Archivio del Tag ‘sicurezza’
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Benessere sostenibile, togliendo la moneta ai banchieri
Banchieri padroni e governi-fantoccio: così, riassume Marco Della Luna, può finire in ginocchio persino il governo Usa, travolgendo il mondo intero nel suo volontario default. Tutto questo, mentre l’Italia affonda nella recessione e nella disoccupazione per mancanza di investimenti. Siamo soffocati dalle tasse, dal crollo della domanda e dai tagli del welfare. Ridurre il debito pubblico? Operazione velleitaria, che si scontra col calo costante di Pil e produttività. Intendiamoci: «Il debito pubblico di quasi tutti i grandi paesi è praticamente inestinguibile in quanto al capitale, e sempre meno sostenibile in quanto agli interessi». La Banca dei Regolamenti Internazionali lancia l’allarme sull’indebitamento mondiale e la bolla speculativa, che hanno prodotto condizioni ancora più esplosive di quelle del 2008.E i “quantitative easing” della Fed, della Bce e di altre banche centrali si sono tradotti in prestiti a basso interesse, che le banche reinvestono nella speculazione e non nell’economia reale. La bolla finanziaria è tale da provocare il global meltdown: titoli pubblici svalutati nei portafogli delle banche su scala mondiale, e istituti di credito senza più soldi.Tutti questi fattori, spiega Della Luna nel suo blog, sono dovuti alla scarsità di denaro: il governo Usa non ha i soldi per pagare le spese della pubblica amministrazione, l’Italia non ha il denaro né per gli investimenti, né per ridurre il cuneo fiscale e pressione tributaria. Inoltre, nessuno Stato ha i soldi per ridurre lo stock di debito pubblico e le banche non hanno denaro da prestare all’economia reale a tassi ragionevoli. «Riflettiamo: se lo Stato avesse i soldi per investimenti, riduzione di tasse e tributi, sostegno alle imprese, rimborso del proprio debito, allora le cose cambierebbero radicalmente: abbatteremo impoverimento, disoccupazione, sfiducia, sofferenza, insicurezza. Il default sarebbe scongiurato per sempre». Ma allora che cosa impedisce allo Stato di dotarsi del denaro necessario? In teoria, nulla: se fosse libero e sovrano, lo Stato potrebbe emettere moneta a costo zero. E se il denaro produce economia, non c’è neppure rischio di inflazione. Allora dove sta il problema? Nel monopolio improprio che grava sulla creazione monetaria, che «non è concessa agli Stati, ma è appannaggio, diritto esclusivo, del sistema bancario».Finita la sovranità monetaria democratica, sono quasi ovunque le banche a gestire il denaro fin dalla sua emissione, perché ormai «vige il principio dell’autonomia del sistema bancario dalla politica». Giustificazione: per compiacere gli elettori, attingendo moneta sovrana i politici potrebbero eccedere irresponsabilmente nella spesa pubblica, scatenando l’inflazione. Al contrario, i “virtuosi” banchieri devoti solo al mercato, «emetterebbero la giusta quantità di moneta, al giusto tasso di interesse, prestandolo ai soggetti meritevoli e più produttivi», migliorando il sistema. La realtà ovviamente è ben altra: in alcuni periodi, i banchieri «concedono prestiti a tutti e a bassi tassi, facendo crescere l’economia reale e quella speculativa», poi tirano i cordoni alzando i tassi e i requisiti di credito, e comprimendo i volumi: «Così creano fame di denaro e svalutazione degli asset», rastrellando sottocosto «il frutto del lavoro e del risparmio dell’economia produttiva». Stesso trattamento verso gli Stati: «Li indebitano analogamente, per poi mandarli in crisi finanziaria ed esigere», come contropartita per evitare il default, «ulteriori cessioni di sovranità e ulteriore indebitamento per colmare i loro buchi e rifinanziare le loro bolle speculative, sotto il ricatto non solo del default pubblico ma di un collasso finanziario generale».I grandi banchieri, continua Della Luna, impongono inoltre agli Stati «l’abolizione di ogni restrizione legale alla loro facoltà di giocare d’azzardo coi soldi dei risparmiatori», salvo poi farsi rifinanziare proprio dallo Stato, con denaro che non finisce all’economia reale ma, ancora una volta, al circuito speculativo. I politici? Complici, da Obama in giù: hanno rifinanziato le banche senza neppure pretendere che il credito commerciale, al servizio delle aziende e dei risparmiatori, venisse separato dalle banche d’azzardo. «Così, le banche centrali – da finanziatrici degli Stati e garanti della loro solvibilità – sono divenute compratrici in proprio, o finanziatrici di banche commerciali compratrici di titoli di debiti pubblici in difficoltà, quindi ad alto rendimento». Evidente: i debiti dei paesi in difficoltà, a rischio default, pagano interessi così elevati «proprio perché le banche centrali non svolgono più la loro naturale funzione di tutela degli interessi pubblici», ma si comportano come banche private, «a scopo di profitto».Senza contare che le bolle speculative – profitti facili e rapidi, nonché a rischio – distolgono liquidità dagli investimenti produttivi: sicché crolla l’industria, quindi il lavoro, e si va verso la catastrofe. Il sistema monetario odierno, conclude Della Luna, è perfetto solo per gli interessi dei monopolisti della moneta e del credito, che infatti lo dominano. E’ un sistema marcio, coperto da giustificazioni «false» e dalla «malafede» che accomuna «governi, capi di Stato, organi e autorità internazionali e sovranazionali, nonché il mainstream accademico», cioè tutti i soggetti che, a parole, «si propongono di risolvere la crisi e risanare l’economia». Coltivare il grande imbroglio sulla moneta – non più pubblica, ma divenuta strumento di «sfruttamento e dominazione» – ha portato il mondo «sull’orlo di una catastrofe tanto grande, che potrebbe non essere più governabile nemmeno dai detentori del monopolio monetario-bancario», mandando in pezzi il loro stesso gioco.Se il mondo vuole salvarsi, insiste Della Luna, riguardo al denaro deve riscrivere le regole partendo da zero. «In un utopico sistema monetario e creditizio efficiente e razionale rispetto agli interessi della popolazione generale, la moneta è emessa direttamente dallo Stato senza indebitarsi, esattamente come fa già ora col conio metallico; poiché la creazione-emissione di moneta non aurea e non convertibile non comporta un costo, non può comportare indebitamento, né contabilizzazione di debiti a carico dello Stato che la emette». L’emissione sovrana sarebbe quindi vincolata al pagamento graduale del debito capitale pregresso e ad investimenti produttivi e infrastrutturali, che però devono essere effettivamente utili. La libera emissione di denaro non deve venir usata per pagare spesa corrente improduttiva, né investimenti speculativi, evitando di “gonfiare” finanziariamente l’economia reale. Così, si farebbero razionalmente i conti «con i limiti posti allo sviluppo dai limiti delle risorse planetarie», usando la tecnologia per ridurre il peso dei limiti e creare nuovo benessere sostenibile, cioè compatibile col sistema-Terra.Banchieri padroni e governi-fantoccio: così, riassume Marco Della Luna, può finire in ginocchio persino il governo Usa, travolgendo il mondo intero nel suo volontario default. Tutto questo, mentre l’Italia affonda nella recessione e nella disoccupazione per mancanza di investimenti. Siamo soffocati dalle tasse, dal crollo della domanda e dai tagli del welfare. Ridurre il debito pubblico? Operazione velleitaria, che si scontra col calo costante di Pil e produttività. Intendiamoci: «Il debito pubblico di quasi tutti i grandi paesi è praticamente inestinguibile in quanto al capitale, e sempre meno sostenibile in quanto agli interessi». La Banca dei Regolamenti Internazionali lancia l’allarme sull’indebitamento mondiale e la bolla speculativa, che hanno prodotto condizioni ancora più esplosive di quelle del 2008. E i “quantitative easing” della Fed, della Bce e di altre banche centrali si sono tradotti in prestiti a basso interesse, che le banche reinvestono nella speculazione e non nell’economia reale. La bolla finanziaria è tale da provocare il global meltdown: titoli pubblici svalutati nei portafogli delle banche su scala mondiale, e istituti di credito senza più soldi.
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Aiuto, ci spiano. Rodotà: e lo scoprono solo adesso?
Chi aveva decretato la fine dell’età dei diritti, oggi dovrebbe riflettere sul fatto che la prima, vera crisi tra Stati Uniti e Unione Europea si è aperta proprio intorno alle violazioni di un diritto fondamentale – quello alla privacy. Ed è una crisi che mostra con chiarezza che cosa significhi in concreto la globalizzazione, quali siano i limiti della sovranità nazionale, di quale portata siano ormai le sfide rivolte alla democrazia attraverso diverse negazioni di diritti. L’Europa reagisce, ma non è innocente: fin dai giorni successivi all’11 Settembre, sapeva benissimo che la strada imboccata dagli Usa andava verso lo spionaggio di massa, la cancellazione delle garanzie per i cittadini, l’accesso alle banche dati. Stefano Rodotà parla di «colpevole sottovalutazione di queste dinamiche», e accusa: è rimasto inascoltato chi premeva per un cambio di passo nelle relazioni euro-atlantiche, «per impedire che sul mondo si abbattesse il “digital tsunami” poi organizzato dalla National Security Agency e provvidenzialmente rivelato da Edward Snowden».Oggi la Merkel ha reagito alla notizia del controllo sulle sue telefonate, ma negli anni ’90 nessuno protestò per la scoperta del primo sistema mondiale di intercettazioni, “Echelon”, gestito da Usa, Gran Bretagna e Canada con Australia e Nuova Zelanda. Tra i bersagli anche l’allora premier italiano, Prodi. L’Europa? Sempre subalterna alle lobby americane, scrive Rodotà in un editoriale su “Repubblica” ripreso da “Megachip”. Oggi protesta anche Barroso, fingendo di non sapere che – da “Echelon” ai Big Data della Nsa – quelle intercettazioni non sono servite solo a contrastare il terrorismo, ma a spiare i leader dei paesi “alleati” e le loro aziende, «per dare alle imprese americane un di più di informazioni per renderle più competitive rispetto a quelle europee». La presidente brasiliana Dilma Rousseff, secondo cui «senza tutela del diritto alla privacy non v’è libertà di opinione e di espressione, e quindi non v’è una vera democrazia», per Rodotà apre «una vera questione di democrazia planetaria».Di fronte al Datagate «non bastano fiere dichiarazioni di buone intenzioni», ma occorre agire – con leggi opportune – per proteggersi, anche mettendo in forse il trattato commerciale euro-atlantico. «A questa globalizzazione delle pure politiche di potenza, incarnate anche dai grandi padroni privati della Rete, bisogna cominciare ad opporre una politica dei diritti altrettanto globale», sostiene Rodotà, difendendo lo stesso Snowden da chi lo criminalizza. «Si è ormai aperta una partita che riguarda proprio i caratteri della democrazia al tempo della Rete, e questo terreno non può essere abbandonato». Aggiunge il giurista: «La morte della privacy, troppe volte certificata, è una costruzione sociale che serve alle agenzie di sicurezza per affermare il loro diritto di violare la sfera privata», e inoltre «serve ai signori della Rete, come Google o Facebook, per considerare le informazioni sugli utenti come loro proprietà assoluta, utilizzandole per qualsiasi finalità economica». Regole, finalmente, sulla tecnologia digitale. «Ma bisogna pure chiedersi se gli Stati, che oggi virtuosamente protestano contro gli Stati Uniti, hanno le carte in regola per quanto riguarda la tutela dei dati dei loro cittadini: se la posta in gioco è la democrazia, né cedimenti, né convenienze sono ammissibili».Chi aveva decretato la fine dell’età dei diritti, oggi dovrebbe riflettere sul fatto che la prima, vera crisi tra Stati Uniti e Unione Europea si è aperta proprio intorno alle violazioni di un diritto fondamentale – quello alla privacy. Ed è una crisi che mostra con chiarezza che cosa significhi in concreto la globalizzazione, quali siano i limiti della sovranità nazionale, di quale portata siano ormai le sfide rivolte alla democrazia attraverso diverse negazioni di diritti. L’Europa reagisce, ma non è innocente: fin dai giorni successivi all’11 Settembre, sapeva benissimo che la strada imboccata dagli Usa andava verso lo spionaggio di massa, la cancellazione delle garanzie per i cittadini, l’accesso alle banche dati. Stefano Rodotà parla di «colpevole sottovalutazione di queste dinamiche», e accusa: è rimasto inascoltato chi premeva per un cambio di passo nelle relazioni euro-atlantiche, «per impedire che sul mondo si abbattesse il “digital tsunami” poi organizzato dalla National Security Agency e provvidenzialmente rivelato da Edward Snowden».
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Non cittadini di Google, ma sudditi dei ricattatori Nsa
«Scusate, di quale sovranità parliamo? Oggi sappiamo cha la National Security Agency degli Stati Uniti ci spiava, ci spia e – aggiungo – ci spierà: non penseremo mica che sia finita qui», dice Giulietto Chiesa. E la Nsa «ci spierà dall’alto della sua tecnologia, quella che qualcuno anche sul web esalta come il futuro della democrazia». Solo in Francia, racconta Snowden, 70 milioni di comunicazioni telefoniche raccolte in un mese: non certo per spiare la vita privata dei parigini. I motori di ricerca, macchine spionistiche, controllano il flusso dei meta-dati: chi ha chiamato chi, da dove è partita la telefonata, e quando. Poi interviene la selezione: qualcuno estrae dettagli specifici dalla massa delle comunicazioni. «Esempio: andiamo a vedere con chi ha parlato la signora Angela Merkel l’altro ieri». Idem per tutti gli altri “alleati”: «Con la scusa di combattere il terrorismo, hanno messo sotto controllo tutti i nostri leader politici, che io continuo a chiamare “maggiordomi”, perché – essendo tutti ricattati, e sapendo di esserlo (se non lo sanno è ancora peggio) – sono stati ben zitti».L’arma del ricatto: ti controllo, so chi hai parlato, quando, e di cosa. Se l’agenda del grande alleato riparlasse di guerra, sarebbe più difficile opporsi. «Vale per Enrico Letta, vale per la presidente brasiliana Dilma Rousseff, come sappiamo. Vale per Hollande, il burattino di Francia. Vale per l’ex presidente messicano Felipe Calderon e per l’attuale presidente messicano, Enrique Peña Nieto. Vale probabilmente anche per il Papa», aggiunge Chiesa, in un video-editoriale su “Megachip”. «Forse non vale per Xi-Jingping, il presidente cinese, e per il presidente russo Vladimir Putin, i quali – non essendo alleati degli Stati Uniti – hanno probabilmente pensato di tutelarsi, cioè di innalzare le misure difensive». Come scrive persino il “New York Times”, la questione non è certo quella della privacy dell’uomo della strada: «Il programma di sorveglianza ha investito la politica, il business, la diplomazia, le banche». Per prima cosa, spiano con molta attenzione le mosse dei partner. «Begli alleati, che abbiamo». Controllare il cellulare della Merkel: per proteggerla dai terroristi, come dice Obama? No: «Per ricattarla, all’occorrenza, nel caso decidesse di fare qualcosa che “non deve” decidere di fare».Non sugge nessuno: «Se Enrico Letta va a prostrarsi a Washington, pensate che lo faccia perché è un fedele seguace del dio dollaro? Forse, anche. Ma soprattutto: teme la punizione, se sgarrasse». Dunque: «Possiamo fidarci di un alleato di questo genere? Cioè di un’America che ci spia facendo i propri interessi, contro di noi?». Per questo, Chiesa insiste nel chiedere l’uscita dalla Nato: «Non è una questione ideologica, ma pratica: voglio salvare la pelle, la mia e quella dei nostri figli. E se questi signori decidono che per i loro interessi occorre fare la guerra, diranno ai loro servi – i nostri governanti – di portarci in guerra. E se non capiamo questo, noi in guerra ci andremo ancora, finché non ci lasceremo la pelle». Date un’occhiata al grande problema americano: la finanza. «Il loro debito in realtà è il nostro: tocca a noi pagarlo, attraverso la subordinazione dell’euro». Eppure, c’è ancora chi pensa che stiamo entrando nell’era della libertà digitale, in cui potremo decidere tutto premendo un pulsante sul computer e votare insieme ai cinesi e agli indiani su come si gestisce il mondo. «Non siate ingenui, il controllo di queste macchine non ce l’avete voi. Non facciamoci illusioni: non diventeremo cittadini di Google, ma della Nsa».«Scusate, di quale sovranità parliamo? Oggi sappiamo cha la National Security Agency degli Stati Uniti ci spiava, ci spia e – aggiungo – ci spierà: non penseremo mica che sia finita qui», dice Giulietto Chiesa. E la Nsa «ci spierà dall’alto della sua tecnologia, quella che qualcuno anche sul web esalta come il futuro della democrazia». Solo in Francia, racconta Snowden, 70 milioni di comunicazioni telefoniche raccolte in un mese: non certo per spiare la vita privata dei parigini. I motori di ricerca, macchine spionistiche, controllano il flusso dei meta-dati: chi ha chiamato chi, da dove è partita la telefonata, e quando. Poi interviene la selezione: qualcuno estrae dettagli specifici dalla massa delle comunicazioni. «Esempio: andiamo a vedere con chi ha parlato la signora Angela Merkel l’altro ieri». Idem per tutti gli altri “alleati”: «Con la scusa di combattere il terrorismo, hanno messo sotto controllo tutti i nostri leader politici, che io continuo a chiamare “maggiordomi”, perché – essendo tutti ricattati, e sapendo di esserlo (se non lo sanno è ancora peggio) – sono stati ben zitti».
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Gaffe, bugie e arroganza: la Merkel smaschera Obama
Gaffe, arroganza e menzogne: così perfino Angela Merkel finisce per “smascherare” un’America in cui l’opinione pubblica è distratta dal «pessimo debutto della nuova sanità obamiana», i mass media “dormono al volante” e Barack Obama «è lento a reagire all’ultima puntata del Datagate», lo scandalo sullo spionaggio globale rivelato da Edward Snowden, ex consulente Cia e Nsa oggi riparato a Mosca. Il capo della Casa Bianca, spiega Federico Rampini, è stato «colto di sorpresa dalla durezza di Angela Merkel», ovvero dalla brusca telefonata “voluta da Berlino” per protestare vibratamente contro lo spionaggio del cellulare della cancelliera. «L’impreparazione della Casa Bianca e dell’America intera di fronte allo sdegno degli alleati – osserva Rampini – traspare nei bizantinismi adottati per placare e minimizzare: false smentite e bugie dalle gambe corte tradiscono imbarazzo e pigrizia, sottovalutazione o arroganza».Obama risponde alla Merkel che «l’America non spia e non spierà la cancelliera tedesca», ma si guarda bene dall’usare il verbo al passato: dunque, scrive Rampini su “Repubblica”, non esclude che lo spionaggio sia accaduto in passato. Trucchi semantici come quelli usati dal capo dell’intelligence, James Clapper: di fronte alle rivelazioni di “Le Monde” sui 70 milioni di telefonate francesi sorvegliate dalla National Security Agency in un solo mese, Clapper smentisce che siano state “intercettate”. Ma lo spionaggio nell’èra di Big Data, per controllare quantità così smisurate di comunicazioni, cattura a tappeto i “meta-dati”, registrando chi ha chiamato chi, da dove, quando. «L’intercettazione dei contenuti scatta semmai ex post, se gli algoritmi che analizzano i meta-dati segnalano qualcosa di sospetto». Questo, aggiunge Rampini, è il succo dei due maggiori programmi di spionaggio, “Prism” e “Swift”.Del resto, lo stesso Clapper non smentisce le intercettazioni alle ambasciate francesi a Washington e all’Onu, indebolendo la linea difensiva di Obama, secondo cui la Nsa avrebbe «salvato vite umane, sventato attentati terroristici anche ai danni dei nostri alleati». No, protesta Rampini: «Lo spionaggio delle ambasciate all’Onu serviva per le manovre della diplomazia Usa ai tempi delle sanzioni contro l’Iran». La tempesta con Berlino, ricorda il giornalista di “Repubblica”, era stata anticipata da un primo screzio il 19 giugno, quando Obama si preparava a replicare lo storico discorso di Kennedy. Poche ore prima, in una gelida conferenza stampa, la Merkel aveva avanzato le prime proteste per iniziali rivelazioni sullo spionaggio della Nsa ai danni degli alleati Usa. Già allora, Obama rispose che quelle intercettazioni erano «servite a prevenire attacchi terroristici, anche qui sul territorio tedesco». Spiegazione, osserva Rampini, accettata in un primo momento sia dai media, sia dall’opinione pubblica «assuefatta al Grande Fratello post-11 Settembre».Analoga indifferenza, dal mainstream americano, anche dopo la telefonata di protesta della Merkel del 23 ottobre. E le proteste del presidente francese Hollande per lo spionaggio? «Quattro righe nei notiziari esteri del “New York Times”, un colonnino sul “Wall Street Journal” che precisa: “Il governo francese vuole già ridimensionare, non ci saranno conseguenze”». In questo clima, «autoreferenziale e distratto», Obama è colto in contropiede dalla cancelliera e dalla sua minaccia di “gravissimi danni” nelle relazioni bilaterali Germania-Usa. «Difficile, stavolta, rispondere alla Merkel che il suo cellulare fu spiato per prevenire attacchi terroristici», annota Rampini. Per di più, «l’incidente con Berlino giunge al termine di un crescendo di disastri». Dilma Roussef, presidente del Brasile, «non si è accontentata di cancellare una visita di Stato»: è andata all’Onu per proclamare la sua indignazione all’assemblea generale. E il Messico, alleato di ferro degli Stati Uniti, «è in subbuglio per lo spionaggio sul suo ex-presidente». L’intera America latina sprofonda in un clima “anti-yankee” che non si ricordava da decenni. «Valeva la pena pagare un prezzo così alto, pur di lasciare le briglie sciolte al Grande Fratello della Nsa?».È questo, dice Rampini, il dibattito assente negli Stati Uniti, tra la classe dirigente e sui media. È vero, Obama aveva promesso una riforma dell’intelligence con nuove tutele per la privacy, come conferma anche oggi alla Merkel. «Ammesso che questa riforma avanzi, la sua lentezza tradisce la sottovalutazione del danno inflitto nel mondo intero al “soft power” americano», scrive il giornalista di “Repubblica”. «Visti da Washington, gli europei sono sempre un’Armata Brancaleone che reagisce in ordine sparso». Hollande, Letta, Merkel: «Ciascuno parla per sé, con sfumature diverse,». Una posizione unitaria dell’Europa? Forse è ormai imminente. Nonostante la tradizionale debolezza politico-diplomatica di Bruxelles, «dall’Europa si sente crescere la voglia di rappresaglie: contro la cooperazione anti-terrorismo tra le due sponde dell’Atlantico, o contro il patto per la liberalizzazione degli scambi e degli investimenti». Risultato: «Per un’America obamiana che partiva da una popolarità a livelli record, la caduta dovrebbe essere inquietante». Sintetizza da Parigi il presidente della commissione parlamentare affari legislativi: «Gli Stati Uniti non sanno avere alleati, per loro il mondo si divide tra nemici e vassalli».Gaffe, arroganza e menzogne: così perfino Angela Merkel finisce per “smascherare” un’America in cui l’opinione pubblica è distratta dal «pessimo debutto della nuova sanità obamiana», i mass media “dormono al volante” e Barack Obama «è lento a reagire all’ultima puntata del Datagate», lo scandalo sullo spionaggio globale rivelato da Edward Snowden, ex consulente Cia e Nsa oggi riparato a Mosca. Il capo della Casa Bianca, spiega Federico Rampini, è stato «colto di sorpresa dalla durezza di Angela Merkel», ovvero dalla brusca telefonata “voluta da Berlino” per protestare vibratamente contro lo spionaggio del cellulare della cancelliera. «L’impreparazione della Casa Bianca e dell’America intera di fronte allo sdegno degli alleati – osserva Rampini – traspare nei bizantinismi adottati per placare e minimizzare: false smentite e bugie dalle gambe corte tradiscono imbarazzo e pigrizia, sottovalutazione o arroganza».
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Roma: la protesta tradita dallo spettacolo della paura
Ce l’hanno fatta anche stavolta: i soliti violenti – poche decine di teppisti travestiti da normali manifestanti – insieme ai loro alleati di fatto (i media) hanno trasformato la “lunga marcia” dell’Italia più sofferente in un rodeo televisivo a beneficio delle telecamere, appostate nei punti sensibili del percorso nell’attesa di veder finalmente divampare provocazioni, fiamme e scontri. Imbarazzanti i collegamenti in diretta, come per un evento sportivo: l’unica “notizia” è stata, per ore, il carattere pacifico della manifestazione, corredata con dettagli asfissianti sull’imponente dispositivo di sicurezza a protezione dei palazzi governativi. Sfilavano decine di migliaia di persone – oltre 70.000, secondo gli organizzatori – portando nelle strade la voce delle principali trincee sociali italiane – No-Tav, No-Muos, disoccupati e precari, senza-casa, orfani del welfare – ma non una frase è riuscita a permeare il vero scudo schierato nella capitale, quello delle televisioni, trincerato dietro la muraglia di agenti antisommossa come se Roma fosse invasa dagli Unni.“Più tensione che scontri”, alla fine, riconosce il “Fatto Quotidiano”, che riassume: “Bombe carta contro i ministeri, cariche della polizia e della finanza, 8 feriti non gravi tra gli esponenti delle forze dell’ordine, 15 fermati tra i manifestanti: è un bilancio meno grave del previsto quello registrato dopo la giornata di altissima tensione vissuta a Roma per la manifestazione degli antagonisti”. Il corteo del 19 ottobre ha riunito sindacati di base, movimenti contro le grandi opere, precari e sfrattati. In altre parole: l’Italia, quella più colpita dalla crisi. O meglio: quella parte di Italia che alla crisi ha finora cercato di reagire, sui territori, contestando l’establishment in modo frontale, senza fare sconti a partiti e sindacati. «Alzare il livello dello scontro» oggi non significa scagliare sassi contro la polizia, ma «costringere la politica a dare risposte», annunciava una ragazza col megafono, ripresa da “RaiTre”.Buio totale, invece, da “RaiNews24”: i corrispondenti disseminati lungo il tragitto del corteo si sono limitati al “bollettino di guerra”, al 99% rimasto in bianco: niente scontri – come nel più banale dispaccio meteo, quello che annuncia “precipitazioni assenti”. Massima enfasi, dai media, nei soli tre brevi episodi di scontro, per fortuna incruenti: il contatto sfiorato con i “ragazzi di Casapound” tempestivamente bloccati dalla polizia prima che potessero raggiungere il corteo, l’improvviso agguato agli agenti della Guardia di Finanza schierati davanti al ministero dell’economia – sassi, petardi, sprangate, cassonetti incendiati per coprire la ritirata – e i tre rudimentali ordigni, pericolosamente armati con chiodi, scovati all’approdo finale della manifestazione, attorno a Porta Pia. E i tele-giornalisti? Sempre a distanza di sicurezza, lontanissimi dalle voci autentiche della manifestazione. Lo scoop del secolo, filmato quasi sempre da lontano: niente barbari in piazza, ma italiani normali.«Ci sono anche famiglie, anziani, bambini», diceva il reporter di guerra della rete “all news” di Stato, quella che – ai tempi di Roberto Morrione – aveva presidiato in modo esemplare il delirio del drammatico G8 di Genova, con collegamenti continui dal cuore vivo dei cortei. Era il 2001, mille anni fa, con in prima fila il movimento no-global ad avvertire che sarebbe scoppiata una crisi storica, provocata da una selvaggia globalizzazione del business a scapito dei diritti. E ora che l’inferno è arrivato, sotto forma di Eurozona – rigore cieco e tagli al welfare, recessione e disoccupazione di massa – i politici asserragliati nel palazzo, agli ordini dell’élite finanziaria privatizzatrice, sono gli stessi di dodici anni fa. E i loro media – con l’aiuto dei soliti provvidenziali imbecilli muniti di passamontagna – hanno gioco facile, ancora una volta, nell’evitare di raccontare la realtà, facendosi schermo con lo scudo più ancestrale, il più comodo: quello della paura.Ce l’hanno fatta anche stavolta: i soliti violenti – poche decine di teppisti travestiti da normali manifestanti – insieme ai loro alleati di fatto (i media) hanno trasformato la “lunga marcia” dell’Italia più sofferente in un rodeo televisivo a beneficio delle telecamere, appostate nei punti sensibili del percorso nell’attesa di veder finalmente divampare provocazioni, fiamme e scontri. Imbarazzanti i collegamenti in diretta, come per un evento sportivo: l’unica “notizia” è stata, per ore, il carattere pacifico della manifestazione, corredata con dettagli asfissianti sull’imponente dispositivo di sicurezza a protezione dei palazzi governativi. Sfilavano decine di migliaia di persone – oltre 70.000, secondo gli organizzatori – portando nelle strade la voce delle principali trincee sociali italiane – No-Tav, No-Muos, disoccupati e precari, senza-casa, orfani del welfare – ma non una frase è riuscita a permeare il vero scudo schierato nella capitale, quello delle televisioni, trincerato dietro la muraglia di agenti antisommossa come se Roma fosse invasa dagli Unni.
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Susan George: poteri occulti, la Terra è sotto scacco
Se avete a cuore il vostro cibo, la vostra salute e la stessa sicurezza finanziaria, la vostra e quella della vostra famiglia, così come le tasse che pagate, lo stato del pianeta e della stessa democrazia, ci sono pessime notizie: un gruppo di golpisti ha preso il potere e ormai domina il pianeta. Legalmente: perché le nuove leggi che imbrigliano i popoli, i governi e gli Stati se le sono fatte loro, per servire i loro smisurati interessi, piegando le democrazie con l’aiuto di “maggiordomi” travestiti da politici. La grande novità si chiama: “ascesa di autorità illegittima”. Parola di Susan George, notissima sociologa franco-statunitense, già impegnata nel movimento no-global e al vertice di associazioni mondiali come Greenpeace. I governi legali, quelli regolarmente eletti, ormai vengono di fatto «gradualmente soppiantati da un nuovo governo-ombra, in cui enormi imprese transnazionali (Tnc) sono onnipresenti e stanno prendendo decisioni che riguardano tutta la nostra vita quotidiana». L’Europa è già completamente nelle loro mani, tramite i tecnocrati di Bruxelles, i subdoli “inventori” dell’aberrante euro. Ma anche nel resto del mondo la libertà ha le ore contate.I nuovi oligarchi, spiega la George nell’intervento pronunciato al Festival Internazionale di Ferrara, ottobre 2013, possono agire attraverso le lobby o oscuri “comitati di esperti”, attraverso organismi ad hoc che ottengono riconoscimenti ufficiali. Talvolta operano «attraverso accordi negoziati in segreto e preparati con cura da “executive” delle imprese al più alto livello». Sono fortissimi, arrivano ovunque: «Lavorano a livello nazionale, europeo e sovranazionale, ma anche all’interno delle stesse Nazioni Unite, da una dozzina di anni nuovo campo di azione per le attività delle “corporate”». Attenzione, averte la George: «Non si tratta di una sorta di teoria paranoica della cospirazione: i segni sono tutti intorno a noi, ma per il cittadino medio sono difficili da riconoscere». Questo, in fondo, è il “loro” capolavoro: «Noi continuiamo a credere, almeno in Europa, di vivere in un sistema democratico». Non è così, naturalmente. Le sole lobby ordinarie, rimaste «ai margini dei governi per un paio di secoli», ormai «hanno migliorato le loro tecniche, sono pagate più che mai e ottengono risultati».Negli Stati Uniti, le lobby devono almeno dichiararsi al Congresso, dire quanto sono pagate e da chi. A Bruxelles, invece, «c’è solo un registro “volontario”, che è una presa in giro, mentre 10-15.000 lobbysti si interfacciano ogni giorno con la Commissione Europea e con gli europarlamentari». Che fanno? «Difendono il cibo-spazzatura, le coltivazioni geneticamente modificate, prodotti nocivi come il tabacco, sostanze chimiche pericolose o farmaci rischiosi». In più, «difendono i maggiori responsabili delle emissioni di gas a effetto serra», oltre naturalmente ai loro clienti più potenti: le grandi banche. Meno conosciuti delle lobby tradizionali, cioè quelle favorevoli a singole multinazionali, sono in forte crescita specie nel comparto industriale le lobby-fantasma, solitamente definite “istituti”, “fondazioni” o “consigli”, spesso con sede a Washington. Sono pericolose e subdole: pagano esperti per influenzare l’opinione pubblica, fino a negare l’evidenza scientifica, per convincere i consumatori del valore dei loro prodotti-spazzatura.A Bruxelles il loro dominio è totale: decine di “comitati di esperti” preparano regolamenti dettagliati in ogni possibile settore. «Dalla metà degli anni ’90 – accusa Susan George – le più grandi compagnie americane dei settori bancario, pensionistico, assicurativo e di revisione contabile hanno unito le forze e, impiegando tremila persone, hanno speso 5 miliardi dollari per sbarazzarsi di tutte le leggi del New Deal, approvate sotto l’amministrazione Roosevelt negli anni ’30», tutte leggi «che avevano protetto l’economia americana per sessant’anni». Un contagio: «Attraverso questa azione collettiva di lobbying, hanno guadagnato totale libertà per trasferire attività in perdita dai loro bilanci, verso istituti-ombra, non controllati». Queste compagnie hanno potuto immettere sul mercato e scambiare centinaia di miliardi di dollari di titoli tossici “derivati”, come i pacchetti di mutui subprime, senza alcuna regolamentazione. «Poco è stato fatto dopo la caduta di Lehman Brothers per regolamentare nuovamente la finanza. E nel frattempo, il commercio dei derivati ha raggiunto la cifra di 2 trilioni e 300 miliardi di dollari al giorno, un terzo in più di sei anni fa».Quello illustrato da Susan George, nell’intervento tenuto a Ferrara e ripreso da “Come Don Chisciotte”, è un viaggio nell’occulto. «Ci sono organismi come l’International Accounting Standards Board, sicuramente sconosciuto al 99% della popolazione europea». E’ una struttura di importanza decisiva, di cui non parla mai nessuno. Nacque con l’allargamento a Est dell’Unione Europea, per affrontare «l’incubo di 27 diversi mercati azionari, con diversi insiemi di regole e norme contabili». Ed ecco, prontamente, l’arrivo dei soliti super-consulenti, provenienti dalle quattro maggiori società mondiali di revisione contabile. In pochi anni, il gruppo «è stato silenziosamente trasformato in un organismo ufficiale, lo Iasb». E’ ancora formato dagli esperti delle quattro grandi società, ma adesso sta elaborando regolamenti per 66 paesi membri, tra cui l’intera Europa. Attenzione: «Lo Iasb è diventato “ufficiale” grazie agli sforzi di un commissario Ue, il neoliberista irlandese Charlie MacCreevy». Commissario dell’Ue, cioè: “ministro” europeo, non-eletto da nessuno. E per di più, egli stesso esperto contabile. Naturalmente, ha potuto agire sotto la protezione di Bruxelles, cioè «senza alcun controllo parlamentare». L’alibi? Il solito: la Iasb è stato presentato come un’agenzia «puramente tecnica». La sua vera missione? Organizzare, legalmente, l’evasione fiscale dei miliardari.«Fino a quando non potremo chiedere alle imprese di adottare bilanci dettagliati paese per paese, queste continueranno a pagare – abbastanza legalmente – pochissime tasse nella maggior parte dei paesi in cui hanno attività». Le aziende, aggiunge la sociologa, possono collocare i loro profitti in paesi con bassa o nessuna tassazione, e le loro perdite in quelli ad alta fiscalità. Per tassare in maniera efficace, le autorità fiscali hanno bisogno di sapere quali vendite, profitti e imposte sono effettivamente di competenza di ciascuna giurisdizione. «Oggi questo non è possibile, perché le regole sono fatte su misura per evitare la trasparenza». E quindi: «Le piccole imprese nazionali o famigliari, con un indirizzo nazionale fisso, continueranno a sopportare la maggior parte del carico fiscale». Susan George ha contattato direttamente lo Iasb per chiedere se una rendicontazione dettagliata, paese per paese, fosse nella loro agenda. Risposta: no, ovviamente. «Non c’è di che stupirsi. Le quattro grandi agenzie i cui amici e colleghi fanno le regole, perderebbero milioni di fatturato, se non potessero più consigliare i loro clienti sul modo migliore per evitare la tassazione».L’altro colossale iceberg che ci sta venendo addosso, dal luglio 2013, si chiama Ttip, cioè Transatlantic Trade and Investment Partnership. In italiano: protocollo euro-atlantico su commercio e investimenti. «Questi accordi definiranno le norme che regolamenteranno la metà del Pil mondiale – gli Stati Uniti e l’Europa». Notizia: le nuove regole di cooperazione euro-atlantica «sono in preparazione dal 1995», da quando cioè «le più grandi multinazionali da entrambi i lati dell’oceano si sono riunite nel Trans-Atlantic Business Dialogue», la maggiore lobby dell’Occidente, impegnata a «lavorare su tutti gli aspetti delle pratiche regolamentari, settore per settore». Il commercio transatlantico ammonta a circa 1.500 miliardi di dollari all’anno. Dov’è il trucco? In apparenza, si negozierà sulle tariffe: ma è un aspetto irrilevante, perché pesano appena il 3%. Il vero obiettivo: «Privatizzare il maggior numero possibile di servizi pubblici ed eliminare le barriere non tariffarie, come per esempio i regolamenti e ciò che le multinazionali chiamano “ostacoli commerciali”». Al centro di tutti i trattati commerciali e di investimento, c’è «la clausola che consente alle aziende di citare in giudizio i governi sovrani, se la società ritiene che un provvedimento del governo danneggi il suo presente, o anche i suoi profitti “attesi”». Governi sotto ricatto: comandano loro, i Masters of Universe.Il Trans-Atlantic Business Dialogue, la super-lobby che ha incubato il trattato euro-atlantico, ora ha cambiato nome: si chiama Consiglio Economico Transatlantico. E non si nasconde neppure più. Ammette qual è la sua missione: abbattere le regole e piegare il potere pubblico, a beneficio delle multinazionali. Si definisce apertamente «un organo politico», e il suo direttore afferma con orgoglio che è la prima volta che «il settore privato ha ottenuto un ruolo ufficiale nella determinazione della politica pubblica Ue-Usa». Questo trattato, se approvato secondo le intenzioni delle Tnc, includerà modifiche decisive sui regolamenti che proteggono i consumatori in ogni settore: sicurezza alimentare, prodotti farmaceutici e chimici. Altro obiettivo, la “stabilità finanziaria”. Tradotto: la libertà per gli investitori di trasferire i loro capitali senza preavviso. «I governi – aggiunge la George – non potranno più privilegiare operatori nazionali in rapporto a quelli stranieri per i contratti di appalto», e il processo negoziale «si terrà a porte chiuse, senza il controllo dei cittadini».E come se non bastasse l’infiltrazione nel potere esecutivo, in quello legislativo e persino nel potere giudiziario, le multinazionali ora puntano direttamente anche alle Nazioni Unite. Già nel 2012, alla conferenza Rio + 20 sull’ambiente, i super-padroni formavano la più grande delegazione, capace di allestire un evento spettacolare come il “Business Day”. «Siamo la più grande delegazione d’affari che mai abbia partecipato a una conferenza delle Nazioni Unite», disse il rappresentante permanente della Camera di Commercio Internazionale presso l’Onu. Parole chiarissime: «Le imprese hanno bisogno di prendere la guida e noi lo stiamo facendo». Oggi, conclude Susan George, le multinazionali arrivano a chiedere un ruolo formale nei negoziati mondiali sul clima. «Non sono solo le dimensioni, gli enormi profitti e i patrimoni che rendono le Tnc pericolose per le democrazie. È anche la loro concentrazione, la loro capacità di influenzare (spesso dall’interno) i governi e la loro abilità a operare come una vera e propria classe sociale che difende i propri interessi economici, anche contro il bene comune». E’ un super-clan, coi suoi tentacoli e i suoi boss: «Condividono linguaggi, ideologie e obiettivi che riguardano ciascuno di noi». Meglio che i cittadini lo sappiano. E i politici che dovrebbero tutelarli? Non pervenuti, ovviamente.Se avete a cuore il vostro cibo, la vostra salute e la stessa sicurezza finanziaria, la vostra e quella della vostra famiglia, così come le tasse che pagate, lo stato del pianeta e della stessa democrazia, ci sono pessime notizie: un gruppo di golpisti ha preso il potere e ormai domina il pianeta. Legalmente: perché le nuove leggi che imbrigliano i popoli, i governi e gli Stati se le sono fatte loro, per servire i loro smisurati interessi, piegando le democrazie con l’aiuto di “maggiordomi” travestiti da politici. La grande novità si chiama: “ascesa di autorità illegittima”. Parola di Susan George, notissima sociologa franco-statunitense, già impegnata nel movimento no-global e al vertice di associazioni mondiali come Greenpeace. I governi legali, quelli regolarmente eletti, ormai vengono di fatto «gradualmente soppiantati da un nuovo governo-ombra, in cui enormi imprese transnazionali (Tnc) sono onnipresenti e stanno prendendo decisioni che riguardano tutta la nostra vita quotidiana». L’Europa è già completamente nelle loro mani, tramite i tecnocrati di Bruxelles, i subdoli “inventori” dell’aberrante euro. Ma anche nel resto del mondo la libertà ha le ore contate.
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Polonia come Cipro: il governo “rapina” i fondi pensione
Ora che il “bail-in” è diventato una prassi accettata in tutto il pianeta, nessun conto in banca sarà più sicuro al 100 %. In realtà, la confisca delle ricchezze “alla cipriota” è ormai prassi in tutto il mondo, avverte Michael Snyder: in Polonia i fondi pensione privati sono stati appena alleggeriti da parte del governo, mentre in Italia è nel mirino il Montepaschi. Ed è solo l’inizio: il precedente di Cipro «viene utilizzato come modello» anche in Nuova Zelanda, in Canada e in tutta Europa. «E’ solo una questione di tempo, prima di vedere accadere questa cosa negli Stati Uniti: d’ora in poi, chiunque mantenga una grande quantità di denaro in un singolo conto bancario o fondo pensione si dimostrerà incredibilmente stupido». Se ne sono accorti a Varsavia, dove ora il governo “tosa” i fondi pensione privati per «ridurre le dimensioni del debito pubblico». Molte delle attività detenute dai fondi saranno trasferite allo Stato, «mettendo in dubbio il futuro di fondi da molti miliardi di euro, molti dei quali di proprietà straniera».Il governo polacco, scrive Snyder in un intervento ripreso da “Come Don Chisciotte”, sta facendo del suo meglio per farlo sembrare una sorta di complicata manovra legale, «ma la verità è che ciò che hanno fatto è stato rubare un patrimonio privato senza dare in cambio alcun compenso». Per l’organizzazione polacca dei fondi pensione, le modifiche sono incostituzionali. Secondo il premier Donald Tusk, ciò che rimane dei versamenti dei cittadini nei fondi privati sarà progressivamente trasferito nel sistema statale nel corso dei prossimi 10 anni, prima che i risparmiatori arrivino all’età età pensionabile. Analogo allarme in Islanda, dove – dopo l’iniziale rivolta contro i banchieri-truffa e i politici loro complici – ora si ventila l’adozione di garanzie vere e proprie, come da modello Ue, solo per i conti correnti fino ai 100.000 euro. E gli altri? Per i ministri delle finanze europei, in futuro il prelievo forzoso sarà la procedura standard per salvare le banche “troppo grandi per fallire”. Obbligazionisti, azionisti e grandi risparmiatori, con conti superiori ai 100.000 euro, saranno i primi a subire perdite nel caso le banche fallissero, mentre solo i titolari di conti inferiori a quella cifra saranno relativamente al sicuro.In Italia, parla da solo il caso Mps: la banca è senza soldi, dovrebbe essere nazionalizzata e ricapitalizzata dallo Stato, ma è praticamente impossibile che accada. La banca si prepara a non remunerare gli obbligazionisti, dopo aver dichiarato la sospensione dei pagamenti residui su tre titoli “ibridi”, «a seguito delle richieste da parte delle autorità europee che gli obbligazionisti contribuiscano alla ristrutturazione del debito della banca». Secondo “Bloomberg”, Siena «non pagherà nessun residuo su circa 481 milioni di euro (650 milioni di dollari) di titoli ibridi in circolazione, emessi attraverso Mps Capital Trust II e Antonveneta Capital Trust I e II». Perché questi titoli? «Perché gli obbligazionisti ibridi hanno protezione zero e zero possibilità di fare ricorso», spiega Snyder. «In base ai termini dei titoli senza scadenza, la banca senese è autorizzata a sospendere il pagamento degli interessi senza essere dichiarata inadempiente», e senza risarcire i titolari delle obbligazioni, “rapinati” per ripianare i conti. Tutto questo avviene solo adesso, cioè dopo le elezioni tedesche: con la Merkel ancora al potere, si è certi che la Germania non permetterà alla Bce di Draghi di varare un altro programma “Ltro” per immettere nuova liquidità salva-banche.Ma se l’Europa piange, il mondo anglosassone non ride: in Nuova Zelanda, i Verdi di Russel Norman accusano il governo di meditare una soluzione “alla Cipro”: i piccoli risparmiatori sarebbero “rapinati” dal programma Obr, “Open Bank Resolution”, messo a punto dal ministro delle finanze Bill English per affrontare un grande fallimento bancario. E persino il Canada si sta muovendo in questa direzione: lo conferma il “Piano d’azione economica 2013” già presentato al Parlamento dal governo di Stephen Harper. «Ciò significa che questo regime di “bail-in” è stato probabilmente progettato molto prima che scoppiasse la crisi di Cipro», annota Snyder. «Ciò significa che i governi del mondo stanno tenendo d’occhio i nostri soldi come parte della soluzione di eventuali futuri fallimenti delle grandi banche: di conseguenza, non vi è più alcun posto veramente “sicuro” per mettere il vostro denaro». L’unico modo per tentare di proteggersi è dislocare i depositi in banche diverse. «Ma se non dai retta agli avvertimenti e continui a mantenere tutte le tue sostanze in un unico grande mucchio, non sorprenderti se un giorno tutto sarà spazzato via in un attimo».Ora che il “bail-in” è diventato una prassi accettata in tutto il pianeta, nessun conto in banca sarà più sicuro al 100 %. In realtà, la confisca delle ricchezze “alla cipriota” è ormai prassi in tutto il mondo, avverte Michael Snyder: in Polonia i fondi pensione privati sono stati appena alleggeriti da parte del governo, mentre in Italia è nel mirino il Montepaschi. Ed è solo l’inizio: il precedente di Cipro «viene utilizzato come modello» anche in Nuova Zelanda, in Canada e in tutta Europa. «E’ solo una questione di tempo, prima di vedere accadere questa cosa negli Stati Uniti: d’ora in poi, chiunque mantenga una grande quantità di denaro in un singolo conto bancario o fondo pensione si dimostrerà incredibilmente stupido». Se ne sono accorti a Varsavia, dove ora il governo “tosa” i fondi pensione privati per «ridurre le dimensioni del debito pubblico». Molte delle attività detenute dai fondi saranno trasferite allo Stato, «mettendo in dubbio il futuro di fondi da molti miliardi di euro, molti dei quali di proprietà straniera».
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Migranti: diritti e traghetti sicuri, o non siamo più umani
Traghetti. La prima cosa che ci vuole sono traghetti sicuri verso porti accoglienti. Quand’anche i politici non possano dirlo apertamente, è questa la prima ovvia necessità se si vuole evitare che il Canale di Sicilia si trasformi in una nuova Fossa delle Marianne. Quel tratto di mare non è di per sé insidioso per la navigazione; diventa tale quando lo solcano barche malconce e stipate all’inverosimile. Peggio dei vagoni merci diretti a Auschwitz esattamente settant’anni fa, se proprio vogliamo fare il calcolo del numero di persone ammucchiate in una superficie più o meno analoga. La differenza è che ad Auschwitz ci si andava deportati a morire, contro la propria volontà. Mentre sulle carrette del mare le persone si imbarcano volontariamente, pagando cifre con cui sugli aerei si viaggia in business class, nella speranza di vivere.
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Giorno: Napolitano riceva sindaci e parlamentari No-Tav
«Odio le cattive massime più delle cattive azioni» (Jean-Jacques Rousseau). Giorgio Napolitano ha scritto al direttore de “La Stampa” Mario Calabresi perché Massimo Numa ha ricevuto una pacchetto anonimo con all’interno un guscio di hard disk con polvere esplosiva. Le indagini sono in corso, nessuno ha rivendicato l’azione, il movimento ha rigettato ogni responsabilità diretta o indiretta («pallottole e bombe non ci appartengono») e lo stesso giornalista non ritiene il movimento NoTav all’origine della spedizione (ha addirittura pubblicato ampi stralci di due mail di solidarietà provenienti da attiviste). Dunque l’accostamento è come minimo prematuro, arbitrario o – più subdolamente – strumentale, in un periodo in cui sembra che sia necessario come mai prima distogliere l’attenzione da “altre” indagini di magistratura, che hanno fatto emergere collegamenti diretti e inequivocabili di una cricca ignobile volta ai propri interessi e alle proprie poltrone con alte cariche istituzionali, esponenti di primo piano dei partiti, “grand commis” dello Stato che dalle poltrone di comando di imprese pubbliche graziosamente trasformate in SpA usano i beni e i denari comuni come fossero propri.Il presidente della Repubblica, trascinato letteralmente nel suo secondo settennato da una faida senza precedenti del suo partito che stava “suicidando” uno dopo l’altro tutti i candidati a succedergli, richiama i cittadini della valle di Susa che si ostinano a non accettare il colpo definitivo alla residua abitabilità della loro terra «al superamento di ogni tolleranza e ambiguità nei confronti di violenze di stampo ormai terroristico». Molti dei cittadini cui è stato rivolto il suo vibrante monito hanno l’età che aveva lui quando aderì alla Gioventù Universitaria Fascista, ma sono tra i più giovani e attivi iscritti alle locali sezioni dell’Anpi. Altri hanno l’età di quando lui – nel 1957, come ha ammesso di recente in una apprezzabile autocritica scritta a due mani con un altro grande vecchio che si atteggia a papa laico – Eugenio Scalfari – plaudeva all’ingresso in Budapest dei carri armati sovietici, i cui cingoli grondavano del sangue di coloro che avevano osato sperare che nel paradiso stalinista potesse essere garantito il diritto all’autogoverno democratico del paese.Ma la maggior parte di coloro che hanno dato vita – un quarto di secolo fa – a un «profilo di pacifico dissenso e movimento di opinione» appartiene a fasce di età che arrivano fino a quella dello stesso presidente, e qualcuno di loro non si limita ad avere la tessera dell’associazione dei partigiani, ma ha partecipato in prima persona alla lotta di Liberazione. Averli avuti e averli tuttora accanto ci da un conforto che nessuna “scomunica” può appannare. Chi tra loro ha ancora recentemente parlato ai più giovani della loro esperienza di Resistenza lo ha fatto in modo autorevole, equilibrato, responsabile: lo ha ricordato anche Erri De Luca ieri sera a Susa in uno dei suoi passaggi più applauditi: c’è un abisso tra l’oppressione di un popolo da parte di un regime dittatoriale ed esterno e il tentativo di imporre (anche attraverso l’uso della forza) un uso del territorio che chi vi risiede non vuole dover subire.Ma ci sono anche delle analogie che autorizzano a richiamarsi a quel diritto-dovere di opporsi a decisioni che possono anche scaturire da percorsi di democrazia formale ma che hanno violato la democrazia sostanziale. Decisioni che comportano (qui come a Taranto, oggi, o nel Vajont ieri) il venir meno di quel principio di precauzione che dovrebbe presiedere a qualunque scelta progettuale, prima ancora di una analisi costi-benefici che però – come sappiamo – è negativa persino circa la desiderabilità di quest’opera per l’intera comunità nazionale (senza contare le perplessità riscontrate in ambito europeo verso un intero programma di grandi opere che sembrano avvantaggiare soltanto il circuito finanziario, che vi individua redditività e garanzie che solo un uso scellerato del denaro pubblico può assicurare ad istituzioni peraltro privatizzate in modo assai discutibile).Annotiamo infine che – stando a quanto scrive “La Stampa” – il presidente Napolitano avrebbe un filo diretto con l’architetto Mario Virano, che in val di Susa ha svolto (su nomina di un gruppo d’impresa coinvolto nella realizzazione e gestione di grandi opere infrastrutturali) l’ad dell’autostrada del Fréjus prima di diventare, per nomina governativa, presidente dell’Osservatorio che doveva stabilire l’utilità dell’opera, e poi commissario per la sua realizzazione. Si tratta di un personaggio certamente informato, ma non per questo in grado di fornire una descrizione obiettiva delle dinamiche in atto, non fosse altro perché la deriva da lui stesso denunciata certifica il fallimento del suo ruolo.Ne discenderebbe il diritto per i cittadini e il dovere per il Capo dello Stato di ascoltare almeno anche le nostre ragioni e “il nostro racconto” della situazione, direttamente o attraverso i nostri sindaci democraticamente eletti. Ma visto che lo stesso presidente oggi in carica si è più volte rifiutato di farlo (e quando non c’erano neanche le avvisaglie di un possibile inasprimento del confronto e quindi nessun “alibi”) potrebbe almeno “sforzarsi” di ricevere i parlamentari eletti nel nostro collegio, che sono motivatamente contrari all’opera. In fin dei conti, dovrebbe essere garante della loro agibilità politica almeno al pari di quella di chi rappresenta le forze di governo.(Claudio Giorno, “Immodesto e non deferente giudizio su un Presidente e le sue iniziative”, 7 ottobre 2013. Ambientalista valsusino già candidato al Parlamento, Giorno è un esponente del movimento No-Tav).«Odio le cattive massime più delle cattive azioni» (Jean-Jacques Rousseau). Giorgio Napolitano ha scritto al direttore de “La Stampa” Mario Calabresi perché Massimo Numa ha ricevuto una pacchetto anonimo con all’interno un guscio di hard disk con polvere esplosiva. Le indagini sono in corso, nessuno ha rivendicato l’azione, il movimento ha rigettato ogni responsabilità diretta o indiretta («pallottole e bombe non ci appartengono») e lo stesso giornalista non ritiene il movimento NoTav all’origine della spedizione (ha addirittura pubblicato ampi stralci di due mail di solidarietà provenienti da attiviste). Dunque l’accostamento è come minimo prematuro, arbitrario o – più subdolamente – strumentale, in un periodo in cui sembra che sia necessario come mai prima distogliere l’attenzione da “altre” indagini di magistratura, che hanno fatto emergere collegamenti diretti e inequivocabili di una cricca ignobile volta ai propri interessi e alle proprie poltrone
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Come potremmo salvarci, e perché la Merkel lo impedirà
Salvare l’Europa in sole quattro mosse: salvataggio delle banche pericolanti coi fondi del Mes, riduzione del debito con emissione di bond garantiti dalla Bce, un piano speciale per il rilancio degli investimenti produttivi e un paracadute di solidarietà sociale per non lasciare nessuno in preda alla disperazione. Tutto tecnicamente possibile, se solo i politici lo volessero. Purtroppo, sostiene Yanis Varoufakis, economista dell’università di Atene, nulla lascia supporre che si voglia davvero evitare la catastrofe. Per un motivo drammaticamente semplice: se accettasse di metter fine all’“economicidio” europeo, Angela Merkel perderebbe il suo attuale, immenso potere di ricatto. Per questo, alla vigilia delle elezioni, ha deliberamente ignorato l’invito del giornalista americano Bob Kuttner: una sorta di “Piano Merkel”, per cancellare gli orrori del rigore e farsi ricordare con gratitudine, anziché con odio.
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Pepino: resistere è un dovere, il Tav umilia la democrazia
Eversivi non sono i No-Tav, ma i politici che vogliono imporre una grande opera calpestando la Costituzione. «Fino a ieri dicevano che il problema non era il movimento No Tav ma le sue frange estremiste e violente. Fino a ieri. Oggi la maschera è caduta. Con la criminalizzazione politica e mediatica finanche di Stefano Rodotà, con la riesumazione dei reati di opinione, con la perquisizione domiciliare nei confronti di Alberto Perino (leader storico del movimento) tutto è diventato più chiaro». Così parla Livio Pepino, già membro del Csm e magistrato della Corte di Cassazione, schierandosi in difesa della causa No-Tav, bersaglio di una autentica “crociata” da parte dei media e dei partiti, e ora al centro dell’azione repressiva della Procura di Torino. Il nemico da battere, evidentemente, «è il movimento di opposizione all’alta velocità in val Susa».
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Dietro alle “lacrime napolitane”, i boss del vero potere
Il governo Letta è andato a gambe all’aria. L’annuncio, con le dimissioni dei ministri Pdl, è arrivato un sabato di settembre e subito è partito il coro greco degli italiani, abituati al pianto a comando. Un governo sciapo, inconsistente, immobile. Perché piangere? Guardi Letta, imbronciato come un bimbo cui sia stato rotto il trenino e pensi, quest’uomo conosce la coerenza? Il 24 giugno 2012, intervistato da Arturo Celletti di “Avvenire”, s’era scagliato contro Berlusconi e Di Pietro parlandone come di «un male per l’Italia» e, della crisi, come «ossigeno per le forze antisistema», tanto da augurarsi un «grande progetto per il paese» sotto forma di «offerta politica capace di attrarre e convincere: noi, Casini e Vendola. Funzionerebbe. Avrebbe appeal europeo. Avrebbe forza». Sappiamo com’è andata a finire. E ancora, il 26 giugno, intervistato da Teresa Bartoli del quotidiano “Il Mattino” di Napoli, eccitato dall’idea di un patto per arginare il populismo incarnato da Berlusconi, Di Pietro e Grillo: «La questione chiave è l’esclusione del populismo.