Archivio del Tag ‘sondaggi’
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Zeman: anche a Praga un referendum sull’Ue (e sulla Nato)
Il Brexit sta provocando sconquassi dovunque. In primo luogo in Europa, ma – si presume – gli effetti si faranno sentire anche sulla stessa fisionomia della Gran Bretagna. Il primo leader europeo – già fortemente critico verso l’attuale Unione – a prendere la “palla al balzo”, in pieno torneo europeo di calcio, è stato il presidente della Repubblica Ceca, Milos Zeman. E il suo calcio di punizione è stato potentissimo. Ancora non sappiamo se sarà un goal, ma certamente non sarà agevole pararlo. Zeman, infatti, ha detto che, anche lui, ritiene necessario, ora, dopo il voto britannico, un referendum popolare che lasci esprimere i suoi concittadini sulla permanenza all’interno dell’Unione Europea, o meno. Il clamore (e la preoccupazione di diverse cancellerie europee) è stato moltiplicato dalla seconda proposta: che si faccia il referendum anche sulla questione della appartenenza alla Nato. I due quesiti aprirebbero non uno ma due squarci nel muro delle idee correnti sull’Europa. Zeman ne è ben consapevole e si è affrettato a precisare che lui, personalmente, è per rimanere in Europa (significativo silenzio per quanto riguarda la Nato), ma che farà «ogni cosa per dare ai suoi concittadini la possibilità di potere esprimersi» su entrambe le questioni.Milos Zeman sa quel che dice. Un recente sondaggio dell’Istituto Cvvm ha rivelato che solo il 25% dei cittadini della Repubblica Ceca sono soddisfatti dello stato delle cose (un anno fa lo erano il 32%). Solo che, per realizzare la proposta del presidente in carica, bisognerebbe modificare la Costituzione del paese. E, per farlo, occorrerebbe il voto favorevole di almeno il 60% dei voti del Parlamento. Una maggioranza che, se si formasse, equivarrebbe alla caduta dell’attuale governo di Bohuslav Sobotka. Il quale si è subito affrettato a dichiarare che non ha alcuna intenzione di indire un tale referendum. Non senza aggiungere che, anche lui, pensa che sia necessario inviare a Bruxelles «un chiaro segnale», prima dell’autunno, della necessità di «cambiamenti positivi».In ogni caso la mossa di Zeman esprime un sentimento che va ben oltre il palazzo presidenziale di Praga, e sicuramente oltre i confini della Repubblica Ceca. La critica a Bruxelles, sia per la gestione della tragedia dei profughi, sia per le sanzioni contro la Russia, sia per la politica monetaria, sia per i nuovi missili installati dagli Stati Uniti in Polonia e Romania, è largamente diffusa nei paesi dell’est Europa. Ciascuno per conto proprio e con diverse agende, ma tutti guardano a Bruxelles con crescente insofferenza. Zeman in particolare è preoccupato per il completo oblio dei temi della sicurezza comune europea e non ha nascosto, a più riprese, il suo desiderio di riaprire la questione del dialogo positivo con la Russia.(Giulietto Chiesa, “Milos Zeman apre i giochi europei del dopo-Brexit”, da “Sputnik News” del 4 luglio 2016).Il Brexit sta provocando sconquassi dovunque. In primo luogo in Europa, ma – si presume – gli effetti si faranno sentire anche sulla stessa fisionomia della Gran Bretagna. Il primo leader europeo – già fortemente critico verso l’attuale Unione – a prendere la “palla al balzo”, in pieno torneo europeo di calcio, è stato il presidente della Repubblica Ceca, Milos Zeman. E il suo calcio di punizione è stato potentissimo. Ancora non sappiamo se sarà un goal, ma certamente non sarà agevole pararlo. Zeman, infatti, ha detto che, anche lui, ritiene necessario, ora, dopo il voto britannico, un referendum popolare che lasci esprimere i suoi concittadini sulla permanenza all’interno dell’Unione Europea, o meno. Il clamore (e la preoccupazione di diverse cancellerie europee) è stato moltiplicato dalla seconda proposta: che si faccia il referendum anche sulla questione della appartenenza alla Nato. I due quesiti aprirebbero non uno ma due squarci nel muro delle idee correnti sull’Europa. Zeman ne è ben consapevole e si è affrettato a precisare che lui, personalmente, è per rimanere in Europa (significativo silenzio per quanto riguarda la Nato), ma che farà «ogni cosa per dare ai suoi concittadini la possibilità di potere esprimersi» su entrambe le questioni.
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La Brexit travolge Renzi, adesso volano i No al referendum
Basta giri di parole e commissariamenti, meglio libertà e democrazia. Da Londra a Roma, l’onda del Brexit rischia di travolgere Matteo Renzi: contro la “rottamazione” della Costituzione voterebbe il 54% degli italiani, incluso il 22% degli elettori del Pd. L’“Huffington Post” ha pubblicato il primo sondaggio sul referendum di ottobre dopo il voto che ha sancito l’addio del Regno Unito all’Unione Europea. E le percentuali non lasciano spazio di vittoria per il premier, che ha investito tutto sul buon esito della consultazione sulla riforma costituzionale, scrive il “Giornale”. Secondo il sondaggio di “ScenariPolitici” realizzato in esclusiva per l’“Huffington Post”, la maggioranza degli italiani oggi sarebbe orientata a votare contro la manomissione della Costituzione e lo smantellamento del Senato elettivo. «Il 54% degli intervistati voterebbe contro la riforma, il 46% a favore», si legge sul sito diretto da Lucia Annunziata, pur consapevole che si tratti di dati ancora «suscettibili di sostanziali modifiche, visto che meno di un italiano su due oggi è certo di andare a votare».Come racconta Adalberto Signore sul “Giornale”, Renzi sarebbe rimasto molto colpito dalle immagini di David Cameron che davanti all’ingresso del numero 10 di Downing Street annuncia le dimissioni da primo ministro. «Il premier – scrive Sergio Rame – inizia a sospettare che aver indetto un referendum sul ddl Boschi possa essere stato un azzardo. Anche perché ha promesso di lasciare la politica nel caso in cui dovesse passare il “no”. Uscire da questo angolo è pressoché impossibile». Secondo “ScenariPolitici”, il 23% degli italiani non ha ancora deciso cosa votare. Il 29%, invece, non andrà a votare. Non solo. Appena il 28% degli intervistati considera la riforma renziana “una priorità per l’Italia”, mentre per il 49% è molto meglio “focalizzarsi su altre tematiche più urgenti”.Nel frattempo, il fronte del “no” si sta muovendo compatto. Le opposizioni hanno già iniziato la campagna per non far passare il ddl Boschi dalle forche referendarie e, quindi, mandare a casa Renzi. Il “no” starebbe addirittura conquistando l’elettorato del Pd: sempre secondo “ScenariPolitici”, il 22% degli elettori “Dem” sarebbe infatti pronto a votare “no”. «Per Renzi, insomma, sembra non esserci scampo». Lo si può capire: tutta la sua politica, finora, è stata orientata in un’unica direzione – assecondare i diktat dell’élite che usa la Germania come kapò europeo, fingendo però di introdurre brillanti (e indolori) innovazioni. Dopo la porta in faccia sbattuta dagli inglesi, sul muso della Merkel innanzitutto, cresce la voglia di emulazione. Perché dare ancora retta ai pigolii di Renzi, quando è possibile dire dei “no” nettissimi? Ed ecco, per il premier, il grande rischio del referendum di ottobre, annunciato anche dal crollo del Pd alle amministrative.Basta giri di parole e commissariamenti, meglio libertà e democrazia. Da Londra a Roma, l’onda del Brexit rischia di travolgere Matteo Renzi: contro la “rottamazione” della Costituzione voterebbe il 54% degli italiani, incluso il 22% degli elettori del Pd. L’“Huffington Post” ha pubblicato il primo sondaggio sul referendum di ottobre dopo il voto che ha sancito l’addio del Regno Unito all’Unione Europea. E le percentuali non lasciano spazio di vittoria per il premier, che ha investito tutto sul buon esito della consultazione sulla riforma costituzionale, scrive il “Giornale”. Secondo il sondaggio di “ScenariPolitici” realizzato in esclusiva per l’“Huffington Post”, la maggioranza degli italiani oggi sarebbe orientata a votare contro la manomissione della Costituzione e lo smantellamento del Senato elettivo. «Il 54% degli intervistati voterebbe contro la riforma, il 46% a favore», si legge sul sito diretto da Lucia Annunziata, pur consapevole che si tratti di dati ancora «suscettibili di sostanziali modifiche, visto che meno di un italiano su due oggi è certo di andare a votare».
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Euro e Ue, dai 5 Stelle l’alternativa italiana: le comiche
Il 18 dicembre 2014, frase storica, Beppe Grillo proclamava, alla sede della stampa estera in via della Mercede: «Il problema vero non è uscire dall’euro: è uscire il più velocemente possibile. Sperimentare un altro modello di sviluppo». Quel sanguigno uomo – di cui tutto si potrà dire meno che sia un calcolatore, come invece la gran parte delle creature politiche che hanno generato – aveva percorso in lungo e largo l’Italia in quegli anni, e in particolare nel 2012-2013, davanti a pochi giornalisti, gridando che l’euro è «un cappio al collo che si restringe di giorno in giorno», che uscirne «è scontato, bisogna solo fare in modo che sia in fretta», e suggerendo «una svalutazione del 40-50 per cento con la lira». Ma poi lo stesso Grillo s’aggrappava anche a un suo personale piano B dialettico se trovava qualche interlocutore che gli rivolgesse delle obiezioni. «Io non ho mai detto usciamo dall’euro! Io non voglio uscire dall’euro!», urlò su un palco nel luglio 2015. E, a un cronista di La7: «Un referendum? Uscire dall’euro è la mia impressione, ma solo un’opinione personale». L’aveva derubricata a «opinione personale».Ieri sul blog è apparso invece un post dal titolo democristiano, «La Ue o cambia o muore»: «L’Ue deve cambiare, altrimenti muore. Le istituzioni comunitarie, e in particolare la troika (Fmi, Bce e Commissione europea) devono iniziare a domandarsi dove hanno sbagliato e come possono risolvere l’enorme problema che hanno generato. Ci sono milioni e milioni di cittadini europei sempre più critici, che non si riconoscono in questa Unione fatta di banche e ricatti economici. Pensiamo al caso greco, un paese ormai al collasso». Va bene, direte, questo è Grillo. Se però prendiamo Luigi Di Maio, l’aspirante premier, la coerenza non aumenta. Il 13 dicembre 2014 a Bovisio – al “Firma day” – Di Maio firmava per fare un referendum, sì, ma spiegava anche che a quel referendum (ammesso che sia mai possibile giuridicamente tenerlo) lui voterebbe per uscire dall’euro, «uscire dalla moneta unica significa più energia nostra, più investimenti per le imprese, e significa meno troika, e quindi meno tasse e meno stritolamento dei nostri connazionali» (video naturalmente ben rilanciato sui siti della Casaleggio, con record pubblicitari e di visioni). Sette mesi dopo, invece, diceva: abbandonare l’euro «sarebbe l’extrema ratio. Ma non credo che ci arriveremo».Due mesi fa, in missione a Londra, altro coniglio dal cilindro: «Noi siamo contro la Brexit perché siamo convinti che l’Ue possa essere una risorsa. Poi tutt’altro discorso si fa sull’euro…». In un documento della comunicazione M5S, inviato da Silvia Virgulti a tutti i parlamentari e svelato dalla Stampa nel luglio 2015, all’epoca del dramma dei migranti a Ventimiglia, si invitava a usare la tragedia in chiave no euro: «Questa storia di Ventimiglia può farci gioco per ritirare fuori il tema no euro e no Europa dei burocrati». Se ricordiamo queste affermazioni, giravolte, cambi di idea, cinismi, è perché, tra la sera di giovedì e la giornata di ieri, ne sono successe un altro paio notevoli, nel Movimento, su Europa ed euro. Nella tarda serata di giovedì, quando sembrava – secondo i sondaggi – che stesse vincendo il Remain, è uscito sul blog un testo in dieci punti per spiegare tutti i temi della Brexit, ma al punto 10 c’era scritto chiaramente: «Il M5S è in Europa e non ha nessuna intenzione di abbandonarla. Se non fossimo interessati all’Unione Europea non ci saremmo mai candidati (…). Ma ci sono molte cose di questa Europa che non funzionano. L’unico modo per cambiare questa “Unione” è il costante impegno istituzionale, per questo il M5S si sta battendo per trasformare l’Ue dall’interno».Tuttavia esiste un’altra versione, ancora ben visibile nelle cache di Internet, senza il punto 10. Chi l’ha fatta introdurre quella frase, Di Maio? Sono stati gli stessi lettori del blog a rivoltarsi: «Vi hanno puntato una pistola alla tempia per scrivere il punto 10?». Per di più il 20 maggio apparve sul blog un altro testo, che invitava a liberarsi dal «cappio della moneta unica», e aveva un punto dieci totalmente diverso, che recitava così: «In Italia non si tiene un referendum sull’Europa dal 1989, ed i cittadini dovrebbero poter esprimere la loro opinione, senza dover sempre subire decisioni calate dall’alto. In ogni caso il governo italiano dovrebbe negoziare con Bruxelles condizioni favorevoli alla sua permanenza in Ue su una molteplicità di fattori che attualmente premiano solo ed esclusivamente i paesi del Nord Europa». Qual è la verità? Ripeti una bugia cento, mille, un milione di volte, e diventerà verità, diceva qualcuno. Anche se quella bugia la cambi spesso.(Jacopo Iacoboni, “«Siamo in Europa». No, «l’Ue cambia o muore». Le giravolte di Grillo e dell’europeista Di Maio”, da “La Stampa” del 25 giugno 2016).Il 18 dicembre 2014, frase storica, Beppe Grillo proclamava, alla sede della stampa estera in via della Mercede: «Il problema vero non è uscire dall’euro: è uscire il più velocemente possibile. Sperimentare un altro modello di sviluppo». Quel sanguigno uomo – di cui tutto si potrà dire meno che sia un calcolatore, come invece la gran parte delle creature politiche che hanno generato – aveva percorso in lungo e largo l’Italia in quegli anni, e in particolare nel 2012-2013, davanti a pochi giornalisti, gridando che l’euro è «un cappio al collo che si restringe di giorno in giorno», che uscirne «è scontato, bisogna solo fare in modo che sia in fretta», e suggerendo «una svalutazione del 40-50 per cento con la lira». Ma poi lo stesso Grillo s’aggrappava anche a un suo personale piano B dialettico se trovava qualche interlocutore che gli rivolgesse delle obiezioni. «Io non ho mai detto usciamo dall’euro! Io non voglio uscire dall’euro!», urlò su un palco nel luglio 2015. E, a un cronista di La7: «Un referendum? Uscire dall’euro è la mia impressione, ma solo un’opinione personale». L’aveva derubricata a «opinione personale».
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L’inizio della fine per l’Ue delle banche, dell’euro e del Ttip
Smentendo tutti i sondaggisti e tutti i palazzi del potere, e anche la prematura gioia delle Borse e le premature lacrime di chi come noi era per la Brexit, il popolo britannico ha detto basta alla Ue. Lo aveva fatto un anno fa anche il popolo greco, anche allora smentendo i sondaggi, poi il suo governo si era piegato alla tirannia della Troika. Le Borse e la finanza precipitano dalla euforia alla depressione, in misura esattamente inversa alla euforia di libertà dei popoli, dobbiamo prendere atto che il potere dei mercati e la democrazia sono incompatibili e dobbiamo stare con chi sceglie la democrazia. Con questo voto muore subito il Ttip, che lo stesso Obama aveva legato ai destini della Brexit e comincia la fine della Ue dell’Euro, delle multinazionali, delle banche e soprattutto dell’austerità. Comincia la fine di un sistema di potere europeo dove un solo parlamento è sovrano, quello tedesco, e tutti quelli degli altri paesi eseguono gli ordini della Troika. Comincia la fine della Ue perché questa istituzione non è riformabile, come dimostrano anche le reazioni isteriche, furiose e inconcludenti dei suoi leader.Anche in questi giorni c’è stato chi ha detto che si sta nella Ue per cambiarla, peccato che la Ue sia indisponibile a qualsiasi cambiamento vero e come tutte le tirannie può solo crollare, non cambiare. Nel no alla Ue è stato decisivo il popolo laburista, che non ha seguito le indicazioni del suo establishment politico e sindacale, ma ha premiato l’impegno di minoranze coraggiose, come il glorioso sindacato dei ferrovieri che abbiamo conosciuto come Eurostop. Minoranze oscurate dai mass media, ma che sono state determinanti. Il popolo della sinistra britannica ha chiarito che sinistra ed europeismo oggi sono incompatibili e che la battaglia contro la Ue delle banche è stata egemonizzata finora da forze di destra perché la sinistra ufficiale ha abbandonato il suo popolo. Ora questo popolo ha bisogno di altri rappresentanti, che in nome della eguaglianza sociale e della democrazia e non dei mercati, ricaccino le destre dal terreno abusivamente occupato.Ora si apre l’epoca del coraggio e tutto si rimette in moto, sarà dura ma questo voto mostra che l’epoca della globalizzazione senza diritti sociali è finita, sono gli stessi mercati a crollare sul potere di argilla che hanno costruito. Tornano i popoli, gli stati, le politiche economiche, i diritti sociali e del lavoro. Sarà dura e non sarà breve, ma c’è tutta una classe dirigente europea da rottamare. Cominciamo qui votando No al referendum di ottobre e mandiamo a casa Renzi e la sua controriforma costituzionale, voluta dalla Ue delle banche. E dopo la Renxit avanti con la Italexit. Grazie al popolo britannico che come nel 1940 dà il via al percorso di liberazione dell’Europa, gli Spitfire sono spuntati dalle urne.(Giorgio Cremaschi, “Brexit, l’inizio della fine per l’Europa delle banche”, da “Micromega” del 24 giugno 2016).Smentendo tutti i sondaggisti e tutti i palazzi del potere, e anche la prematura gioia delle Borse e le premature lacrime di chi come noi era per la Brexit, il popolo britannico ha detto basta alla Ue. Lo aveva fatto un anno fa anche il popolo greco, anche allora smentendo i sondaggi, poi il suo governo si era piegato alla tirannia della Troika. Le Borse e la finanza precipitano dalla euforia alla depressione, in misura esattamente inversa alla euforia di libertà dei popoli, dobbiamo prendere atto che il potere dei mercati e la democrazia sono incompatibili e dobbiamo stare con chi sceglie la democrazia. Con questo voto muore subito il Ttip, che lo stesso Obama aveva legato ai destini della Brexit e comincia la fine della Ue dell’Euro, delle multinazionali, delle banche e soprattutto dell’austerità. Comincia la fine di un sistema di potere europeo dove un solo parlamento è sovrano, quello tedesco, e tutti quelli degli altri paesi eseguono gli ordini della Troika. Comincia la fine della Ue perché questa istituzione non è riformabile, come dimostrano anche le reazioni isteriche, furiose e inconcludenti dei suoi leader.
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Foa: battuta l’élite, ora sappiamo che dall’Ue si può evadere
E ora cambia, davvero, tutto. La decisione degli elettori britannici di lasciare l’Unione Europea è storica innanzitutto per il contesto elettorale in cui è maturata. Tutto, ma proprio tutto, lasciava presagire una vittoria del fronte europeista, soprattutto dopo l’uccisione della deputata Jo Cox, che aveva cambiato la dinamica e il clima della campagna elettorale a sette giorni dal voto. L’ondata del cordoglio è stata enorme. E infatti i sondaggi, i mercati, gli scommettitori davano il sì praticamente scontato. Ci voleva un miracolo per ricambiare il corso della campagna elettorale. E miracolo c’è stato. Forse quel miracolo ha un nome e un volto. Quello della Regina Elisabetta. O meglio del quotidiano popolare più influente del mondo, il “Sun”, che mercoledì ha fatto lo scoop, lasciando intendere che Sua Maestà era favorevole all’uscita dalla Ue, rivitalizzando così le corde di un patriottismo che si pensava fosse diventato marginale e che invece vibra ancora nel cuore del popolo.La tempra di un paese ha prevalso sull’emozione e sul cordoglio. La Gran Bretagna fiera della propria autonomia, convinta della propria unicità, capace di scegliere da sola nei momenti topici della propria storia è risorta, dando ragione a Nigel Farage – un ex uomo d’affari che dal nulla ha creato un partito e trascinato un paese a una svolta storica – e a Boris Johnson, il sindaco di Londra uscente, che non ha esitato a schierarsi contro l’establishment del proprio Paese, dando forza e autorevolezza al movimento anti-Ue. Molti diranno che nei britannici ha prevalso la paura di un’immigrazione ed è innegabile che questo sia stato uno dei temi forti della campagna, ma non è stato un voto razzista; semmai la prova che l’immigrazione è salutare e bene accetta se regolata, ma provoca comprensibili reazioni di rigetto quando diventa impetuosa e di massa.C’era di più, però, in questo referendum: c’era la volontà di difendere l’autenticità delle proprie istituzioni, della sovranità del voto popolare e dunque della propria democrazia. Di dire basta a un’Unione Europea i cui meccanismi decisionali sono opachi, in cui il processo di integrazione viene portato avanti da un’élite transnazionale, vero potere dominante dell’Europa e non solo, tramite un processo caratterizzato da un persistente “deficit democratico”, che li ha portati ad ignorare o ad aggirare la volontà dei popoli, ogni volta che si è opposta ai loro disegni. Talvolta persino a calpestare, come accadde un anno fa, quando la Troika costrinse Atene a rinnegare l’esito schiacciante di un referendum. Lo stesso potrebbe avvenire oggi a Londra, considerato che il referendum era consultivo, ma sarebbe una scelta gravissima, al momento improbabile.Ora si apre una fase di incertezza: i mercati la faranno pagare alla Gran Bretagna, e quell’establishment non si arrenderà facilmente. Vedremo. Quella di ieri è stata, però, una giornata davvero storica. E’ la rivincita della sovranità nazionale. Per la prima volta un paese ha dimostrato che il processo di unificazione europea non è ineluttabile, che dalla Ue si può uscire, rendendo concreta la possibilità che altri paesi seguano l’esempio britannico. Un voto che costringerà l’Unione Europea a gettare la maschera di fronte a un’Europa diversa, autentica, che molti pensavano defunta e che invece è forte e vitale, quella dei popoli. Alla faccia delle élite.(Marcello Foa, “Incredibili britannici, rinasce l’Europa dei popoli”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 24 giugno 2016).E ora cambia, davvero, tutto. La decisione degli elettori britannici di lasciare l’Unione Europea è storica innanzitutto per il contesto elettorale in cui è maturata. Tutto, ma proprio tutto, lasciava presagire una vittoria del fronte europeista, soprattutto dopo l’uccisione della deputata Jo Cox, che aveva cambiato la dinamica e il clima della campagna elettorale a sette giorni dal voto. L’ondata del cordoglio è stata enorme. E infatti i sondaggi, i mercati, gli scommettitori davano il sì praticamente scontato. Ci voleva un miracolo per ricambiare il corso della campagna elettorale. E miracolo c’è stato. Forse quel miracolo ha un nome e un volto. Quello della Regina Elisabetta. O meglio del quotidiano popolare più influente del mondo, il “Sun”, che mercoledì ha fatto lo scoop, lasciando intendere che Sua Maestà era favorevole all’uscita dalla Ue, rivitalizzando così le corde di un patriottismo che si pensava fosse diventato marginale e che invece vibra ancora nel cuore del popolo.
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Barnard: ed ecco l’omicidio perfetto per fermare la Brexit
Citai quel terribile studio, anzi, appello, pubblicato dalla più prestigiosa rivista medica del mondo, il “The Lancet”, che gridava che la Ue della nomenklatura stava ammazzando al ritmo di un bombardamento della Seconda Guerra Mondiale, in Grecia. Vi ricordate i numeri? Migliaia di feti morti prematuri (aumento del 40%), aumento delle infezioni da Hiv del 3.000% (sì, tremila) a causa mancanza di siringhe nelle province, ammalati di tumore lasciati a urlare come cani senza morfina fino alla morte, la vita media retrocessa a livello degli anni ’40. E nessuno può calcolare quanti altri europei sono morti prematuramente a causa di questa catastrofe voluta a tavolino chiamata Maastricht & Eurozona, anche se il fatto che oggi l’11% degli italiani non si può più curare adeguatamente la dice lunga. Ieri è morta una splendida persona, la parlamentare inglese Jo Cox, donna dalle mille battaglie umanitarie ammazzata da un rivoltante pazzoide in strada. Si dice che l’uomo gridasse “Prima la Gran Bretagna!”, era ovviamente un fanatico pro Brexit, e la povera deputata era invece per rimanere nell’Unione. Sospendiamo per un attimo l’emotività e l’orrore per questo osceno incubo.Il fatto indubitabile è che l’opinione pubblica inglese ora con una probabilità vicina al 99% si sposterà verso il voto pro Ue, mentre gli ultimissimi sondaggi davano Brexit davanti. Anche perché la fanfara della nomenklatura strillerà a 8000 decibel che i pro Brexit sono una masnadsa di fascisti, hooligan, medievali nazionalisti, buffoni alla Farage, estremisti pericolosi ecc. Non finirà più di suonare da qui al 23 giugno. Credo – e spero tanto di sbagliarmi, ma no – che dovremo dire addio a Brexit, dire addio cioè alla più straordinaria opportunità della Storia di distruggere la nomenklatura di Bruxelles che, come detto sopra, uccide diecimila volte di più del bastardo cane assassino di Jo Cox. Sono senza parole. E giuro, e guardate che veramente lo scrivo con le dita che mi si stanno rattrappendo fino a spezzarmi le falangi, che non posso levarmi dalla testa l’idea che ho sempre ritenuto l’ultima idea che un giornalista vero debba mai intrattenere nel suo cervello, dopo aver esaurito ogni altra ricerca: il complotto.Cazzo, che caso, mi dice una parte della mia testa, Cameron a febbraio cospira con la mega azienda di private security Serco per far partire una campagna segreta di sputtanamento di Brexit. Tutta la nomenklatura dei peggiori ceffi di Bruxelles fa muro contro Brexit. I neo-nazi di Merkel-Schauble ragliano minacce di fuoco, ma tutto quello che ottengono è che i sondaggi volano sempre più verso il voto per uscire dalla Ue. Poi arriva la riunione del Bilderberg in Germania, e oplà, uno dei volti più belli e umanamente puliti del ‘Rimaniamo in Ue’ viene macellata a pochi giorni dal voto al grido di “Prima la Gran Bretagna!”. Oplà, eh? Ma io non sono un Blondet o un Mazzucco, io faccio un altro mestiere, il giornalista, e senza l’Edward Snowden del caso Cox io ficco il complotto nella spazzatura, e dico solo una cosa. Una morte ora rischia con altissime probabilità di permetterne altre decine di migliaia per decenni per ciò che ho scritto due paragrafi più sopra. Sono senza parole, I’m beyond words.(Paolo Barnard, “Un morto aiuterà a produrne altre decine di migliaia, goodbye Brexit?”, dal blog di Barnard del 17 giugno 2016).Citai quel terribile studio, anzi, appello, pubblicato dalla più prestigiosa rivista medica del mondo, il “The Lancet”, che gridava che la Ue della nomenklatura stava ammazzando al ritmo di un bombardamento della Seconda Guerra Mondiale, in Grecia. Vi ricordate i numeri? Migliaia di feti morti prematuri (aumento del 40%), aumento delle infezioni da Hiv del 3.000% (sì, tremila) a causa mancanza di siringhe nelle province, ammalati di tumore lasciati a urlare come cani senza morfina fino alla morte, la vita media retrocessa a livello degli anni ’40. E nessuno può calcolare quanti altri europei sono morti prematuramente a causa di questa catastrofe voluta a tavolino chiamata Maastricht & Eurozona, anche se il fatto che oggi l’11% degli italiani non si può più curare adeguatamente la dice lunga. Ieri è morta una splendida persona, la parlamentare inglese Jo Cox, donna dalle mille battaglie umanitarie ammazzata da un rivoltante pazzoide in strada. Si dice che l’uomo gridasse “Prima la Gran Bretagna!”, era ovviamente un fanatico pro Brexit, e la povera deputata era invece per rimanere nell’Unione. Sospendiamo per un attimo l’emotività e l’orrore per questo osceno incubo.
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Brexit, sondaggi-paura per l’Ue: gli europei contro Bruxelles
Il voto sull’uscita dall’Unione europea si avvicina. A Berlino sono giunti dati allarmanti – i sondaggi danno gli schieramenti alla pari. Fra tre settimane ci siamo. I cittadini britannici decideranno se rimanere nell’Unione Europea. I sondaggi più recenti evidenziano che il voto potrebbe essere combattutissimo. I partigiani dell’uscita sono in fase di grande rimonta. La cosa è emersa martedì scorso in una conferenza berlinese organizzata dalla Camera di commercio britannica, l’Aspen Institut e l’istituto di sondaggi YouGov, con la partecipazione dei colleghi giornalisti delllo “Handelsblatt Global Edition” e del quotidiano britannico “The Guardian”. Di particolare interesse i dati raccolti dall’istituto di sondaggi YouGov tra il 19 e il 24 maggio. Fra sostenitori e avversari della Brexit vige la perfetta parità: 40% sia per gli uni che per gli altri. Il 14% degl’interpellati è ancora indeciso, mentre il rimanente 6% non ha intenzione di votare. Il sondaggio è stato reso noto dallo “Spiegel Online”.E sul continente? A differenza dei britannici, i cittadini di cinque paesi interpellati su sei – Germania, Francia, Finlandia, Svezia, Danimarca e Norvegia – preferiscono la permanenza nella Ue. In Germania, in caso di referendum popolare (peraltro giuridicamente inammissibile a livello federale) il 54% sarebbe favorevole alla permanenza, il 29% all’uscita. Nel mese di maggio YouGov ha interpellato 2.056 cittadini della Repubblica federale tedesca. Come prevedibile, in Norvegia, paese che non appartiene alla Ue, solo il 17% degl’interpellati vorrebbe entrarci, contro un 64% di contrari. Fuori dalla Gran Bretagna, la maggioranza degl’interpellati si augura che gli inglesi rimangano nella Ue. In Germania il 52%, in Francia il 42%, in Danimarca il 56% e così via. Solo in Norvegia, che non è membro Ue, il risultato è più incerto.Ma quali sarebbero le conseguenze della Brexit per l’Unione? La situazione si farebbe problematica: in tutti e sette i paesi dove è stato effettuato il sondaggio, la maggioranza degli intervistati prevede ulteriori fuoriuscite. Il 52% in Gran bretagna, il 54 in Germania e addirittura il 55 in Francia. Soprattutto danesi (66%) e svedesi (69%) pensano che la vittoria del “sì” all’uscita moltiplicherebbe le spinte secessioniste a livello europeo. Particolarmente allarmante per gli unionisti è l’opinione che i cittadini interpellati hanno dell’Unione in tutti e sette i paesi. In Gran Bretagna il 48% deglo interpellati ritengono l’Unione “scialacquatrice”, in Germania quasi altrettanti (43%) e il 36% in Francia. la Ue viene ritenuta “distante ed estranea” dal 36% dei britannici, dal 34% dei tedeschi e addirittura dal 41% dei francesi.Particolarmente scoraggiante il responso sugli attributi positivi: solo l’8% dei cittadini francesi e britannici e l’11% di quelli tedeschi ritengono che la Ue sia “democratica”. Il valore peggiore è quello attinente alla “buona fede”, a cui crede appena il 3% dei britannici, il 2% dei tedeschi e il 5% dei francesi. Anche quanto ad “efficienza” pochissimi intervistati danno fiducia all’Unione: il 4% dei britannici, il 3% dei tedeschi e il 5% dei francesi. I dati dimostrano che, indipendentemente dagli esiti del voto inglese, i responsabili della Ue avranno un gran daffare per modificare l’immagine profondamente negativa che di essa hanno i cittadini europei.(Severin Weiland e Anna van Hove, “Sondaggio, sostenitori e avversari della Brexit sono in parità”, dallo “Spiegel”, ripreso da “Voci dall’Estero” il 10 giugno 2016).Il voto sull’uscita dall’Unione europea si avvicina. A Berlino sono giunti dati allarmanti – i sondaggi danno gli schieramenti alla pari. Fra tre settimane ci siamo. I cittadini britannici decideranno se rimanere nell’Unione Europea. I sondaggi più recenti evidenziano che il voto potrebbe essere combattutissimo. I partigiani dell’uscita sono in fase di grande rimonta. La cosa è emersa martedì scorso in una conferenza berlinese organizzata dalla Camera di commercio britannica, l’Aspen Institut e l’istituto di sondaggi YouGov, con la partecipazione dei colleghi giornalisti delllo “Handelsblatt Global Edition” e del quotidiano britannico “The Guardian”. Di particolare interesse i dati raccolti dall’istituto di sondaggi YouGov tra il 19 e il 24 maggio. Fra sostenitori e avversari della Brexit vige la perfetta parità: 40% sia per gli uni che per gli altri. Il 14% degl’interpellati è ancora indeciso, mentre il rimanente 6% non ha intenzione di votare. Il sondaggio è stato reso noto dallo “Spiegel Online”.
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Trump Show. In alternativa, la sinistra venduta alle banche
Dopo l’estate dell’umiliazione greca è arrivato l’autunno della migrazione respinta poi l’inverno della disgregazione europea e infine la primavera di Donald Trump. Non so se Trump vincerà le elezioni di novembre, non lo credo, anche se i sondaggi cominciano a dargli un vantaggio su Hillary Clinton. La sua ascesa trionfale va comunque interpretata. Partiamo da lontano. Agli operai tedeschi affamati e umiliati dall’aggressione finanziaria anglo-francese, Hitler disse: non siete operai sfruttati, ma ariani vincitori. Il nazionalsocialismo nacque da questo cambio di prospettiva. Non intendo dire che stia per ripresentarsi lo scenario degli anni ’30 (anche perché oggi le dimensioni di potenza sono ingigantite), ma intendo dire che la dinamica che portò il nazionalsocialismo al potere si ripresenta. Si ripresenta in contemporanea con un’esplosione dell’ordine che il bacino mediterraneo ha ereditato dal colonialismo. La coincidenza di stagnazione, impoverimento della classe operaia bianca euro-americana e deflagrazione dell’ordine geopolitico produce una forma inedita di nazionalismo aggressivo della razza bianca.La soggettività che si rappresenta in Trump, come nelle forze montanti della destra europea, è l’identità bianca che reagisce disperatamente al suo declino economico, demografico e geopolitico. Lo scenario rischia di divenire terrificante. Il 5 maggio, alle domande dei giornalisti sul trionfo di Trump alle primarie repubblicane, Obama ha risposto con la sua ironia intelligente di politico dell’età moderna: «Non stiamo parlando di entertainment, questo non è un reality show, è una gara per la presidenza degli Stati Uniti». Purtroppo Obama sbaglia, perché i confini tra politica e reality show non sono più quelli che conosceva la ragion politica moderna. La gara per la presidenza degli Stati Uniti è un reality show, e Obama è un personaggio dello show di cui Trump tende a diventare il regista.Gli italiani, che in fatto di anticipazione del potere autoritario hanno una lunga esperienza, hanno imparato a loro spese la lezione. Berlusconi si presentò con una campagna pubblicitaria fondata su due parole di origine calcistica: Forza Italia. I politici risposero che mica si trattava di entertainment, la politica non è uno spot pubblicitario. Il 27 marzo del 1994 Forza Italia vinse le elezioni e i confini della politica furono per sempre ridefiniti. I politici tradizionali pensano che la politica sia il discorso onnicomprensivo, e la pubblicità una dimensione discorsiva particolare. Berlusconi mostrò che la politica è divenuta una sottosfera, che dipende da una sfera pubblica mediatizzata. Il trionfo di Trump è politicamente inspiegabile perché coloro che sono andati a votare alle primarie e che andranno probabilmente a votare a novembre non appartengono al discorso politico ma alla media-sfera del reality show. Per questo molta più gente va a votare, e quella gente sa di trovarsi entro un reality show.Durante il suo viaggio asiatico, per rassicurare gli alleati giapponesi e riferendosi a opinioni espresse da Trump, Obama ha detto che «la persona che ha espresso queste opinioni non sa molto di politica estera o di politica nucleare e neppure del mondo in generale». Naturalmente Obama ha perfettamente ragione: Trump è totalmente ignorante sullo specifico storico, economico e antropologico delle questioni su cui si esprime. Ma quel che Obama sembra non (voler) capire è che l’ignoranza non è affatto un ostacolo sulla strada del potere contemporaneo. Gli americani hanno votato (due volte) un tizio che credeva che i Talebani fossero un gruppo rock prima di scoprire che volavano nel cielo americano in direzione delle torri di Manhattan. Quel tizio ha cambiato la storia del mondo iniziando una guerra infinita. Ciò che dobbiamo capire è che l’ignoranza è una potenza gigantesca, quando è guidata da umiliazione e disperazione.Le politiche neoliberiste hanno portato alla disperazione la grande maggioranza dei lavoratori bianchi occidentali. Questi non vogliono più sentirsi dire che sono operai sfruttati, da quando la sinistra si è messa al servizio delle banche. Come nel 1933 gli operai tedeschi votarono per chi li incitava a sentirsi bianchi ariani e purissimi, e indicava gli ebrei e i rom come nemici mortali – così oggi gli operai dell’Euro-America vogliono sentirsi dire quel che gli dicono Trump, Le Pen, Kazinski, Orban, Putin e Boris Johnson. Vogliono sentirsi dire che sono la razza superiore, e che per questo vinceranno chiudendo i migranti in un gulag di campi di concentramento diffusi lungo le coste sud. Oggi siamo tutti contenti perché in Austria i nazisti sono solo il 49.7%. E intanto l’agenzia finanziaria Morgan Stanley suggerisce ai governi europei di cambiare le loro leggi per rendere possibile una pieno funzionamento del mercato globale. Merkel Hollande, Renzi e Napolitano corrono ad eseguire il diktat delle banche. Aprono la strada al peggio. Lo sanno?(Franco “Bifo” Berardi, “Perché seduce il Trump Show”, da “Micromega” del 26 maggio 2016).Dopo l’estate dell’umiliazione greca è arrivato l’autunno della migrazione respinta poi l’inverno della disgregazione europea e infine la primavera di Donald Trump. Non so se Trump vincerà le elezioni di novembre, non lo credo, anche se i sondaggi cominciano a dargli un vantaggio su Hillary Clinton. La sua ascesa trionfale va comunque interpretata. Partiamo da lontano. Agli operai tedeschi affamati e umiliati dall’aggressione finanziaria anglo-francese, Hitler disse: non siete operai sfruttati, ma ariani vincitori. Il nazionalsocialismo nacque da questo cambio di prospettiva. Non intendo dire che stia per ripresentarsi lo scenario degli anni ’30 (anche perché oggi le dimensioni di potenza sono ingigantite), ma intendo dire che la dinamica che portò il nazionalsocialismo al potere si ripresenta. Si ripresenta in contemporanea con un’esplosione dell’ordine che il bacino mediterraneo ha ereditato dal colonialismo. La coincidenza di stagnazione, impoverimento della classe operaia bianca euro-americana e deflagrazione dell’ordine geopolitico produce una forma inedita di nazionalismo aggressivo della razza bianca.
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Col Brexit, una guerra mondiale: il piano-paura di Cameron
Proprio come il governo ha già fatto nell’avvicinarsi al referendum scozzese del 2014, sembra che David Cameron stia intensificando il cosiddetto “Progetto paura”. In una sorprendente dichiarazione volta alla pura e semplice “creazione di timore”, che chiaramente riflette il panico dell’establishment di fronte alla crescita nei sondaggi del fronte favorevole alla Brexit, il Telegraph riporta che il primo ministro del Regno Unito David Cameron ha avvertito che la Gran Bretagna pagherà un costo elevato se “volta le spalle” alla Ue, invocando Sir Winston Churchill e portando le battaglie di Trafalgar, Blenheim, Waterloo e le due guerre mondiali come prova che la Gran Bretagna non può fingere di essere “immune da conseguenze”. Come riporta il “Daily Mirror”, David Cameron ha chiesto che la Gran Bretagna resti nella Ue, per aiutare a impedire che il continente sia lacerato da un altro conflitto.David Cameron ha sottolineato il ruolo del Regno Unito nel mantenere la pace in Europa, confermando la strada tracciata dalla campagna referendaria – appena poche ore prima di un discorso del rivale, il deputato Tory Boris Johnson. Parlando al British Museum di Londra, introdotto dall’ex segretario agli Esteri del Labour, David Miliband, Cameron ha detto: «Possiamo essere così sicuri che la pace e la stabilità nel nostro continente siano assicurate senza alcuna ombra di dubbio? È un rischio che vale la pena di correre? Non sarei così imprudente da darlo per scontato». Cameron ha anche evocato l’immagine delle file di tombe di soldati britannici caduti nel continente. Ha fatto inoltre riferimento al ruolo della Gran Bretagna in «momenti cruciali della storia europea: Blenheim, Trafalgar, Waterloo, l’eroismo del nostro paese nella Grande Guerra e, soprattutto, la nostra resistenza da soli nel 1940». Ha poi aggiunto: «Quello che accade intorno a noi è importante per la Gran Bretagna. Questo era vero nel 1914, nel 1940, nel 1989… ed è vero nel 2016».E ha ricordato come Winston Churchill «ha sostenuto con passione l’unità dell’Europa occidentale, per promuovere il libero scambio e creare istituzioni durature, che impedissero al nostro continente di dover rivedere mai più simili spargimenti di sangue». Il primo ministro ha aggiunto che restano molti rischi per la stabilità – da una “Russia recentemente aggressiva” al cosiddetto Stato Islamico alla crisi degli emigranti. Qualche ora dopo, è stato attaccato da Johnson, che sostiene la Brexit, e che ha detto: «Bisognerebbe pensarci molto bene prima di lanciare questo tipo di avvertimenti. No, non credo la Gran Bretagna lasciando l’Ue provocherebbe l’esplodere della Terza Guerra Mondiale nel continente europeo». Ma, infine, quello che ragionevolmente toglie forza alla retorica fatta per mettere paura del premier, è che il governo non ha preparato alcun piano per affrontare la Brexit – benché David Cameron sostenga che potrebbe scatenare la guerra: il portavoce di David Cameron ha ammesso che il governo non ha approntato alcun piano di emergenza nel caso che il 23 giugno al referendum vinca il voto per l’uscita – e questo nonostante mettano in guardia contro il pericolo di una guerra. Forse è questo il motivo per cui Cameron ci è andato giù così duro…(Tyler Durden, “Il Progetto Paura di Cameron: vota No alla Brexit o affronta la Terza Guerra Mondiale”, da “Zero Hedge” il 9 maggio 2016, post ripreso da “Voci dall’Estero”).Proprio come il governo ha già fatto nell’avvicinarsi al referendum scozzese del 2014, sembra che David Cameron stia intensificando il cosiddetto “Progetto paura”. In una sorprendente dichiarazione volta alla pura e semplice “creazione di timore”, che chiaramente riflette il panico dell’establishment di fronte alla crescita nei sondaggi del fronte favorevole alla Brexit, il “Telegraph” riporta che il primo ministro del Regno Unito David Cameron ha avvertito che la Gran Bretagna pagherà un costo elevato se “volta le spalle” alla Ue, invocando Sir Winston Churchill e portando le battaglie di Trafalgar, Blenheim, Waterloo e le due guerre mondiali come prova che la Gran Bretagna non può fingere di essere “immune da conseguenze”. Come riporta il “Daily Mirror”, David Cameron ha chiesto che la Gran Bretagna resti nella Ue, per aiutare a impedire che il continente sia lacerato da un altro conflitto.
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Evans-Pritchard a Renzi: via dall’euro, se vuoi salvare l’Italia
«L’Italia deve scegliere tra l’euro e la sua sopravvivenza economica». Lo scrive sul “Telegraph” il noto editorialista finanziario Ambrose Evans-Pritchard. «Il tempo stringe per l’Italia, bloccata in una deflazione da debiti e alle prese con una crisi bancaria che non può affrontare con i vincoli dell’unione monetaria. Dal picco della crisi – prosegue Evans-Pritchard – come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, il prodotto interno lordo si è ridotto del 9% e la produzione industriale del 25%. Ogni anno la percentuale del debito rispetto al Pil sale: 121% nel 2011, 123 nel 2012, 129 nel 2013, 132,7 nel 2015. Lo stimolo della Banca Centrale Europea svanirà prima che l’Italia riuscirà a uscire dalla stagnazione e il Fondo Monetario Internazionale, infatti, prevede una crescita di appena l’1% quest’anno. La finestra globale si sta chiudendo». Per il giornalista, «c’e’ il rischio concreto che Matteo Renzi arrivi alla conclusione che l’unico modo per restare al potere sia presentarsi alle prossime elezioni con una piattaforma apertamente anti-euro». Attenzione: un recente sondaggio di Ipsos Mori rivela che il 48% degli italiani voterebbe contro l’Ue o contro l’euro, se ne avesse l’opportunità.Il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, cui è attribuito un consenso del 28%, «invoca il default e il ritorno alla lira», scrive Pritchard, in un articolo ripreso da “L’Antidiplomatico”. In più, «la Lega Nord di Matteo Salvini considera l’euro un crimine contro l’umanità». Stando ai fatti: il tasso di disoccupazione è all’11,4%, mentre quello della disoccupazione giovanile raggiunge il 65% in Calabria, il 56% in Sicilia, il 53% in Campania. «Il tasso di natalità è al minimo storico. L’istituto di ricerca Svimez parla di uno stato permanente di sottosviluppo nel Mezzogiorno». Negli anni Novanta, continua Evans-Pritchard, l’Italia registrava un ampio avanzo negli scambi commerciali con la Germania, prima che fossero fissati i tassi di cambio e quando si poteva ancora svalutare. «In quindici anni l’Italia ha perso rispetto alla Germania il 30% di competitività sul costo di lavoro per unità di prodotto: dal 2000 la produttività è diminuita del 5,9%». I vari governi che si sono succeduti sono ovviamente «criticabili». Ma, per il giornalista, «la questione più rilevante è che oggi il paese non riesce a uscire dalla trappola».«A questa miscela combustibile – prosegue Evans-Pritchard – si aggiunge la crisi bancaria, che rivela la disfunzionalità dell’unione monetaria e peggiora di giorno in giorno: prestiti “non performanti” per 360 miliardi di euro gravano sui bilanci delle banche. La vigilanza esercitata dalla Bce ha peggiorato le cose e il Fondo Atlante potrebbe attirare sempre più banche nel pantano, aumentando il rischio sistemico». L’Italia? «E’ nel peggiore dei mondi possibili: a causa delle regole dell’Ue, non può prendere iniziative in piena sovranità per stabilizzare il sistema bancario e non esiste ancora un’unione bancaria degna di questo nome che condivida gli oneri». Per l’editorialista britannico, «Renzi ha di fronte una dura scelta: o dice alle autorità europee di andare all’inferno o resta a guardare impotente che il sistema bancario imploda e il paese precipiti nell’insolvenza». E visto che l’Italia non è la Grecia, «non può accettare la sottomissione». Tant’è vero che «tra i poteri forti dell’industria italiana qualcuno ormai sussurra che l’uscita dall’euro potrebbe non essere così terribile». Anzi: «Sarebbe l’unico modo per evitare una catastrofica deindustrializzazione».«L’Italia deve scegliere tra l’euro e la sua sopravvivenza economica». Lo scrive sul “Telegraph” il noto editorialista finanziario Ambrose Evans-Pritchard. «Il tempo stringe per l’Italia, bloccata in una deflazione da debiti e alle prese con una crisi bancaria che non può affrontare con i vincoli dell’unione monetaria. Dal picco della crisi – prosegue Evans-Pritchard – come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, il prodotto interno lordo si è ridotto del 9% e la produzione industriale del 25%. Ogni anno la percentuale del debito rispetto al Pil sale: 121% nel 2011, 123 nel 2012, 129 nel 2013, 132,7 nel 2015. Lo stimolo della Banca Centrale Europea svanirà prima che l’Italia riuscirà a uscire dalla stagnazione e il Fondo Monetario Internazionale, infatti, prevede una crescita di appena l’1% quest’anno. La finestra globale si sta chiudendo». Per il giornalista, «c’e’ il rischio concreto che Matteo Renzi arrivi alla conclusione che l’unico modo per restare al potere sia presentarsi alle prossime elezioni con una piattaforma apertamente anti-euro». Attenzione: un recente sondaggio di Ipsos Mori rivela che il 48% degli italiani voterebbe contro l’Ue o contro l’euro, se ne avesse l’opportunità.
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America, basta guerre: e così Trump rischia di vincere
Fino all’altro ieri Donald Trump era considerato soltanto una macchietta, un personaggio colorito salito alla ribalta solo grazie al momentaneo vuoto che si è creato ai vertici della classe dirigente del partito repubblicano. Al massimo – si diceva – vincerà la nomination dei repubblicani, ma poi Hillary Clinton lo schiaccerà come una lucertola sull’asfalto. La convinzione più diffusa a livello mainstream infatti era che Trump, con le sue posizioni estremiste, xenofobe e razziste, non sarebbe comunque mai riuscito a conquistare quella famosa fetta intermedia di elettori americani – i cosiddetti “indecisi”, collocati al centro dello schieramento elettorale – che di solito rappresentano l’ago della bilancia nelle elezioni presidenziali. Ma da qualche giorno le cose sono radicalmente cambiate, perché Donald Trump ha finalmente fatto il suo primo discorso sulla politica estera, e ha spiazzato tutti: invece del solito sproloquio vuoto e delirante, Trump ha messo insieme un discorso sensato, equilibrato e assolutamente ragionevole, che sembra aver fatto presa sul grande pubblico.In sintesi, ha detto Trump, gli Stati Uniti devono mettere fine alla loro politica interventista nel mondo, e ritrovare un equilibrio con le grandi potenze straniere, basato sul reciproco rispetto delle esigenze di ciascuno (grande festa ovviamente a Mosca, dove Donald Trump suscita decisamente maggiori simpatie della Clinton). Talmente “pericoloso” si è rivelato questo discorso per la politica dei guerrafondai americani (di cui la Clinton si propone come leader indiscussa) che tutte le grandi testate, dalla “Cnn” al “New York Times”, hanno dato contro al discorso di Trump, cercando di ridicolizzarlo e di minimizzarne la portata politica. Ma il discorso di Trump ormai ha lasciato il segno, e indietro non si può tornare: l’uomo dal ciuffo impossibile evidentemente si è circondato di persone che sanno consigliarlo, e una cosa ormai in America è chiara a tutti: se mai Hillary Clinton diventerà presidente, la sua non sarà certo una passeggiata.Non solo Trump le darà del filo da torcere, nei dibattiti presidenziali del prossimo autunno, ma ha anche dimostrato una grande dote camaleontica, nel trasformare con facilità il suo populismo da baraccone in una strategia politica solida e credibile. E come sappiamo, agli americani basta poco: un uomo deciso, che parla fuori dai denti e promette al suo popolo di restaurare l’antica grandezza della sua nazione, è più che sufficiente perché questo popolo gli metta incondizionatamente in mano il bastone del comando. Certo che sarebbe divertente vedere la guerrafondaia Hillary Clinton battuta per la seconda volta consecutiva in una corsa alla presidenza che l’aveva data, in ambedue i casi, come scontata vincitrice: come a dire che sì, è tutto deciso dall’alto, ma anche dai lati può arrivare ogni tanto qualche sorpresa inaspettata.(Massimo Mazzucco, “Perché Trump rischia di diventare presidente”, da “Luogo Comune” del 30 aprile 2016).Fino all’altro ieri Donald Trump era considerato soltanto una macchietta, un personaggio colorito salito alla ribalta solo grazie al momentaneo vuoto che si è creato ai vertici della classe dirigente del partito repubblicano. Al massimo – si diceva – vincerà la nomination dei repubblicani, ma poi Hillary Clinton lo schiaccerà come una lucertola sull’asfalto. La convinzione più diffusa a livello mainstream infatti era che Trump, con le sue posizioni estremiste, xenofobe e razziste, non sarebbe comunque mai riuscito a conquistare quella famosa fetta intermedia di elettori americani – i cosiddetti “indecisi”, collocati al centro dello schieramento elettorale – che di solito rappresentano l’ago della bilancia nelle elezioni presidenziali. Ma da qualche giorno le cose sono radicalmente cambiate, perché Donald Trump ha finalmente fatto il suo primo discorso sulla politica estera, e ha spiazzato tutti: invece del solito sproloquio vuoto e delirante, Trump ha messo insieme un discorso sensato, equilibrato e assolutamente ragionevole, che sembra aver fatto presa sul grande pubblico.
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Corbyn getta la maschera: resta a Bruxelles, con Cameron
«La scelta di Jeremy Corbyn, leader del partito laburista inglese, di sostenere insieme al premier conservatore David Cameron le ragioni della permanenza del Regno Unito all’interno della Ue getta una definitiva ombra di discredito su tutte le forze di “sinistra alternativa” che prendono quota in ogni angolo del Vecchio Continente». Dopo il bluff di Tsipras, «le cui miserabili piroette sono state giustificate oltre il limite della decenza pure dal leader di “Podemos” Pablo Iglesias», secondo Francesco Maria Toscano «è ora arrivato il turno del vecchio Jeremy di baciare l’anello dei massoni mondialisti, fautori di un processo federativo progressivo e illimitato che dovrebbe infine condurre alla creazione del tanto sospirato “governo globale” in salsa gnostica». Dopo l’iniziale entusiasmo, dovuto alle forti accuse mosse contro le politiche di austerità, Corbyn «ha vaporizzato in un attimo un potenziale di credibilità faticosamente conquistato sul campo. Dal leader della sinistra inglese, la classica retorica riformista: «Solo stando dentro la Ue potremo riuscire a migliorare le cose che non vanno e a garantire gli interessi della classe lavoratrice».Fra tutti gli argomenti possibili, scrive Toscano sul blog “Il Moralista”, il leader del Labour Party ha ripiegato sul peggiore: «Come fa Corbyn a non capire che la libera circolazione di uomini e capitali favorisce i plutocrati e condanna i lavoratori alla fame?». Come ricorda Luciano Gallino, «i lavoratori occidentali hanno visto precipitare il loro tenore di vita nella misura in cui sono stati messi in maniera fraudolenta nella condizione di dover competere con un numero enorme di cittadini provenienti da paesi abituati a sfruttare indegnamente manodopera a basso costo». Se Corbyn fosse meno “distratto”, aggiunge Toscano, «si sarebbe accorto che la Ue è nemica giurata dei deboli e dei lavoratori, trattati come merce da sacrificare sull’altare di una competitività esasperata che avvelena la vita di generazioni intere». I “nazisti tecnocratici” che comandano la Ue chiedono a tutti i paesi membri di attuare le famose “riforme strutturali”, cioè continui attacchi ai diritti del lavoratori faticosamente conquistati nel corso del Novecento.«Quale “Europa” protegge i diritti?», si domanda Toscano: «Quella che ordina a Renzi e Hollande di approvare il Jobs Act, per esempio? O quella che spinge affinché ritorni in auge un modello di contrattazione decentrata buona per costringere il singolo lavoratore a trattare con il singolo imprenditore senza poter contare sul sostegno dell’intera categoria sindacale di riferimento all’occorrenza disarticolata e paralizzata?». Per Toscano, lo stesso Corbyn – che pure nel 1975 aveva votato contro l’ingresso della Gran Bretagna nella Ue – non ha saputo resistere alle pressioni dei “soliti noti”. Oggi, con la sua scelta, Corbyn ha dimostrato una volta di più come «l’unica dicotomia oggi esistente non riguardi il confronto fra “destra” e “sinistra”, ma fra “popolo” ed “élite”». E la grande paura dell’oligarchia si chiama proprio Brexit: secondo recenti sondaggi, gli inglesi sarebbero decisi a farla finita con Bruxelles. Come non capirli: «La Ue è un consesso non riformabile, autoritario e violento. Nessun uomo in buona fede, dopo l’annullamento del referendum greco del 5 luglio del 2015, può ancora negarne la natura ferocemente antidemocratica». Le sinistre di mezzo mondo, invece, “moderate” o “radicali”, continuano – ora anche attraverso Corbyn – a «fare la guardia al “bidone”, consigliando ai poveri e ai disperati di sopportare i colpi mortali incassati oggi nel nome della grande integrazione che vedrà la luce domani. Una versione riveduta e corretta del famoso “sol dell’avvenire” di epoca sovietica che in molti stanno ancora pazientemente aspettando».«La scelta di Jeremy Corbyn, leader del partito laburista inglese, di sostenere insieme al premier conservatore David Cameron le ragioni della permanenza del Regno Unito all’interno della Ue getta una definitiva ombra di discredito su tutte le forze di “sinistra alternativa” che prendono quota in ogni angolo del Vecchio Continente». Dopo il bluff di Tsipras, «le cui miserabili piroette sono state giustificate oltre il limite della decenza pure dal leader di “Podemos” Pablo Iglesias», secondo Francesco Maria Toscano «è ora arrivato il turno del vecchio Jeremy di baciare l’anello dei massoni mondialisti, fautori di un processo federativo progressivo e illimitato che dovrebbe infine condurre alla creazione del tanto sospirato “governo globale” in salsa gnostica». Dopo l’iniziale entusiasmo, dovuto alle forti accuse mosse contro le politiche di austerità, Corbyn «ha vaporizzato in un attimo un potenziale di credibilità faticosamente conquistato sul campo. Dal leader della sinistra inglese, la classica retorica riformista: «Solo stando dentro la Ue potremo riuscire a migliorare le cose che non vanno e a garantire gli interessi della classe lavoratrice».