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Formica: l’Ue chiede a Silvio l’inciucio col Pd ma senza Renzi
«Renzi finirà asfaltato dai No, poi il successore lo designerà il Vaticano». Una “profezia” firmata Rino Formica, puntualmente esatta: il Rottamatore a casa, sostituito dal nipote dell’uomo di fiducia della Santa Sede, che firmò il Patto Gentiloni per riportare i cattolici in politica dopo l’Unità d’Italia. Oltre un anno dopo, alla vigilia delle politiche, l’ex ministro craxiano rilancia: le “dritte” dell’Ue a Berlusconi prevedono una “grande coalizione”, ma senza Renzi. Lo racconta Formica a Federico Ferraù, che l’ha intervistato per “Il Sussidiario”. Premessa: l’uscita del commissario Ue agli affari economici, Pierre Moscovici, secondo cui «un rischio politico» incombe sull’Europa, visto che «l’Italia si prepara ad elezioni il cui esito è quanto mai indeciso». Quale maggioranza uscirà dal voto? Moscovici critica la proposta di Luigi Di Maio di sfondare il tetto del 3% nel rapporto deficit-Pil e ribadisce il dogma (bugiardo) dell’austerity: «Ridurre il deficit significa combattere il debito, e combattere il debito significa rilanciare la crescita». Secondo Formica, classe 1927, ex ministro delle finanze socialista e attentissimo osservatore della situazione, l’Unione Europea è scesa in campo, e il messaggio di Moscovici risponde a una strategia precisa: imporre a Berlusconi un governo di larghe intese col Pd, che però escluda Renzi.«Lo sfondamento del 3% lo aveva già richiesto Renzi: perché Moscovici a suo tempo non ha sollevato la questione?», si domanda Formica. Nel mirino, evidentemente, ci sono i 5 Stelle. L’establishment europeo ha nuovamente sdoganato Berlusconi per un motivo preciso: nonostante il Jobs Act, l’oligarchia di Bruxelles ritiene che Renzi abbia fallito, sul terreno delle drastiche controriforme neoliberiste sollecitate dall’élite finanziaria. «L’operazione è più sottile», sostiene Formica: «A Bruxelles vogliono ridimensionare il M5S e favorire l’ipotesi di una grande coalizione post-voto». Soprattutto, l’ex ministro immagina che «le coalizioni che entrano in campagna elettorale non saranno le stesse che ne usciranno dopo il 4 marzo». Del resto, se il Movimento 5 Stelle (nonostante il profilo ormai ultra-moderato) è ancora ritenuto un fattore di instabilità, lo è anche nel centrodestra la Lega di Salvini. «Attaccando Di Maio, Moscovici chiude le porte a Renzi, che aveva chiesto pure lui flessibilità, e introduce un fattore di rottura nella coalizione di centrodestra».In questi giorni, da Berlusconi a Grasso passando per i 5 Stelle, si sono sentite tutte le promesse acchiappavoti possibili. Traduzioni pratiche? «Fino a quando non saranno presentate le liste sentiremo solo parole in libertà», assicura Formica. «Dopo, invece, insieme ai candidati dovremmo intravedere qualcosa di più». Ma l’ex ministro non è fiducioso: «Tutti i partiti fanno promesse mirabolanti perché sanno bene che nessuno avrà la maggioranza per governare. E’ come se dicessero: tanto nessuno ci potrà chiedere di onorarle, quelle promesse, perché manca la condizione principale per poterlo fare: i numeri». E se una delle tre forze si ritrovasse con i numeri bastanti per prendere il largo? «Anche se dovesse esserci una maggioranza – dice Formica – questa sarà così contraddittoria al suo interno da avere le mani legate e da giustificare l’inadempienza del progetto. Vale anche per il M5S, che corre da solo. E l’informazione ci mette del suo». Eppure, obietta Ferraù, giornali e tv denunciano all’unisono l’inconsistenza delle promesse. «I media accusano – replica Formica – ma si guardano bene dal chiedere la cosa più semplice: qualora voi, da destra a sinistra, doveste governare in una maggioranza che non è quella dei singoli blocchi, che cosa riterreste qualificante e irrinunciabile? Quale sarebbe la vostra linea del Piave?».Nessuno l’ha ancora fatto, insiste Formica, «e non so se lo faranno». Informazione complice del gioco? «Più che complice, è succube. Tanto, gli elettori non sono in condizione di poter interloquire. Se non con il voto, a suo tempo». Per ora ci sono solo i sondaggi: il centrodestra è davvero favorito, come sembra? «Ha un vantaggio che, dopo il voto, può diventare uno svantaggio», risponde Formica. «Il vantaggio è di essere la coalizione costituita da entità politiche dotate di una propria consistenza». E lo svantaggio? «Quello di essere una sorta di fronte popolare». Grosso limite: «Tutti i fronti popolari stanno in piedi finché c’è un nemico da battere, ma dopo le elezioni tutto diventa più complicato». Fantapolitica e simili: “Liberi e uguali” può fare un accordo post-voto col M5S? Secondo Formica, quella messa insieme da Bersani e D’Alema «è l’unica lista dotata di spessore politico vero, perché ha il radicamento delle vecchie forze di sinistra» e la rappresentanza di Grasso e Boldrini, che l’ex ministro considera «simbolicamente forte». Ma il suo ruolo, aggiunge, «non mi pare tanto quello di allearsi, quanto di fare da detonatore: se avrà successo, potrà risultare esplosiva per i partiti che non vinceranno, scompaginandone le fila: a sinistra il Pd, e in mezzo il M5S». In ogni caso, secondo Formica «molto dipenderà da ciò che succede in Europa». Ovvero: «Se a Berlino la Grosse Koalition riprende in mano la guida dell’unificazione europea, l’Italia o si adegua o sarà penalizzata. E la Germania non lascerà alla Francia la guida dell’opinione pubblica politica europea».«Renzi finirà asfaltato dai No, poi il successore lo designerà il Vaticano». Una “profezia” firmata Rino Formica, puntualmente esatta: il Rottamatore a casa, sostituito dal nipote dell’uomo di fiducia della Santa Sede, che firmò il Patto Gentiloni per riportare i cattolici in politica dopo l’Unità d’Italia. Oltre un anno dopo, alla vigilia delle politiche, l’ex ministro craxiano rilancia: le “dritte” dell’Ue a Berlusconi prevedono una “grande coalizione”, ma senza Renzi. Lo racconta Formica a Federico Ferraù, che l’ha intervistato per “Il Sussidiario”. Premessa: l’uscita del commissario Ue agli affari economici, Pierre Moscovici, secondo cui «un rischio politico» incombe sull’Europa, visto che «l’Italia si prepara ad elezioni il cui esito è quanto mai indeciso». Quale maggioranza uscirà dal voto? Moscovici critica la proposta di Luigi Di Maio di sfondare il tetto del 3% nel rapporto deficit-Pil e ribadisce il dogma (bugiardo) dell’austerity: «Ridurre il deficit significa combattere il debito, e combattere il debito significa rilanciare la crescita». Secondo Formica, classe 1927, ex ministro delle finanze socialista e attentissimo osservatore della situazione, l’Unione Europea è scesa in campo, e il messaggio di Moscovici risponde a una strategia precisa: imporre a Berlusconi un governo di larghe intese col Pd, che però escluda Renzi.
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Voto inutile? Non per sempre: gli italiani sono in sciopero
Sempre sicuri che un terzo dell’umanità si starebbe risvegliando dal letargo, come scrive l’analista geopolitico Fausto Carotenuto? L’Italia è il paese in cui ha il coraggio di ripresentarsi alle elezioni Beatrice Lorenzin, addirittura alla guida di una coalizione centrista, non paga di aver appena terrorizzato milioni di famiglie, migliaia di scuole e centinaia di Asl con la valanga di vaccinazioni appena imposte, senza l’ombra di un’emergenza sanitaria in atto. Tutti i sondaggi in vista delle politiche 2018 danno i 5 Stelle come primo partito, verso il 30%, ma il centrodestra in lievissimo vantaggio, sommando i voti dell’intramontabile Berlusconi a quelli (in calo) della Lega di Salvini, fatalmente annacquatasi nell’alleanza col Cavaliere, fattosi conciliante con Bruxelles. Dopo la grana Boschi-Etruria, lo stesso Renzi appare in discesa libera, addirittura al 22,8% secondo Ixè, anche per colpa dell’altra fenomenale novità del prossimo 4 marzo, il cartello “Liberi e Uguali” capitanato da due new entry della politica italiana come D’Alema e Bersani, alle spalle degli entusiasmanti Grasso & Boldrini. E’ tutto qui il presunto risveglio degli italiani? Nient’altro, in vista, per gli elettori stufi di farsi prendere in giro da politici che in realtà si limitano da decenni a obbedire a diktat stranieri, soprattutto finanziari?Negli ultimi mesi, è diventato rovinosamente evidente il ruolo di “gatekeeper” del Movimento 5 Stelle, in un certo senso rivendicato dallo stesso Grillo, anni fa: non ci fossimo noi, ci sarebbero le barricate in strada. Finora, dai 5 Stelle, non una parola sulle guerre Nato che minacciano la sicurezza strategica italiana, a cominciare dalle tensioni con la Russia (già costate miliardi, al made in Italy, in termini di mancato export dopo le sanzioni inflitte a Mosca). Soprattutto, i grillini non hanno ancora formulato una ricetta per il problema numero uno, la drammatica crisi economica. Insistono nel proporre un “reddito di cittadinanza”, cioè la paghetta per la rassegnazione definitiva al peggio, pagata peraltro facendo solo la cresta agli “sprechi”. L’Europa “matrigna”? Grillo ha tentato di smarcarsi da Farage, a Strasburgo, per approdare tra gli ultra-europeisti dell’Alde, vicini a Monti, l’uomo del rigore. L’euro? Peggio che andar di notte: quando ormai tutti gli economisti del mondo spiegano che la moneta unica è una trappola mortale per l’Italia, la pentastellata Laura Castelli confessa, in televisione, che a un eventuale referendum sull’euro non saprebbe come votare.Di fronte a questo tipo di offerta, è facile intuire che l’oceano dell’astensionismo crescerà ancora – ma secondo Aldo Giannuli si illudono, Antonio Ingroia e Giulietto Chiesa, se sperano di far breccia nel non-voto con una proposta last minute: «Ammesso che riescano a presentare le liste, c’è il rischio che non raggiungano neppure l’1%». Realisticamente, numeri alla mano, lo spettacolo che ci attende non è allegro: l’ennesimo “inciucio” tra Renzi e Berlusconi o un’alleanza tattica tra D’Alema e Di Maio, che si sta accreditando come un possibile premier rassicurante per i poteri forti, uno che si guarderà bene dal cambiare qualcosa. In entrambi i casi, molti analisti ritengono che le urne produrrano un esecutivo zoppo, di breve durata. Motivi di consolazione? Uno, forse: i milioni di italiani che, magari a torto, nel 2013 presero per buona la freschezza dei 5 Stelle, mandando in tilt l’establishment politico. Poi il seguito è cronaca, a cominciare dalla commedia romana della Raggi. Ma quei voti-contro, espressi ormai quasi cinque anni fa, restano un monito, sommati al gesto dei milioni di italiani che hanno disertato le urne per protesta e sfiducia. Uno su due ha smesso di votare; degli altri, e quasi uno su tre voterà 5 Stelle, illudendosi che serva a qualcosa. Tradotto: in larga maggioranza, l’Italia ha già bocciato questa politica. Prima ancora delle elezioni.Sempre sicuri che un terzo dell’umanità si starebbe risvegliando dal letargo, come scrive l’analista geopolitico Fausto Carotenuto? L’Italia è il paese in cui ha il coraggio di ripresentarsi alle elezioni Beatrice Lorenzin, addirittura alla guida di una coalizione centrista, non paga di aver appena mandato nel panico milioni di famiglie, insieme alle scuole e alle Asl, con la valanga di vaccinazioni imposte senza l’ombra di un’emergenza sanitaria in atto. Tutti i sondaggi in vista delle politiche 2018 danno i 5 Stelle come primo partito, verso il 30%, ma il centrodestra in lievissimo vantaggio, sommando i voti dell’intramontabile Berlusconi a quelli (in calo) della Lega di Salvini, fatalmente annacquatasi nell’alleanza col Cavaliere, fattosi conciliante con Bruxelles. Dopo la grana Boschi-Etruria, lo stesso Renzi appare in discesa libera, addirittura al 22,8% secondo Ixè, anche per colpa dell’altra fenomenale novità del prossimo 4 marzo, il cartello “Liberi e Uguali” capitanato da due new entry della politica italiana come D’Alema e Bersani, alle spalle degli entusiasmanti Grasso & Boldrini. E’ tutto qui il presunto risveglio degli italiani? Nient’altro, in vista, per gli elettori stufi di farsi prendere in giro da politici che in realtà si limitano da decenni a obbedire a diktat stranieri, soprattutto finanziari?
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Il subcomandante Di Maio sfida l’Europa con Grasso e il Pd
Di Maio vaneggia sull’euro e comincia a ventilare possibili alleanze post-elettorali? Fa parte di un piano, sostiene l’ex grillino Paolo Becchi: l’obiettivo è conquistare Palazzo Chigi con l’appoggio di D’Alema, Bersani e Grasso, più eventuali spezzoni del Pd, nel caso il partito di Renzi andasse incontro a una disfatta, scaricando il segretario. Come arrivare alla guida del futuro esecutivo? «È molto semplice: proponendo per il governo guidato da Di Maio nomi di tecnici per i vari ministeri, in realtà però “tecnici di area”». Di quale area? «Una di queste aree riguarda l’intesa di massima con “Liberi e Uguali”, il nuovo partito di Bersani e D’Alema guidato da Piero Grasso (messo lì al Senato con i voti di Grillo, nonostante l’incazzatura di Casaleggio)». Al momento il nuovo cartello ex-Pd è dato nei sondaggi intorno al 7%, ma in campagna elettorale potrebbe crescere fino al 10%. «In termini di seggi non sarebbero tanti, anche perché potrebbe vincere in pochi collegi uninominali; ma una quarantina di scranni a Montecitorio e una ventina a Palazzo Madama, scaturenti quasi tutti dai collegi plurinominali, dovrebbe ottenerli. Sommando a quel punto i seggi del M5S con quelli di “Liberi e Uguali”, la maggioranza assoluta dei seggi sarebbe però ancora lontana. Ma non per questo irraggiungibile: a spuntare in soccorso arriverebbe il Pd».Se Renzi ottenesse un risultato deludente, «ad esempio intorno al 20% dei voti o addirittura meno (e non è da escludere) l’agguato di una resa dei conti interna è dietro l’angolo», scrive Becchi su “Libero”, in un’analisi firmata insieme a Giuseppe Palma e ripresa da “Scenari Economici”. Il possibile esito della catastrofe renziana: «Dimissioni da segretario e, al suo posto, una figura Caronte che traghetti il partito verso nuove primarie e un nuovo congresso. A quel punto, tolto di mezzo Renzi, l’accordo tra M5S e Pd è presto fatto». Anche in questo caso, secondo Becchi e Palma, basterà puntare su tecnici “di area”, per un governo «formalmente guidato dal M5S, ma in realtà dalla vecchia sinistra: una maggioranza parlamentare che va da Di Maio a Grasso, passando da Orlando, Finocchiaro e Franceschini, con il godimento massimo di Massimo D’Alema e di Bersani». Insomma, un’alternativa alla coalizione del centrodestra c’è, e proprio Di Maio «la sta abilmente costruendo». La verifica della sua tenuta? «E’ già sperimentata: a questo – e solo a questo – serviva la legge sul testamento biologico», che ha allineato in anticipo i voti trasversali che domani, secondo i due analisti, potrebbero sorreggere il governo Di Maio.Quanto al programma dell’eventuale esecutivo “arcobaleno”, è meglio non farsi illusioni. «Se dovessimo arrivare al referendum sull’uscita dall’euro, che per me è l’extrema ratio, è chiaro che sarei per l’uscita», dice Di Maio a “La7”, «perché vorrebbe dire che l’Europa non ci avrebbe ascoltato su nulla». Ma prima, aggiunge, «proverei a ottenere risultati andando in Europa». Se Di Maio scherza, Renzi non ride alle sue barzellette. Mette in discussione il tabù dell’euro? «Sarebbe una follia per l’economia italiana», replica l’ex premier, il mancato salvatore dell’Italia. Questa la sua visione: «Immaginate cosa accadrebbe al nostro export, e ai lavoratori delle aziende interessate, se al governo ci fosse chi vuole uscire dall’euro come Salvini o Di Maio: chi pagherebbe il conto?». E’ vero, si corregge Di Maio: non dicevo sul serio. «L’obbiettivo di governo del M5S non è assolutamente l’uscita dall’euro», chiarisce il grillino, su Facebook. La vera missione è «rendere la permanenza del nostro paese nella moneta unica una posizione conveniente per l’Italia». Perfetto, e come?Di Maio spiega che porterà in Europa un «pacchetto di proposte», essendo, beato lui, «fiducioso nella strada del dialogo con le istituzioni europee». Poi però minaccia: «Se l’Europa sarà rimasta sorda a tutte le nostre richieste, non sacrificheremo la ricchezza e il benessere degli italiani sull’altare dell’euro». Ma non lo sa, il subcomandante Di Maio, che i buoi sono giù fuggiti dalla stalla, mentre i 5 Stelle dormivano e a Strasburgo cercavano addirittura di traslocare tra i super-euristi dell’Alde, in compagnia di Mario Monti? Evidentemente, i candidati alle politiche 2018 sanno di potersi permettere di tutto, convinti che gli italiani ci cascheranno ancora. Magari votando per frontman anziani, o giovanissimi già decrepiti, che pensano di mandare Massimo D’Alema a sbattere i pugni sui tavoli di Bruxelles. Un programma veramente credibile, rivoluzionario. Difatti, il vero potere ostile all’Italia – da Wall Street a Bruxelles – sta già tremando, all’idea di doversela vedere con Di Maio e Bersani, Grasso e Franceschini. Un altro lottatore, Stefano Fassina, avverte: «Sull’euro il referendum consultivo è impraticabile per evidenti ragioni pratiche: la fuga di capitali dall’Italia e l’impennata degli spread sui titoli di Stato al solo annuncio di volerlo celebrare».Di Maio vaneggia sull’euro e comincia a ventilare possibili alleanze post-elettorali? Fa parte di un piano, sostiene l’ex grillino Paolo Becchi: l’obiettivo è conquistare Palazzo Chigi con l’appoggio di D’Alema, Bersani e Grasso, più eventuali spezzoni del Pd, nel caso il partito di Renzi andasse incontro a una disfatta, scaricando il segretario. Come arrivare alla guida del futuro esecutivo? «È molto semplice: proponendo per il governo guidato da Di Maio nomi di tecnici per i vari ministeri, in realtà però “tecnici di area”». Di quale area? «Una di queste aree riguarda l’intesa di massima con “Liberi e Uguali”, il nuovo partito di Bersani e D’Alema guidato da Piero Grasso (messo lì al Senato con i voti di Grillo, nonostante l’incazzatura di Casaleggio)». Al momento il nuovo cartello ex-Pd è dato nei sondaggi intorno al 7%, ma in campagna elettorale potrebbe crescere fino al 10%. «In termini di seggi non sarebbero tanti, anche perché potrebbe vincere in pochi collegi uninominali; ma una quarantina di scranni a Montecitorio e una ventina a Palazzo Madama, scaturenti quasi tutti dai collegi plurinominali, dovrebbe ottenerli. Sommando a quel punto i seggi del M5S con quelli di “Liberi e Uguali”, la maggioranza assoluta dei seggi sarebbe però ancora lontana. Ma non per questo irraggiungibile: a spuntare in soccorso arriverebbe il Pd».
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Magaldi: la truffa delle elezioni 2018, solito inciucio in arrivo
Tu chiamale, se vuoi, elezioni. Ma sapendo che il risultato, già scritto, si chiama inciucio. Con un risvolto ovviamente orrendo, per l’Italia. E cioè: ancora e sempre, sottomissione all’altrui potere. «Sono venticinque anni che il nostro paese non ha più un governo autorevole, e ci sono tutte le condizioni perché questa infelice tradizione prosegua, anche dopo le prossime politiche», sostiene Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt. «Quella che ci aspetta – dice, ai microfoni di “Colors Radio” – è solo l’ennesima truffa: precisamente, la truffa delle elezioni 2018, in cui i voti degli italiani serviranno solo a sorreggere l’ennesimo accordo basato sulle solite larghe intese, che naturalmente tutti fingono di voler evitare». Il Pd almeno porta a casa la legge sul biotestamento, «una delle pochissime buone cose fatte, insieme alle unioni civili». Renzi mostra di voler tirar dritto, ma sa già che dovrà vedersela con l’uomo di Arcore: «Fateci caso: appena Berlusconi ha rimesso fuori il naso, con il risultato delle regionali in Sicilia, si è immediatamente risvegliata una certa magistratura a orologeria. Sicché il Cavaliere si è visto costretto a elogiare la Merkel, aprendo addirittura alla possibilità di un Gentiloni-bis. Come dire: lasciatemi in pace, farò il bravo. Mi guarderò bene dal disturbare il vero potere che condiziona la penisola».Sondaggi alla mano, Renzi e Forza Italia saranno costretti a convivere, nonostante i mal di pancia di Salvini, che comunque ha prontamente ammaninato la bandiera anti-euro. «Le cosiddette destre estreme europee, come quella austriaca? Sono perfette per perpetuare in eterno il potere dell’oligarchia neo-aristocratica», osserva Magaldi. Lampante il caso francese di Marine Le Pen: «Il Front National è l’avversario che chiunque vorrebbe avere», specie se l’antagonista si chiama Emmanuel Macron. Lo strano feeling tra Palazzo Chigi e l’Eliseo? Assurdo: «In che cosa Macron potrebbe rappresentare una novità, rispetto al dominio eurocratico fondato sul rigore? E’ stato ministro di Valls, nominato da Hollande. Il che è tutto dire». Senza contare gli eminenti “padrini” del presidente francese, già banchiere del gruppo Rothschild, sostenuto dal supermassone oligarchico Jacques Attali, secondo Paolo Barnard maestro” di Massimo D’Alema. Come sperare che sia Macron a rompere il muro dell’austerity a guida tedesca? Significa solo prendere per il naso gli italiani, come sembrano aver tutta l’aria di fare gli ex Pd del cartello “Liberi e Uguali”, formazione che esibisce la foglia di fico istituzionale dell’incolore Pietro Grasso.«Da quelle parti circolano slogan che mirano a marcare le distanze dal Pd, ma dietro alle parole non c’è sostanza: piuttosto – dichiara Magaldi – lo spettacolo è quello, verminoso, della corsa alle poltrone, tramite candidature in seggi sicuri». Nulla che, in ogni caso, possa anche solo lontanamente impensierire i poteri forti che stanno piegando l’Italia. E nella “truffa” delle elezioni di primavera, Magaldi inserisce anche il Movimento 5 Stelle: al di là delle vaghe esternazioni di Di Maio su eventuali possibilità di collaborazione post-voto, i grillini sono intenzionati a restare nel loro sostanziale isolamento, non più così splendido dopo la pessima prova di Roma. Di fatto: sul tappeto, non c’è nessuna opzione per cambiare lo scenario, che vede l’Italia subire i diktat di potentati europei finanziari e industriali, che utilizzano la Merkel, Draghi e lo Juncker di turno. Terminali italiani della filiera? Per esempio il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, che Magaldi considera organico ai circuiti più reazionari dell’oligarchia supermassonica delle Ur-Lodges, gli stessi in cui – sempre secondo Magaldi – militano Mario Monti, Giorgio Napolitano e Massimo D’Alema.Sono peraltro in buona compagnia, per così dire: nel saggio “Massoni”, che mette a fuoco il “back office” del vero potere, Magaldi cita personaggi come Gianfelice Rocca (Techint e Assolombarda), Giuseppe Recchi (costruzioni) nonché il banchiere Tommaso Cucchiani, insieme ad Alfredo Ambrosetti, Carlo Secchi, Emma Marcegaglia, Matteo Arpe. Sempre all’ambiente neo-aristocratico delle superlogge sovranazionali, per Magaldi, sono associati l’ex ministro Domenico Siniscalco e Corrado Passera, Marta Dassù e l’attuale governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, insieme a ex ministri come Vittorio Grilli (governo Monti), Fabrizio Saccomanni (governo Letta) e Federica Guidi (governo Renzi). Loro sì, un’agenda ce l’hanno: è quella imposta all’Italia dall’Europa del rigore. Meno diritti e più tasse, meno lavoro e salari più bassi. E ancora: tagli al welfare e alle pensioni, disoccupazione e impieghi precari. «Non dico che un imprenditore non possa licenziare un dipendente, ma dev’essere la Costituzione a garantire che il lavoratore licenziato possa rapidamente trovare un altro lavoro», dice Magaldi, che ha impegnato il Movimento Roosevelt in un vasto studio per migliorare la Costituzione italiana, nello spirito (largamente inattuato) dei padri costituenti.Socialismo liberale: proprio a un gigante del pensiero progressista europeo, il leader svedese Olof Palme, Magadi e i suoi dedicheranno all’inizio del 2018 un importante convegno a Milano: un’occasione per misurare, davvero, l’abisso che ci separa dall’Europa che sarebbe potuta nascere e svilupparsi, con al timone uomini come Palme, che impiegarono appieno la sovranità dello Stato per ottenere benessere diffuso e garanzie sociali per tutti. Nino Galloni, prestigioso economista post-keynesiano e vicepresidente del Movimento Roosevelt, sostiene che una “moneta di Stato”, fiduciaria, potrebbe benissimo aggirare il Trattato di Maastricht e risollevare di colpo l’economia italiana, attraverso la creazione di milioni di posti di lavoro. Cosa manca? La volontà politica, in primis. Manca una visione organica, una classe dirigente capace e non più subalterna, al servizio di poteri esterni. Le elezioni prossime venture? Una farsa: nessuna vera scelta, sul piatto. Solo variazioni sul tema, che non cambia: vietato alzare la voce con i boss dell’Unione Europea. Le forze in lizza? Fingeranno di combattersi, per poi attovagliarsi allo stesso tavolo. «Per questo, comunque vadano – conclude Magaldi – le elezioni della primavera 2018 saranno una vera e propria truffa».Tu chiamale, se vuoi, elezioni. Ma sapendo che il risultato, già scritto, si chiama inciucio. Con un risvolto ovviamente orrendo, per l’Italia. E cioè: ancora e sempre, sottomissione all’altrui potere. «Sono venticinque anni che il nostro paese non ha più un governo autorevole, e ci sono tutte le condizioni perché questa infelice tradizione prosegua, anche dopo le prossime politiche», sostiene Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt. «Quella che ci aspetta – dice, ai microfoni di “Colors Radio” – è solo l’ennesima truffa: precisamente, la truffa delle elezioni 2018, in cui i voti degli italiani serviranno solo a sorreggere l’ennesimo accordo basato sulle solite larghe intese, che naturalmente tutti fingono di voler evitare». Il Pd almeno porta a casa la legge sul biotestamento, «una delle pochissime buone cose fatte, insieme alle unioni civili». Renzi mostra di voler tirar dritto, ma sa già che dovrà vedersela con l’uomo di Arcore: «Fateci caso: appena Berlusconi ha rimesso fuori il naso, con il risultato delle regionali in Sicilia, si è immediatamente risvegliata una certa magistratura a orologeria. Sicché il Cavaliere si è visto costretto a elogiare la Merkel, aprendo addirittura alla possibilità di un Gentiloni-bis. Come dire: lasciatemi in pace, farò il bravo. Mi guarderò bene dal disturbare il vero potere che condiziona la penisola».
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Sorpresa: la lobby Usa vota contro Gerusalemme capitale
Gerusalemme capitale d’Israele: pietra tombale sulle speranze di pace nella regione? Solo in apparenza, avverte Paolo Barnard: perché la potente stampa ebraica americana ha clamorosamente bocciato l’idea, nauseata dall’abuso di violenza anti-palestinese del governo Nenyahu. A monte, un retroscena strategico: il prossimo boom delle energie rinnovabili, in accoppiata con lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, potrebbe di colpo metter fine al ruolo di Israele come “cane da guardia” dei giacimenti petroliferi. Prima della presidenza Einsehower, ricorda Barnard, «Israele non era nulla, per gli Usa». La politica statunitense «neppure celebrava l’Olocausto». Col crescere della dipendenza di Washington sul petrolio del Golfo, e poi con la grande crisi del 1973, «l’America decise che Israele doveva diventare la più grande base militare americana del mondo a guardia dell’oro nero. E lì, il destino dei palestinesi fu segnato». Oggi però «il mondo sta marciando alla velocità di una supernova verso le rinnovabili», sicché «il petrolio è destinato al cestino della storia, e con esso molta dell’importanza d’Israele per gli Usa». L’America che dà il suo placet su Gerusalemme, suggerisce Barnard, in realtà si sta già muovendo in direzione contraria: basta leggere gli editoriali-chiave apparsi sul “New Yorker” e su “New Republic”, organi storici dell’intellighenzia ebraica americana, fino a ieri pro-Israele “senza se e senza ma”.Solo dieci anni fa, scrive Barnard nel suo blog, entrambi i giornali erano «integralisti fanatici pro-Israele». Poi, semplicemente, lo Stato ebraico «li ha sempre più disgustati» con la sua brutalità contro i civili del Libano o quelli di Gaza: le operazioni militari “Grapes of Wrath” e “Cast Lead” sono state mostrate in Tv, e adesso due uomini come Peter Beinart (ex direttore del “The New Republic”) e David Remnick (già direttore del “The New Yorker”), entrambi ebrei, «hanno detto basta: hanno vomitato anche loro. E con loro, e i loro editoriali, ha iniziato a vomitare anche l’ebraismo americano». Attenti, osserva Barbard: «Non accadeva dal primo minuto della nascita d’Israele nel 1948 che gli ebrei americani voltassero le spalle a quello che l’immenso dissidente ebreo Norman Finkelstein chiama “lo Stato Psicotico”». Sulla “New Republic”, ecco l’editoriale di Alex Shepard: «L’America storicamente ha assunto la posizione secondo cui la divisione di Gerusalemme come capitale dei due Stati è parte integrante ed essenziale della pace. L’eventuale riconoscimento di Gerusalemme come capitale indivisibile sarebbe come gettare veleno nell’acquedotto prima che vi bevano sia gli israeliani che i palestinesi».La posizione odierna della Casa Bianca e dei sauditi, sulla questione, «distrugge le promesse di pace», scrive Shepard: «Si tratta di una decisione che era ovvio avrebbe portato sugli Usa le critiche di tutto il mondo». Il “New Yorker” affida a un’altissima personalità ebraica un raffinato ma tagliente editoriale. Parla Bernard Avishai, professore alla Dartmouth and Hebrew University, autore di “La tragedia del Sionismo”, oltre che “senior” associato al Guggenheim: «In Israele la destra di Netanyahu ha controllato la realtà del paese così a lungo che fra poco sarà inutile persino tentare di ricordare un passato che loro non hanno mai contribuito a costruire». Aggiunge, Avishai: «La realtà che Gerusalemme Est sia, dalla guerra del 1967, territorio occupato da Israele secondo la legalità internazionale è ovvia a chiunque al mondo, meno che a Israele». E’ lo stesso Israel Democracy Institute, attraverso un sondaggio, a rivelare che il 61% degli stessi israeliani hanno ormai accettato Gerusalemme come città divisa. E il passaggio che segue, sottolinea Barnard, è di cruciale importanza storica: «Gerusalemme – scrive Avishai – non fu mai un luogo di adorazione atavica per l’ebraismo. Il massimo moralista della storia ebraica moderna, Ahad Ha’am (1891), lasciò scritto il suo shock nel vedere quegli strani uomini ebrei fare mosse inconsulte al Muro del Pianto… Ha’am scrisse che le pietre di quel muro rappresentavano la distruzione della nostra terra, e quegli uomini rappresentavano la distruzione della nostra razza».Commenta Barnard: «Non so se voi lettori italiani potete capire che micidiale portata hanno parole così, scritte da quelli che in America erano le lobby-megafono telecomandate da Tel Aviv da sempre. Esse rappresentano non solo l’inizio della fine dell’Israele irragionevole, fanatico, “neonazista” nell’oppressione, ma anche le prime pietre della pace futura laggiù. Infatti pochi hanno notato che lo stesso Trump, nella sua dichiarazione, si è guardato bene dal sancire Gerusalemme come capitale “indivisibile” d’Israele». Il capo della Casa Bianca ha infatti detto, alla lettera: «Non prendo posizione sugli accordi finali, inclusi i confini finali della sovranità d’Israele a Gerusalemme: è una questione che devono risolvere israeliani e palestinesi». Chi mai gli avrà scritto quelle parole? Trump, dice Barnard, sa benissimo che l’ebraismo americano ora non tollera più gli eccessi dello Stato ebraico. E sa anche che il 64% dei potentissimi ebrei americani aveva votato per la Clinton, mentre lui si era beccato un misero 18%. Conclusione: «Calma tutti, gli strilli lasciamoli ai fessi austeri delle Tv. Là dove veramente si fanno i giochi (inclusa l’ebrea Goldman Sachs o nella Coca Cola Company), la corrente è cambiata. E, caro psicotico e assolutamente anti-ebraico signor Netanyahu, tu e i tuoi sionisti fanatici avete gli anni contati».Gerusalemme capitale d’Israele: pietra tombale sulle speranze di pace nella regione? Solo in apparenza, avverte Paolo Barnard: perché la potente stampa ebraica americana ha clamorosamente bocciato l’idea, nauseata dall’abuso di violenza anti-palestinese del governo Nenyahu. A monte, un retroscena strategico: il prossimo boom delle energie rinnovabili, in accoppiata con lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, potrebbe di colpo metter fine al ruolo di Israele come “cane da guardia” dei giacimenti petroliferi. Prima della presidenza Einsehower, ricorda Barnard, «Israele non era nulla, per gli Usa». La politica statunitense «neppure celebrava l’Olocausto». Col crescere della dipendenza di Washington sul petrolio del Golfo, e poi con la grande crisi del 1973, «l’America decise che Israele doveva diventare la più grande base militare americana del mondo a guardia dell’oro nero. E lì, il destino dei palestinesi fu segnato». Oggi però «il mondo sta marciando alla velocità di una supernova verso le rinnovabili», sicché «il petrolio è destinato al cestino della storia, e con esso molta dell’importanza d’Israele per gli Usa». L’America che dà il suo placet su Gerusalemme, suggerisce Barnard, in realtà si sta già muovendo in direzione contraria: basta leggere gli editoriali-chiave apparsi sul “New Yorker” e su “New Republic”, organi storici dell’intellighenzia ebraica americana, fino a ieri pro-Israele “senza se e senza ma”.
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Magaldi: l’Italia è salva, grazie a Grasso e ai D’Alema-boys
Sicché sarebbe Pietro Grasso, detto Piero, il formidabile anti-Renzi? O meglio l’anti-Renzusconi, l’eroe carismatico che si opporrà all’ennesimo inciucio che ci attende? Ma mi faccia il piacere, direbbe Totò. Abbiate fede: prima o poi gli italiani avranno finalmente un Parlamento degno – non ancora nella primavera 2018, però. Parola di Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e promotore del Pdp, Partito Democratico Progressista, che ancora aspetta di nascere su base popolare, mediante assemblea costituente con libera adesione. Obiettivo: fare piazza pulita dei personaggi che hanno condannato il paese al declino, e che – lungi dal farsi da parte – animano l’imbarazzante farsa dell’ennesima campagna elettorale inutile. Nessuno dei tre poli osa raccontare la nuda verità, l’inaccettabile sottomissione ai poteri forti europei che hanno costretto il sistema-Italia a fare harakiri. Renzi e Berlusconi, in attesa di sedersi allo stesso tavolo, fanno a gara a chi le spara più grosse, in termini di promesse elettorali palesemente impossibili da mantenere, sotto il regime di euro-austerity. Mentre il grillino Di Maio – altrettanto lontano dalla realtà – fa il turista a Washington, evitando accuratamente la sponda progressista. E a Roma intanto chi spunta? Pietro Grasso, il nuovo campione degli indimenticabili Bersani e D’Alema, notoriamente amatissimi dagli italiani.«C’è da ridere per non piangere, se il rinnovamento deve partire da Grasso», dice Gioele Magaldi a David Gramiccioli di “Colors Radio” all’indomani della convention romana dei fuoriusciti dal Pd renziano, alleati degli ex-Sel e di gruppi ancora più esigui della sinistra, come quello di Civati. «Già magistrato dignitoso, Grasso è un signore di 72 anni che è stato miracolato da alcune poltrone, come la presidenza del Senato: si è dimesso, tra virgolette, dal Pd, ma non ricordo che si sia erto a difensore della democrazia e dei diritti quando tutti quanti, da destra a sinistra, avallavano il Fiscal Compact varato dal governo Monti, anche con i voti di Bersani, D’Alema, Speranza e compagni, tutti provenienti dalla filiera Pci». Insiste Magaldi: «L’aver pienamente sottoscritto le peggiori le politiche di rigore è davvero il peccato originale di questa sedicente sinistra italiana». E aggiunge: «Chi può pensare, davvero, che il rinnovamento del paese possa venire da un personaggio come Grasso? Non direi che sia stato un presidente del Senato memorabile: e oggi il popolo “de sinistra” dovrebbe entusiasmarsi, plaudire? Immagino quanta eccitazione e quanti fremiti, alla vista di Grasso che arringa le folle. C’è davvero da piangere, da singhiozzare».Per il dopo-elezioni, non c’è bisogno di profezie: sondaggi alla mano, Renzi e il Cavaliere saranno “costretti” a una riedizione del Patto del Nazareno. Larghe intese, ma dalla vita breve: Magaldi prevede «crisi parlamentari sempre più ravvicinate, nei prossimi tempi, perché la situazione è insostenibile: c’è una decadenza dell’Italia che ormai questa classe dirigente nel suo complesso non è in grado di fronteggiare», men che meno «gli spaventapasseri della convention romana della sinistra, vecchi notabili variamente riciclati, che oggi ci vengono a cantare questa canzone stonata: e sono più aristocratici loro, nei rapporti umani e anche nella visione politica, di altri che vengono collocati a destra». Magaldi pensa al futuro Pdp e ragiona da allenatore: «Basta con questa finzione, noi lavoriamo per un partito davvero popolare: non ci interessa la rappresentazione populista, demagogica e squinternata che fa del popolo una macchietta, vogliamo una politica finalmente all’altezza dell’Italia, fondata su sovranità, dignità e diritti». Si tratta di ripartire da zero, per una «credibile rigenerazione politica di un paese malgovernato per 25 anni dai sedicenti centrodestra e centrosinistra». Il punto si svolta? Dire no alla truffa del rigore, dogma ideologico imposto dall’élite finanziaria. E’ la parola d’ordine su cui, promette Magaldi, si costruirà il Pdp, già partire dalla prossima legislatura, parlando anche a parlamentari «disgustati» dello spettacolo in arrivo.Sicché sarebbe Pietro Grasso, detto Piero, il formidabile anti-Renzi? O meglio l’anti-Renzusconi, l’eroe carismatico che si opporrà all’ennesimo inciucio che ci attende? Ma mi faccia il piacere, direbbe Totò. Abbiate fede: prima o poi gli italiani avranno finalmente un Parlamento degno – non ancora nella primavera 2018, però. Parola di Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e promotore del Pdp, Partito Democratico Progressista, che ancora aspetta di nascere su base popolare, mediante assemblea costituente con libera adesione. Obiettivo: fare piazza pulita dei personaggi che hanno condannato il paese al declino, e che – lungi dal farsi da parte – animano l’imbarazzante farsa dell’ennesima campagna elettorale inutile. Nessuno dei tre poli osa raccontare la nuda verità, l’inaccettabile sottomissione ai poteri forti europei che hanno costretto il sistema-Italia a fare harakiri. Renzi e Berlusconi, in attesa di sedersi allo stesso tavolo, fanno a gara a chi le spara più grosse, in termini di promesse elettorali palesemente impossibili da mantenere, sotto il regime di euro-austerity. Mentre il grillino Di Maio – altrettanto lontano dalla realtà – fa il turista a Washington, evitando accuratamente la sponda progressista. E a Roma intanto chi spunta? Pietro Grasso, il nuovo campione degli indimenticabili Bersani e D’Alema, notoriamente amatissimi dagli italiani.
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Magaldi: sveglia, Renzi. Ribellati all’Ue, o sarà la catastrofe
Matteo, sveglia: devi cambiare rotta adesso, in extremis, dichiarando guerra all’austerity. Oppure, «dopo il bagno di sangue delle elezioni» sarà troppo tardi. Non ci saranno vincitori, ma un grande sconfitto, il Pd. E l’Italia dovrà rassegnarsi all’ennesimo non-governo, prono ai diktat di Bruxelles. Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, insiste su Renzi: ancora per qualche mese, l’ex rottamatore sarebbe l’unico potenziale vettore di consenso, su cui far convergere una piattaforma keynesiana in grado di ribaltare il tavolo europeo. Non lo è il Movimento 5 Stelle, nel cui programma l’Europa è assente. Non lo è Berlusconi, «che un giorno attacca la Merkel e il giorno dopo ne cerca l’amicizia, tramite Tajani». E non lo è neppure Salvini, «che dice “no a quest’Europa” ma poi non ha ricette alternative al liberismo classico». Beninteso: «A Palazzo Chigi non ci andrà, Salvini, perché le prossime elezioni – che non vincerà nessuno – regaleranno all’Italia l’ennesimo governo di basso profilo, con un premier né carne né pesce che vada bene agli uni e agli altri». E questa sarebbe anche la fine di Matteo Renzi, cioè di quella che milioni di italiani hanno percepito come come l’ultima spiaggia, l’ultima vera speranza di cambiamento. Ha bluffato, Renzi? Certamente. Dunque gli resta un’ultima possibilità: aprire, davvero, le ostilità con Berlino, Francoforte e Bruxelles. Viceversa, dopo il voto, sarebbe politicamente morto.«A differenza di altri, Renzi potrebbe in extremis dare corpo a quelle che, peraltro, sono sue enunciazioni», afferma Magadi, ai microfoni di “Colors Radio”. «Giustamente, oggi Renzi chiama in causa la vigilanza di Bankitalia su diverse vicende mal gestite – Bankitalia governata a suo tempo da Mario Draghi». Certo, si dirà che lo fa «per stornare gli attacchi ricevuti su Banca Etruria». Ed è paradossale che Berlusconi, «defenestrato a suo tempo soprattutto per volere di Draghi e delle consorterie massoniche di cui Draghi è parte», si schieri oggi in difesa del suo ex killer politico, Mario Draghi. «Ma questo fa parte del gioco di Berlusconi: da un lato chiede al Parlamento di vigilare sulle vicende dello spread del 2011, talvolta alimentando l’idea che ci sia stato un golpe a suo sfavore, ma poi va a lisciare il pelo di colui che è stato, insieme a Napolitano e altri, il burattinaio di quel golpe, che ha insediato Mario Monti a Palazzo Chigi». Se questo è il centrodestra, il centrosinistra sta ancora peggio: ma non solo per colpa di Renzi, sostiene Magaldi. «Oggi ad esempio assistiamo alle uscite di Veltroni, che dà consigli non richiesti». Veltroni, cioè «colui che ha portato il Pd alla prima sconfitta, facendo il modo che Prodi perdesse il governo».Sia chiaro, nessun rimpianto: «Prodi è tra coloro che dovrebbero chiedere scusa agli italiani, avendo (al pari di Berlusconi) governato malissimo l’ingresso dell’Italia in Europa, la sua permanenza e in generale gli ultimi 25 anni di storia», precisa Magaldi. Che però insiste: non è colpa di Renzi se il Pd, che doveva essere «la quintessenza del progressismo in Italia, raccogliendo forze nuove della società civile e politica», si è ridotto fin dall’inizio a essere soltanto «la fusione tra Margherita e Ds», nonché «l’ennesima propagazione del mondo post-comunista, Pci-Pds». Matteo Renzi? «Non è il responsabile del declino del Pd, perché Bersani – prima di lui – ha fatto molto peggio: ha appoggiato il governo Monti, la sciagurata introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione e la riforma delle pensioni della sciaguratissima ministra Fornero. Dovrebbe tacere, Bersarni: vergognarsi, e non mettere l’articolo 1 della Costituzione accanto al simbolo altrettanto grottesco del Mdp, “movimento democratico progressista”». Per Magaldi, Bersani, D’Alema e soci «sono molto peggio di Renzi, e non a caso i sondaggi li danno a percentuali risibili: non sono credibili né come alternativa a sinistra del Pd, né per rifare il centrosinistra su basi diverse da quelle renziane».Detto questo, continua Magaldi, anche Renzi ha le sue responsabilità. «Per questo, se ha un minimo senso di autoconservazione, è importante che – in modo fulmineo – cambi rotta: gli italiani non gli perdonano di esser stato un affabulatore, qualcuno che ha promesso, che ha dato delle speranze». Alle ultime europee, il Pd renziano aveva superato il 40%? Logico: «Molti hanno creduto in Renzi, nel suo piglio giovanile, nella sua capacità di comunicazione, nel suo ottimismo. Molti hanno pensato che fosse la carta giusta. Gli hanno creduto quando l’hanno sentito parlare di una nuova Europa, quando ha detto che le cose che aveva in mente avrebbero riportato occupazione e benessere». Le cose, come sappiamo, non sono andate esattamente così. Nel suo libro, “Avanti”, oggi Renzi si lamenta: sostiene di non essere stato compreso. Ammette di aver commesso degli errori (solo veniali, però) e non si rende conto che il Jobs Act ha accentuato la precarierà del lavoro. In teoria non sarebbe sbagliata l’idea delle “tutele crescenti”, dice Magaldi, ma è insostenibile in questo contesto politico-economico: «Se invece si desse per Costituzione il diritto al lavoro, questo consentirebbe anche di abbandonare le vecchie tutele – ma allora non ci sarebbe neppure più bisogno del Jobs Act».Il vero problema che la politica italiana – Renzi compreso – finge di ignorare, è il carattere artificioso della crisi, ormai disastrosa: viviamo da decenni «in un clima di economia asfittica e di impossibilità delle istituzioni di rilanciare lavoro, occupazione e benessere, rinnovando infrastrutture divenute fatiscenti». E quindi, «in un paese pesantemente trattenuto anche dal Patto di Stabilità che frena gli enti locali, è inutile che Renzi venga a dire che non è stato compreso e che ha i nemici in casa». Renzi, aggiunge Magaldi, deve decidersi «in tempi rapidissimi», perché dopo le elezioni sarà già tardi. Deve scegliere «se davvero vuole essere quello che dà un nuovo passo all’Italia». Per farlo, però, «deve abbracciare un paradigma politico-economico che è alternativo a quello dell’austerity». E’ inutile che continui a vantarsi di litigare quotidianamente con i partner europei: «Tutti hanno visto il suo abbaiare e poi il suo sostanziale andare a baciare più volte l’anello di Angela Merkel e degli altri potenti, di quella che qualcuno definirebbe Euro-Germania, ma che non è altro che un meccanismo asservito a interessi sovranazionali di carattere privato». In sostanza, dice Magaldi, se Renzi non esce dal letargo non lo farà nessun altro: nemmeno Salvini e la Meloni avrebbero la forza necessaria a scuotere il paese.«Salvini – amette Magaldi – è stato bravo a investire nella trasformazione della Lega come movimento non più settentrionale ma nazionale». Dal leader leghista arrivano «giuste critiche ad alcuni aspetti dell’Europa». Bene anche quando dice che i migranti vanno “aiutati a casa loro”: peccano non si ricordi una sola proposta concreta, della Lega, per aiutare davvero “a casa loro” i disperati che giungono sulle nostre coste. Soprattutto: «Salvini ha in mente un impianto economico che è tradizionale: le ricette che propone non sono troppo dissimili da quelle del liberismo classimo». Per primo, con lucidità, Salvini ha chiesto di abbattere le aliquote fiscali: «Ma non basta, serve di più. A Salvini, probabilmente, manca la la percezione della necessità di ricette keynesiane». Fa benissimo a chiedere le primarie nel centrodestra, che Magaldi gli augura di vincere: «Un giorno Salvini potrebbe evolvere, capendo meglio la necessità di un cambio di paradigma politico-economico: occorre comprendere la radice del problema, che riguarda la globalizzazione e il pensiero neliberista egemone nella cosiddetta austerity che ancora ispira tutti i governi europei».Per rompere questo pensiero unico, dice ancora Magaldi, occorre che Salvini e altri «cambino il loro modo di guardare alla società e all’economia, ma ancora questo passo non l’hanno fatto». Perché «non basta dire no a quest’Europa», serve una vera e propria rivoluzione copernicana nel modo di intendere la sovranità democratica, mettendo fine al dominio ideologico dell’élite che ha dogmatizzato il neoliberismo, fino a traformare l’Europa in un inferno di sofferenze sociali. «Io sono un europeista – chiarisce Magaldi – ma mi vergogno di come l’europeismo sia stato tradito da questi anti-europeisti che oggi portano il vessillo delle istituzioni europee». Sarebbe questa l’unica battaglia giusta, necessaria e urgentissima, per poter dare un senso alle prossime elezioni. Che invece, avanti di questo passo, nessuno vincerà davvero: né il Renzi dormiente, né lo stesso Salvini. «Nessuno dei leader di punta, quelli cioè troppo caratterizzanti, aerriverà a Palazzo Chigi: nessuno di loro potrà essere a capo di un governo di coalizione. E nessuno le vincerà, le prossime elezioni: non il centrodestra, né il Movimento 5 Stelle. E non il centrosinistra, che anzi si prepara alla catastrofe».Matteo, sveglia: devi cambiare rotta adesso, in extremis, dichiarando guerra all’austerity. Oppure, «dopo il bagno di sangue delle elezioni» sarà troppo tardi. Non ci saranno vincitori, ma un grande sconfitto, il Pd. E l’Italia dovrà rassegnarsi all’ennesimo non-governo, prono ai diktat di Bruxelles. Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, insiste su Renzi: ancora per qualche mese, l’ex rottamatore sarebbe l’unico potenziale vettore di consenso, su cui far convergere una piattaforma keynesiana in grado di ribaltare il tavolo europeo. Non lo è il Movimento 5 Stelle, nel cui programma l’Europa è assente. Non lo è Berlusconi, «che un giorno attacca la Merkel e il giorno dopo ne cerca l’amicizia, tramite Tajani». E non lo è neppure Salvini, «che dice “no a quest’Europa” ma poi non ha ricette alternative al liberismo classico». Beninteso: «A Palazzo Chigi non ci andrà, Salvini, perché le prossime elezioni – che non vincerà nessuno – regaleranno all’Italia l’ennesimo governo di basso profilo, con un premier né carne né pesce che vada bene agli uni e agli altri». E questa sarebbe anche la fine di Matteo Renzi, cioè di quella che milioni di italiani hanno percepito come come l’ultima spiaggia, l’ultima vera speranza di cambiamento. Ha bluffato, Renzi? Certamente. Dunque gli resta un’ultima possibilità: aprire, davvero, le ostilità con Berlino, Francoforte e Bruxelles. Viceversa, dopo il voto, sarebbe politicamente morto.
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5 Stelle, l’arte del suicidio: Di Maio sfida Renzi, poi scappa
Movimento 5 Stelle. Ovvero, l’arte di spararsi nei coglioni. La cancellazione da parte di Di Maio del confronto con Renzi, prevista per martedi sera su “La7”, è stato un suicidio politico della miglior specie. Difficilmente si può immaginare un uomo politico che riesca a farsi così tanto danno in un colpo solo. Con una mossa da grande scacchista Di Maio era riuscito ad ingabbiare Renzi in un confronto diretto, senza se e senza ma. Talmente astuta e azzardata era stata la mossa di sfidarlo pubblicamente, che il buon Renzi non ha avuto altra scelta che accettare. E ora tutta l’Italia si pregustava già uno showdown all’americana, uno di quei confronti diretti che di solito lasciano vivo sul campo un solo concorrente. Uno vince, e l’altro viene portato via in barella fra i fischi del pubblico accalorato. In un confronto diretto, Di Maio avrebbe finalmente potuto accusare Renzi di tutte le bugie che ci ha raccontato negli ultimi 3 anni. Avrebbe potuto rinfacciargli il fatto di aver aiutato le banche ma non i risparmiatori. Avrebbe potuto sbattergli in faccia il fallimento della sua politica sul lavoro, con il 92% dei “nuovi contratti” che sono in realtà delle garanzie di precarietà.Avrebbe potuto metterlo alle strette, accusandolo di regalare bonus elettorali a destra e a manca, pagandoli con un incremento vergognoso del debito nazionale. Sarebbe stato come sparare nel mucchio: c’era solo da scegliere l’argomento preferito, e premere il grilletto. In poche parole, il candidato premier Di Maio, con una battaglia ben preparata a tavolino, avrebbe potuto facilmente spostare un buon 2-3 % dell’elettorato a proprio favore, e a diretto discapito del Partito Democratico. Saremmo quindi potuti andare al dibattito con un 28 a 26 di partenza (più o meno gli attuali sondaggi nazionali) ed uscirne il mattino dopo con un tranquillo 31 a 23. Vi sembra poco, in meno di 24 ore? Ma, invece di approfittare di una opportunità così ghiotta (e probabilmente irripetibile), Di Maio ha preferito giocare la carta della presunzione: «Renzi nel Pd non conta più niente», ha detto, in buona sostanza: «Io voglio solo confrontarmi con un mio equivalente». E così in queste ora si sta prendendo del vigliacco e del voltagabbana dai piddini, oltre che dell’arrogante e presuntuoso da moltissime altre persone.In fondo, quanto conti oggi Renzi nel Pd è un problema interno del partito democratico, e non sta a Di Maio di decidere la sua importanza politica. Fino a prova contraria, Renzi è il segretario del Pd, votato regolarmente, e rimane anche il candidato premier, almeno fino a nuovo ordine. E siccome è stato Di Maio a chiedere il confronto giovedì scorso (quando già si sapeva che il Pd sarebbe uscito bastonato dalle elezioni siciliane), non può dire ora che non vuole più incontrarlo, solo perchè ha perso in Sicilia. Lo sapevamo tutti che avrebbe perso. E quindi? In questa mossa di Di Maio c’è stata tanta presunzione quanto c’è una vera mancanza nel saper leggere quelli che sono gli umori della popolazione. Pur di rimarcare la sconfitta di Renzi con questo suo dietro-front plateale, Di Maio ha perso l’oppurtunità di dimostrare agli italiani che i 5 Selle al governo sarebbero davvero meglio di tutto coloro che li hanno preceduti. Davvero c’è qualcuno che può pensare che il gioco sia valso la candela?(Massimo Mazzucco, “Movimento 5 Stelle, il suicidio perfetto”, dal blog “Luogo Comune” del 6 novembre 2017).Movimento 5 Stelle. Ovvero, l’arte di spararsi nei coglioni. La cancellazione da parte di Di Maio del confronto con Renzi, prevista per martedi sera su “La7”, è stato un suicidio politico della miglior specie. Difficilmente si può immaginare un uomo politico che riesca a farsi così tanto danno in un colpo solo. Con una mossa da grande scacchista Di Maio era riuscito ad ingabbiare Renzi in un confronto diretto, senza se e senza ma. Talmente astuta e azzardata era stata la mossa di sfidarlo pubblicamente, che il buon Renzi non ha avuto altra scelta che accettare. E ora tutta l’Italia si pregustava già uno showdown all’americana, uno di quei confronti diretti che di solito lasciano vivo sul campo un solo concorrente. Uno vince, e l’altro viene portato via in barella fra i fischi del pubblico accalorato. In un confronto diretto, Di Maio avrebbe finalmente potuto accusare Renzi di tutte le bugie che ci ha raccontato negli ultimi 3 anni. Avrebbe potuto rinfacciargli il fatto di aver aiutato le banche ma non i risparmiatori. Avrebbe potuto sbattergli in faccia il fallimento della sua politica sul lavoro, con il 92% dei “nuovi contratti” che sono in realtà delle garanzie di precarietà.
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Dunque la valle di Susa esiste, se il suo fumo soffoca Torino
Irritata dal puzzo del fumo degli incendi, Torino si è accorta che esiste la valle di Susa – o meglio, che la valle di Susa non è fatta solo di piste di sci e non finisce nel ristretto perimetro del grazioso giardino della seconda casa, in montagna, tra i fiori e gli abeti. Se n’è accorta a fine 2017, Torino, dell’esistenza della valle di Susa, e lo ha fatto grazie (per così dire) alla mano criminale dei piromani che hanno dato alle fiamme oltre mille ettari di foresta, sfruttando i venti furosi che storicamente flagellano la vallata, noti a tutti tranne che ai redattori del progetto Tav Torino-Lione, che non menziona il pericolo del vento come fonte inquinante nel momento in cui si stoccassero migliaia di tonnellate di terra di scavo, piena di roccia amiantifera. Torino, stranamente, passa per essere una città ben amministrata, benché sia governata da trent’anni da un unico blocco di potere, simile a quello delle “democrature” ex sovietiche. Vanta un record negativo nell’efficienza della raccolta differenziata: preferisce incenerire i rifiuti e poi bloccare la circolazione delle auto, quando schizzano alle stelle i valori tossici dell’aria, la più inquinata d’Italia. Se l’incendio della val Susa è l’eccezione, la velenosità dell’atmosfera torinese è la regola, così come la sordità della capitale Fiat di fronte all’allarme inutilmente lanciato dai valsusini.Nel saggio “Binario morto”, il giornalista Luca Rastello – citando un alto funzionario pubblico piemontese – spiega che l’eventuale nuova linea ferroviaria italo-francese, cioè il doppione perfettamente inutile dell’attuale Torino-Modane che già attraversa la valle di Susa valicando le Alpi al traforo del Fréjus, non potrebbe bypassare Torino collegandosi alla rete Tav nazionale «se non attraverso un colpo di Stato». Il guaio? Se la nuova ferrovia si aprisse la strada in superficie dovrebbe sbancare interi quartieri periferici. Resterebbe il sottosuolo, il tracciato in galleria a 30 metri di profondità, ma taglierebbe fatalmente la falda idropotabile che rifornisce d’acqua oltre un milione di persone, fra Torino e hinterland. Persone che, peraltro, finora non si sono poste il problema: la stragrande maggioranza dei torinesi – a differenza degli abitanti di tante altre città italiane – ha finora guardato con fredda diffidenza alle esasperate proteste dei valsusini. Tuttora, se venisse svolto un normalissimo sondaggio, emergerebbe che il torinese medio non ha la più pallida idea del colossale bluff rappresentato dalla Torino-Lione, la grande opera più inutile d’Europa, preziosissima solo per la filiera di interessi collegata alla sua realizzazione: interessi politici, bancari e malavitosi.Probabilmente non ricorda, il torinese medio, di quando – a metà degli anni ‘90 – la valle di Susa fu colpita da una decina di strani attentati dinamitardi, firmati “Lupi Grigi” e rimasti senza colpevoli, per i quali furono inizialmente arrestati tre giovani anarchici, di cui due – Soledad Rosas e Edoardo Massari, “Sole e Baleno” – morti durante la detenzione, trovati impiccati a un asciugamano. Probabilmente non ricorda, la maggior parte dei torinesi, che appena prima, in quegli anni, la Procura della Repubblica aveva sequestrato pistole in un’armeria, a Susa, finite a una cosca della ‘ndrangheta grazie alla falsificazione dei registri, controfirmati dall’autorità di polizia. Un’indagine inquietante, dalla quale era emersa l’ombra dei servizi segreti, Sisde e Sismi. In compenso, la città di Torino ha immancabilmente espresso fastidio e irritazione di fronte alle proteste ormai ventennali degli abitanti della valle di Susa, spediti all’ospedale – già nel dicembre 2005 – dai reparti antisommossa mandati a sgomberare i prati di Venaus occupati da famiglie alle prese con un sit-in permanente. Torino è passata dal sindaco Castellani a Chiamparino, da Fassino alla Appendino, con marmorea imperturbabilità sabauda. I torinesi vivono in una città che somiglia sempre di più a una camera a gas, ma non fiatano. E si ricordano dei valsusini solo se il fumo della valle li costringere a sprangare le finestre, turbando il loro beato sonno.Irritata dal puzzo del fumo degli incendi, Torino si è accorta che la valle di Susa esiste – o meglio, che non è fatta solo di piste di sci e non finisce nel ristretto perimetro del grazioso giardino della seconda casa, in montagna, tra i fiori e gli abeti. Se n’è accorta a fine 2017, Torino, dell’esistenza della valle di Susa, e lo ha fatto grazie (per così dire) alla mano criminale dei piromani che hanno dato alle fiamme oltre mille ettari di foresta, sfruttando i venti furosi che storicamente flagellano la vallata, noti a tutti tranne che ai redattori del progetto Tav Torino-Lione, che non menziona il pericolo del vento come fonte inquinante nel momento in cui si stoccassero migliaia di tonnellate di terra di scavo, piena di roccia amiantifera. Torino, stranamente, passa per essere una città ben amministrata, benché governata per decenni da un unico blocco di potere, simile a quello delle “democrature” ex sovietiche. Vanta un record negativo nell’efficienza della raccolta differenziata: preferisce incenerire i rifiuti e poi bloccare la circolazione delle auto, quando schizzano alle stelle i valori tossici dell’aria, la più inquinata d’Italia. Se l’incendio della val Susa è l’eccezione, la velenosità dell’atmosfera torinese è la regola, così come la sordità della capitale Fiat di fronte all’allarme inutilmente lanciato dai valsusini.
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Scalea: voto inutile, Pd e Fi costretti a “sgovernare” insieme
Una legge elettorale fatta apposta per congelare l’Italia, impedendole di affrontare davvero la devastante crisi che l’attanaglia. L’esito inevitabile delle elezioni 2018? Il centrodestra in vantaggio, ma costretto ad allearsi col Pd. Risultato: l’ennesimo governo “di palazzo”, condannato a subire ogni sorta di diktat europeo. E’ analisi di Daniele Scalea, specialista del Centro studi politici e strategici “Machiavelli”. «Questa legge elettorale è stata fatta principalmente per sfavorire il M5S e spingere le forze a sinistra del Pd ad allinearsi con esso». Non a caso, aggiunge, la cifra principale del Rosatellum-bis è che, «con la sua quota maggioritaria (oltre un terzo dei seggi assegnati), sfavorisce le forze non coalizzate». Naturalmente, sbarrare la strada ai 5 Stelle è però costato caro ai promotori della legge: «Infatti è improbabile che anche il centrosinistra o il centrodestra raggiungano la quota di voti necessari a formare un governo (calcolata al 40% abbondante). L’ipotesi più credibile è dunque quella di una grande coalizione trasversale», sostiene Scalea, intervistato da Marina Tantushyan per il newsmagazine “Sputnik News”. «I vincitori sono dunque il Pd e Forza Italia, che in nessun scenario potranno essere tenuti fuori da questa coalizione trasversale».Dal canto suo, «Berlusconi mantiene un elettorato di fedelissimi che, malgrado il Cavaliere abbia ormai perso il suo smalto e non stia nemmeno proponendo un programma elettorale, è pronto a garantirgli un numero cospicuo di voti». Con questa legge, osserva Scalea, «potrà verosimilmente realizzare il suo proposito: evitare di dover governare con Salvini premier, ma farlo con Renzi che è a lui molto più congeniale». Salvo un suo exploit imprevisto e imprevedibile, il Movimento 5 Stelle non potrà raggiungere la maggioranza, insiste l’analista: «Ed essendo una forza ostile alle alleanze e con un programma distante da tutti gli altri partiti, non farà mai parte di alcuna possibile coalizione di governo». D’altra parte «nemmeno il Pd dovrebbe riuscire a vincere, pur aggregando forze alla sua sinistra e alla sua destra». Per Scalea «il contesto è scoraggiante, perché l’Italia avrebbe ora bisogno di un governo forte, con soluzioni precise e coraggiose su problemi pressanti come il declino economico e l’immigrazione incontrollata. Lo scenario sembra invece quello di una nuova legislatura di galleggiamento, con uno o più esecutivi deboli».Secondo Daniele Scalea, questo panorama mediocre e deludente emergerà già alle elezioni regionali siciliane di novembre: «In Sicilia dovrebbe confermarsi la preminenza riconquistata nazionalmente dal centrodestra, ma anche la forza del M5S e la resistenza del Pd, che continua a mantenere una cospicua base elettorale composta di ceti abbienti, cattolici praticanti, postcomunisti e cittadini d’origine extra-europea». Un voto destinato dunque a «confermare che l’Italia è divisa in tre». Pessimistiche le previsioni di Scalea per il voto delle politiche, nella primavera del 2018: «Mi attendo un successo del centrodestra anche più ampio di quello previsto nei sondaggi, trainato – più che dai meriti della coalizione – dal malcontento diffuso per l’immigrazione incontrollata: malcontento non mitigato da un’economia ancora claudicante». Ma attenzione: «Un paese diviso in tre, l’ambivalenza di Forza Italia che sogna un “Nazzareno bis” e l’indecisione della Lega che non sa farsi realmente partito nazionale, coniugato con una legge elettorale fatta su misura per rendere ingovernabile il paese, ci suggerisce che l’esito sarà un no-contest». Conseguenze? Le peggiori: «Il mazzo passerà dalle mani degli elettori a quelle dei giocatori nei palazzi».Una legge elettorale fatta apposta per congelare l’Italia, impedendole di affrontare davvero la devastante crisi che l’attanaglia. L’esito inevitabile delle elezioni 2018? Il centrodestra in vantaggio, ma costretto ad allearsi col Pd. Risultato: l’ennesimo governo “di palazzo”, condannato a subire ogni sorta di diktat europeo. E’ analisi di Daniele Scalea, specialista del Centro studi politici e strategici “Machiavelli”. «Questa legge elettorale è stata fatta principalmente per sfavorire il M5S e spingere le forze a sinistra del Pd ad allinearsi con esso». Non a caso, aggiunge, la cifra principale del Rosatellum-bis è che, «con la sua quota maggioritaria (oltre un terzo dei seggi assegnati), sfavorisce le forze non coalizzate». Naturalmente, sbarrare la strada ai 5 Stelle è però costato caro ai promotori della legge: «Infatti è improbabile che anche il centrosinistra o il centrodestra raggiungano la quota di voti necessari a formare un governo (calcolata al 40% abbondante). L’ipotesi più credibile è dunque quella di una grande coalizione trasversale», sostiene Scalea, intervistato da Marina Tantushyan per il newsmagazine “Sputnik News”. «I vincitori sono dunque il Pd e Forza Italia, che in nessun scenario potranno essere tenuti fuori da questa coalizione trasversale».
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Tasse e tagli: arriva il Fiscal Compact, e nessuno ne parla
Alzi la mano chi nelle ultime settimane ha visto anche solo un trafiletto o un qualche servizio televisivo menzionare il Fiscal Compact. In un clima già da campagna elettorale inoltrata, non passa giorno senza leggere di alleanze che si creano e si disfano, di questo o quell’esponente politico che passa da uno schieramento all’altro, di sondaggi e intenzioni di voto. Questo per non parlare delle infinite discussioni intorno alla possibile legge elettorale con la quale dovremmo andare a votare il prossimo anno. Peccato che qualsiasi futura maggioranza parlamentare e qualsiasi governo dovesse insediarsi all’indomani del voto rischia di essere, se non commissariato, per lo meno fortemente limitato nelle proprie scelte. Se lo scopo principale di un governo è infatti quello di gestire e indirizzare le risorse disponibili per attuare determinate politiche, il futuro sembra verrà deciso altrove. Entro la fine dell’anno, il Parlamento dovrà ratificare il Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria, meglio noto come Fiscal Compact.Tra le diverse disposizioni, questo trattato prevede l’obbligo di riportare entro 20 anni il rapporto tra debito pubblico e Pil alla fatidica soglia del 60%, uno dei parametri degli accordi siglati a Maastricht all’inizio degli anni ’90. Parametri fortemente criticati per la loro arbitrarietà, a maggior ragione perché da applicarsi indistintamente, senza considerare le specificità di un paese, la fase economica o la situazione sociale e occupazionale. L’Italia ha oggi un rapporto tra debito e Pil superiore al 130%. Sarebbe lungo il discorso su come si è arrivati a tale percentuale. Basti ricordare che da oltre il 120% della metà degli anni ’90, si è scesi al 103% nel 2008, per poi registrare un’esplosione che è seguita, in Italia come nella maggior parte delle economie occidentali, allo scoppio della bolla dei mutui subprime. In altre parole una crisi della finanza privata il cui conto è stato scaricato su quella pubblica. Al culmine del paradosso, la prima è ripartita a pieno ritmo, inondata di soldi tramite quantitative easing e altre politiche monetarie, mentre alle finanze pubbliche vengono imposti tagli e controlli durissimi. Ancora peggio, con un ribaltamento dell’immaginario collettivo le responsabilità delle attuali difficoltà vengono addossate ai debiti pubblici.Tale ribaltamento di cause e conseguenze della crisi è la giustificazione per volere introdurre un trattato con forza superiore alle legislazioni nazionali che ci imporrà di scendere dal 130% al 60% in venti anni. Secondo i suoi difensori, il Fiscal Compact più o meno “si pagherà da solo”. Crescita dell’economia e inflazione dovrebbero garantire un aumento del Pil che porterebbe a ridursi il rapporto debito/Pil. “Basterebbe” quindi un avanzo di bilancio non troppo gravoso per rispettare i dettami del Fiscal Compact. Dovremmo quindi imporci di rinunciare a qualsiasi margine di manovra dei prossimi governi per realizzare avanzi primari, ovvero sempre più tasse e sempre meno servizi erogati. Questo nella migliore delle ipotesi. Non è chiaro chi abbia la sfera di cristallo per potere prevedere crescita dell’economia e inflazione su un periodo di venti anni. I risultati del recente passato – per non parlare di possibili nuove crisi in un mondo sempre più dominato dalla finanza speculativa – non invitano certo all’ottimismo. In caso di una nuova, probabile, flessione dell’economia, rispettare il Fiscal Compact significherebbe un disastro sociale ed economico. Quello che però colpisce di più è l’affermazione definitiva della tecnocrazia sulla democrazia.Qualsiasi futuro governo dovrà operare entro margini strettissimi e imposti da una visione dell’economia come una scienza esatta, guidata da regole matematiche dove il benessere dei cittadini o l’ambiente diventano le variabili su cui giocare, mentre i parametri macroeconomici sono immutabili. Indipendentemente da cosa ci riserva il futuro, il debito va ridotto a marce forzate e questo va garantito a ogni costo. Che il costo sia disoccupazione, perdita di diritti, impossibilità di investire per una trasformazione ecologica dell’economia, non è un problema, non può essere nemmeno materia di discussione. Attac Italia ha provato a rompere il silenzio lanciando una campagna di informazione e una petizione da firmare on-line. Perché è a dire poco incredibile assistere al livello di un dibattito concentrato sulle presunte responsabilità dei migranti, mentre in un Paese con 4,8 milioni di persone in povertà assoluta stiamo affermando che ci imponiamo vent’anni di alta pressione fiscale e tagli alla spesa pubblica e ai diritti fondamentali. Il problema non è e non può essere “prima gli italiani”. Il problema è se sia possibile sancire che la vita delle persone – di tutti noi – sia sacrificabile nel nome di una percentuale decisa decenni fa da qualche burocrate.(Andrea Baranes, “Fiscal cosa?”, da “Sbilanciamoci” del 10 ottobre 2017. Per informazioni e per firmare la petizione: http://www.stopfiscalcompact.it).Alzi la mano chi nelle ultime settimane ha visto anche solo un trafiletto o un qualche servizio televisivo menzionare il Fiscal Compact. In un clima già da campagna elettorale inoltrata, non passa giorno senza leggere di alleanze che si creano e si disfano, di questo o quell’esponente politico che passa da uno schieramento all’altro, di sondaggi e intenzioni di voto. Questo per non parlare delle infinite discussioni intorno alla possibile legge elettorale con la quale dovremmo andare a votare il prossimo anno. Peccato che qualsiasi futura maggioranza parlamentare e qualsiasi governo dovesse insediarsi all’indomani del voto rischia di essere, se non commissariato, per lo meno fortemente limitato nelle proprie scelte. Se lo scopo principale di un governo è infatti quello di gestire e indirizzare le risorse disponibili per attuare determinate politiche, il futuro sembra verrà deciso altrove. Entro la fine dell’anno, il Parlamento dovrà ratificare il Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria, meglio noto come Fiscal Compact.
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Blondet: tranquilli, la Lombardia non farà alcuna secessione
Il secessionismo catalano apre la stagione degli altri indipendentismi? Aspettiamoci sorprese dai baschi, dagli scozzesi, dalle componenti etniche dell’Ucraina. E il famigerato Nord-Est italiano? Fra i motivi dell’indipendentismo dei catalani – bottegai – c’è quello dei residui passivi: la regione ricca è stufa di pagare 8 miliardi l’anno agli altri spagnoli. E la Lombardia? Dà ogni anno all’Italia 54 miliardi di euro; che finiscono tutti nell’alimentare il cialtronismo parassitario e la criminalità organizzata del Meridione, all’autonomia siciliana, a Roma capitale del disastro, senza alcun vantaggio per i cittadini meridionali. Puro spreco, e colossale: ogni famiglia lombarda di 4 persone si vede privata ogni anno di 23.000 euro (il costo di un’auto) che potrebbero essere impiegati molto più produttivamente al Nord, in investimenti e infrastrutture moderne, in corsi d’eccellenza per i figli, in università piene di Premi Nobel esteri chiamati dagli alti stipendi, in rifacimenti urbanistici radicali, necessari ad una città che da industriale e siderurgica, è diventa la capitale globale della moda… E non è solo la Lombardia. In Emilia, una famiglia di 4 persone viene privata annualmente di 14.000 eiro. Una famiglia veneta, di oltre 12.000: una emorragia che finisce nelle tasche del Sud criminale, non di quello onesto.La Lombardia si metterà alla testa di questa istanza di giustizia del Nord-Est? E’ stato pur indetto un referendum sull’autonomia, si celebrerà il 22 ottobre. Tremate, parassiti! Anzi no, contrordine. State pur tranquilli, parassiti. La Lombardia non ha alcuna ambizione politica. Non ha mai avuto la minima volontà di “comandare”, né Milano di essere “capitale”. Si è sempre messa volentieri sotto il dominio straniero, senza mai la minima ribellione: spagnoli, austriaci, i francesi di Napoleone, oggi la cosiddetta “Europa” stupida e oppressiva, sono sempre stati padroni benvenuti, perché sollevavano i milanesi dal peso di governare. L’unica volta che hanno avuto impulsi “politici”, nel cosiddetto Risorgimento, è stata una moda della sua classe ricca, “patriottica”, anti-absburgica; ma anche lì, solo il tempo di consegnarsi ai piemontesi, questi avidi e arretrati militaristi da quattro soldi, e dare loro le chiavi (e le casse) della città e della regione più ricca d’Italia. La Lombardia è, più che qualunque altro pezzo di terra italiota, una espressione geografica.La sola volta in cui fu capitale, fu nel 286 dopo Cristo, per scelta non propria, ma di Diocleziano: capitale dell’Impero d’Occidente, nientemeno. In quanto capitale, l’impero la ornò di una urbanistica grandiosa, monumentale, bellissima: la Porta Romana entrava in città dopo un percorso di 4 chilometri di porticato ai due lati; c’erano un circo, uno stadio, grandi basiliche, grandi e straordinarie terme. I portici monumentali di Porta Romana a Milano: possiamo solo immaginarli. Non è rimasto nulla di questa grandiosa bellezza. Praticamente, solo le colonne di San Lorenzo e della basilica di Costantino, sacrilegamente attraversata fino a ieri dai tram. Furono i milanesi stessi, ciechi e sordi al richiamo dell’ambizione che quei monumenti evocavano, a distruggerli, divorarli per recuperarne i mattoni e i marmi – in pochi decenni, Milano riprese l’aspetto dimesso, rurale e operaio, che è il suo. La tuta da lavoratore al posto delle vesti di velluto imperiale.La “bruttezza” di Milano moderna, una bruttezza unica fra le città italiane, anche più piccole (pensate a Parma, a Verona, a Padova) è il sintomo di questa sua mancanza di ambizione. Non vuole comandare, non ha classe dirigente: quando si è sforzata, ha dato a Roma Berlusconi e Bossi, l’ultimo un ladruncolo di denaro pubblico per i figli e la famiglia, un vero “terrone”, l’altro un pirla superficiale e irresponsabile che si vanta di essere “imprenditore” invece che statista. E non è nemmeno imprenditore: al più, impresario, capocomico. E il referendum sull’autonomia? Persino i leghisti della base forse non lo voteranno. I milanesi, secondo i sondaggi, in maggioranza schiacciante non andranno a votare, non capiscono di cosa parli. Dormite tranquilli, cialtroni e parassiti.(Maurizio Blondet, estratto dal post “La Catalogna apre la stagione delle secessioni, ma non qui”, pubblicato sul blog di Blondet il 2 ottobre 2017).Il secessionismo catalano apre la stagione degli altri indipendentismi? Aspettiamoci sorprese dai baschi, dagli scozzesi, dalle componenti etniche dell’Ucraina. E il famigerato Nord-Est italiano? Fra i motivi dell’indipendentismo dei catalani – bottegai – c’è quello dei residui passivi: la regione ricca è stufa di pagare 8 miliardi l’anno agli altri spagnoli. E la Lombardia? Dà ogni anno all’Italia 54 miliardi di euro; che finiscono tutti nell’alimentare il cialtronismo parassitario e la criminalità organizzata del Meridione, all’autonomia siciliana, a Roma capitale del disastro, senza alcun vantaggio per i cittadini meridionali. Puro spreco, e colossale: ogni famiglia lombarda di 4 persone si vede privata ogni anno di 23.000 euro (il costo di un’auto) che potrebbero essere impiegati molto più produttivamente al Nord, in investimenti e infrastrutture moderne, in corsi d’eccellenza per i figli, in università piene di Premi Nobel esteri chiamati dagli alti stipendi, in rifacimenti urbanistici radicali, necessari ad una città che da industriale e siderurgica, è diventa la capitale globale della moda… E non è solo la Lombardia. In Emilia, una famiglia di 4 persone viene privata annualmente di 14.000 eiro. Una famiglia veneta, di oltre 12.000: una emorragia che finisce nelle tasche del Sud criminale, non di quello onesto.