimi 12 anni, rispetto a quando pubblicai “Confessioni di un sicario dell’economia”. Gli assassini economici e gli sciacalli si sono diffusi tremendamente, anche in Europa e negli Stati Uniti. In passato si concentravano essenzialmente sul cosiddetto Terzo Mondo, o sui paesi in via di sviluppo, ma ormai vanno dappertutto. E infatti, il cancro dell’impero delle multinazionali ha metastasi in tutta quella che chiamo la moribonda economia fallita globale. Questa economia è basata sulla distruzione di quelle stesse risorse da cui dipende, e sul potere militare. E’ ormai completamente globalizzata, ed è fallimentare. Siamo passati da essere beneficiari di questa economia assassina ad essere ora le sue vittime. In passato, questa economia di assassini economici era propagandata per poter rendere l’America più ricca e presumibilmente per arricchire tutti i cittadini, ma nel momento in cui questo processo si è esteso agli Stati Uniti e all’Europa, il risultato è stato una enorme beneficio per i molto ricchi a spese di tutti gli altri. Su scala globale sappiamo che 62 persone hanno ormai in mano gli stessi mezzi della metà più povera del mondo.
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Renzi e il Ponte, per distrarci dai conti che fanno piangere
«Il tentativo è quello di tirare il pallone in tribuna. O, meglio ancora, di alzare un polverone per sviare l’attenzione». Da cosa? «Da quello che è l’atto più importante all’esame del governo: l’aggiornamento del Def 2016, preludio della stagione di bilancio». Secondo “Sbilanciamoci”, non si spiega altrimenti come Renzi, proprio nel giorno del varo di un provvedimento così centrale, decida di «spararla grossa che più grossa non si può», dichiarandosi pronto alla ripresa dei lavori per il Ponte sullo Stretto, annunciando che creerebbe centomila posti di lavoro. Risultato: i media si sono “dimenticati” di analizzare il Def, il cui aggiornamento «segna il punto forse più basso finora raggiunto da questo governo». Il deficit “strutturale”, quello corretto per l’andamento economico? «Non peggiora così tanto rispetto alle previsioni, ma solo perché la crescita è risultata talmente bassa che la correzione ciclica assorbe il peggioramento dei conti pubblici». La crescita, prevista all’1,2% nel 2016 e all’1,4% l’anno prossimo, è oggi allo 0,8% e calerà allo 0,6%. E il “risanamento” della finanza pubblica si è arrestato.Il deficit previsto nel 2017 è sostanzialmente quello del 2016, scrive “Sbilanciamoci”, con la Commissione Europea che «non sa più cosa inventarsi per accordare ulteriori margini ad un governo italiano che, in un momento così cruciale per l’Europa e in vista del referendum costituzionale, non può essere stigmatizzato». Attenzione: l’arresto del processo di “risanamento” non è una buona notizia, non indica una contro-tendenza rispetto all’austerity. «La realtà è ben più tragica», secondo il blog economico. La tanto sbandierata “flessibilità” nell’interpretazione del Patto di Stabilità «servirà esclusivamente, insieme a tutto l’aumento del deficit 2017 rispetto all’obiettivo, per neutralizzare le clausole di salvaguardia da 15 miliardi inserite nella Legge di Stabilità dell’anno scorso, che prevedevano in automatico un aumento di Iva e accise nel 2017 se non si fossero realizzati equivalenti risparmi di spesa». Morale: «Poco o nulla è stato fatto, e l’Italia si ritrova adesso a utilizzare tutti i margini di flessibilità cui può aspirare non per rilanciare sviluppo, economia, redditi e occupazione, bensì solo per evitare la drammatica recessione che verrebbe innescata dall’aumento dell’Iva».Tolti questi 15 miliardi, continua il blog, la prossima manovra di bilancio sembra ridursi a poca cosa: 7-8 miliardi di maggiori spese, compensati da altrettanti miliardi di minori spese o maggiori entrate. «Un’inezia, rispetto a quanto il nostro paese avrebbe disperatamente bisogno». Si arriverà forse a stanziare 2 miliardi per le pensioni e il sostegno – in prospettiva elettorale – dei loro redditi, ma compensate da un corrispondente calo della spesa sanitaria. Qualche centinaio di milioni in più verranno destinati al rinnovo dei contratti nel pubblico impiego, finanziati con tagli lineari, o semi-lineari alla spesa dei ministeri. Si arriverà forse a definire una riduzione dell’Irpef, ma solo a partire dal 2018, anno nel quale, comunque, opereranno altre clausole di salvaguardia da neutralizzare. Qualche soldo verrà destinato alla lotta alla povertà estrema, ma niente allo sviluppo dei servizi sociali e degli altri istituti del welfare. «Gli unici interventi di una qualche rilevanza economica sembrano quelli destinati alle imprese, i superammortamenti, la riduzione delle imposte per lei imprese piccole, le garanzie pubbliche sugli investimenti, il programma del ministro Calenda “Industria 4.0”».Nulla di sostanziale, continua “Sbilanciamoci”, anche se le imprese godranno nel 2017 di due dei più costosi interventi realizzati dal governo: la decontribuzione sugli assunti nel 2015 e 2016, pari a 7 miliardi l’anno e almeno 20 miliardi nel quadriennio 2015-2018. E poi la riduzione dell’Ires, dal 27,5% al 24% che costerà 3,5 miliardi l’anno. Ma sono misure non selettive, che non premiamo le aziende che investono, creando occupazione e reddito. Per il blog «servirebbe altro: investimenti diretti, piccole e medie opere in grado di assicurare in breve tempo e a costi contenuti un effettivo miglioramento delle condizioni produttive e di vita», garantendo «trasporti, servizi sociali inclusivi e flessibili, reti». Le tasse? Servirebbe «una redistribuzione del carico dai poveri ai ricchi, dal lavoro alla rendita, da chi paga a chi non paga». Invece, niente. Solo «politiche economiche liberiste senza futuro, riduzione fiscale e incentivi alle imprese», magari «addolcite da mancette elettoralistiche». Un quadro a tinte fosche «che ben giustifica il desiderio, pur infantile, di rifugiarsi nell’immagine di un bel Ponte sullo Stretto».«Il tentativo è quello di tirare il pallone in tribuna. O, meglio ancora, di alzare un polverone per sviare l’attenzione». Da cosa? «Da quello che è l’atto più importante all’esame del governo: l’aggiornamento del Def 2016, preludio della stagione di bilancio». Secondo “Sbilanciamoci”, non si spiega altrimenti come Renzi, proprio nel giorno del varo di un provvedimento così centrale, decida di «spararla grossa che più grossa non si può», dichiarandosi pronto alla ripresa dei lavori per il Ponte sullo Stretto, annunciando che creerebbe centomila posti di lavoro. Risultato: i media si sono “dimenticati” di analizzare il Def, il cui aggiornamento «segna il punto forse più basso finora raggiunto da questo governo». Il deficit “strutturale”, quello corretto per l’andamento economico? «Non peggiora così tanto rispetto alle previsioni, ma solo perché la crescita è risultata talmente bassa che la correzione ciclica assorbe il peggioramento dei conti pubblici». La crescita, prevista all’1,2% nel 2016 e all’1,4% l’anno prossimo, è oggi allo 0,8% e calerà allo 0,6%. E il “risanamento” della finanza pubblica si è arrestato.