Archivio del Tag ‘tecnocrati’
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Attacco alle banche, per commissariare l’Italia entro il 2017
La Germania tenta il colpo grosso: commissariare l’Italia entro il 2017. Come? Imponendo alle banche di disporre di capitali aggiuntivi (che non possiedono) per poter garantire i titoli di Stato, cioè la linfa del bilancio. Dall’europarlamento di Bruxelles, Marco Zanni denuncia una grave minaccia di cui nessuno ha ancora parlato: il tentativo di commissariamento di Roma entro il 2017 da parte della Germania, nascosto in un emendamento all’articolo 507 del Regolamento sui requisiti patrimoniali delle banche. «È necessario diffondere il più possibile questa nuova minaccia, ancora una volta nascosta nelle pieghe di una incomprensibile burocrazia nata specificamente per mascherare ai cittadini le tecniche di controllo delle democrazie del sud Europa», afferma Claudio Messora su “ByoBlu”. «Di fatto è un tentativo che denunciammo già dal 2014 – dice Zanni – da quando ho iniziato ad occuparmi di regolazione bancaria a livello europeo e di tutto quel pacchetto regolamentare che noi in Italia – purtroppo a nostro discapito – abbiamo imparato a conoscere bene e che cade sotto il nome di “Unione Bancaria” o “Banking Union”». Unione Bancaria, ovvero quell’insieme di regole, per le banche dell’Eurozona, che si basa principalmente su tre pilastri: supervisione unica, “risoluzione del rischio” e assicurazione sui depositi.La supervisione unica delle grandi banche all’interno dell’Eurozona è affidata al “Single Supervisory Mechanism”, cioè «quel braccio della Bce che deve supervisionare la corretta applicazione delle regole e la corretta patrimonializzazione delle banche». Famigerato, poi il “Meccanismo di Risoluzione Unico”, «di cui fa parte la famosa regola del bail-in», di ci hanno fatto le spese i correntisti delle banche di Arezzo, Ferrara, Chieti. Manca ancora il “terzo pilastro”, cioè «un’assicurazione comune sui depositi di tutte le banche che cadono sotto questo cappello». Cosa sta accadendo dal 2014, da quando questo sistema sta entrando in vigore? «Queste regole sono state plasmate per distruggere il sistema bancario italiano e spingere il nostro paese a dover richiedere aiuto a istituzioni europee che – purtroppo – abbiamo imparato a conoscere bene», afferma Zanni. L’europarlamentare denuncia l’Omt della Bce: l’Outright Monetary Transactions è «la traduzione pratica di quel “whatever it takes” detto fin dal 2012 da Mario Draghi, cioè il fatto che la Bce farà di tutto per salvare l’euro». In più, incombe la richiesta di ricorrere all’“aiuto” del Mes, il Meccanismo Europeo di Stabilità, già denunciato (anche da Messora) «per la sua struttura criminale», che oggi «diventa una possibilità concreta per “mettere in sicurezza” il sistema bancario».«Quest’attacco all’Italia – continua Zanni – è partito attraverso questo insieme di regole che si chiama “Unione Bancaria”. E poche settimane fa è stato fatto un passettino in avanti per affossare ancora di più il sistema bancario italiano, per attaccare i titoli del nostro debito pubblico e costringere inevitabilmente il governo italiano a intraprendere due strade, che portano entrambe inevitabilmente al commissariamento da parte della Troika». Secondo Zanni, ci aspettano «l’attacco, la speculazione sul debito pubblico e quindi la richiesta di Omt, con conseguente arrivo della Troika», o in alternativa «il collasso inevitabile del sistema bancario italiano, con la richiesta di ricapitalizzazione del sistema tramite il Mes, quindi le condizionalità annesse e infine l’arrivo della Troika». Allarme rosso, per l’europarlamentare ex grillino: «Questo è quello che sta succedendo oggi all’interno delle istituzioni europee, nel più totale silenzio dei nostri media». Stampa e televisione «di questo non parlano, preferiscono disquisire di una fasulla diatriba tra Roma e Bruxelles sullo 0,2% del Pil, su questa manovra correttiva da 3-4 miliardi di euro. Qui invece sono in gioco decine di miliardi di euro».La Germania tenta il colpo grosso: commissariare l’Italia entro il 2017. Come? Imponendo alle banche di disporre di capitali aggiuntivi (che non possiedono) per poter garantire i titoli di Stato, cioè la linfa del bilancio. Dall’europarlamento di Bruxelles, Marco Zanni denuncia una grave minaccia di cui nessuno ha ancora parlato: il tentativo di commissariamento di Roma entro il 2017 da parte della Germania, nascosto in un emendamento all’articolo 507 del Regolamento sui requisiti patrimoniali delle banche. «È necessario diffondere il più possibile questa nuova minaccia, ancora una volta nascosta nelle pieghe di una incomprensibile burocrazia nata specificamente per mascherare ai cittadini le tecniche di controllo delle democrazie del sud Europa», afferma Claudio Messora su “ByoBlu”. «Di fatto è un tentativo che denunciammo già dal 2014 – dice Zanni – da quando ho iniziato ad occuparmi di regolazione bancaria a livello europeo e di tutto quel pacchetto regolamentare che noi in Italia – purtroppo a nostro discapito – abbiamo imparato a conoscere bene e che cade sotto il nome di “Unione Bancaria” o “Banking Union”». Unione Bancaria, ovvero quell’insieme di regole, per le banche dell’Eurozona, che si basa principalmente su tre pilastri: supervisione unica, “risoluzione del rischio” e assicurazione sui depositi.
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Finto reddito di cittadinanza, verso il prossimo golpe dell’Ue
Il governo Gentirenzi e il Partito Democratico progettano, per la imminente campagna elettorale, di attribuirsi il merito dell’introduzione del reddito di cittadinanza, soffiandolo al M5S. Il programma è che il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker venga a Roma, probabilmente il 25 marzo, per i festeggiamenti del cinquantenario dell’Unione Europea, e quivi annunci che l’Europa prescrive che i governi elargiscano un reddito universale di base, di importo sufficiente per una vita dignitosa, a tutti i cittadini. La notizia di questo annuncio è stata lanciata da “Reuters” all’estero alcuni giorni fa, ma in Italia pare nessuno voglia diffonderla – tanto per dire quanto sono liberi i nostri giornalisti. Renzi si vanterà di aver ottenuto tale successo in linea con il suo bonus di 80 euro mensili. Ne farà il suo cavallo di battaglia per le elezioni. Due quesiti essenziali. Primo: come finanziare questo reddito, dato che concedere 1000 euro al mese a tutti i cittadini italiani costerebbe circa 600 miliardi l’anno, un terzo del Pil?Anche se si limitasse l’importo del reddito e il numero dei beneficiati, il costo minimo sarebbe sui 150 miliardi. L’unico modo di trovare i fondi sarebbe tassare la creazione monetaria da parte delle banche, la quale va a casa ma non viene registrata come ricavo. Il tassarla non graverebbe sui bilanci delle banche, i quali anzi migliorerebbero, proprio perché si registrerebbero i ricavi, oggi non registrati, da creazione monetaria. Secondo: che scopo ha questo reddito di cittadinanza? intendo: che scopo vero? Ovviamente non è quello di rilanciare l’economia, dato che, se “l’Europa” volesse questo, avrebbe già da tempo cambiato il suo modello finanziario, il “Patto di stabilità e sviluppo” che, da quando è in vigore, ha portato dal 35 al 75% i paesi fuori dai parametri e ha generalizzato la stagnazione – cioè ha prodotto instabilità e blocco dello sviluppo. Quindi è chiaro che “l’Europa” vuole questo: destabilizzazione e impoverimento. Altrimenti avrebbe cambiato modello da tempo.Credo perciò che lo scopo vero del reddito universale sia quello di far perdere forza agli euro-scettici nelle prossime elezioni – soprattutto in Francia e in Italia – accontentando e tranquillizzando la gente nel breve termine, in modo che si lasci guidare e continui a credere del modello generale dell’Unione Europea. E, e nel medio termine, realizzare, proprio mediante gli squilibri finanziari che produrrà il costo di questo reddito universale, una destabilizzazione profonda, che crei le condizioni emergenziali per una profonda ristrutturazione autoritaria e tecnocratica degli assetti costituzionali.(Marco Della Luna, “Juncker, Renzi e il reddito di cittadinanza”, dal blog di Della Luna del 31 gennaio 2017).Il governo Gentirenzi e il Partito Democratico progettano, per la imminente campagna elettorale, di attribuirsi il merito dell’introduzione del reddito di cittadinanza, soffiandolo al M5S. Il programma è che il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker venga a Roma, probabilmente il 25 marzo, per i festeggiamenti del cinquantenario dell’Unione Europea, e quivi annunci che l’Europa prescrive che i governi elargiscano un reddito universale di base, di importo sufficiente per una vita dignitosa, a tutti i cittadini. La notizia di questo annuncio è stata lanciata da “Reuters” all’estero alcuni giorni fa, ma in Italia pare nessuno voglia diffonderla – tanto per dire quanto sono liberi i nostri giornalisti. Renzi si vanterà di aver ottenuto tale successo in linea con il suo bonus di 80 euro mensili. Ne farà il suo cavallo di battaglia per le elezioni. Due quesiti essenziali. Primo: come finanziare questo reddito, dato che concedere 1000 euro al mese a tutti i cittadini italiani costerebbe circa 600 miliardi l’anno, un terzo del Pil?
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“Caro Stakeholder, le leggi dell’Ue le facciamo solo per te”
«Ripetiamo tutti insieme alla lavagna: nell’Unione Europea le leggi che contano le fa la Commissione di Bruxelles. I Parlamenti degli Stati dell’Unione non possono farci nulla, ma solo adottarle supini. Se si rifiutano, Bruxelles ha ogni possibile via legale e monetaria per bastonarli al punto di sottomissione». Le leggi che contano davvero, per cittadini e imprese, vengono scritte dalla Commissione su parere degli “stakeholders”, sottolinea Paolo Barnard. «E tutto si gioca qui. Ti chiedo: tu sei uno Stakeholder che dà il suo parere sulle leggi Ue che ti fanno? Ti risulta di esserlo?». La storia, ricorda il giornalista, inizia nell’anno Duemila, quando l’allora giovane inviato di “Report”, Rai Tre, mette insieme l’inchiesta ‘I globalizzatori”, che – ormai 17 anni fa – raccontava «tutto quello che oggi scoprono Sgarbi, Minzolini, Salvini, Borghi, Sapelli, Savona, Farage, alcuni “grullini” e codazzo cantante». La notizia principale era questa: «Era la Commissione Europea di Prodi a fare le leggi che contano per noi, ma noi ne sapevamo qualcosa? Ci veniva chiesto di leggerle o di farle leggere ai nostri parlamentari, sindacati, Ong, associazioni di categoria?».La risposta di Prodi? Lunare: «Qui a Bruxelles abbiamo un sistema che si chiama Sis, attraverso cui tutti gli attori, dalla mega-banca al cittadino, vengono informati delle leggi che proponiamo e votiamo». Al che, Barnard torna in Italia e interpella sindacati, Ong, operai, associazioni di categoria. «Sis? Non ci risulta: che roba è?». Aggiunge oggi lo stesso Barnard, sul suo blog: «Quell’inchiesta rivelava poi molto di peggio, e cioè quali erano le lobby delle corporations che addirittura ordinavano alla Commissione quali leggi fare». Passati 17 anni, fatto l’euro, sfornate milioni di info sul “mostro” chiamato Unione Germanica Europea, nascono in Europa i movimenti anti-Bruxelles e anti-euro, come se la Commissione fosse ormai sotto assedio. Davvero? Nemmeno per idea: al posto del Sis ora ci sono l’Inception Impact Assessment e la Roadmap. «Sono la versione moderna del Sis. Ma molto più con la faccia come il culo del Sis, che almeno su carta citava per nome chi avrebbe (falsamente) consultato: parlamentari, sindacati, Ong, associazioni di categoria».Oggi, invece, l’Inception Impact Assessment e la Roadmap che precedono la promulgazione delle leggi sovranazionali che contano, varate dalla Commissione – quelle che hanno demolito la nostra economia europea e fatto scappare la Gran Bretagna – citano una sola entità che viene consultata prima di approvare una di quelle super-leggi: gli Stakeholder. «Cosa sono? Sono poteri finanziari e industriali, pari pari. Esempio: Mediobanca è uno Stakeholder del “Corriere della Sera”. Il mostro d’investimento BalckRock è uno Stakeholder delle Poste Italiane. Caltagirone, Warren Buffett, le Generali, Eni, Exor-Fiat, Vivendi sono Stakeholders. Poi, siccome la cosa era banalmente troppo spudorata per esistere, la Commissione Ue ha aggiunto in una nota anni fa che Stakeholders sono anche gli Stati e… chiunque abbia un interesse nelle leggi che fanno». Fantastico, no? E allora «mandiamo cartoline a casa dalle gente, alle piccole medie imprese, alle Ong, ai contadini, ai medici e infermieri, negozianti, baristi, metalmeccanici e gli chiediamo se hanno mai ricevuto questo tipo di comunicazione: “Caro Stakeholder…”».Barnard cita, ad esempio, una delle lettere inviate agli Stakeholder, quelli veri. Il testo: «Caro Stakeholder, questa valutazione preliminare d’impatto ha lo scopo di informare le parti interessate circa il lavoro della Commissione, al fine di consentire loro di fornire un feedback sulle iniziative previste e di partecipare in modo efficace nelle future attività di consultazione». Non solo: «I soggetti interessati sono in particolare invitati a fornire opinioni sulla comprensione da parte della Commissione del problema e le possibili soluzioni, mettendo a disposizione tutte le informazioni pertinenti che possono avere, anche per quanto riguarda i possibili effetti delle diverse opzioni». E ancora: «La valutazione preliminare d’impatto è fornita solo a scopo informativo e il suo contenuto potrebbe cambiare». Beninteso: «Questa valutazione non pregiudica la decisione finale della Commissione sul fatto che questa iniziativa sarà perseguita o sul suo contenuto finale».A seguire, un testo di 3.182 parole. «“I bet you my fat ass”, direbbe un texano appoggiato al suo trattore, cioè: ci scommetto il culo che però gli Ad di Unicredit, Exor, Luxottica, Eni, Goldman Sachs, Hsbc, Siemes, Telefonica, Ubs, Amazon e soci le hanno ricevute eccome, e non solo», quelle sollecite e tempestive comunuicazioni preliminari. D’altro canto, aggiunge Barnard, «uno stuolo di 30 avvocati pagati 5.000 euro per ogni giorno di consulenza glieli hanno tradotti in ogni dettaglio e fatti capire. E non solo: così come faceva Prodi ai miei tempi, oggi Juncker aspetta il loro Ok, per poi sparare la legge sulla testa di tutti noi sfigati. Questa è la democrazia in Unione Europea. Magari vi serve saperlo». Morale della favola: i garbati distinguo dei nostri politici ma anche le sporadiche invettive verso Bruxelles «fanno venire il mal di pancia forse a un termosifone, se va bene», a fronte di un regime che è istituzionalmente “complice” degli Stakeholder, sulla testa di cittadini che ancora stentano a capire sotto che razza di super-dittatura sono finiti, e perché.«Ripetiamo tutti insieme alla lavagna: nell’Unione Europea le leggi che contano le fa la Commissione di Bruxelles. I Parlamenti degli Stati dell’Unione non possono farci nulla, ma solo adottarle supini. Se si rifiutano, Bruxelles ha ogni possibile via legale e monetaria per bastonarli al punto di sottomissione». Le leggi che contano davvero, per cittadini e imprese, vengono scritte dalla Commissione su parere degli “stakeholders”, sottolinea Paolo Barnard. «E tutto si gioca qui. Ti chiedo: tu sei uno Stakeholder che dà il suo parere sulle leggi Ue che ti fanno? Ti risulta di esserlo?». La storia, ricorda il giornalista, inizia nell’anno Duemila, quando l’allora giovane inviato di “Report”, Rai Tre, mette insieme l’inchiesta ‘I globalizzatori”, che – ormai 17 anni fa – raccontava «tutto quello che oggi scoprono Sgarbi, Minzolini, Salvini, Borghi, Sapelli, Savona, Farage, alcuni “grullini” e codazzo cantante». La notizia principale era questa: «Era la Commissione Europea di Prodi a fare le leggi che contano per noi, ma noi ne sapevamo qualcosa? Ci veniva chiesto di leggerle o di farle leggere ai nostri parlamentari, sindacati, Ong, associazioni di categoria?».
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Governi non eletti, Parlamento illegittimo: questa è l’Italia
Della sentenza della Corte Costituzionale che boccia l’Italicum non mi colpisce tanto la contorta architettura del dispositivo, atta a renderne meno traumatico possibile l’impatto sul sistema politico, ma il pronunciamento in quanto tale. Che è di una gravità inaudita per un paese che voglia restare una democrazia. Per la seconda volta di seguito, la legge elettorale votata dal Parlamento della Repubblica viene dichiarata incostituzionale. E, si badi bene, questo pronunciamento della Consulta non avviene a seguito di una iniziativa delle forze politiche o per qualche pentimento istituzionale, ma per l’azione puntuale e tenace di un manipolo di valorosi giuristi democratici. Sono loro che con il Porcellum prima, con l’Italicum ora, sono andati dal giudice avviando il percorso che ha portato alla dichiarazione di incostituzionalità delle leggi elettorali. Nelle istituzioni invece silenzio e complicità. Tre presidenti della Repubblica hanno avuto un ruolo decisivo in queste leggi incostituzionali. Ciampi ha firmato il Porcellum senza obiezioni, come ha poi fatto Mattarella con l’Italicum, mentre Napolitano, eletto due volte da parlamenti frutto dell’incostituzionalità, quando era in carica mai ha messo in discussione la legge elettorale, semmai ha solo cercato di non far votare.Nel 2006, nel 2008 e nel 2013 ben tre volte i cittadini italiani sono stati chiamati a eleggere i propri rappresentanti sulla base di una legge elettorale incostituzionale, cioè che non avrebbe dovuto esserci. Prodi, Berlusconi, Monti, Letta, Renzi hanno tranquillamente governato dopo aver ricevuto il voto di fiducia da un Parlamento illegittimo. Un Parlamento che ha preso decisioni che influiscono pesantemente sulle nostre vite, dalla legge Fornero, alla Buona Scuola, al Jobs Act, all’acquisto degli F-35, alle missioni militari in giro per il mondo. Un Parlamento che ha approvato il Fiscal Compact vincolando per i prossimi venti anni l’Italia alle politiche di austerità della Unione Europea e che lo ha addirittura inserito nella Costituzione, stravolgendone l’articolo 81. Un Parlamento incostituzionale che infine ha approvato una completa controriforma della Costituzione, corredata da una corrispondente legge elettorale, passata, è bene ricordarlo, con il voto di fiducia. Sono stati il popolo, con il suo No referendario, e le sentenze della suprema magistratura dello Stato a fermare questa deriva del sistema istituzionale verso la totale illegittimità.Il popolo, la magistratura, i giuristi e i cittadini democratici, loro hanno fermato il disastro e non le altre istituzioni, né quelle italiane, né tantomeno quelle europee, che della distruzione della nostra Costituzione hanno assoluto bisogno, per imporci il loro volere. È una situazione senza precedenti, per una democrazia, quella di operare nella illegittimità delle sue istituzioni da più di dieci anni, e se non si vuole riprendere a precipitare nella china alla fine della quale c’è solo la formale dittatura, bisogna fermare tutto qui e ora. Altro che affidare a un Parlamento squalificato e soprattutto incostituzionale il varo di una terza legge elettorale, magari incostituzionale anch’essa! Altro che il teatrino della politica! Si vada a votare subito, anche con il pasticcio che è venuto fuori dalle sentenze e di cui le varie maggioranze politiche, non le sentenze, hanno colpa. Si metta punto fermo alla catena delle illegittimità e si ricominci a parlare di contenuti materiali delle scelte politiche, e non ancora una volta della governabilità. Principio che da noi ha sviluppato appieno tutte le sue potenzialità antidemocratiche e che ha finito per produrre il suo esatto opposto: lo stato confusionale di un sistema illegittimo. Basta, al voto subito.(Giorgio Cremaschi, “Solo il voto subito ferma la deriva di un sistema illegittimo”, dall’“Huffington Post” del 27 gennaio 2017).Della sentenza della Corte Costituzionale che boccia l’Italicum non mi colpisce tanto la contorta architettura del dispositivo, atta a renderne meno traumatico possibile l’impatto sul sistema politico, ma il pronunciamento in quanto tale. Che è di una gravità inaudita per un paese che voglia restare una democrazia. Per la seconda volta di seguito, la legge elettorale votata dal Parlamento della Repubblica viene dichiarata incostituzionale. E, si badi bene, questo pronunciamento della Consulta non avviene a seguito di una iniziativa delle forze politiche o per qualche pentimento istituzionale, ma per l’azione puntuale e tenace di un manipolo di valorosi giuristi democratici. Sono loro che con il Porcellum prima, con l’Italicum ora, sono andati dal giudice avviando il percorso che ha portato alla dichiarazione di incostituzionalità delle leggi elettorali. Nelle istituzioni invece silenzio e complicità. Tre presidenti della Repubblica hanno avuto un ruolo decisivo in queste leggi incostituzionali. Ciampi ha firmato il Porcellum senza obiezioni, come ha poi fatto Mattarella con l’Italicum, mentre Napolitano, eletto due volte da parlamenti frutto dell’incostituzionalità, quando era in carica mai ha messo in discussione la legge elettorale, semmai ha solo cercato di non far votare.
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Le Pen, Rivoluzione Francese: via da euro, Ue e Nato
Addio all’euro, all’Ue a anche alla Nato, e largo ai referendum come strumento di democrazia diretta a supporto del governo. «Io sono la candidata della Francia del popolo contro la destra dei quattrini e la sinistra dei quattrini». A pochi mesi dalle elezioni, Marine Le Pen annuncia che, se diverrà presidente, procederà a due referendum. Uno sull’Europa, per uscire dall’euro e dall’Unione Europea: «Spero che il sistema europeo diventi per tutti solo un brutto ricordo». La Francia – altra notizia, clamorosa – si sgancerebbe anche dall’Alleanza Atlantica, tuttora impiegata in chiave anti-Russia: la Le Pen lascerebbe il “comando integrato” della Nato, con una decisione che rievoca il sovranismo anche militare di Charles De Gaulle. In più, Marine Le Pen – data in testa al primo turno, in programma per il 23 aprile – annuncia anche un referendum istituzionale, per introdurre la possibilità di andare alle urne, con un minimo di 500.000 firme, per chiedere di fare una nuova legge o per bocciarne una già adottata dal Parlamento. «Le Pen e la Francia scoprono i referendum come strumenti di democrazia partecipativa», scrive “La Stampa”, commentando il discorso con cui, a Lione, la Le Pen ha lanciato la campagna elettorale che sta facendo tremare Bruxelles.«Da quando sono venute fuori le rivelazioni sugli stipendi intascati dalla moglie di Fillon per un’attività di assistente parlamentare, che probabilmente non ha mai svolto», la leader francese «è data sempre prima nei sondaggi relativi al primo turno delle presidenziali», scrive Leonardo Martinelli sul quotidiano torinese. «La sua battaglia, comunque, non è vinta, perché nelle stesse inchieste appare costantemente sconfitta al ballottaggio». In ogi caso, la Le Pen suona la carica: annuncia da subito 144 misure di governo, alcune rivoluzionarie, e si presenta in modo «altamente battagliero». Tanto per chiarire: «Da queste elezioni dipende il futuro della Francia come nazione libera», dice. «Non mi interesso solo al patrimonio materiale dei francesi – precisa – ma anche al loro capitale immateriale». Sul piano economico, Marine Le Pen vuole imporre una tassa del 3% su tutte le importazioni per finanziare l’aumento degli stipendi e delle pensioni più basse. E, come Trump, parla di «protezionismo intelligente», un sistema che permetterà, ad esempio, di tassare le società francesi che hanno delocalizzato all’estero per fabbricare prodotti da vendere poi sul mercato nazionale.«Madame Le Pen ha scoperto le sue carte», prende nota Marco Bresolin, sempre sulla “Stampa”. «L’annuncio del referendum per uscire dalla Ue (e dalla Nato) conferma un’intenzione nota da tempo». Tutti sapevano che prima o poi sarebbe arrivato, «ma forse in pochi si aspettavano un’uscita netta così in anticipo, destinata a trascinare l’Europa al centro della campagna elettorale francese, per molto tempo». Mancano infatti ancora più di tre mesi all’elezione del nuovo presidente (il ballottaggio è fissato per il 7 maggio) e «sull’asse Bruxelles-Parigi, idem su quello tra Bruxelles e le altre capitali, saranno tre mesi di fibrillazioni». I sondaggi danno Marine Le Pen al primo posto davanti a tutti gli altri candidati alle presidenziali francesi. Solo lei raggiunge il 25%, il che – per contro – significa che il 75% le sarebbe avverso: «E i precedenti rivelano che in casi come questi i francesi si sono già dimostrati pronti a costruire una coalizione anti-Front nel nome del “voto utile” (Chirac fu sostenuto dai socialisti nel 2002 al ballottaggio con Le Pen padre)». Già, ma erano altri tempi: l’euro e Bruxelles non avevano ancora “terremotato” la vita dei francesi.In ogni caso, Bruxelles «non può far finta di nulla, non può attendere il 7 maggio per preparare le eventuali contromosse», scrive Bresolin, perché – in contemporanea con la campagna elettorale francese – l’agenda a dodici stelle prevede una serie di appuntamenti-chiave: «In questi novanta giorni l’Ue dovrà iniziare a trattare il divorzio con la Gran Bretagna, che notificherà ufficialmente la sua intenzione di uscire dall’Unione entro la fine di marzo». Attenzione: «L’atteggiamento riservato a Londra sarà un messaggio anche alle altre capitali tentate dalla fuga». Ma non è tutto: «Tra meno di due mesi (il 25 marzo) Roma ospiterà il summit che avrà il compito di ridisegnare l’Europa del futuro. Domanda: che futuro potrebbe avere un’Europa che, dopo la Gran Bretagna, si trovasse orfana anche della Francia, uno dei sei paesi fondatori?». Il pensiero dominante a Bruxelles è che una “Frexit” non sarebbe la stessa cosa della Brexit, «semplicemente per il fatto che, già oggi, i ruoli di Francia e Gran Bretagna nella Ue sono molto diversi tra di loro. Parigi è uno dei pilastri dell’Unione e – a fasi alterne – anche locomotiva», aggiungre Bresolin. Londra, al contrario, si è sempre defilata, ottenendo un trattamento di favore: mai entrata nell’euro, e neppure nell’area Schengen.Anche vista delle elezioni francesi, continua Bresolin, assume un’importanza speciale il vertice europeo di Roma. «Paul Magnette, leader della Vallonia, balzato agli onori delle cronache in autunno per aver tenuto sotto scacco il Ceta (accordo commerciale Ue-Canada), ha buttato lì una soluzione radicale: per il bene dell’Europa, il socialista belga ha auspicato che altri Stati prendano la strada della Gran Bretagna». Magnette ha citato la Polonia, l’Ungheria, la Romania e la Bulgaria, «paesi che alcuni governi considerano ancora come “zavorre”», ma ha anche parlato di Danimarca e Svezia, «con cui si potrebbe restare legati solo da un meno vincolante accordo commerciale». L’Italia è invece allineata al suo maggiore avversario, Angela Merkel, che sostiene «un’Europa disegnata a cerchi concentrici, con gradi di integrazione variabili». Un’Europa che Bresolin definisce «più flessibile e dunque più dinamica», e che sarebbe «la ricetta per reagire alla Brexit», e anche «per scongiurare un risultato simile se anche i francesi, in caso di clamorosa vittoria di Le Pen, si trovassero a decidere il loro destino europeo con un referendum», cioè con un esercizio di democrazia: roba da mandare nel panico i signori dell’Ue, che hanno pianificato la devastazione neoliberista dell’economia europea a cominciare da quella italiana, rovinata dall’austerity.Addio all’euro, all’Ue a anche alla Nato, e largo ai referendum come strumento di democrazia diretta a supporto del governo. «Io sono la candidata della Francia del popolo contro la destra dei quattrini e la sinistra dei quattrini». A pochi mesi dalle elezioni, Marine Le Pen annuncia che, se diverrà presidente, procederà a due referendum. Uno sull’Europa, per uscire dall’euro e dall’Unione Europea: «Spero che il sistema europeo diventi per tutti solo un brutto ricordo». La Francia – altra notizia, clamorosa – si sgancerebbe anche dall’Alleanza Atlantica, tuttora impiegata in chiave anti-Russia: la Le Pen lascerebbe il “comando integrato” della Nato, con una decisione che rievoca il sovranismo anche militare di Charles De Gaulle. In più, Marine Le Pen – data in testa al primo turno, in programma per il 23 aprile – annuncia anche un referendum istituzionale, per introdurre la possibilità di andare alle urne, con un minimo di 500.000 firme, per chiedere di fare una nuova legge o per bocciarne una già adottata dal Parlamento. «Le Pen e la Francia scoprono i referendum come strumenti di democrazia partecipativa», scrive “La Stampa”, commentando il discorso con cui, a Lione, la Le Pen ha lanciato la campagna elettorale che sta facendo tremare Bruxelles.
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L’Italia resta terra di conquista, non si vedono vie d’uscita
L’Italia obbedisce, da decenni, a “padroni” stranieri: americani, inglesi, francesi. L’ultimo capitolo, quello del Britannia, tra le macerie di Mani Pulite: via libera alla grande privatizzazione del paese, smantellando quello che ne era stato il principale volano economico, l’industria pubblica. Esecutori: Prodi, Amato, D’Alema, Ciampi, Padoa Schioppa. Ma l’ordine era partito dall’alto, dai dominus internazionali che, per gli affari “regionali”, potevano puntare su affiliati di ferro come Mario Draghi e Giorgio Napolitano. Via i ladri di Tangentopoli: al loro posto, obbedienti servitori per il progetto di sottomissione denominato Unione Europea, che si avvale della politica di rigore indotta dall’euro e imposta a tutti, tranne a banche e multinazionali. Austerity che trasforma lo Stato in una periferia indigente, senza più sovranità, costretta a elemosinare tasse sempre più soffocanti, col risultato – scontato – di deprimere l’economia: meno consumi, meno lavoro, meno reddito, erosione dei risparmi, crisi e disoccupazione dilagante, tagli a pensioni e sanità, svendita del patrimonio pubblico. E soprattutto: assenza di futuro, mancanza di alternative all’agonia di un paese da cui i giovani scappano, non si sposano più, non fanno più figli.E’ il rimbalzo europeo dell’ondata neoliberista cavalcata da Reagan e Thatcher negli anni ‘80, cui – secondo un economista come Nino Galloni – l’Italia si allineò prontamente, staccando il “bancomat” di Bankitalia (allora retta da Ciampi) dal Tesoro, di cui era ministro Andreatta, un pioniere delle privatizzazioni. Travolti per via giudiziaria i leader della Prima Repubblica, discutibili e controversi ma arroccati sulla difesa della sovranità nazionale, fonte del loro potere, a rovinare la festa all’ex Pci – unica forza risparmiata da Mani Pulite – irruppe il Cavaliere, che però non andò oltre gli slogan (rivoluzione liberale, meno tasse) e si limitò a congelare la situazione, senza osare sfidare Bruxelles. Proprio gli interessi di bottega (Mediaset, Mondadori) resero Berlusconi vulnerabile, nel 2011, di fronte all’assalto finale della Troika, con l’imposizione del commissario Monti, sorretto anche dal Pd di Bersani fino all’inserimento nella Costituzione del pareggio di bilancio, norma esiziale che di fatto esautora definitivamente governo e Parlamento privandoli di ogni residua sovranità, rendendo le elezioni puro esercizio rituale, senza efficacia politica.Dopo Berlusconi, Renzi: altro giro, altro abbaglio. Il suo programma: scritto, come gli altri, sotto dettatura. Consiglieri: Yoram Gutgeld, Marco Carrai, Michael Ledeen. Ispiratori: Tony Blair, e il Ceo di Jp Morgan, Jamie Dimon, con la collaborazione di Larry Fink, patron del maggior fondo d’investimenti del pianeta, BlackRock, a cui Renzi ha regalato una grossa fetta di Poste Italiane, azienda in super-attivo che all’Italia fruttava quasi mezzo miliardo all’anno. La riforma di Renzi? Il Jobs Act, su ordine dell’élite finanziaria, atlantica e tedesca, fanaticamente decisa a imporre ad ogni costo il dogma mercantilista: svalutare il lavoro in Europa per reggere la globalizzazione senza mai mettere a rischio i capitali, ma solo e sempre i lavoratori. Renzi però è caduto sul referendum: voleva una sola Camera elettiva, per un governo con più potere (più efficace, quindi, nell’eseguire direttive esterne senza “complicazioni” democratiche) ma gli italiani gli hanno detto no. Il super-potere, quelle riforme, le vuole. E continuerà a premere, sull’Italia ex-sovrana in balìa dell’euro, con l’arma del ricatto finanziario. Di fronte a elezioni anticipate, non emerge nessun Piano-B. I leader uscenti sono in crisi, gli altri sono deboli o non chiari. Nessuno pare in grado di imporre all’Europa di riscrivere, da cima a fondo, le regole che hanno devastato l’Italia, declassandola da potenza industriale a paese costretto a mendicare aiuti per il terremoto.L’Italia obbedisce, da decenni, a “padroni” stranieri: americani, inglesi, francesi. L’ultimo capitolo, quello del Britannia, tra le macerie di Mani Pulite: via libera alla grande privatizzazione del paese, smantellando quello che ne era stato il principale volano economico, l’industria pubblica. Esecutori: Prodi, Amato, D’Alema, Ciampi, Padoa Schioppa. Ma l’ordine era partito dall’alto, dai dominus internazionali che, per gli affari “regionali”, potevano puntare su affiliati di ferro come Mario Draghi e Giorgio Napolitano. Via i ladri di Tangentopoli: al loro posto, obbedienti servitori per il progetto di sottomissione denominato Unione Europea, che si avvale della politica di rigore indotta dall’euro e imposta a tutti, tranne a banche e multinazionali. Austerity che trasforma lo Stato in una periferia indigente, senza più sovranità, costretta a elemosinare tasse sempre più soffocanti, col risultato – scontato – di deprimere l’economia: meno consumi, meno lavoro, meno reddito, erosione dei risparmi, crisi e disoccupazione dilagante, tagli a pensioni e sanità, svendita del patrimonio pubblico. E soprattutto: assenza di futuro, mancanza di alternative all’agonia di un paese da cui i giovani scappano, non si sposano più, non fanno più figli.
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L’Italia sogna l’uomo forte, ma ha soltanto leader deboli
«Così, fra i cittadini è cresciuto il distacco dalla dimensione pubblica», scrive Diamanti su “Repubblica”. «Al “senso civico” è subentrato il “senso cinico”». Mentre, per citare Bauman, si è diffusa «la solitudine del cittadino globale». Ed è così che «la prospettiva di “un Uomo Forte al governo” è divenuta tanto popolare. Che non significa populista. Ma lo può diventare, se non trova risposta nei partiti». A quel punto, «i cittadini restano soli», davanti ai loro monitor: «Dialogano, interagiscono e reagiscono con il mondo soprattutto attraverso la rete. Mediante i Pc, i tablet e, soprattutto, gli smartphone. Basta guardarsi intorno, nei luoghi pubblici, per trovarsi circondati da persone che camminano oppure stanno ferme, ma con gli occhi fissi sullo smartphone, mentre le dita battono sui tasti». Una “folla solitaria”, per echeggiare il noto saggio di David Riesman. «“Affollata” di persone che sono sempre in comunicazione con gli altri, con il mondo, ma sono sempre sole. Meglio non stupirsi, allora, se cresce la domanda di un Uomo Forte. “Autorevole”, non “autoritario”. Un “leader”, non un “dittatore”». Già, perché «questa società è allergica ai vincoli e alle regole: figurarsi se accetterebbe figure troppo “forti”. Basta vedere che fine ha fatto Silvio Berlusconi, o le difficoltà che incontra Matteo Renzi».Fino a pochi mesi fa, infatti, si marciava verso un bicameralismo “imperfetto”, con un Senato ridimensionato. E una legge elettorale a doppio turno, «a sostegno di una democrazia maggioritaria». Tutto a monte: prima la bocciatura imposta dal referendum, che ha confermato l’attuale Senato e dunque il bicameralismo classico. Poi la sentenza della Corte Costituzionale, che ha emendato l’Italicum, dichiarando illegittimo il ballottaggio: se per vincere bisogna ottenere il 40% dei voti, l’Italia resterà senza maggioranze né leadership precise, annota Diamanti sempre su “Repubblica”. Se Renzi è il vero sconfitto dal referendum, i vincitori sono frammentati e incompatibili tra loro. «E in una competizione proporzionale, in un Parlamento con due Camere senza maggioranze chiare e omogenee, la minoranza renziana rischia di risultare maggioritaria», dal momento che «non si vede un partito in grado, da solo, di superare il 40% dei voti al primo turno».Un ulteriore mutamento degli ultimi mesi è determinato dall’appannarsi della prospettiva “personale”. Perché i sistemi elettorali di Camera e Senato, oggi, favoriscono semmai il ritorno dei partiti, come ha suggerito con qualche ironia Giuliano Ferrara, intervistato dall’“Unità”. «D’altra parte – aggiunge Diamanti – gli “uomini forti” oggi vengono evocati e invocati dagli italiani perché non ci sono. E perché i partiti, gli attori e i canali della rappresentanza, sono sempre più deboli, lontani dalla società e dal territorio». Il Pd, ad esempio, ha visto dimezzarsi i suoi iscritti negli ultimi tre anni: erano 76.000 nel 2013, oggi sono appena 37.000. Ma non è solo un problema italiano: la sinistra “riformista” è in grande difficoltà in tutta Europa, come ha rammentato Marc Lazar, in un’intervista su “Le Monde”. In Francia, in vista delle presidenziali, il Ps non è mai apparso tanto debole, stretto fra la sinistra di Mélenchon e il centro di Macron. Ma anche altrove: in Germania, in Spagna, in Gran Bretagna. E perché? Diamanti qui non lo spiega, ma la risposta sta emergendo in modo plateale: cooptata dall’élite neoliberista e privatizzatrice, l’ex “sinistra riformista” ha presentato ai cittadini ricette inevitabilmente “deludenti”, impopolari, che hanno gonfiato le fila dei cosiddetti “populisti”.In Italia, i personaggi teoricamente accreditati come uomini-contro sono Grillo e Salvini, il primo a capo di un “non-partito”, il secondo alla guida di una Lega che ieri era «il soggetto politico più simile ai tradizionali partiti di massa», mentre ora «si è a sua volta personalizzata», inseguendo con fatica «la prospettiva di una destra lepenista-nazionale», incarnata in Francia dall’unica figura “forte” sulla scena, Marine Le Pen, contraltare perfetto dell’altra lady di ferro europea, Angela Merkel: più che l’Uomo Forte, oggi, la politica europea propone la Donna Forte. E in Italia? «Dobbiamo fare i conti con partiti ipotetici e non-partiti», conclude Diamanti. Partiti «dis-organizzati e poco radicati: anzi, s-radicati nella società e sul territorio». E così, «mentre si cerca – e insegue – un Uomo Forte, incontriamo leader deboli, oppure indeboliti». Perché la forza del leader «sta nella capacità di dare volto e voce ai cittadini», che sono «in cerca di valori, ma anche di persone in cui riconoscersi: per non sentirsi deboli, e disorientati». Si guarda agli Usa? «Da noi, però, non c’è un Trump», comunque lo si valuti, «ma solo pallide imitazioni. Più che popolari: populiste». Sicchè, chiosa Diamanti, «due mesi dopo il referendum, tutto sembra cambiato. E oggi marciamo sicuri. Verso il passato».Da Trump a Putin, l’Uomo Forte torna di moda. Niente a che vedere con i grandi leader del passato, i giganti della storia del secondo ‘900 – Mao e Fidel, i Kennedy, Gorbaciov. In Italia ogni tanto qualche intellettuale rimpiange personaggi come Adriano Olivetti ed Enrico Mattei, leader identitari come Berlinguer, statisti spericolati come Craxi. Poi vennero Bossi e Berlusconi. Dopo la meteora Renzi, oggi siamo tornati al modello Gentiloni, «un politico impopulista, abile a mediare e a negoziare, lontano dall’icona del Capo», osserva Ilvo Diamanti, che segnala quanto sia diffusa, fra i cittadini, la domanda di un “uomo forte”. Dal lontano 2004, i sondaggi Demos ricostruiscono la tendenza di questo orientamento, mai così estesa: 8 italiani su 10. «Significa, praticamente, (quasi) tutti i cittadini». Un segnale inquietante? Non proprio: «L’Uomo Forte, che ottiene tanti consensi fra gli italiani, non è un nuovo Mussolini, un Duce. Non manifesta una richiesta di “autoritarismo”. Piuttosto: di “autorità”. Cioè: di una leadership dotata di legittimità». Domanda che si è pian piano “personalizzata”, concentrata sulle singole persone, dopo che i partiti hanno perduto i legami con la società, gestendo istituzioni sempre più “lontane”, burocrazie anonime e minacciose come quella dell’Ue.
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Linera: la globalizzazione è morta, Trump ne è il becchino
Il re è nudo. Finalmente una voce autorevole della sinistra mondiale – il vicepresidente boliviano Alvaro G. Linera – ha il coraggio di dirlo forte e chiaro: la globalizzazione è morta. Incapaci di interpretare i sintomi dell’evento (dalla Brexit alla vittoria elettorale di Trump, senza trascurare il no del popolo italiano alla “riforma” costituzionale renziana – ennesima sconfitta referendaria dopo quelle subite in Francia, Irlanda e Grecia dal fronte liberal-socialdemocratico europeista) la maggioranza degli intellettuali post e neomarxisti rifiutano di prendere atto di quello che appare un vero e proprio cambio d’epoca. Il paradosso consiste nel fatto che quanto sta avvenendo è l’esito inevitabile di processi che loro stessi hanno contribuito a mettere in luce: finanziarizzazione dell’economia, de-democratizzazione dei sistemi politici, ristrutturazione tecnologica, guerra di classe dall’alto contro sindacati, movimenti e ogni forma di resistenza organizzata delle classi subordinate, crescita oscena delle disuguaglianze, immiserimento di settori sempre più ampi della popolazione mondiale, ecc.Dimenticano, fra le altre cose, di avere scritto e detto che la crisi è un fenomeno eminentemente politico, che si spiega a partire dai rapporti di forza fra classi sociali (e fra nazioni dominanti e nazioni dominate: urge rileggersi Samir Amin), e non dalle “leggi” dell’economia. Perché stupirsi, dunque, se la rottura si manifesta come brusco ritiro del consenso popolare alle élite che sfruttano e opprimono? Il fatto è che, a causa della totale insipienza politica, culturale e organizzativa delle sinistre “radicali” (quelle socialdemocratiche sono da tempo passate al nemico), tale rivolta avviene sotto le insegne del populismo di destra. Scandalizzati dal “tradimento” delle masse, i suddetti intellettuali gridano al pericolo fascista e convergono nel “fronte unito contro il populismo” guidato da partiti, istituzioni, media che fino a ieri indicavano al pubblico disprezzo. Così assistiamo a performance imbarazzanti come quella dell’ex nemico pubblico numero uno dell’ordine capitalista, Toni Negri, che intervistato da “La7”, difende una globalizzazione che avrebbe diffuso benessere, uguaglianza e democrazia (su che pianeta vive?), con argomenti analoghi a quelli del “compagno” Xi Jinping (lo stesso che vende il proprio popolo allo sfruttamento selvaggio delle imprese multinazionali) il quale ha riscosso, con il suo discorso a Davos, il plauso delle élite liberiste dimentiche delle sue credenziali totalitarie.Questa confusione mentale nasce dal fatto che post e neomarxisti non si sono mai emancipati da una visione della storia come un processo lineare e necessario verso il progresso: unificazione dei mercati mondiali= sviluppo delle forze produttive=creazione delle condizioni per la transizione al socialismo guidata – ça va sans dire – da lor signori (o, nella versione post operaista, autogestita dalle avanguardie del “lavoro cognitivo”). Invece la storia non è un processo lineare e, mentre la mondializzazione è associata al capitalismo dalle sue lontane origini mercantiliste, la globalizzazione nelle forme che ha assunto negli ultimi decenni è (o meglio è stata) una fase contingente destinata a esaurirsi come quella culminata e terminata fra fine Ottocento e primo Novecento. «La globalizzazione», scrive Linera, «come meta-racconto, questo è, come orizzonte politico-ideologico capace di canalizzare le speranze collettive verso un unico destino che permettesse di realizzare tutte le possibili aspettative di benessere, è esplosa in mille pezzi».Laddove la subordinazione delle condizioni di esistenza dell’intero pianeta alla valorizzazione del capitale, scandita dai cicli egemonici delle nazioni che si sono succedute alla guida del processo, è sempre stata imposta con la forza delle armi, quella attuale si è fondata anche su un progetto ideologico, sulla costruzione di un senso comune legittimante (Gramsci docet) cui anche le sinistre hanno attivamente contribuito. L’egemonia, scrive ancora Linera, ha iniziato a incrinarsi dopo la nascita dei governi rivoluzionari che in America Latina hanno avviato il tentativo di una transizione, se non al socialismo, verso modelli politici, sociali e culturali post neoliberisti. Altre cause di crisi si sono aggiunte in tutto il mondo – dagli Stati Uniti, all’Europa, al vicino e lontano Oriente – fino a determinare il crollo che oggi è sotto i nostri occhi: «Donald Trump non è il boia dell’ideologia trionfalista della libera impresa, bensì il medico legale al quale tocca ufficializzare una morte clandestina». Viviamo un tempo di incertezza assoluta, conclude Linera, un tempo che può essere fertile nella misura in cui spazzerà via le certezze ereditarie, obbligandoci a costruire nuove certezze con le particelle del caos «che si lascia dietro la morte delle narrazioni passate».(Carlo Formenti, “La globalizzazione è morta”, da “Micromega” del 27 gennaio 2017).Il re è nudo. Finalmente una voce autorevole della sinistra mondiale – il vicepresidente boliviano Alvaro G. Linera – ha il coraggio di dirlo forte e chiaro: la globalizzazione è morta. Incapaci di interpretare i sintomi dell’evento (dalla Brexit alla vittoria elettorale di Trump, senza trascurare il no del popolo italiano alla “riforma” costituzionale renziana – ennesima sconfitta referendaria dopo quelle subite in Francia, Irlanda e Grecia dal fronte liberal-socialdemocratico europeista) la maggioranza degli intellettuali post e neomarxisti rifiutano di prendere atto di quello che appare un vero e proprio cambio d’epoca. Il paradosso consiste nel fatto che quanto sta avvenendo è l’esito inevitabile di processi che loro stessi hanno contribuito a mettere in luce: finanziarizzazione dell’economia, de-democratizzazione dei sistemi politici, ristrutturazione tecnologica, guerra di classe dall’alto contro sindacati, movimenti e ogni forma di resistenza organizzata delle classi subordinate, crescita oscena delle disuguaglianze, immiserimento di settori sempre più ampi della popolazione mondiale, ecc.
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Barnard: leggete a chi vanno i miliardi della Bce. E vomitate
Mi prenderei a sberle. Avevo un documento agghiacciante in scrivania e non l’ho aperto per mesi. Dentro c’è la verità su chi Mario Draghi sta veramente finanziando coi miliardi del Quantitative Easing (Qe) mentre storce il naso se Roma chiede 20 euro per gli abruzzesi in ipotermia, sfollati da mesi, con morti in casa e la vita devastata, o per mettere 11 euro in più nel Job Act infame di Renzi e Poletti. Quando io gridavo a La7 “Criminali!” contro gli eurocrati, l’autore del programma, Alessandro Montanari, mi si avvinghiava alla giacca dietro le quinte e mi rampognava fino alla diarrea. Quel genio di Oliviero Beha mi rampognò in diretta, è in video. Ma voi leggete sotto, mentre pensate ai sofferenti d’Italia. Bacinella del vomito a portata di mano, raccomando. Il pdf in questione mi arrivò a fine ottobre via mail da Amsterdam, fonte autorevole oltre ogni dubbio. M’ingannò, porcaputtana, il subject mail che era “Draghi finanzia il Climate Change”. Pensai, ok, ci arrivo, un attimo, c’è la Siria, Trump, il referendum… Ma dentro quel pdf c’era ben di peggio. Ora alcuni fatti spiegati alla nonna per capire il resto dell’incubo Ue.La Banca Centrale Europea crea tutti gli euro che esistono. E’ una specie di governo di questa Ue. Dopo appena 13 anni la moneta unica aveva letteralmente fatto a pezzi ogni singolo paese dell’Eurozona, Germania inclusa (diedi i dati in Tv 3.000 volte). Tutto il mondo finanziario extra europeo sapeva (e sa) che l’euro è fallito. A quel punto l’unico modo perché l’unione monetaria non crollasse in una catastrofe economica da libri di storia era se il creatore dell’euro, la Bce, si metteva a comprare una gran massa dei beni finanziari emessi dagli Stati-euro che ormai erano visti come semi-spazzatura dal mondo. Questo per artificialmente tenerne i prezzi e gli interessi a un livello di decenza. Draghi con la Bce lo fece: l’operazione si chiama Quantitative Easing (Qe). Ma non bastò, anzi, le cose andarono anche peggio per motivi che già scrissi 3 milioni di volte. Il problema era che anche le aziende private nell’Eurozona andavano da vomitare.Dovete sapere che anche le aziende emettono beni finanziari, cioè titoli. E allora Draghi alla disperazione si presentò l’anno scorso a giugno e annunciò un altro Qe, però questa volta per le aziende, col nome di Cspp. E si mise a comprare miliardi in titoli di aziende per puntellarle anche se semidecomposte. Dovete capire che un’azienda ha in pratica due modi di finanziarsi con prestiti: chiedere in banca o emettere titoli. E Draghi annuncia che ora la Bce gli compra i titoli. Ok. Uno dice: be’, se serve a salvare il mobilificio di Ancona con 80 operai, perché no? La risposta è tragica e ci apre sulle porte dell’infamia della Bce. Le piccole aziende non possono emettere titoli, sono condannate alla gogna del prestito da banche, fine. Infatti la Bce di Draghi precisò che avrebbe acquistato titoli di aziende “corporate”. Che significa? Che avrebbe comprato i titoli dei cani grossi, come Telecom, o Vw. Ops! Ma per noi italiani già questa è una sciagura, perché da noi le piccole medie aziende sono il 98% delle imprese e creano il 78% della ricchezza dell’Italia. Sfiga. Crepate. Titoli Benetton? Certo che li compriamo, dice Draghi.E allora uno apre il pdf che mi arrivò a fine ottobre per mail, e scopre, transazioni bancarie alla mano, a chi stanno andando i 125 miliardi che Draghi ha programmato di sborsare per ‘puntellare’ le aziende. E uno vomita. Petrolieri, mega imprese di servizi, industrie di armi, auto di stralusso, nucleare, colossi delle privatizzazioni, giganti dal fashion o del farmaco, persino casinò e produttori di champagne. Centoventicinque miliardi di regali a ’sti tizi. Operaio, commessa, crepate in Liguria, Marche, Puglia… L’ipotermico di Teramo? Ma scherziamo? Mille eurooooo? Ma cosa pretende? Palate di miliardi di euro invece a Shell, Eni, Repsol, Total, una trentina di aziende spagnole di servizi del gas, produttori di centrali nucleari come Teollisuuden, come Siemens, e Urenco. Poi gli Agnelli con la finanziaria Fiat Exor (Ferrari), Renault, Mercedes, Vw. Poi criminali di guerra come Thales, che hanno venduto armi in Africa sulla puzza di milioni di cadaveri. Poi i nemici giurati dell’acqua pubblica, cioè i colossi francesi Vivendi e Suèz. E ancora i super-colossi: Solvay, Nestlé, Coca Cola, Unilever, Novartis, Michelin, Ryanair, Luis Vuitton, Danone, assicurazioni Allianz, Deutsche Telekom, Bayer, Telefonica, Moët & Chandon, e il mostro delle scommesse Novomatic…Soldiiiiiiiiiiiiii yes! La Bce fa proprio l’interesse del pubblico, con qualcosa come 17.900 piccole medie aziende europee che sono il cuore dell’impiego in Ue totalmente fuori dal festino. Ecco cosa dovete rispondere a chi vi rampogna “Ci vuole più Europa”. Basterebbe questo articolo per tagliargli la gola, a ’sti assassini. In Italia ’sta porcata vede fiumi di soldi versati in prima fila ai super big dell’energia, ma nessuno becca palate di liquidi come l’Eni; seguono Snam, Enel, Terna, Hera, e altri minori. Poi: Atlantia (Mediobanca, Goldman Sachs, BlackRock e Cassa Risp. Torino), le Generali, Telecom Italia, Luxottica, e i soliti Agnelli con Exor. E tu che cazzo vuoi? Tu chi sei, cittadino? Chi sei, sfigato piccolo imprenditore? Chi siamo noi, eh?, da quando Jaques Attali, uno dei padri della Bce, ci definì «la plebaglia europea»? Eccovi una notizia. Anche se, mi si perdoni, non sono immani tragedie come i 104 indagati del Pd di Travaglio-Gomez, la Raggi e la Cgil che fa i ruttini sul Job Act. Good luck Italians, good luck piccoli imprenditori e dipendenti che mai avete capito un cazzo.(Paolo Barnard, “A chi vanno i miliardi della Bce – zitta centrItalia, crepa”, dal blog di Barnard del 30 gennaio 2017).Mi prenderei a sberle. Avevo un documento agghiacciante in scrivania e non l’ho aperto per mesi. Dentro c’è la verità su chi Mario Draghi sta veramente finanziando coi miliardi del Quantitative Easing (Qe) mentre storce il naso se Roma chiede 20 euro per gli abruzzesi in ipotermia, sfollati da mesi, con morti in casa e la vita devastata, o per mettere 11 euro in più nel Job Act infame di Renzi e Poletti. Quando io gridavo a La7 “Criminali!” contro gli eurocrati, l’autore del programma, Alessandro Montanari, mi si avvinghiava alla giacca dietro le quinte e mi rampognava fino alla diarrea. Quel genio di Oliviero Beha mi rampognò in diretta, è in video. Ma voi leggete sotto, mentre pensate ai sofferenti d’Italia. Bacinella del vomito a portata di mano, raccomando. Il pdf in questione mi arrivò a fine ottobre via mail da Amsterdam, fonte autorevole oltre ogni dubbio. M’ingannò, porcaputtana, il subject mail che era “Draghi finanzia il Climate Change”. Pensai, ok, ci arrivo, un attimo, c’è la Siria, Trump, il referendum… Ma dentro quel pdf c’era ben di peggio. Ora alcuni fatti spiegati alla nonna per capire il resto dell’incubo Ue.
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Magaldi: “grazie” a Trump risorgerà una sinistra autentica
«Io sono contro tutti i muri, ma non mettiamo in croce Donald Trump: ricordiamoci che quel muro alla frontiera col Messico esisteva già». Gioele Magaldi, esponente italiano della massoneria progressista internazionale, indossa altre “lenti” per valutare i primissimi passi del nuovo inquilino della Casa Bianca. Premessa: «Chi lo attacca è in malafede, oppure ha scambiato per “sinistra” la politica dei Clinton e di Obama». Di fatto, dice Magaldi a “Colors Radio”, un paio di ottime cose “The Donald” le ha già fatte: «Intanto ha tolto di mezzo Jeb Bush, cioè la prosecuzione della narrazione del mondo in salsa terroristica. E poi ha intimato l’alt all’espansione di potere della Cina, che è un colosso retto dalla nomenklatura “fasciocomunista” messa in piedi da Henry Kissinger». Per Magaldi, il maggior risultato strategico del controverso Capitan Fracassa insediato a Washington sarà un “regalo” indiretto alla sinistra, quella vera, oggi ancora dormiente: solo grazie al duro confronto con Trump, sostiene l’autore del bestseller “Massoni, società a responsabilità illimitata”, potrà finalmente emergere una nuova dirigenza politica progressista, consapevole del fatto che «l’unica ideologia non ancora pienamente realizzata è proprio la democrazia».Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt ispirato alla politica keynesiana (lo Stato che investe, promuendo benessere diffuso), ha abituato il suo pubblico a declinare gli scenari geopolitici tenendo conto del «back office del potere» che, sostiene, è interamente massonico, gestito da 36 superlogge internazionali (Ur-Lodges), che a loro volta utilizzano entità “paramassoniche” (Trilaterale, Bilderberg, Fmi e Banca Mondiale, think-tanks) per imporre i loro diktat ai governi eletti, svuotandoli in tal modo di legittimità e riducendo la democrazia a mero esercizio elettorale, sempre più inutile, di fronte alla mancanza di vere alternative al pensiero unico neoliberista, che è fondato sull’austerity per tutti, tranne che per l’élite finanziaria. Dalla politica economica alla geopolitica, per Magaldi tutto si tiene: Jeb Bush è esponente della pericolosa Ur-Lodge “Hathor Pentalpha”, ritenuta “incubatrice” della strategia della tensione internazionale, dall’11 Settembre alla creazione dell’Isis. «Bene ha fatto, la massoneria americana progressista, ad appoggiare Trump alle primarie repubblicane: un gioco certamente spregiudicato, che ha però contribuito a togliere di mezzo quello che sarebbe stato un continuatore degli orrori che hanno destabilizzato il pianeta negli ultimi anni».Magaldi vede poi la longa manus di un’altra “Ur-Lodge” di destra, la “Three Eyes”, nella “fabbricazione in vitro” della nuova Cina, ad economia capitalista ma retta in modo autoritario dal partito unico: «Operazione progettata da Kissinger, autorevole esponente della “Three Eyes”», che pilotò la svolta del “fratello” Deng Xiaoping verso l’economia di mercato, sottoposta però al rigidissimo controllo del regime. Donald Trump? «Vedremo che altro farà, ora, ma non processiamolo prima del tempo». Finirà per usare il suo nuovo potere per diventare ancora più ricco? Magaldi non lo crede: «Ormai è calato nella parte dello statista, la “roba” se l’è lasciata alle spalle». Non come Berlusconi, da più parti definito un “Trump italiano” ante litteram: «Silvio non è mai riuscito a staccarsi dalle sue aziende, Trump sarà più libero di agire». Più che di un “Trump italiano”, secondo Magaldi, il nostro paese ha bisogno di un vero leader di sinistra, autenticamente liberalsocialista e di spessore, non certo alla Renzi. Magaldi giudica «prolifico» il dibattito in corso nel Pd, fatta eccezione per «quel bel tomo di D’Alema, che governò con una spruzzatina di sinistra per abbellire il suo sostanziale neoliberismo di destra fondato sulle privatizzazioni, sulla scorta delle “terze vie” dei vari Clinton e Blair». Merita attenzione chi oggi critica Renzi “da sinistra”, «purché si evitino certe ipocrisie: i vari Bersani votarono tutte le porcherie del governo Monti».«Io sono contro tutti i muri, ma non mettiamo in croce Donald Trump: ricordiamoci che quel muro alla frontiera col Messico esisteva già». Gioele Magaldi, esponente italiano della massoneria progressista internazionale, indossa altre “lenti” per valutare i primissimi passi del nuovo inquilino della Casa Bianca. Premessa: «Chi lo attacca è in malafede, oppure ha scambiato per “sinistra” la politica dei Clinton e di Obama». Di fatto, dice Magaldi a “Colors Radio”, un paio di ottime cose “The Donald” le ha già fatte: «Intanto ha tolto di mezzo Jeb Bush, cioè la prosecuzione della narrazione del mondo in salsa terroristica. E poi ha intimato l’alt all’espansione di potere della Cina, che è un colosso retto dalla nomenklatura “fasciocomunista” messa in piedi da Henry Kissinger». Per Magaldi, il maggior risultato strategico del controverso Capitan Fracassa insediato a Washington sarà un “regalo” indiretto alla sinistra, quella vera, oggi ancora dormiente: solo grazie al duro confronto con Trump, sostiene l’autore del bestseller “Massoni, società a responsabilità illimitata”, potrà finalmente emergere una nuova dirigenza politica progressista, consapevole del fatto che «l’unica ideologia non ancora pienamente realizzata è proprio la democrazia».
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Trump e il Muro: il lavoro viene prima del business parassita
Prove generali di protezionismo: una crepa nel muro della globalizzazione, che ha finora premiato le multinazionali “impunite”, libere di delocalizzare il lavoro moltiplicando i profitti a spese dell’occupazione nei paesi d’origine? Il problema, con Donald Trump, è che per abbattere quel muro se ne erige un altro, contro la mobilità dei migranti. E a pagare sono innanzitutto loro, i poveri, quelli del sud del mondo. Donald Trump appare duro, spietato. Ma quello che propone (anzi, impone) è un rovesciamento di valori: il lavoro viene prima del profitto. Ovvero: la Casa Bianca agevola il business delle multinazionali, tagliando le tasse, ma solo a patto che la grande industria torni a investire in patria, sanando la piaga della disoccupazione che ha devastato i lavoratori e impoverito la classe media. Scenari che il neopresidente Usa lascia intravedere da subito, con l’annuncio della barriera anti-immigrazione messicana finanziata con super-dazi per colpire le importazioni dal paese confinante. «Prima lezione: qui si fa sul serio», avverte Federico Rampini su “Repubblica”. «Arrivati al settimo giorno dell’era Trump, almeno una cosa dovremmo averla imparata. Lui fa quello che dice». Credevate fossero solo promesse elettorali? Errore: «Trump va preso addirittura alla lettera».Prima vittima del neopresidente, i poveri emigranti: bloccati, a quanto pare, dall’estensione del Muro (che già esiste, per ampi tratti, lungo le frontiere di California e Texas). «E adesso arriva l’altra metà della promessa: lo pagheranno i messicani. Da oggi sappiamo pure il come: con un dazio del 20% sui prodotti che varcheranno la frontiera, ogni merce “made in Mexico” importata negli Stati Uniti». Due le domande, osserva Rampini. La prima: è lecito? Il Messico fa parte del trattato Nafta che istituì con Usa e Canada il mercato unico nordamericano nel 1994. Ma se un presidente Usa vuole recedere dall’accordo, gli basta annunciarlo con preavviso unilaterale di sei mesi. Seconda domanda: cosa può fare il Messico per difendersi? «Certo è sempre possibile immaginare una serie di ritorsioni e rappresaglie a cominciare da un analogo dazio sul “made in Usa”. Qui però entra in gioco l’evidente asimmetria: il Messico esporta sul mercato Usa più di quanto i vicini settentrionali riescano a vendere ai consumatori messicani».L’asimmetria – che si traduce in un deficit commerciale visto dagli Stati Uniti – fa sì che nella guerra commerciale il Sud abbia molto più da perdere, scrive Rampini, secondo cui «l’unica vera incognita riguarda le multinazionali americane». Molte di loro, ricorda il giornalista, cominciarono a delocalizzare in Messico negli anni ‘90 per sfruttare i costi di produzione inferiori (soprattutto salariali) nelle cosiddette “maquiladoras”, stabilimenti che assemblano per riesportare negli Usa. Di fatto, quindi, «buona parte del commercio tra le due nazioni è in realtà commercio “interno” ad aziende transnazionali che hanno il quartier generale e gli azionisti negli Stati Uniti. Sono loro a trovarsi “prese in mezzo”, e di certo si muoveranno per ridurre i danni». Ai colossi dell’automobile, Trump ha già proposto un do ut des: voi la smettete di costruire fabbriche oltre confine, tornate a produrre negli Stati Uniti, e io in cambio vi riduco le tasse sui profitti e le regole anti-inquinamento.«Vedremo se può proporre contropartite attraenti anche ad altri settori industriali», aggiunge Rampini, sapendo che, in ogni caso, «per le multinazionali Usa si pone il problema delle fabbriche già esistenti». Esempio: Ford può cancellare, come ha fatto, il progetto di costruirne una nuova in Messico, «ma su quelle che ha già, subirà la mannaia del superdazio, 20% di sovrapprezzo se prova a rivendere quelle Ford “messicane” ai suoi clienti americani». E’ un problema enorme, «che riguarda una lunga lista di aziende», le cui voci «ora è presumibile che si faranno sentire». Per la cronaca: è anche la prima volta, dopo almeno trent’anni, che un politico al vertice dell’Occidente antepone l’occupazione al super-reddito dell’élite, vincolandolo alla protezione sociale della comunità nazionale.E’ il contrario esatto del dogma neoliberista spacciato per Vangelo da tutte le destre (e le sinistre) che si sono avvicendate, in apparente alternanza, al governo dei nostri paesi, “sbriciolati” proprio dal crollo della domanda interna (meno lavoro e quindi meno redditi e meno consumi, meno gettito fiscale e dunque più tasse e più debito) fino a gonfiare l’ondata di “populismo”, in cui è presente anche il rifiuto democratico dell’attuale gestione tecnocratico-finanziaria presentata come “inevitabile”, ad esempio nell’Europa del rigore “tedesco” imposto attraverso Bruxelles con la politica dell’euro. Quella di Donald Trump (“gli americani prima di tutto”) è una politica di assoluta rottura, di cui oggi l’inquilino della Casa Bianca si presenta come il nuovo campione mondiale. Un virus che potrebbe contagiare l’Unione Europea? Se si dovesse invertire anche da noi l’ordine delle priorità strategiche – il lavoro prima del business – è evidente che l’euro salterebbe: senza moneta sovrana e piena autonomia fiscale, nessun governo avrebbe la possibilità di incrementare, con investimenti e sgravi, la domanda interna, unica possibile soluzione per ridare fiato alle aziende, al lavoro, al paese.Prove generali di protezionismo: una crepa nel muro della globalizzazione, che ha finora premiato le multinazionali “impunite”, libere di delocalizzare il lavoro moltiplicando i profitti a spese dell’occupazione nei paesi d’origine? Il problema, con Donald Trump, è che per abbattere quel muro se ne erige un altro, contro la mobilità dei migranti. E a pagare sono innanzitutto loro, i poveri, quelli del sud del mondo. Donald Trump appare duro, spietato. Ma quello che propone (anzi, impone) è un rovesciamento di valori: il lavoro viene prima del profitto. Ovvero: la Casa Bianca agevola il business delle multinazionali, tagliando le tasse, ma solo a patto che la grande industria torni a investire in patria, sanando la piaga della disoccupazione che ha devastato i lavoratori e impoverito la classe media. Scenari che il neopresidente Usa lascia intravedere da subito, con l’annuncio della barriera anti-immigrazione messicana finanziata con super-dazi per colpire le importazioni dal paese confinante. «Prima lezione: qui si fa sul serio», avverte Federico Rampini su “Repubblica”. «Arrivati al settimo giorno dell’era Trump, almeno una cosa dovremmo averla imparata. Lui fa quello che dice». Credevate fossero solo promesse elettorali? Errore: «Trump va preso addirittura alla lettera».
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India: laboratorio mondiale per la demonetizzazione forzata
Oltre mezzo miliardo di indiani costretti ad aprirsi un conto in banca, quindi a far guadagnare le banche e a farsi controllare, al centesimo. Tutto questo da que mesi a questa parte, con l’improvvisa soppressione del cash a favore della moneta elettronica. «Pensavo che un esperimento del genere compiuto nel corpo vivo di una nazione di 1.276 milioni di abitanti, con oltre 3 milioni di chilometri quadrati, con la bomba atomica e situata in una posizione strategica (sia geopoliticamente che economicamente e finanziariamente), avrebbe richiamato l’interesse di qualche guru dell’economia, specialmente di sinistra», scrive Piero Pagliani. «Invece niente», nessuno si è accorto dell’enormità che sta avvenendo. In compenso, il magnate statunitense Steve Forbes ha definito la “demonetizzazione” indiana «nauseante e immorale, una rapina di massa», paragonandola alla politica di sterilizzazione forzata voluta da Indira Gandhi. Tutto è partito l’8 novembre scorso, quando il governo nazionalista indù retto da Narendra Modi ha dichiarato fuori corso tutte le banconote da 500 e 1.000 rupie (ovvero 7 e, rispettivamente, 14 euro). «Questo è equivalso a mettere fuori corso circa l’80% del denaro circolante».Gli indiani, ricorda Pagliani su “Megachip”, avevano due settimane di tempo per cambiare le loro banconote ormai “illegali” con quelle da 500 e 2.000 rupie, «facendo esasperanti code agli sportelli bancari dove sono morte decine di persone per infarto o collasso, o prelevare ai bancomat». Prelievi comunque limuitati, «solo fino a uno striminzito tetto massimo di 2.000 rupie, poi elevato a 4.000», cioè 55 euro. Pagliani denuncia «gli effetti di questa violenta demonetizzazione sui milioni di piccoli operatori economici che costituiscono il fitto tessuto economico indiano». Considera l’operazione «un enorme regalo alle banche che ha aspetti di sadismo sociale in una nazione di milioni di piccoli operatori economici». Si parla infatti di «centinaia e centinaia di milioni di persone danneggiate e a volte minacciate fin nella loro esistenza fisica e in quella dei loro familiari». In pratica, almeno 800 milioni di persone «gettate nella difficoltà e a volte nella disperazione», che oltretutto «sono solo un’avanguardia, una prima tranche». Infatti, «la mossa di Narendra Modi è un esperimento in grandissimo stile di un piano ben più generale portato avanti da potenti interessi radicati negli Stati Uniti e con vaste diramazioni internazionali».L’operazione, continua Pagliani, «è parte della politica di partnership strategica tra Usa e India, fortemente voluta dal presidente uscente Barack Obama». Più precisamente, «costituisce uno dei protocolli di cooperazione firmati tra il ministero indiano delle finanze e l’agenzia governativa statunitense Usaid». La manovra, aggiunge Pagliani, fa capo alle linee di azione della “Better Than Cash Alliance”, di cui fanno parte Mastercard, Visa, la Fondazione Ford e la Fondazione Gates, che agiscono anche individualmente, ad esempio proprio nell’iniziativa che ha colpito l’India. Non a caso Bill Gates era in visita in quel paese proprio in quei giorni e rilasciava dichiarazioni di sostegno alla demonetizzazione: «La moneta di plastica è il futuro in India». Ma uno dei padrini nascosti di questa manovra, spiega Pagliani, è Raghuram Rajan, governatore della Reserve Bank indiana fino a due mesi prima dell’annuncio a sorpresa che ha scioccato gli indiani. «Questo signore ha un passato come economista capo all’Fmi, è professore di economia all’Università di Chicago (culla accademica del neoliberismo) ed è membro del Gruppo dei Trenta» dove, spiega Norbert Haering, «rappresentanti di alto livello delle maggiori istituzioni commerciali finanziarie a livello mondiale condividono opinioni e piani coi presidenti delle più importanti banche centrali, a porte chiuse e senza nessun verbale».Raghuram Rajan è considerato un possibile successore di Christine Lagarde alla guida dell’Fmi: «Si sta conquistando il merito sul campo». Aggiunge Pagliani: «Se consideriamo il tessuto produttivo e commerciale indiano, il fatto che il 97% delle transazioni sono eseguite in contante e che solo il 55% degli indiani ha un conto in banca (e ci sono aree dove le banche sono lontanissime fisicamente) e che quei conti sono pochissimo movimentati, si capisce la misura del disastro indotto-voluto da questa manovra». Un disastro mistificato da slogan come “inclusione finanziaria” e “inclusione digitale”. «Insomma, il solito “nuovo che avanza”, il progresso, come ai tempi di Enrico VIII ed Elisabetta I lo erano le “enclosure” che gettavano nella miseria e nella disperazione i contadini inglesi che potevano solo andare a mendicare nelle città per farsi impiccare a schiere per via delle draconiane leggi contro l’accattonaggio e il vagabondaggio». Karl Marx sosteneva che la cosiddetta “accumulazione originaria” del capitale si ripete ciclicamente, come al solito «grondante sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro». Il perspicace “Hindustan Times titolava”: «Modi è come la regina Antonietta che diceva: Se non avete il pane mangiate le brioches».Quali sono i vantaggi che le élite mondializzate intendono trarre dalla demonetizzazione forzata che per ora vediamo all’opera in India? Almeno tre. Il primo: «Ogni cittadino, almeno nelle intenzioni, sarà costretto a imprestare il grosso del denaro che possiede e che guadagna alle banche. Semplicemente perché per poter usare la “moneta di plastica” deve avere un conto in banca, e ogni volta che versa sul conto in banca fa un prestito alla banca stessa. Un drenaggio di ricchezza verso i soliti noti che già posseggono la quasi totalità del pianeta Terra». Secondo, la tracciabilità: «Ovvero il controllo capillare. Praticamente su tutto. Un potere immenso di sorveglianza». Terzo vantaggio, per l’élite finanziaria: «Il controllo tecnico-politico delle transazioni e quindi delle grandi istituzioni finanziarie e di conseguenza un controllo politico dei governi che fanno loro riferimento». In fondo, conclude Pagliani, a Maria Antonietta «tagliarono la testa per molto meno».Oltre mezzo miliardo di indiani costretti ad aprirsi un conto in banca, quindi a far guadagnare le banche e a farsi controllare, al centesimo. Tutto questo da due mesi a questa parte, con l’improvvisa soppressione del cash a favore della moneta elettronica. «Pensavo che un esperimento del genere compiuto nel corpo vivo di una nazione di 1.276 milioni di abitanti, con oltre 3 milioni di chilometri quadrati, con la bomba atomica e situata in una posizione strategica (sia geopoliticamente che economicamente e finanziariamente), avrebbe richiamato l’interesse di qualche guru dell’economia, specialmente di sinistra», scrive Piero Pagliani. «Invece niente», nessuno si è accorto dell’enormità che sta avvenendo. In compenso, il magnate statunitense Steve Forbes ha definito la “demonetizzazione” indiana «nauseante e immorale, una rapina di massa», paragonandola alla politica di sterilizzazione forzata voluta da Indira Gandhi. Tutto è partito l’8 novembre scorso, quando il governo nazionalista indù retto da Narendra Modi ha dichiarato fuori corso tutte le banconote da 500 e 1.000 rupie (ovvero 7 e, rispettivamente, 14 euro). «Questo è equivalso a mettere fuori corso circa l’80% del denaro circolante».