Archivio del Tag ‘tecnocrati’
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Messora: bei tempi, quando esisteva il Movimento 5 Stelle
«C’era una volta il Movimento 5 Stelle». Era fatto «di cittadini che prendevano decisioni tutti insieme, dopo avere scartato migliaia di scelte alternative, valutate attentamente una per una». La televisione «era considerata complice del sistema e artefice del decadimento civico e culturale», e i sondaggi «erano l’antitesi della buona politica», nemici della democrazia diretta. All’indomani dell’investitura di Luigi Di Maio, il blogger Claudio Messora, fondatore di ByoBlu e già comunicatore dei pentastellati, intona il de profundis del movimento grillino. Bei tempi, quando «la demoagogia ripugnava tutti» e i protagonismi «erano il peccato originale, da cui era necessario pentirsi», sublimandolo «nella retorica del “cittadino portavoce”». Tutto era trasmesso in streaming, due mandati erano “due legislature” (e non dieci anni). Le cariche interne «ruotavano ogni tre mesi, tutte, così nessuno avrebbe potuto impadronirsi di una poltrona e diventare inamovibile. Tanto, un portavoce era solo un segnaposto della volontà degli attivisti certificati: era sostituibile».Le riunioni a porte chiuse? Atra «eresia blasfema, perché contrarie alla trasparenza»: per definizione «ponevano nelle mani di pochi il potere di elaborare strategie nascoste». Democrazia diretta e strategie di palazzo? «Incompatibili a priori». Il titolo di “onorevole”, poi, «era una macchia indelebile da cancellare con lunghi pellegrinaggi nei MeetUp di origine». All’epoca, il capo politico non esisteva ancora: non lo era neppure Beppe Grillo. C’erano solo due garanti, Grillo e Casaleggio, «lungimiranti fondatori, che tenevano a freno le derive individualistiche di ragazzi catapultati all’improvviso nelle stanze del potere senza i necessari anticorpi, omaggiati e riveriti dai media e dalle associazioni di interessi». Erano i tempi in cui Casaleggio rimetteva alla rete ogni decisione, e la rete talvolta votava perfino contro a quello che avrebbe voluto lui, come nel caso della depenalizzazione del reato di clandestinità, continua Messora. «Il rispetto degli attivisti era non solo formale, ma sostanziale, e questo si traduceva in referendum online dagli esiti mai scontati e presentati con completezza di informazione. Anche perché gli attivisti di una volta, quelli che si erano scorticati la pelle delle mani nel corso di interminabili banchetti al freddo e al gelo, non avrebbero mai e poi mai accettato niente di meno».Erano i tempi in cui Grillo girava senza scorta per le strade di Roma, perché lui poteva permetterselo e se ne vantava. Oggi invece Di Maio «ha bisogno di girare circondato dalla security». Bei tempi, appunto, quando il Movimento 5 Stelle «provava a declinare in politica il suo retroterra antieuropeista e sovranista, antielitario e fieramente populista», come rivendicato dallo stesso Casaleggio, «il genio comunicativo» che spesso «stravolgeva ogni aspettativa e ribaltava la prospettiva». E lo stesso Grillo «scendeva a Roma chiamando il popolo in piazza Montecitorio, e i politici scappavano dal palazzo come topi in fuga, mentre le acque si facevano agitate e rombavano minacciose, facendo tremare i muri delle aule». Quelli, continua Messora, erano i tempi in cui il Movimento 5 Stelle era diverso da tutte le altre forze del sistema, da Bersani ai mostri di Bruxelles, «il peggio degli europeisti banchieri, artefici dell’austerity come l’Alde, in cui i 5 Stelle Europa volevano confluire sotto la sapiente guida di europarlamentari stimati da Mario Monti e ormai dimentichi della logica dei portavoce, ma sempre più calati nei panni del perfetto manovratore di palazzo».Quei tempi sono finiti, scrive Messora. «Oggi il Movimento 5 Stelle è un partito. Si comporta da partito. Ha i riti di un partito. Accentra il potere, come un partito. Ha i suoi servi, i suoi yes-men, i suoi adoratori, i suoi fan, la sua terminologia, i suoi giornalisti, come un partito. Ha perfino il culto della personalità del capo». E’ finita la spinta propulsiva, la voglia di rottura, «la narrazione dirompente, la creazione di un linguaggio differente, motivante, sferzante, con i suoi neologismi dissacranti». Si è esaurita «la componente di attivismo disinteressato e un po’ ingenuo, l’esaltazione dell’uguaglianza», che aveva attratto «intellettuali anticonvenzionali che rappresentavano visioni diverse e inascoltate sulla società, sulle tematiche ambientali, sul futuro». Tutto questo non esiste più, dice Messora: il Movimento 5 Stelle ha compiuto la sua metamorfosi. «Dal bozzolo è uscito un leader (termine che un tempo avrebbe procurato inguaribili allergie e insopportabili pruriti)», il quale «ha vinto primarie senza rivali, con risultati bulgari, che in ossequio all’era dei reality show hanno tuttavia beneficiato di una suspence artificiale, con tanto di musica da nomination del Grande Fratello». Poco seria, la faccenda: i vertici avevano già scelto Di Maio da tempo, «quindi la cosa più ragionevole da fare (e più onesta) sarebbe stata per il garante prendersi la responsabilità di proporre Di Maio e sottoporre il suo nome a una ratifica referendaria sul blog, da parte degli attivisti». Sempre meglio che una (finta) vittoria, senza concorrenti.Nel sogno della diversità, i primi “grillini” ci avevano creduto «quando tutti gli altri li prendevano in giro». E avevano combattuto contro qualunque pregiudizio perché erano davvero affascinati «dalla purezza cristallina di un’idea coraggiosa e sfrontata», ed erano riusciti a coinvolgere con il loro disinteressato entusiasmo ben 9 milioni di elettori «che nulla sapevano dei Cinque Stelle», ma avevano «interiorizzato solo un grande, immenso vaffanculo». Alla fine di questa metamorfosi, ecco dunque un partito in pole position nei sondaggi: un partito leaderistico, «nato pescando nelle ideologie di sinistra, così come nel serbatoio di elettori delusi a destra», ma che ora – rinnegato Farage con la sua Brexit e sfatato il mito dell’accoglienza tout court dei rifugiati – si è «riposizionato con nonchalance al centro, lontano dagli estremi e in corsa per Palazzo Chigi con il beneplacito della Chiesa, del potere transazionale della Trilaterale (Monti, Napolitano & Co), delle lobby, dell’establishment americano in cui il Cinque Stelle è di casa, dei circoli europeisti di Bruxelles, della finanza internazionale e dei mercati, cui Di Maio si è appellato personalmente».Ma attenzione, continua Messora: è un partito che non ha segreterie né strutture dirigenziali, non ha correnti ma neppure regole, non ha tempi certi per sostituire il capo politico, che può decidere candidature ed espulsioni. Un partito ibrido, «dove tutti sono d’accordo perché gli altri per definizione sono già stati espulsi», e molti di quelli che avevano remore e hanno pensato per lungo tempo di esternarle «ora sorridono sul palco dietro a Luigi che abbraccia Beppe, come se fossero tutti una grande famiglia da Mulino Bianco». Ma dov’è la democrazia, cioè la facoltà di dissentire? «Poi il risultato sono primarie che assomigliano più a un sorteggio di Champions, dove in un girone da una parte c’è la Juventus e dall’altra tre squadrette dell’oratorio». Di certo, concede Messora, «non ci troviamo di fronte a una forza politica peggiore del Pd, di Forza Italia, della Lega e di tanti altri soggetti che da lungo tempo calcano il palcoscenico istituzionale».Magra consolazione: questo nuovo partito «non ha ancora avuto modo di fare i danni che i vecchi partiti hanno certamente e incontestabilmente apportato al tessuto sociale, produttivo ed economico del paese». E’ vero, il nuovo “partito” 5 Stelle non ha un solido programma alternativo. Però «non lo si può accusare di essere responsabile delle privatizzazioni, delle liberalizzazioni, delle cessioni di sovranità, della sottomissione ai mercati, della distruzione del tessuto produttivo e della domanda interna, della ratifica del pareggio di bilancio, del Fiscal Compact, del Mes». Tutte «disgrazie», aggiunge Messora, che il partito ora capeggiato da Di Maio «ha finora dimostrato di non avere compreso e alle quali non sembra intenzionato a porre rimedio». E questo è l’aspetto di gran lunga più preoccupante: gli ex “ribelli” pentastellati non si impegnano contro il vero nemico, nemmeno lo vedono. O fingono di non vederlo, che è ancora peggio.«C’era una volta il Movimento 5 Stelle». Era fatto «di cittadini che prendevano decisioni tutti insieme, dopo avere scartato migliaia di scelte alternative, valutate attentamente una per una». La televisione «era considerata complice del sistema e artefice del decadimento civico e culturale», e i sondaggi «erano l’antitesi della buona politica», nemici della democrazia diretta. All’indomani dell’investitura di Luigi Di Maio, il blogger Claudio Messora, fondatore di ByoBlu e già comunicatore dei pentastellati, intona il de profundis del movimento grillino. Bei tempi, quando «la demoagogia ripugnava tutti» e i protagonismi «erano il peccato originale, da cui era necessario pentirsi», sublimandolo «nella retorica del “cittadino portavoce”». Tutto era trasmesso in streaming, due mandati erano “due legislature” (e non dieci anni). Le cariche interne «ruotavano ogni tre mesi, tutte, così nessuno avrebbe potuto impadronirsi di una poltrona e diventare inamovibile. Tanto, un portavoce era solo un segnaposto della volontà degli attivisti certificati: era sostituibile».
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Ma Di Maio, aspirante paramassone, finirà peggio di Renzi
E’ davvero interessante interrogarsi su qual è il candidato del Movimento 5 Stelle a Palazzo Chigi, posto che – se le cose non cambiano – verrà fuori un Parlamento in cui il M5S sarà in beata solitudine col 25-30% ma il governo lo faranno gli altri? Ed è bella, democratica e avvincente una competizione interna ai 5 Stelle dove Di Maio non ha nessun avversario? E’ questa la democrazia che si garantisce a coloro che avevano qualche chance di competere per batterlo? E’ questa la democrazia interna che vogliamo, nei partiti e nei movimenti? E’ la democrazia che vogliamo per il nostro paese? Direi di no. Di Maio non avrà l’occasione che ha avuto Renzi: non diventerà mai presidente del Consiglio: il Movimento 5 Stelle rappresenta oggi una porzione significativa di elettorato, inferiore al 30%. E fintanto che la sua proposta politica sarà confusa e le sue capacità di governo pari a quelle dimostrate a Roma, senza nessuna disponibilità ad alleanze con altri soggetti, è destinato a non governare. Di Maio non è un massone, aspira a diventare un supermassone, come aspirava Renzi: ma, se non hanno aperto le porte a Renzi quand’era primo ministro, figuriamoci se le apriranno a Di Maio, che è soltanto un ragazzo di modesta cultura e di una qualche buona sorte, visto che si è trovato nel posto giusto al momento giusto, insieme ad altri, sul palcoscenico.Non vedo giovani molto promettenti, purtroppo, nelle prime file del M5S. Ho conosciuto persone più interessanti tra i parlamentari e i dirigenti. Ma i vari Di Maio, Di Battista e Fico non mi sembrano dei fulmini di guerra: modesti, sul piano culturale e sulla visione del progetto. Di Maio si agita molto, va spesso a Londra bussando a club massonici e paramassonici, ma è destinato a essere bruciato forse in modo ancora più squallido di quanto non sia accaduto a Matteo Renzi. Questo, naturalmente, se Di Maio rimane quello che è, cioè il narcisistico e inconsistente portavoce di un movimento che non ci ha ancora dato modo di comprendere qual è il suo progetto per il governo dell’Italia. Noi non vogliamo che i nostri rappresentati siano i vari Di Maio, Renzi, Alfano. Questi hanno già dato, e male: noi abbiamo una classe politica che non appassiona più nessuno, la gente che va a votare è sempre meno. C’è bisogno di una nuova formazione politica. Queste persone, al di là dei loro limiti personali, sono anche persone formate male, cresciute male in 25 anni dove s’è persa tutta la sapienza politica accumulata negli anni dal dopoguerra in avanti.C’è bisogno di recuperare l’idea di partiti veri, “pesanti”. C’è bisogno di recuperare il senso in cui il socialismo possa integrarsi col liberalismo. C’è bisogno di capire che ad una ideologia pervicace e occulta come quella neoliberista, che perverte i giochi istituzionali in Europa e nell’intera rete globale, va contrapposta un’altra ideologia, radicalmente democratica, che pretenda che tutti i meccanismi di democrazia siano sostanziali. Il Movimento Roosevelt combatte su questi fronti. Lasciamo agli altri di gingillarsi con le false primarie, con le false investiture di leader che non saranno mai eletti, con questo teatrino che rende gli uni condannati ad un eterno consociativismo (vedi Berlusconi, Renzi, Gentiloni, Alfano: questi teatranti ormai maleodoranti della politica italiana) e gli altri, cioè il Movimento 5 Stelle, condannato all’opposizione per l’eternità. Peccato che i tempi del XXI Secolo sono rapidi: se uno resta sempre all’opposizione, rischia – più rapidamente che nel passato – di logorare il rapporto con la popolazione, che alla fine non lo vota più.(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a David Gramiccioli nella diretta “Massoneria On Air” su “Colors Radio” il 25 settembre 2017, annunciando la nascita ufficiale del Pdp, Partito Democratico Progressista. «Auspichiamo – dice – che tutti i cittadini che sono stanchi tanto del centrodestra che del centrosinistra (ma anche del M5S in questa sua versione inconcludente) confluiscano copiosi nella nuova formazione» alla quale sta lavorando Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, impegnato a Roma il 4 novembre per un convengno sulla Costituzione «con proposte rivoluzionarie per migliorarla, non certo nel senso tentato da Renzi») e con l’assemblea costituente del Pdp. Il nuovo soggetto politico aprirà inoltre un cantiere di formazione politica, il Master Roosevelt in Scienze della Polis, e si prepara a celebrare a Milano, nel gennaio 2018, un convegno sull’eminente figura del socialdemocratico svedese Olof Palme, assassinato nel 1986 a Stoccolma mentre era premier, in procinto di essere eletto segretario generale all’Onu).E’ davvero interessante interrogarsi su qual è il candidato del Movimento 5 Stelle a Palazzo Chigi, posto che – se le cose non cambiano – verrà fuori un Parlamento in cui il M5S sarà in beata solitudine col 25-30% ma il governo lo faranno gli altri? Ed è bella, democratica e avvincente una competizione interna ai 5 Stelle dove Di Maio non ha nessun avversario? E’ questa la democrazia che si garantisce a coloro che avevano qualche chance di competere per batterlo? E’ questa la democrazia interna che vogliamo, nei partiti e nei movimenti? E’ la democrazia che vogliamo per il nostro paese? Direi di no. Di Maio non avrà l’occasione che ha avuto Renzi: non diventerà mai presidente del Consiglio: il Movimento 5 Stelle rappresenta oggi una porzione significativa di elettorato, inferiore al 30%. E fintanto che la sua proposta politica sarà confusa e le sue capacità di governo pari a quelle dimostrate a Roma, senza nessuna disponibilità ad alleanze con altri soggetti, è destinato a non governare. Di Maio non è un massone, aspira a diventare un supermassone, come aspirava Renzi: ma, se non hanno aperto le porte a Renzi quand’era primo ministro, figuriamoci se le apriranno a Di Maio, che è soltanto un ragazzo di modesta cultura e di una qualche buona sorte, visto che si è trovato nel posto giusto al momento giusto, insieme ad altri, sul palcoscenico.
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Forte: e ora Berlino farà pagare a noi il conto della sua crisi
Saremo noi in Italia a pagare per i risultati del voto in Germania che ha terremotato la coalizione fra popolari della Cdu e i socialdemocratici. È la fine della “ricreazione” di cui abbiamo usufruito con le deroghe sulle regole di bilancio e con la politica monetaria della Bce di Draghi. Il governo che la Merkel farà con i liberali (che con il 10% hanno più che raddoppiato i voti) comporta che essi avranno il ministero delle finanze e applicheranno all’Europa la politica fiscale di rigore di bilancio di cui sono fautori. Lo faranno tramite il “falco” Schäuble della Cdu, che diventerà vicepresidente della Commissione Europea, presidente dell’Eurogruppo e commissario alle finanze. Mario Draghi ha sostenuto ieri che c’è ancora bisogno del Qe, ma la politica di facilitazione quantitativa dovrà fare i conti con Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank candidato a succedergli, che ha detto che non si può porre un veto a un tedesco come a un italiano, alla guida della Bce, e che ritiene pericolosa la sua linea. Va in fumo il progetto di Macron, che vorrebbe una politica di bilancio non rigorista per la Francia e una politica di investimento europeo, mediante i fondi dell’Esm, il meccanismo europeo di stabilità sinora utilizzati solo per il soccorso agli Stati in crisi, in cambio del loro commissariamento.Va in fumo il sogno di Renzi di rivedere le regole di bilancio europee con una deroga permanente al principio del pareggio per il bilancio statale, che peraltro su iniziativa di Forza Italia è stato adottato anche nella Costituzione italiana. Va in soffitta fra le cianfrusaglie l’idea dei 5 Stelle di fare gli europeisti e, insieme, di dare un reddito di cittadinanza generalizzato a chi non lavora. Cade a picco anche l’erronea interpretazione del dovere di prima accoglienza, che per il vigente diritto comunitario compete allo Stato in cui essi cercano di sbarcare. Questa prima accoglienza, secondo la tesi che ora la Germania sosterrà, modificando la politica immigratoria della Merkel, consisterà nel soccorrerli, rimandandoli nei luoghi di provenienza, intervenendo là. Si accetteranno solo immigrati regolari che domandano un lavoro di cui c’è disponibilità. Chi vuole lo ius soli, si rassegni: Berlino lo bloccherà perché comporta il passaporto europeo.Il governo Gentiloni ha varato una legge di bilancio 2018-20 che implica un “margine di flessibilità”. Contava sull’appoggio dei socialdemocratici tedeschi (che non saranno più al governo) e dei francesi che dovranno faticare a contrattare per sé margini di flessibilità con l’Europa in versione “liberale rigorista tedesca”. È vero che la creazione del ministro delle finanze europeo, secondo il progetto lanciato da Schäuble che vi aspira, comporta la revisione di regole europee, perciò tempi lunghi. Ma Juncker, presidente della Commissione Europea, nel discorso sullo stato dell’Unione lo ha modificato, così da escludere tale revisione. Questa carica sarebbe tecnica: toccherebbe al vicepresidente dell’Unione Europea, presidente dell’Eurogruppo e commissario alle finanze, dotato di maggiori competenze nell’attuazione delle regole vigenti del Fiscal Compact su bilanci e debiti degli Stati membri.Ci vorrà tempo prima che vengano formate la nuova coalizione politica e la nuova compagine governativa a Berlino, sicché la richiesta di rettifica del bilancio italiano 2018 può slittare e ricadere sul governo che verrà dopo le elezioni politiche. Draghi frattanto continuerà il Qe per tutto il 2017, anche a favore dell’Italia, contrariamente alla richiesta avanzata dalla Germania. Ma poi Draghi sarà sostituito. Senza una politica fiscale europea di investimenti, rivolta a compensare gli effetti deflattivi dello smantellamento del Qe e del rientro dai deficit dei paesi membri, rischiamo di trovarci con una riduzione della crescita del Pil. Dovremo aiutarci da soli, pagando con gli interessi il costo degli errori dei governi marcati Pd dal 2012 a ora.(Francesco Forte, “Immigrati ed economia: la nuova Germania sarà nemica dell’Italia”, da “Il Giornale” del 26 settembre 2017).Saremo noi in Italia a pagare per i risultati del voto in Germania che ha terremotato la coalizione fra popolari della Cdu e i socialdemocratici. È la fine della “ricreazione” di cui abbiamo usufruito con le deroghe sulle regole di bilancio e con la politica monetaria della Bce di Draghi. Il governo che la Merkel farà con i liberali (che con il 10% hanno più che raddoppiato i voti) comporta che essi avranno il ministero delle finanze e applicheranno all’Europa la politica fiscale di rigore di bilancio di cui sono fautori. Lo faranno tramite il “falco” Schäuble della Cdu, che diventerà vicepresidente della Commissione Europea, presidente dell’Eurogruppo e commissario alle finanze. Mario Draghi ha sostenuto ieri che c’è ancora bisogno del Qe, ma la politica di facilitazione quantitativa dovrà fare i conti con Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank candidato a succedergli, che ha detto che non si può porre un veto a un tedesco come a un italiano, alla guida della Bce, e che ritiene pericolosa la sua linea. Va in fumo il progetto di Macron, che vorrebbe una politica di bilancio non rigorista per la Francia e una politica di investimento europeo, mediante i fondi dell’Esm, il meccanismo europeo di stabilità sinora utilizzati solo per il soccorso agli Stati in crisi, in cambio del loro commissariamento.
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Magaldi: Germania fuorilegge, il rimedio verrà dall’Italia
Le elezioni in Germania? Tutto molto prevedibile. Continua la discesa rovinosa dei sedicenti socialdemocratici, capeggiati dal sedicente progressista Schulz, mentre la Merkel – appannata – tiene, ma perde punti. La verità è che tutta la politica è in crisi, perché la Germania non è altro che una locomotiva eterodiretta da poteri che trascendono la Germania stessa e persino le istituzioni europee. Sono poteri di cui ho parlato lungamente nel libro “Massoni” (Ur-Lodges reazionarie, superlogge internazionali e loro emanazioni finanziarie paramassoniche). Sono poteri privati, sovranazionali, che hanno fatto della Germania – e in parte anche della Francia, ultimamente subalterna a Berlino – le locomotive di una gestione neo-feudale, tecnocratica e oligarchica dell’Europa. Questo in Germania ha portato a un eccessivo surplus nelle esportazioni, scandaloso ed eversivo, rispetto alle stesse (brutte) norme europee. Quindi una politica mercantilista della Germania: fuorilegge, rispetto alle leggi Ue che vengono così spesso invocate. Ciò ha causato una compressione persino della domanda interna: in Germania proliferano i cosiddetti “mini-job”, la gran parte della popolazione ha redditi modesti, non ci sono grandi consumi. Tutto ciò per far crescere il sistema-Germania in termini di esportazioni, togliendo quote di mercato ad altre industrie, specie quella italiana.La si voleva distruggere, la nostra industria: il grande economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, denuncia da anni il progetto di deindustrializzazione dell’Italia (parzialmente fallito: l’Italia è in crisi, ma regge). Però in Germania si pensa che tutto vada bene, che sia un paese dove tutti godono a scapito degli altri – perché si vuole alimentare un clima di scontro tra nazioni. E questo perché, dietro, c’è tutto un progetto, per il quale questa falsa Unione Europea ha fomentato nuove rivalità e nuovi nazionalismi. E quello che si vuole realmente è il caos: perché nel caos politico, cioè nell’incapacità di formare maggioranze nette contro opposizioni nette che alimentino una sana dialettica democratica, a guadagnarci sono proprio quei poteri extra-politici che gestiscono bene il caos, favorendo grandi ammucchiate. Non si sa bene chi sta al governo e chi all’opposizione, e quindi si va avanti col “pilota automatico” di cui parlava a suo tempo Mario Draghi. E cioè: per l’Europa c’è un’unica e sola ricetta, quella della mortificazione della classe media in tutti i paesi, della mortificazione del diritto al lavoro, dell’abbassamento dei salari.In più, a questo si aggiunge un’assenza nella politica dell’immigazione, quindi con una concorrenza al ribasso tra i lavoratori europei e questi poveracci che arrivano in grandi masse, grazie anche ad altre operazioni estremamente dubbie, opache, come le false primavere arabe e tutti quegli sconvolgimenti che hanno trasformato il Nordafrica, il Maghreb e il Medio Oriente in punti di partenza di un esodo che poi non viene gestito. Proprio la Germania è il luogo in cui vanno ripristinate alcune regole, se si vuole un’Europa diversa, poco importa se unita sotto un unico governo o formata da nazioni sovrane. La Germania non sta svolgendo il ruolo di leader di un’Europa coesa e convergente sul benessere dei popoli europei. E secondo me, visti i risultati elettorali, non è dalla Germania che partirà la cura. La cura della Germania può partire dall’Italia, perché la Francia è imbalsamata da quell’altro burattino di Macron. Bisogna evitare che in Italia ci sia una fotocopia di quanto accaduto in Germania.Diciamo che la Francia ha proposto, con Macron, un Renzi un po’ più strutturato e più solido – durerà anni, sarà come Hollande o peggio di Hollande, ma con le caratteristiche giovanilistiche di Renzi, quindi da lì non verrà nulla. L’Italia invece è il vero luogo dove si combatte la battaglia per la democrazia. Questo scenario europeo è collegato agli scenari mondiali e a quello mediterraneo: davvero, l’Italia è l’epicentro delle vere battaglie del nostro tempo. La democrazia è questo: piena legittimazione e alternanza tra partiti e coalizioni che hanno idee nettamente diverse, nel rispetto di regole condivise. La presunta ultra-destra tedesca? Lo scenario sembra nuovo, ma è tutto vecchio. Come ogni altra destra “estrema”, anche Afd finirà per puntellare governi di larghe intese. In ogni caso il suo exploit non fa parte della vera agenda politica europea dei prossimi mesi, che invece riguarda quello che sta accadendo nel Regno Unito – non a caso, obiettivo di diversi attentati terroristici a ripetizione – e, ripeto, quello che accade in Italia. Rischio di neo-nazismo in Germania? Non scherziamo. L’egemonia tedesca che si perseguiva allora tramite il nazismo oggi si persegue per altre vie. Esemplare la figura di Hjalmar Schacht, stratega economico-finanziario che passò indenne dalla Repubblica di Weimar al nazismo e poi alla Repubblica Federale Tedesca. Se c’è un ruolo pernicioso della Germania non sarà interpretato da ultra-destre che mai arriveranno al potere, ma da questo consociativismo imperniato sulla Merkel, che si fa grimaldello di “poteri altri”, privati e sovranazionali.(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a David Gramiccioli di “Colors Radio” nella trasmissione “Massoneria On Air” del 25 settembre 2017).Le elezioni in Germania? Tutto molto prevedibile. Continua la discesa rovinosa dei sedicenti socialdemocratici, capeggiati dal sedicente progressista Schulz, mentre la Merkel – appannata – tiene, ma perde punti. La verità è che tutta la politica è in crisi, perché la Germania non è altro che una locomotiva eterodiretta da poteri che trascendono la Germania stessa e persino le istituzioni europee. Sono poteri di cui ho parlato lungamente nel libro “Massoni” (Ur-Lodges reazionarie, superlogge internazionali e loro emanazioni finanziarie paramassoniche). Sono poteri privati, sovranazionali, che hanno fatto della Germania – e in parte anche della Francia, ultimamente subalterna a Berlino – le locomotive di una gestione neo-feudale, tecnocratica e oligarchica dell’Europa. Questo in Germania ha portato a un eccessivo surplus nelle esportazioni, scandaloso ed eversivo, rispetto alle stesse (brutte) norme europee. Quindi una politica mercantilista della Germania: fuorilegge, rispetto alle leggi Ue che vengono così spesso invocate. Ciò ha causato una compressione persino della domanda interna: in Germania proliferano i cosiddetti “mini-job”, la gran parte della popolazione ha redditi modesti, non ci sono grandi consumi. Tutto ciò per far crescere il sistema-Germania in termini di esportazioni, togliendo quote di mercato ad altre industrie, specie quella italiana.
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D’Attorre: per l’euro noi di sinistra dobbiamo chiedere scusa
Bene la discussione scientifica sui problemi dell’uscita, ma riconoscendo due cose: la moneta unica ci impoverisce ed è incompatibile con la Costituzione. Il dibattito sul futuro dell’euro che si è aperto recentemente fra intellettuali e economisti di sinistra sulle colonne di diversi giornali, tra i quali il “Fatto Quotidiano”, è una novità positiva. Per chi si professa progressista non dovrebbero esistere tabù, e invece l’intangibilità della moneta unica ha rappresentato a sinistra, tranne isolate eccezioni, una sorta di articolo di fede, sottratto al vaglio empirico e a una laica valutazione dei costi e dei benefici. Un confronto più razionale sulla sostenibilità economica dell’euro e sulle conseguenze del suo eventuale superamento può aiutare ad aprire un’altra discussione urgente nel campo del centrosinistra, a maggior ragione se si porrà l’esigenza di una sua riorganizzazione politica e programmatica dopo la sconfitta di Renzi nel referendum costituzionale. Il punto è semplice: può un qualsiasi schieramento progressista riproporsi credibilmente alla guida del paese senza fare un bilancio onesto degli effetti sulla società italiana della scelta più importante che il centrosinistra ha compiuto nell’ultimo ventennio, ossia l’adesione incondizionata al vincolo esterno europeo e al progetto dell’euro?Se gli economisti discutono sulla praticabilità di un’uscita dalla moneta unica, su altri due punti la discussione scientifica è chiusa, nel senso che le evidenze empiriche conducono univocamente nella stessa direzione: Primo: l’euro è stato costruito in una maniera radicalmente sbagliata, funzionale solo agli interessi della Germania e dei suoi satelliti, ha enormemente accresciuto la divergenza e l’ostilità tra i popoli europei e si è rivelato incompatibile con una logica di sana cooperazione politica ed economica su base paritaria fra i diversi Stati. Secondo: l’Italia è uno dei paesi per i quali la scelta dell’euro ha prodotto gli effetti più negativi. Basta prendere in considerazione un qualsiasi grafico che illustri comparativamente l’andamento della produttività, della bilancia commerciale, del reddito pro capite o del Pil fra Italia e Germania prima e dopo l’introduzione della moneta unica per aver un quadro impressionante. Si pensi solo al fatto che ancora nel 2015 l’Italia era l’unico paese dell’Eurozona, Grecia compresa, in cui il livello del Pil pro capite rimaneva inferiore a quello del 1999, l’anno in cui siamo stati ammessi nella moneta unica e sono stati fissati i cambi tra le diverse valute nazionali.Di fronte all’evidenza di tale disastro economico e sociale, a cui vanno aggiunti gli effetti sulla qualità della nostra democrazia, le forze progressiste dovrebbero riconoscere apertamente l’errore storico compiuto nell’appoggiare un progetto fallimentare e, ciascuna per la propria parte di responsabilità, chiedere scusa agli italiani. Si tratterebbe, a mio avviso, di un atto politico in grado di riaprire un rapporto con settori della società italiana un tempo vicini alla sinistra e che oggi rischiano di essere consegnati irreversibilmente alla destra xenofoba o all’avventurismo del M5S. L’altra riflessione che si dovrebbe aprire fra gli intellettuali e i politici progressisti, specie tra quelli più impegnati per il No al referendum, riguarda il rapporto fra euro e Costituzione repubblicana. Se si fa della battaglia referendaria la strada non solo per sconfiggere il renzismo, ma per restituire alla Costituzione il ruolo di bussola fondamentale dello sviluppo del paese, è arrivato il tempo di interrogarsi sulla compatibilità fra il progetto di società tracciato dalla Carta costituzionale e quello contenuto nei Trattati europei, su cui il funzionamento della moneta unica si regge.Le famigerate “riforme strutturali” richieste dall’Europa in materia di lavoro, pensioni, sanità, istruzione, risparmio non sono un accidente della storia, ma la diretta conseguenza di un modello economico chiaramente alternativo a quello disegnato nella prima parte della nostra Costituzione e strettamente funzionale al mantenimento della moneta unica. Decine di studi hanno ormai chiarito che per le economie della periferia dell’Eurozona l’austerità, gli alti livelli di disoccupazione e la conseguente deflazione salariale non sono una condizione transitoria legata a una fase di crisi, ma il presupposto per mantenere le economie di quei paesi su una linea di galleggiamento dentro la moneta unica, in una situazione in cui essi hanno rinunciato al controllo della leva fiscale e di quella monetaria.Se non si riconoscono questi dati di realtà, protestare contro la svalutazione del lavoro o invocare il ritorno a un livello di investimenti pubblici incompatibili con i vincoli finanziari della moneta unica significa semplicemente abbaiare alla luna. Per quanto possa considerare difficile e rischiosa l’uscita dalla moneta unica, la sinistra non può più permettersi di considerare l’euro un Moloch sovraordinato rispetto ai principi costituzionali. Se la vittoria del No al referendum impedirà un ulteriore svuotamento della sovranità democratica nazionale a vantaggio dei poteri tecnocratici europei e rimetterà al centro della politica italiana la Costituzione a tutto tondo, bisognerà mettere in atto una strategia di resistenza costituzionale rispetto a ogni ulteriore trasformazione economica, sociale e democratica imposta dalla logica di funzionamento della moneta unica. Prendere di nuovo sul serio la Costituzione potrà difendere gli italiani dalle conseguenze dell’euro molto più di quanto abbia fatto la classe politica di destra o di sinistra nell’ultimo ventennio.(Alfredo D’Attorre, “Noi di sinistra dobbiamo chiedere scusa per l’euro”, dal “Fatto Quotidiano” del 26 ottobre 2016, articolo ripreso da “Sinistra Lavoro”).Bene la discussione scientifica sui problemi dell’uscita, ma riconoscendo due cose: la moneta unica ci impoverisce ed è incompatibile con la Costituzione. Il dibattito sul futuro dell’euro che si è aperto recentemente fra intellettuali e economisti di sinistra sulle colonne di diversi giornali, tra i quali il “Fatto Quotidiano”, è una novità positiva. Per chi si professa progressista non dovrebbero esistere tabù, e invece l’intangibilità della moneta unica ha rappresentato a sinistra, tranne isolate eccezioni, una sorta di articolo di fede, sottratto al vaglio empirico e a una laica valutazione dei costi e dei benefici. Un confronto più razionale sulla sostenibilità economica dell’euro e sulle conseguenze del suo eventuale superamento può aiutare ad aprire un’altra discussione urgente nel campo del centrosinistra, a maggior ragione se si porrà l’esigenza di una sua riorganizzazione politica e programmatica dopo la sconfitta di Renzi nel referendum costituzionale. Il punto è semplice: può un qualsiasi schieramento progressista riproporsi credibilmente alla guida del paese senza fare un bilancio onesto degli effetti sulla società italiana della scelta più importante che il centrosinistra ha compiuto nell’ultimo ventennio, ossia l’adesione incondizionata al vincolo esterno europeo e al progetto dell’euro?
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Sankara: basta rapinare l’Africa, col debito. E lo uccisero
Noi pensiamo che il debito si analizzi prima di tutto dalla sua origine. Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano i nostri Stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali, che erano i loro fratelli e cugini. Noi non c’entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo. Il debito è ancora il neocolonialismo, con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici – anzi, dovremmo invece dire “assassini tecnici”. Sono loro che ci hanno proposto dei canali di finanziamento, dei “finanziatori”. Un termine che si usa ogni giorno, come se ci fossero degli uomini che solo “sbadigliando” possono creare lo sviluppo degli altri. Questi finanziatori ci sono stati consigliati, raccomandati. Ci hanno presentato dei dossier e dei movimenti finanziari allettanti. Noi ci siamo indebitati per cinquant’anni, sessant’anni e più. Cioè siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per cinquant’anni e più.Il debito nella sua forma attuale, controllata e dominata dall’imperialismo, è una riconquista dell’Africa sapientemente organizzata, in modo che la sua crescita e il suo sviluppo obbediscano a delle norme che ci sono completamente estranee. In modo che ognuno di noi diventi schiavo finanziario, cioè schiavo tout court, di quelli che hanno avuto l’opportunità, l’intelligenza, la furbizia, di investire da noi con l’obbligo di rimborso. Ci dicono di rimborsare il debito. Non è un problema morale. Rimborsare o non rimborsare non è un problema di onore. Abbiamo prima ascoltato e applaudito il primo ministro della Norvegia, intervenuta qui. Ha detto, lei che è un’europea, che il debito non può essere rimborsato tutto. Il debito non può essere rimborsato prima di tutto perché se noi non paghiamo, i nostri finanziatori non moriranno, siamone sicuri. Invece se paghiamo, saremo noi a morire, ne siamo ugualmente sicuri. Quelli che ci hanno condotti all’indebitamento hanno giocato come al casinò. Finché guadagnavano non c’era nessun problema; ora che perdono al gioco esigono il rimborso. E si parla di crisi. No, signor presidente. Hanno giocato, hanno perduto, è la regola del gioco. E la vita continua.Non possiamo rimborsare il debito perché non abbiamo di che pagare. Non possiamo rimborsare il debito perché non siamo responsabili del debito. Non possiamo pagare il debito perché, al contrario, gli altri ci devono ciò che le più grandi ricchezze non potranno mai ripagare: il debito del sangue. E’ il nostro sangue che è stato versato. Si parla del Piano Marshall che ha rifatto l’Europa economica. Ma non si parla mai del Piano africano che ha permesso all’Europa di far fronte alle orde hitleriane quando la sua economia e la sua stabilità erano minacciate. Chi ha salvato l’Europa? E’ stata l’Africa. Se ne parla molto poco. Così poco che noi non possiamo essere complici di questo silenzio ingrato. Se gli altri non possono cantare le nostre lodi, noi abbiamo almeno il dovere di dire che i nostri padri furono coraggiosi e che i nostri combattenti hanno salvato l’Europa e alla fine hanno permesso al mondo di sbarazzarsi del nazismo.Il debito è anche conseguenza degli scontri. Quando ci parlano di crisi economica, dimenticano di dirci che la crisi non è venuta all’improvviso. La crisi è sempre esistita e si aggraverà ogni volta che le masse popolari diventeranno più coscienti dei loro diritti di fronte allo sfruttatore. Oggi c’è crisi perché le masse rifiutano che le ricchezze siano concentrate nelle mani di pochi individi. C’è crisi perché pochi individui depositano nelle banche estere delle somme colossali che basterebbero a sviluppare l’Africa intera. C’è crisi perché di fronte a queste ricchezze individuali, che hanno nomi e cognomi, le masse popolari si rifiutano di vivere nei ghetti e nei bassifondi. C’è crisi perché i popoli rifiutano dappertutto di essere dentro una Soweto di fronte a Johannesburg. C’è quindi lotta, e l’esacerbazione di questa lotta preoccupa chi ha il potere finanziario.Ci si chiede oggi di essere complici della ricerca di un equilibrio. Equilibrio a favore di chi ha il potere finanziario. Equilibrio a scapito delle nostre masse popolari. No! Non possiamo essere complici. Non possiamo accompagnare quelli che succhiano il sangue dei nostri popoli e vivono del sudore dei nostri popoli nelle loro azioni assassine. Signor presidente, sentiamo parlare di club – Club di Roma, Club di Parigi, Club di dappertutto. Sentiamo parlare del Gruppo dei Cinque, dei Sette, del Gruppo dei Dieci, forse del Gruppo dei Cento o che so io. E’ normale allora che anche noi creiamo il nostro club e il nostro gruppo. Facciamo in modo che a partire da oggi anche Addis Abeba diventi la sede, il centro da cui partirà il vento nuovo del Club di Addis Abeba. Abbiamo il dovere di creare oggi il fronte unito di Addis Abeba contro il debito. E’ solo così che potremo dire, oggi, che rifiutando di pagare non abbiamo intenzioni bellicose ma, al contrario, intenzioni fraterne.Del resto, le masse popolari in Europa non sono contro le masse popolari in Africa. Ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo un nemico comune. Quindi il club di Addis Abeba dovrà dire agli uni e agli altri che il debito non sarà pagato. Quando diciamo che il debito non sarà pagato non vuol dire che siamo contro la morale, la dignità, il rispetto della parola. Noi pensiamo di non avere la stessa morale degli altri. Tra il ricco e il povero non c’è la stessa morale. La Bibbia, il Corano, non possono servire nello stesso modo chi sfrutta il popolo e chi è sfruttato. C’è bisogno che ci siano due edizioni della Bibbia e due edizioni del Corano. Non possiamo accettare che ci parlino di dignità. Non possiamo accettare che ci parlino di merito per quelli che pagano, e perdita di fiducia per quelli che non dovessero pagare. Noi dobbiamo dire, al contrario, che oggi è normale si preferisca riconoscere come i più grandi ladri siano i più ricchi.Un povero, quando ruba, non commette che un peccatucolo per sopravvivere e per necessità. I ricchi sono quelli che rubano al fisco, alle dogane. Sono quelli che sfruttano il popolo. Signor presidente, non è quindi provocazione o spettacolo. Dico solo ciò che ognuno di noi pensa e vorrebbe. Chi non vorrebbe, qui, che il debito fosse semplicemente cancellato? Quelli che non lo vogliono possono subito uscire, prendere il loro aereo e andare dritti alla Banca Mondiale a pagare! Non vorrei poi che si prendesse la proposta del Burkina Faso come fatta da “giovani”, senza maturità ed esperienza. Non vorrei neanche che si pensasse che solo i rivoluzionari parlano in questo modo. Vorrei semplicemente che si ammettesse che è una cosa oggettiva, un fatto dovuto. E posso citare, tra quelli che dicono di non pagare il debito, dei rivoluzionari e non, dei giovani e degli anziani. Per esempio Fidel Castro ha già detto di non pagare. Non ha la mia età, anche se è un rivoluzionario. Ma posso citare anche François Mitterrand, che ha detto che i paesi africani non possono pagare, i paesi poveri non possono pagare. Posso citare la signora primo ministro di Norvegia. Non conosco la sua età e mi dispiacerebbe chiederglielo, è solo un esempio.Vorrei anche citare il presidente Félix Houphouët Boigny. Non ha la mia età, eppure ha dichiarato pubblicamente che, quanto al suo paese, la Costa d’Avorio, non può pagare. Ma la Costa d’Avorio è tra i paesi che stanno meglio in Africa, almeno nell’Africa francofona. E per questo, d’altronde, è normale che paghi un contributo maggiore, qui. Signor presidente, la mia non è quindi una provocazione. Vorrei che molto saggiamente lei ci offrisse delle soluzioni. Vorrei che la nostra conferenza adottasse la risoluzione di dire chiaramente che noi non possiamo pagare il debito. Non in uno spirito bellicoso, bellico. Questo per evitare di farci assassinare individualmente. Se il Burkina Faso da solo rifiuta di pagare il debito, io non sarò qui alla prossima conferenza! Invece, col sostegno di tutti, di cui ho molto bisogno, col sostegno di tutti potremo evitare di pagare. Ed evitando di pagare potremo consacrare le nostre magre risorse al nostro sviluppo.E vorrei terminare dicendo che ogni volta che un paese africano compra un’arma, è contro un africano. Non contro un europeo, non contro un asiatico. E’ contro un africano. Perciò dobbiamo, anche sulla scia della risoluzione sul problema del debito, trovare una soluzione al problema delle armi. Sono militare e porto un’arma. Ma, signor presidente, vorrei che ci disarmassimo. Perché io porto l’unica arma che possiedo. Altri hanno nascosto le armi che pure portano. Allora, cari fratelli, col sostegno di tutti, potremo fare la pace a casa nostra. Potremo anche usare le sue immense potenzialità per sviluppare l’Africa, perché il nostro suolo e il nostro sottosuolo sono ricchi. Abbiamo abbastanza braccia e un mercato immenso, da Nord a Sud, da Est a Ovest. Abbiamo abbastanza capacità intellettuali per creare, o almeno prendere la tecnologia e la scienza in ogni luogo dove si trovano.Signor presidente, facciamo in modo di realizzare questo fronte unito di Addis Abeba contro il debito. Facciamo in modo che, a partire da Addis Abeba, decidiamo di limitare la corsa agli armamenti tra paesi deboli e poveri. I manganelli e i machete che compriamo sono inutili. Facciamo in modo che il mercato africano sia il mercato degli africani. Produrre in Africa, trasformare in Africa, consumare in Africa. Produciamo quello di cui abbiamo bisogno e consumiamo quello che produciamo, invece di importarlo. Il Burkina Faso è venuto a mostrare qui la cotonella, prodotta in Burkina Faso, tessuta in Burkina Faso, cucita in Burkina Faso per vestire i burkinabé. La mia delegazione e io stesso siamo vestiti dai nostri tessitori, dai nostri contadini. Non c’è un solo filo che venga d’Europa o d’America. Non faccio una sfilata di moda, ma vorrei semplicemente dire che dobbiamo accettare di vivere africano. E’ il solo modo di vivere liberi e degni.(Thomas Sankara, estratto dal “discorso sul debito” pronunciato al vertice panafricano di Addis Abeba, Etiopia, il 29 luglio 1987. Un anno dopo, il 28 ottobre, Sankara verrà assassinato a Ouagadougu, capitale del Burkina Faso, che quattro anni prima aveva liberato, con la sua rivoluzione, dal colonialismo francese. Il presidente dell’Organizzazione per l’Unità Africana, cui Sankara si rivolge nel discorso, è il congolese Denis Sassou-Nguesso, mentre la citata premier norvegese è Gro Harlem Brundtland, progressista e ambientalista. Riletto oggi, il celebre discorso di Sankara – martire socialista della sovranità democratica dell’Africa – è particolarmente illuminante, di fronte alla tragedia quotidiana dell’esodo dei migranti africani).Noi pensiamo che il debito si analizzi prima di tutto dalla sua origine. Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano i nostri Stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali, che erano i loro fratelli e cugini. Noi non c’entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo. Il debito è ancora il neocolonialismo, con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici – anzi, dovremmo invece dire “assassini tecnici”. Sono loro che ci hanno proposto dei canali di finanziamento, dei “finanziatori”. Un termine che si usa ogni giorno, come se ci fossero degli uomini che solo “sbadigliando” possono creare lo sviluppo degli altri. Questi finanziatori ci sono stati consigliati, raccomandati. Ci hanno presentato dei dossier e dei movimenti finanziari allettanti. Noi ci siamo indebitati per cinquant’anni, sessant’anni e più. Cioè siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per cinquant’anni e più.
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Se il popolo di Vasco marciasse contro il governo zootecnico
Accorrono in 220.000 al concerto oceanico di Vasco, ma nessuno che muova un dito contro il “governo zootecnico mondiale”, ovvero «la riduzione del cittadino a pollame». Maurizio Blondet commenta così l’ultimo lavoro editoriale dell’avvocato Marco Della Luna, “Oltre l’agonia”, ovvero “Come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari” (Arianna Editrice). I giovani ipnotizzati dal Blasco? «Dico: pensate se fossero capaci di farlo per uno scopo politico. Se arrivassero in 220.000 a Roma, una volta, per protestare contro la sottrazione di diritti come cittadini, lavoratori, elettori. Che so, contro le vaccinazioni come inaudita “pretesa dello Stato, giuridicamente obbligatoria, di metterci dentro sostanze di cui non sappiamo la composizione”, manco fossimo animali», oppure «contro l’immigrazione senza limiti al costo di 4,5 miliardi l’anno, mentre “in Italia gli indigenti sono passati in 5 anni da 1,5 e 4 milioni”». Si potrebbe protestare, «per un insieme di scelte politico-economiche “assurde”, ostinatamente imposte dalle oligarchie nonostante i “risultati rovinosi”, il che “non può essere accidentale ma il prodotto di un sistema progettato, implementato e difeso”».Bisognerebbe «gridare che le mitiche speranze dell’europeismo sono state tradite», e che «nel mondo reale, il liberismo di mercato non ha gli effetti promessi dal modello ideale, ossia che il mercato non è “libero” ma gestito da cartelli: non tende a evitare o assorbire le crisi, ma le genera e amplifica», onde «non a distribuire le risorse, ma concentrarle in mano a pochi monopolisti». E’ un sistema che «dissolve la società invece di renderla più efficiente», anzi «dissolve l’idea stessa dell’uomo», scrive Della Luna. «Se i giovani per una volta dormissero all’addiaccio, pagassero i trasporti verso Roma, si comportassero per qualche giorno da soldati politici – dice Blondet nel suo blog – farebbero paura al governo che ci è stato imposto dalla Banca Centrale e da Bruxelles, ai parlamentari che dipendono dalle lobbies e comitati d’affari, e che hanno svenduto l’Italia, le sue industrie e la sua sovranità agli interessi stranieri». Della Luna, annota Blondet, è stato «il primo in Italia ad avvertirci che il capitalismo terminale globale fa soldi non più producendo merci ma bolle finanziarie per poi farle scoppiare: non ha più bisogno di lavoratori, produttori, operai, eserciti di massa – né quindi di mantenere sani, efficienti, istruiti, men che meno prosperi e soddisfatti i popoli». Non servono più, i popoli, e neppure i consumatori (risale infatti al 2010 il suo saggio “Oligarchie per popoli superflui”).In questo nuovo saggio, Della Luna ci avverte che il sistema è entrato in una fase ulteriore e più letale, anti-umana. Ormai persino il profitto finanziario «ha perso importanza, sia come scopo che come mezzo». Basta ricordare «le migliaia di miliardi che le banche centrali (appartenenti alla finanza privata) creano dal nulla per mantenere a galla il sistema, mettendoli a disposizione di chi comanda in misura illimitata». E il denaro creato dal nulla «genera un flusso di cassa positivo, ossia un reddito, che la banca incassa, ma su cui non paga le tasse», perché a pagare sono i contribuenti. Della Luna giunge a preconizzare perfino «il tramonto della finanza», inteso come «sistema di dominio della società». Un tramonto che però non coinciderà con la nostra liberazione: è già in arrivo «il dominio diretto e materiale sulla società», attraverso la «gestione coercitiva del demos, potente e unilaterale, e insieme non responsabile delle scelte verso i suoi amministrati». Questo nuovo potere, «non diversamente dalla zootecnia», non è responsabile verso gli animali che “alleva”, cioè noi. Governo zootecnico: «L’allevamento-condizionamento di masse umane per l’utilità degli allevatori». Già lo fanno per via mediatica, «restringendo e omogeneizzando le rappresentazioni che gli umani hanno della realtà».Di fatto, continua Della Luna, stanno già «tabuizzando e psichiatrizzando il dissenso e la contro-informazione», fino a renderla penalmente perseguibile. Lo fanno con “la Buona Scuola”, l’attuale sistema educativo congegnato in modo da non sviluppare facoltà cognitive, né l’attenzione sostenuta, né la capacità di auto-dominio: è il metodo perfetto per «produrre persone deboli, dipendenti, condizionabili, incapaci di opporsi». Non si tratta di risultati fallimentari e ideologie erronee. Al contrario, dice Della Luna: sono effetti perseguiti deliberatamente per «semplificare» l’uomo, standardizzandolo in vista dell’allevamento zootecnico. «Impressionante – aggiunge Blondet – è l’esempio che fa della scomparsa della borghesia produttiva, culturalmente vivace e reattiva, rovinata dalle crisi deflattive continue e dal fisco rapacissimo». Non è un caso malaugurato. E’ che «la piramide sociale va interrotta lasciando uno spazio vuoto sotto il suo apice», il famigerato 1% che concentra l’80% delle ricchezze, «così che l’apice sia al sicuro dalle scalate (mobilità verticale) e dagli attacchi delle classi intermedie erudite».L’obiettivo del vertice è «realizzare tra l’oligarchia e i popoli la medesima distanza e differenziazione qualitativa che c’è tra l’allevatore e gli animali allevati», secondo il modello zootecnico. «Nella chiave del governo zootecnico – scrive Blondet – diventano perfettamente spiegabili la plurivaccinazione obbligatoria dei cuccioli», cioè bambini. Se fossimo cittadini, e non polli d’allevamento, dovremmo rifiutare «la potestà giuridica di immettere nel corpo della gente sostanze attive», fra cui quelle basate su nanotecnologie e biotecnologie, «e molte di esse coperte da segreto militare o commerciale», rileva Della Luna. Sempre nella prospettiva dell’allevamento zootecnico acquista senso anche «il dogma dell’accoglienza e della mescolanza dei popoli», imposto come «evidente, dimostrato», presentando chi li contraddice come «irragionevole, malintenzionato, pericoloso, immorale». La verità è che, oltre ad essere in Italia un business, il «circuito dell’affarismo parassitario» che succhia denaro pubblico, il “dogma” pro-migranti «ha perfettamente senso dal punto di vista dell’allevatore: la trasformazione dall’alto del popolo, il popolo-bestiame, imponendo l’immigrazione sostitutiva delle popolazioni nazionali» nello stesso modo in cui l’allevatore inserisce nella stalla nuovi tori e nuove fattrici, per “migliorare la razza”.L’immigrazione caotica è anti-economica, diminuisce l’efficienza della società e costa moltissimo? Infatti, conferma l’autore: ciò dimostra che «la comprensione economicistica del divenire attuale è palesemente scavalcata». Quando la casta politica-amministrativa «lascia senza tetto e senza cibo i cittadini italiani mentre alloggia gli immigrati in alberghi a tre e quattro stelle», scrive Della Luna, quel che attua è «l’annullamento programmatico del concetto di cittadino come titolare di diritti specifici verso la sua polis», cioè «l’annullamento del “demos”, ossia del “popolo” come entità politica, padrona collettivamente delle proprie scelte». Un modello che «non implica affatto pace, sicurezza, efficienza per le popolazioni, esattamente come non le implica il modello zootecnico». Per gli allevatori, gli animali allevati «sono solo fonte di utilità; non hanno diritti né dignità riconosciuta». Dalla robotizzazione dell’industria all’elemosina elettorale degli 80 euro di Renzi: «La mancanza di redditi e servizi sicuri, la dipendenza da interventi anno per anno, rende queste masse sempre più passive, remissive», dunque «politicamente inattive». Ecco lo scopo.Se infatti il “capitalismo finanziario terminale” tende a «togliere alla gente tutto il reddito e tutti i risparmi disponibili», facendo passare a tutti la voglia di pagare le tasse, “lorsignori” sanno come scongiurare la possibile rivolta: «Contrariamente a quel che fa credere la narrativa hollywoodiana – scrive Blondet – le rivoluzioni non le fanno gli affamati», in coda alle mense della Caritas, ma «le classi emergenti nella prosperità», pronte a reclamare diritti politici. «Quelli con la pancia vuota sono passivi e remissivi, aspettano il bonus da 80 euro; i giovani passano da un precariato all’altro e non avranno mai una pensione sufficiente a farli sopravvivere: dunque pietiranno dallo Stato interventi, che saranno anno per anno, incerti, caritativi». Siamo ormai al “precariato ontologico”, lo stato nel quale puntano a ridurci come condizione naturale. La precarietà «assunta a paradigma normativo» ormai è la condizione standard dei giovani: uno “stipendio” da 450 euro al mese o, in alternativa, l’emigrazione in Nord Europa. «Siete già precari ontologici?», conclude Blondet, rivolgendosi ai giovani. «Per Vasco l’avete fatta, la marcia su Modena. Ne rifarete un’altra per rifiutare il governo zootecnico?».Accorrono in 220.000 al concerto oceanico di Vasco, ma nessuno che muova un dito contro il “governo zootecnico mondiale”, ovvero «la riduzione del cittadino a pollame». Maurizio Blondet commenta così l’ultimo lavoro editoriale dell’avvocato Marco Della Luna, “Oltre l’agonia”, ovvero “Come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari” (Arianna Editrice). I giovani ipnotizzati dal Blasco? «Dico: pensate se fossero capaci di farlo per uno scopo politico. Se arrivassero in 220.000 a Roma, una volta, per protestare contro la sottrazione di diritti come cittadini, lavoratori, elettori. Che so, contro le vaccinazioni come inaudita “pretesa dello Stato, giuridicamente obbligatoria, di metterci dentro sostanze di cui non sappiamo la composizione”, manco fossimo animali», oppure «contro l’immigrazione senza limiti al costo di 4,5 miliardi l’anno, mentre “in Italia gli indigenti sono passati in 5 anni da 1,5 e 4 milioni”». Si potrebbe protestare, «per un insieme di scelte politico-economiche “assurde”, ostinatamente imposte dalle oligarchie nonostante i “risultati rovinosi”, il che “non può essere accidentale ma il prodotto di un sistema progettato, implementato e difeso”».
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Oltre l’agonia: potere totalitario, ma non vincerà per sempre
«Quando saremo completamente sottomessi, non ci renderemo neanche più conto di avere perduto la nostra dignità». Eppure, i grandi poteri non riusciranno a piegarci: nel suo ultimo saggio, “Oltre l’agonia”, Marco Della Luna spiega «come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari». Avvocato, Della Luna esercita da anni la professione forense. Laureato in psicologia a Padova, è un attento studioso degli strumenti psicologici, economici e giuridici di dominazione sociale. Collabora con riviste come “Tema”, “Il Consapevole”, “Nexus”, “Il Popolo”. Tra i suoi volumi più recenti, “Euroschiavi”, “Polli da Spennare”, “Basta con questa Italia”. «Il capitalismo finanziario – afferma – sta diventando sempre più un potere politico assoluto e totalitario», dal momento che «oltre a trasformare l’uomo in merce, degrada la società in due maniere: le infligge ricorrenti crisi e riduce tutti a sudditi senza diritti». Con il pretesto di dover rassicurare i “mercati”, questo super-potere invisibile «giustifica il controllo sociale attraverso nuovi mezzi elettronici e organici che tracciano e violano l’uomo con tecniche di manipolazione neurale e biologica, applicando gli strumenti della psicologia aziendale».Prima di spingere lo sguardo “oltre l’agonia”, Della Luna punta al cuore di tenebra del mostro che sta sfigurando l’Italia, mezza Europa e il resto del mondo: «Con il pretesto di dover assicurare a tutti i costi la governance richiesta dagli stessi mercati che hanno destabilizzato la società», il neo-totalitarismo finanziario «crea la giustificazione per controllare la vita sociale attraverso nuovi strumenti elettronici e biologici, che tracciano, violano e manipolano l’uomo fin nella sua integrità neurofisiologica». Socché, questa “società gestita”, pilotata dall’alto, «è il risultato dell’applicazione degli strumenti della psicologia aziendale», potenziati con tecniche di manipolazione derivati dalle neuroscienze. Questa raffinata tecnologia «ha dato ai governanti non solo un potere di controllo e intervento su tutti noi prima impensabile, ma anche una nuova struttura del potere stesso». Una struttura «delocalizzata e politicamente irresponsabile, in cui l’automazione e la smaterializzazione degli strumenti di governo e di arricchimento hanno privato le persone del potere di contrattazione e della partecipazione ai processi decisionali, relegandole al margine dei circuiti produttivi e decisionali».Questo processo ha generato «un ordine contrario ai bisogni dell’uomo e della biosfera, cementato da un catechismo ideologico “politicamente corretto” che criminalizza, censura e inibisce chi ne critica i fondamenti». Di fatto, «siamo piegati dalle crisi incalzanti e dalle loro imposizioni, e così accettiamo che la sopravvivenza del sistema produttivo da cui dipendiamo necessiti di un maggior controllo sociale, di una crescente riduzione delle sicurezze personali, delle relazioni comunitarie e delle libertà». Il capitalismo finanziario, poi, «alimenta il falso dogma della scarsità della moneta e sta diventando sempre più una guida politica assoluta». Oltre a mercificare l’uomo, questo super-potere apolide «disgrega e degrada la società in due maniere: le infligge ricorrenti crisi e dissolve le sue basi morali in una logica di competizione individualistica». Nel libro, Della Luna descrive questo minaccioso passaggio epocale, in cui l’umanità sta rischiando tutto. Per contro, l’autore indica una possibile via di uscita dall’incombente dominio tecnocratico: risiede, per forza di cose, «nella stessa insondabile e incoercibile complessità del mondo, della psiche, dell’Essere».(Il libro: Marco Della Luna, “Oltre l’agonia. Come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari”, Arianna Editrice, 160 pagine, euro 9,80).«Quando saremo completamente sottomessi, non ci renderemo neanche più conto di avere perduto la nostra dignità». Eppure, i grandi poteri non riusciranno a piegarci: nel suo ultimo saggio, “Oltre l’agonia”, Marco Della Luna spiega «come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari». Avvocato, Della Luna esercita da anni la professione forense. Laureato in psicologia a Padova, è un attento studioso degli strumenti psicologici, economici e giuridici di dominazione sociale. Collabora con riviste come “Tema”, “Il Consapevole”, “Nexus”, “Il Popolo”. Tra i suoi volumi più recenti, “Euroschiavi”, “Polli da Spennare”, “Basta con questa Italia”. «Il capitalismo finanziario – afferma – sta diventando sempre più un potere politico assoluto e totalitario», dal momento che «oltre a trasformare l’uomo in merce, degrada la società in due maniere: le infligge ricorrenti crisi e riduce tutti a sudditi senza diritti». Con il pretesto di dover rassicurare i “mercati”, questo super-potere invisibile «giustifica il controllo sociale attraverso nuovi mezzi elettronici e organici che tracciano e violano l’uomo con tecniche di manipolazione neurale e biologica, applicando gli strumenti della psicologia aziendale».
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La tragedia greca dei salari: vivere con 260 euro al mese
L’alta disoccupazione nella Grecia colpita dall’austerity deprime salari e stipendi. Gli imprenditori vogliono spendere quanto meno possibile in salari, e i lavoratori sono costretti a scendere a compromessi che erano impensabili prima della crisi. Si accetta un posto di lavoro a qualsiasi prezzo, non importa quanto sia basso. Il settore imprenditoriale privato in Grecia ignora spudoratamente le leggi sul lavoro e offre una manciata di noccioline con l’ultimatum “prendere o lasciare”. Un ricatto che i lavoratori disperati non possono rifiutare. Nessuna sorpresa. I dati basati sulle dichiarazioni dei redditi del 2017 relativi all’anno fiscale 2016 mostrano quale sia l’attuale condizione di stipendi e salari nel settore privato greco. Sono spaventosamente bassi, specialmente se si tiene conto del costo della vita nel paese. I dati non rivelano comunque le condizioni di lavoro, se siano lavori a tempo pieno, part time o a turni. I giovani lavoratori sotto 20 anni di età non guadagnano più di 260 euro netti al mese. I lavoratori a 24 anni di età svolgono lavori a tempo pieno per una media di 380 euro netti al mese. I lavoratori fino a trent’anni guadagnano in media 509 euro, e quelli fino a 34 non portano a casa più di 660 euro.La maggiore diminuzione degli stipendi, tra -42% e -25%, colpisce i lavoratori giovani e quelli nell’età più produttiva, cioè i trentenni e i quarantenni. I lavoratori trentenni di solito progettano di formare una famiglia, e quelli verso i 40 e oltre spesso hanno già delle famiglie e dei figli. Hanno quindi da gestire impegni economici maggiori con redditi che diminuiscono. Ci sono 548.000 lavoratori nella fascia di età 40-49 anni. I lavoratori registrati over 50 sono 335.000. Prima della crisi molti di loro guadagnavano più di 1.600 euro lordi al mese. Nel 2012 i salari minimi sono diminuiti da 780 a 580 euro lordi per i lavoratori sopra i 25 anni e sono diminuiti a 510 euro lordi per i lavoratori tra i 15 e i 24 anni. Secondo lo stesso Dataset, le pensioni medie sono diminuite del 13,96% tra il 2012 e il 2016. Nel periodo 2010-2017 le pensioni di base e integrative sono state tagliate 14 volte.Negli ultimi mesi il tasso di disoccupazione è sceso a causa dei lavori stagionali nel settore turistico. Nell’aprile 2017 il tasso di disoccupazione in Grecia era il 21,7% ed è tuttora il più alto dell’Unione Europea. Seconda viene la Spagna, con una disoccupazione al 17,1%. Tuttavia, secondo l’Unione dei Lavoratori nel Turismo e nella Ristorazione, gli imprenditori pongono l’enfasi sull’ingaggio di lavoratori giovani, fino a 25 anni di età, grazie ai loro minori salari. I salari in questo settore per questo gruppo di età sono di 510 euro al mese lordi per un lavoro a tempo pieno, che diventano 410 euro netti dopo aver scalato tasse e contributi previdenziali. Questa tendenza, che i media greci descrivono come “la cattiva cultura degli imprenditori”, impedisce la firma di contratti collettivi che permetterebbero di ingaggiare lavoratori più anziani, con più anni di esperienza e conseguentemente salari più alti.(“La tragedia greca dei salari: la generazione dei 265 euro al mese”, report di “Keep Talking Greece”, 1° agosto 2017, ripreso da “Voci dall’Estero”).L’alta disoccupazione nella Grecia colpita dall’austerity deprime salari e stipendi. Gli imprenditori vogliono spendere quanto meno possibile in salari, e i lavoratori sono costretti a scendere a compromessi che erano impensabili prima della crisi. Si accetta un posto di lavoro a qualsiasi prezzo, non importa quanto sia basso. Il settore imprenditoriale privato in Grecia ignora spudoratamente le leggi sul lavoro e offre una manciata di noccioline con l’ultimatum “prendere o lasciare”. Un ricatto che i lavoratori disperati non possono rifiutare. Nessuna sorpresa. I dati basati sulle dichiarazioni dei redditi del 2017 relativi all’anno fiscale 2016 mostrano quale sia l’attuale condizione di stipendi e salari nel settore privato greco. Sono spaventosamente bassi, specialmente se si tiene conto del costo della vita nel paese. I dati non rivelano comunque le condizioni di lavoro, se siano lavori a tempo pieno, part time o a turni. I giovani lavoratori sotto 20 anni di età non guadagnano più di 260 euro netti al mese. I lavoratori a 24 anni di età svolgono lavori a tempo pieno per una media di 380 euro netti al mese. I lavoratori fino a trent’anni guadagnano in media 509 euro, e quelli fino a 34 non portano a casa più di 660 euro.
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Gli strateghi del Brexit hanno ingannato chi ha votato Brexit
Credo che una delle più grandi doti di un politico sia l’onestà intellettuale – incluso l’ammettere i propri errori, soprattutto quando si agiva o si pensava in buona fede. Coloro che hanno sostenuto Brexit, credendo nella favola della liberazione dai potenti, dovrebbero oggi cominciare a vedere cosa Brexit è davvero: un feroce attacco allo Stato sociale della nazione che ha “inventato” e meglio realizzato un modello unico di società, in cui le libertà individuali e le responsabilità dell’individuo verso la comunità sono state efficacemente coniugate, a partire dal grande lavoro di William Beveridge. Brexit non è altro che l’attacco al modello economico e sociale piú avanzato al mondo, perpetuato e favorito da governi conservatori che, mentre predicavano alle masse di agire nel loro interesse, e mentre continuavano a tagliare i servizi e le tutele ai cittadini, sono riusciti a triplicare il debito pubblico – creando proprio le condizioni per poter rivendicare oggi, e dopo Brexit, “l’unaffordability” del welfare system. Gli ultimi governi conservatori hanno fatto proprio questo: creare le condizioni economiche per poter giustificare ed imporre l’austerity, così come è avvenuto nella maggior parte degli altri Stati europei da dieci anni a questa parte.«Ma ora che c’è Brexit, ora che usciremo dall’Unione Europea, potremo investire i nostri soldi nel nostro welfare system e migliorare il nostro sistema sanitario pubblico, invece di darli ai greci», senti le cornacchie del Brexit gracchiare. Ma il modello politico, economico e sociale sotto attacco non è, cari amici inglesi, quello greco, ma il modello di Stato sociale che, sviluppatosi nel Regno Unito, è poi diventato patrimonio del popolo europeo. Attaccare l’economia greca vuol dire attaccare il welfare system britannico; vuol dire indirettamente screditare ogni modello di stato sociale. Peccato. Brexit avrebbe potuto rappresentare il rilancio del modello sociale ed economico social-liberale, in barba al neoliberismo e agli interessi economici privati che si sono impossessati della Ue. Ma così non è stato e, soprattutto, non doveva mai essere. Coloro che il Brexit lo hanno voluto avevano interessi e piani diametralmente opposti a quelli di coloro che il Brexit lo hanno votato.Brexit rappresenta l’attacco al social-liberalismo per imporre il modello sociale neoliberista ad un Regno Unito che, pur abbracciando il neoliberismo, aveva ancora una società ed una politica “resistenti”. Brexit rappresenta l’opportunitá per cannibalizzare e spolpare Londra (vedremo gli effetti della riforma di Osborne sulle tasse sulla seconda casa, e a chi gioverà). Brexit consente al governo britannico di proporre la totale deregulation. Consente al governo di proporre che Londra diventi un “tax heaven”. Consente a Theresa May di presentare un European Union Withdrawal Bill che sostanzialmente le darà il potere di fare tutte le leggi che vorrà (tranne alzare le tasse, of course) senza passare per il Parlamento. Brexit consente a Theresa May di annunciare che l’amico Donald Trump sarà disponibile a firmare un “trade deal” unico col Regno Unito, per garantigli prosperitá dopo Brexit. Peccato che la May voglia ricambiare il favore, mettendo il sistema sanitario pubblico sul piatto e regalando la sanità pubblica al capitale privato americano.E i 350 milioni a settimana, pubblicizzati durante la campagna del Brexit, che dovevano andare nelle casse dell’Nhs per dargli nuova prosperitá? Smentiti il giorno dopo il voto e, actually… in Kent sono stati privatizzati i primi studi di medici generici, oggi di proprietà di Virgin Health. A livello nazionale si è discusso della famosa “dementia tax” e di ridurre le tutele sanitarie a obesi e fumatori. Cosa prova tutto questo? Che non ci possiamo innamorare della propaganda senza contenuti. Non possiamo innamorarci del “come”. Perche Brexit era un “come”, era un mezzo. Peccato che, come già detto ma è bene ripetere, il fine di coloro che hanno ideato Brexit era diametralmente opposto a quello di coloro che Brexit lo hanno votato. Prima di discutere del “come”, discutiamo del “cosa” – cosa vogliamo fare per il futuro del Regno Unito, dell’Italia e dell’Europa. Una proposta social-liberale sullo scenario politico non c’è.In Italia i cosiddetti democratici e progressisti che hanno votato il Fiscal Compact, come coloro che propongono ancora di alzare le tasse, non sono una proposta credibile. E una proposta social-liberale (raccogliamo tutti l’invito di Carpeoro a riscoprire Olof Palme) non c’è da nessuna parte. Abbiamo urgente bisogno di una proposta politica adatta alle sfide del futuro. Se qualcosa manca, lavoriamo alla sua costruzione. Sviluppiamo noi, cittadini con idee, questa proposta politica il prima possibile. Ricordiamoci anche che oggi ci lamentiamo di Brexit, ma una vittoria del Remain avrebbe ulteriormente legittimato un modello di Unione Europea, senza sostanziale legittimazione politica e popolare, asservito agli interessi del sistema neoliberista. Ricordiamoci che coloro che volevano combattere il modello politico, sociale ed economico, antidemocratico, illiberale, antisociale e antiambientale neoliberista, a cui l’Unione Europea sembra asservita, avevano ragione a farlo – hanno solo sbagliato il “come”.(Marco Moiso, “Brexit e gli interessi diametralmente opposti di chi lo ha ideato e chi lo ha votato”, dal blog del Movimento Roosevelt del 21 luglio 2017).Credo che una delle più grandi doti di un politico sia l’onestà intellettuale – incluso l’ammettere i propri errori, soprattutto quando si agiva o si pensava in buona fede. Coloro che hanno sostenuto Brexit, credendo nella favola della liberazione dai potenti, dovrebbero oggi cominciare a vedere cosa Brexit è davvero: un feroce attacco allo Stato sociale della nazione che ha “inventato” e meglio realizzato un modello unico di società, in cui le libertà individuali e le responsabilità dell’individuo verso la comunità sono state efficacemente coniugate, a partire dal grande lavoro di William Beveridge. Brexit non è altro che l’attacco al modello economico e sociale piú avanzato al mondo, perpetuato e favorito da governi conservatori che, mentre predicavano alle masse di agire nel loro interesse, e mentre continuavano a tagliare i servizi e le tutele ai cittadini, sono riusciti a triplicare il debito pubblico – creando proprio le condizioni per poter rivendicare oggi, e dopo Brexit, “l’unaffordability” del welfare system. Gli ultimi governi conservatori hanno fatto proprio questo: creare le condizioni economiche per poter giustificare ed imporre l’austerity, così come è avvenuto nella maggior parte degli altri Stati europei da dieci anni a questa parte.
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Una Bad Bank europea per gestire l’Italexit, non più tabù
«All’Italia conviene tornare alla lira». Lo sostiene il tedesco Marc Friedrich, consulente finanziario di fama, in una intervista a “Sputnik Deutschland”. Non solo l’Italia, affondata da un tasso record di debito e disoccupazione, ma «tutti i paesi del Sud Europa starebbero meglio con una moneta sovrana invece che con l’euro. Questi paesi, con i limiti imposti dalla Banca Centrale, non vedranno mai quell’inizio di crescita che permetterebbe loro di rimettersi». Marc Friedrich è co-autore di un saggio “Der groesste Raubzug der Geschichte”, che è stato un best seller nel 2012. «Già allora dimostravamo che l’euro non funziona. Adesso vedo che, per la prima volta, in Italia il concetto di Italexit non è più tabù». Cita «Alberto Bagnai dell’università di Pescara». Ha ragione, Bagnai. «In marzo, sostenendo che l’euro collasserà comunque, qualunque sia il capitale politico investito in esso, questo professore di economia ha sottolineato la necessità di una uscita “controllata” dalla moneta unica, padroneggiando l’inevitabile: la causa più probabile – ha scritto Bagnai – sarà il collasso del sistema bancario italiano, che trascinerà con sé il sistema tedesco. E’ nell’interesse di ogni potere politico, certo dei dirigenti europei declinanti, e probabilmente anche degli Usa, gestire questo evento invece di attenderlo passivamente».Parole di buon senso. Di fronte alle quali non c’è, probabilmente, il vero e proprio terrore delle oligarchie dominanti davanti a quel che hanno fatto col loro malgoverno monetario. Che le paralizza. Pochi sanno che, nell’Eurozona, i prestiti “andati a male” in pancia alle banche assommano alla cifra stratosferica di 1.092 miliardi di euro. L’Italia è la prima del disastro, con 276 miliardi di prestiti inesigibili; ma la seconda è la Francia di Macron con 148 miliardi. Seguono la Spagna con 141, e la Grecia con 115. La Germania ne cova 68, di miliardi; l’Olanda 45, il Portogallo 41. Prima della Germania, ci seguirebbe nel precipizio la Francia – trascinandosi evidentemente giù anche l’Egemone di Berlino. Il rischio è passato inosservato, spiega l’economista francese Philippe Herlin, perché si comparano questi 148 miliardi di prestiti “andati a male” con i bilanci delle grandi banche francesi, il triplo del Pil nazionale (che ammonta a 2.450 miliardi di dollari). Errore, perché in caso di crisi le cifre iscritte a bilancio sono poco o nulla mobilizzabili; «Quel che conta è la liquidità, il cash, i fondi propri».I fondi propri delle banche francesi sono 259,7 miliardi; quasi il 60 per cento (il 57) sarebbero dunque divorati dai prestiti “marciti”; Herlin prevede dunque l’uso di “bad bank” riempite con il denaro dei contribuenti. «Per ora non c’è urgenza, al contrario dell’Italia, ma in caso di aggravamento della crisi finanziaria (aumento dei fallimenti, un qualunque shock finanziario) il governo sarà forzato a intervenire». Non riusciamo ad immaginare i sudori freddi che provoca a Berlino la prospettiva di contribuire coi risparmi dei virtuosi tedeschi ad una “bad bank” pan-europea da mille miliardi. Eppure, continua Friedrich, «se l’Italia deve restare nella Ue, allora l’economia più forte del blocco, la Germania, deve accollarsi il fardello delle sovvenzioni all’Italia e agli altri Stati membri del Sud». Ovviamente, anche lui ritiene che l’immane “compra” di titoli di debito che sta facendo la Bce al ritmo di 60 miliardi di euro al mese, non fa che nascondere il problema e guadagnare tempo.«Per farlo, i vertici hanno rotto tutte le regole, a cominciare dalle loro. Ma collasserà, e possiamo solo sperare che i politici responsabilmente cercheranno allora di minimizzare i guasti e di eliminare l’euro in modo controllato. In ogni caso ciò costerà caro». Si potrà contare sulla Merkel come la politica che responsabilmente smonterà la moneta unica in modo controllato? E’ assorbita non tanto dalle prossime elezioni, ma dalla strategia che ha (espresso anche a nome nostro) dopo il disastroso G7 di Taormina, e lo scontro con Trump: «Noi europei dobbiamo veramente prendere in mano il nostro destino». Ma come? Per quanto erratico e imprevedibile, in mano a pulsioni emotive incontrollate e sotto schiaffo del Deep State che vuole la sua eliminzione (e lo sta facendo), The Donald è chiaro e costante nella sua ostilità commerciale verso la Germania, che accusa di slealtà e di manipolazione della moneta.(Maurizio Blondet, estratto dal post “Saprà la Merkel gestire in modo razionale l’inevitabile Italexit?”, pubblicato sul bog di Blondet il 26 luglio 2017).«All’Italia conviene tornare alla lira». Lo sostiene il tedesco Marc Friedrich, consulente finanziario di fama, in una intervista a “Sputnik Deutschland”. Non solo l’Italia, affondata da un tasso record di debito e disoccupazione, ma «tutti i paesi del Sud Europa starebbero meglio con una moneta sovrana invece che con l’euro. Questi paesi, con i limiti imposti dalla Banca Centrale, non vedranno mai quell’inizio di crescita che permetterebbe loro di rimettersi». Marc Friedrich è co-autore di un saggio “Der groesste Raubzug der Geschichte”, che è stato un best seller nel 2012. «Già allora dimostravamo che l’euro non funziona. Adesso vedo che, per la prima volta, in Italia il concetto di Italexit non è più tabù». Cita «Alberto Bagnai dell’università di Pescara». Ha ragione, Bagnai. «In marzo, sostenendo che l’euro collasserà comunque, qualunque sia il capitale politico investito in esso, questo professore di economia ha sottolineato la necessità di una uscita “controllata” dalla moneta unica, padroneggiando l’inevitabile: la causa più probabile – ha scritto Bagnai – sarà il collasso del sistema bancario italiano, che trascinerà con sé il sistema tedesco. E’ nell’interesse di ogni potere politico, certo dei dirigenti europei declinanti, e probabilmente anche degli Usa, gestire questo evento invece di attenderlo passivamente».
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Foa: non toccate i blog, le fake news vengono dalla stampa
Ebbene sì, i blogger, i “liberi pensatori”, i giornalisti davvero liberi continuano ad aver ragione e la grande stampa mainstream torto, nel senso che quest’ultima tradisce da troppo tempo quella che dovrebbe essere la sua funzione primaria e irrinunciabile, di voce critica e coraggiosa della società democratica. Mettiamoci nei panni di un analista – politico o finanziario o strategico – che vuole capire come va il mondo. Se si fosse limitato ai principali media internazionali o di grandi paesi come Francia, Gran Bretagna, Germania o Italia, i suoi report sarebbero stati lacunosi e, soprattutto, per nulla preveggenti. Le analisi più accurate e le denunce più coraggiose non le avrebbe infatti trovate su quelle colonne, bensì sui blog e sui siti della cosiddetta stampa alternativa, di qualunque orientamento politico, che negli ultimi anni ha saputo leggere molto meglio la realtà. Ecco qualche esempio: per anni, economisti alla Bagnai o alla Sapir, quelli che partecipano ai convegni di “A/Simmetrie”, hanno denunciato l’assurdità, per evidente inefficacia e crudeltà sociale, delle cosiddette misure di salvataggio della Grecia. In perfetta solitudine, perché la stampa “ortodossa” ripeteva la solita litania.A distanza di anni il Fmi ha ammesso i propri errori e oggi veniamo a scoprire che gli unici ad arricchirsi sono stati i tedeschi, che non solo hanno evitato di sopportare i costi di un default greco ma hanno poi lucrato 1,34 miliardi sui bond della salvezza. Idem sull’euro: era un tabù persino parlarne in maniera dubitativa. La grande stampa ha negato spazio alle voci critiche, come invece avrebbe dovuto, salvo ricredersi… a distanza di 16 anni. Ora, timidamente, anche sui giornali color salmone si odono voci critiche. In Siria, i grandi media hanno evidenziato denunce clamorose come quelle su “esecuzioni di massa e corpi bruciati nei forni crematori di Saydnaya“, subito messe in dubbio da diversi blogger, esperti di politica estera e di comunicazione. Era chiaramente un’operazione di “spin”, ma chi dubitava veniva ignorato o tacciato di complottismo. Dopo qualche settimana il Dipartimento di Stato Usa ha rettificato la notizia, che però è stata comunicata in sordina dalla stampa mainstream.Il flop mediatico sulla vittoria di Trump e sul sì Brexit è ormai noto a tutti. Immigrati e Ong: c’è voluto un giovane di 23 anni, Luca Donadel, per documentare un fenomeno sconcertante per la sua vastità, quello delle navi delle Ong che vanno a prendere gli immigrati al largo della Libia. Nessun giornalista se n’era accorto e, per settimane, i grandi media hanno ignorato lo scoop del bravo Donadel (a proposito: dargli un premio di giornalismo, no?) rompendo il silenzio solo quando il rumore mediatico sul web è diventato così alto da non poter essere più ignorato. Potrei continuare con tanti altri esempi, ma mi fermo qui. Mi limito a due considerazioni. La prima: la grande stampa internazionale si segnala soprattutto per conformismo e per eccessiva compiacenza con l’establishment. Quando diventa coraggiosa lo fa sempre in coro e sempre in modo strumentale, sapendo di avere le “spalle coperte”.Quel che accade negli Stati Uniti è emblematico: “Washington Post” e “New York Times” sono diventate delle “caselle postali”, in cui mani compiacenti depositano anche documenti coperti dal segreto di Stato, con una disinvoltura senza precedenti, che sarebbe stata denunciata come scandalosa e perseguita legalmente con qualunque altro presidente, ma che diventa bene accetta se è frutto di un’evidente saldatura tra il cosiddetto Deep State e il 90% della stampa. Una saldatura che, peraltro, non riguarda solo gli Usa, ma quasi tutte le grandi democrazie occidentali, che è nefasta per la democrazia ed è una delle ragioni della crescente sfiducia di ampie fasce di lettori. La stampa non rinascerà se non recupererà il senso della propria missione e tornerà a servire innanzitutto i lettori, anziché l’establishment.La seconda: l’ho già scritto e lo ribadisco. La polemica sulle “fake news” mira non a garantire un’informazione più corretta ma, innanzitutto, a mettere a tacere le voci davvero libere, quelle che rompono la narrativa ufficiale. Ogni proposta di regolamentazione in realtà punta a imporre una censura, a intimidire chi esercita davvero la propria funzione critica, ignorando, e questo è davvero gravissimo, che a generare fake news e disinformazione sono, troppo spesso, gli spin doctor al servizio delle istituzioni. Quelle proposte vanno respinte. E il giornalismo davvero libero, davvero coraggioso va difeso con forza.(Marcello Foa, “I blogger avevano ragione, la grande stampa torto”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 9 agosto 2017).Ebbene sì, i blogger, i “liberi pensatori”, i giornalisti davvero liberi continuano ad aver ragione e la grande stampa mainstream torto, nel senso che quest’ultima tradisce da troppo tempo quella che dovrebbe essere la sua funzione primaria e irrinunciabile, di voce critica e coraggiosa della società democratica. Mettiamoci nei panni di un analista – politico o finanziario o strategico – che vuole capire come va il mondo. Se si fosse limitato ai principali media internazionali o di grandi paesi come Francia, Gran Bretagna, Germania o Italia, i suoi report sarebbero stati lacunosi e, soprattutto, per nulla preveggenti. Le analisi più accurate e le denunce più coraggiose non le avrebbe infatti trovate su quelle colonne, bensì sui blog e sui siti della cosiddetta stampa alternativa, di qualunque orientamento politico, che negli ultimi anni ha saputo leggere molto meglio la realtà. Ecco qualche esempio: per anni, economisti alla Bagnai o alla Sapir, quelli che partecipano ai convegni di “A/Simmetrie”, hanno denunciato l’assurdità, per evidente inefficacia e crudeltà sociale, delle cosiddette misure di salvataggio della Grecia. In perfetta solitudine, perché la stampa “ortodossa” ripeteva la solita litania.