Archivio del Tag ‘Tel Aviv’
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Franceschini: perché Israele usò le Br per azzoppare l’Italia
Aldo Moro fu tolto di mezzo con l’appoggio del Mossad: il servizio segreto di Tel Aviv entrò in contatto con le Brigate Rosse e faceva il tifo per Curcio e compagni. Gli 007 israeliani sapevano che destabilizzare l’Italia significava indebolirla, sul piano geopolitico, offrendo agli Usa un’unica alternativa – Israele – come partner privilegiato nel Mediterraneo. Rivelazioni che portano la firma di Alberto Franceschini, a quarant’anni dal ritrovamento del cadavere di Moro in via Caetani, il 9 maggio 1978. Fondatore delle Br insieme a Renato Curcio, Margherita Cagol e Roberto Ognibene (storia rievocata nel libro autobiografico “Mara, Renato e io”, edito da Mondadori), Franceschini apre il “fascicolo” Mossad parlando con lo scrittore e giornalista Antonio Ferrari, che l’ha intervistato per il “Corriere della Sera”. Franceschini oggi ha 71 anni, ricorda Ferrari: «Non ha mai ucciso nessuno, ha accettato di raccontare la storia e soprattutto gli errori mostruosi e le nefandezze del gruppo terrorista, da cui si è dissociato». L’ex brigatista ha pagato il suo conto con la giustizia, e ora dice che sulla vicenda Moro, che seguì dal carcere, si è cercata «una verità accettabile», perché vi erano «cose che non potevano essere dette».Conclusioni peraltro confermate dall’ultima commissione parlamentare sul caso Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni: in via Fani, quando fu sterminata la scorta di Moro, c’erano «anche» le Brigate Rosse. Non da sole, evidentemente. Il falso comunicato del Lago della Duchessa, compilato dai servizi segreti, con l’annuncio della morte di Moro (in fondo a uno specchio d’acqua dell’entroterra laziale) secondo Ferrari «fu il primo segnale per dimostrare che a quel punto l’ostaggio doveva morire». Silenzi e menzogne, depistaggi, omissioni, manipolazioni infinite. E la quarantennale ricerca di un movente plausibile: la paura Nato dell’apertura di Moro al Pci in piena guerra fredda con l’Urss, la volontà di declassare l’Italia come potenza industriale scomoda. Senza contare la rivalità “coloniale” di Francia e Gran Bretagna, preoccupate da un’Italia forte nel cuore del Mediterraneo, tra l’Africa e il Medio Oriente petrolifero. Forse pesò la volontà di colpire un paese relativamente sovrano, con il “sacrificio” (anche simbolico) di un suo leader democratico e cristiano-sociale, ostile allo strapotere dell’oligarchia economica internazionale ultraliberista che, di lì a poco, avrebbe assunto un ruolo definitivamente egemone, fino alla costruzione autoritaria dell’attuale Unione Europea.Ipotesi alle quali si aggiunge quella di Franceschini, che parla apertamente delle insidiose infiltrazioni subite dalla Brigate Rosse da lui fondate insieme a Curcio. Un nome? Mario Moretti, teoricamente il capo delle Br durante il sequestro Moro. «Di lui, delle sue ardite giravolte, dei suoi continui viaggi in Francia, per tanto tempo si è saputo quasi niente». Franceschini lo dipinge come «un uomo che si credeva Lenin», un terrorista «vittima di un ego smisurato», ma – attenzione – sul piano culturale «non certo in grado di tener testa ad Aldo Moro». Secondo Franceschini, probabilmente Moretti è stato soltanto «il postino delle domande compilate da altri», nella cosiddetta “prigione del popolo”. Forse, aggiunge Ferrari, il suggeritore era il professor Giovanni Senzani, «autore di numerose nefandezze terroristiche», che la commissione Moro ha individuato come collegato ai nostri servizi segreti. Senza tentennamenti, Franceschini denuncia il ruolo della scuola parigina “Hyperion” e del suo conduttore, Corrado Simioni. Poi attacca le manovre francesi, i sospetti di quelle inglesi, e la certezza – sono le sue parole – che «le Br hanno avuto rapporti con il Mossad, il servizio segreto israeliano».In sostanza, osserva Ferrari, mentre nessuno sapeva ufficialmente dove si trovassero, il Mossad raggiunse tranquillamente le Br in tutte le fasi delle loro scorribande terroristiche. Patrizio Peci, il pentito più noto, ne parlò a lungo con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, poi ucciso dalla mafia a Palermo. Franceschini conferma e aggiunge: «Non ci chiesero di uccidere, ma di fare ciò che volevamo. Offrivano armi e assistenza. Il loro obiettivo dichiarato era destabilizzare l’Italia». Cioè: il governo di Tel Aviv autorizzò il Mossad a supportare le Brigate Rosse, senza neppure la pretesa di dirigerle. Agli 007 israeliani, dice Francheschini, bastava che le Brigate Rosse esistessero e colpissero, terrorizzando l’establishment italiano. Obiettivo finale: indebolire il Belpaese agli occhi dell’America, trasformandolo in un partner insicuro e inaffidabile. Per Franceschini, armando e assistendo le Br, il Mossad questo voleva: che gli Stati Uniti finissero per concludere che non restava che Israele, come alleato “sicuro” nello scacchiere mediterraneo e mediorientale.Aldo Moro fu tolto di mezzo con l’appoggio del Mossad: il servizio segreto di Tel Aviv entrò in contatto con le Brigate Rosse e faceva il tifo per Curcio e compagni. Gli 007 israeliani sapevano che destabilizzare l’Italia significava indebolirla, sul piano geopolitico, offrendo agli Usa un’unica alternativa – Israele – come partner privilegiato nel Mediterraneo. Rivelazioni che portano la firma di Alberto Franceschini, a quarant’anni dal ritrovamento del cadavere di Moro in via Caetani, il 9 maggio 1978. Fondatore delle Br insieme a Renato Curcio, Margherita Cagol e Roberto Ognibene (storia rievocata nel libro autobiografico “Mara, Renato e io”, edito da Mondadori), Franceschini apre il “fascicolo” Mossad parlando con lo scrittore e giornalista Antonio Ferrari, che l’ha intervistato per il “Corriere della Sera”. Franceschini oggi ha 71 anni, ricorda Ferrari: «Non ha mai ucciso nessuno, ha accettato di raccontare la storia e soprattutto gli errori mostruosi e le nefandezze del gruppo terrorista, da cui si è dissociato». L’ex brigatista ha pagato il suo conto con la giustizia, e ora dice che sulla vicenda Moro, che seguì dal carcere, si è cercata «una verità accettabile», perché vi erano «cose che non potevano essere dette».
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Esultanza immortale: gran bel video, il palestinese colpito
«Figlio di puttana, che clip leggendaria!». Parole immortali, come il proiettile che ha abbattuto in mondovisione l’ennesimo palestinese, oltre il reticolato dello zoo di Gaza. Domande: chi si premura sempre di difendere Israele da qualsiasi accusa non rischia forse di incoraggiare all’infinito il bowling dell’orrore, il tiro a segno contro gli inermi mandati allo sbaraglio? Sconforta, l’esercito israeliano che si sente schiamazzare – come allo stadio – al di qua della telecamera dello smartphone, esultando come per un goal. Beninteso: l’eroico cecchino è umanitario, responsabile, armato dall’Unica Democrazia Del Medio Oriente, quindi aspetta lodevolmente che dallo scarafaggio di Hamas si allontani il bambino che gli ronza attorno. Poi finalmente spara (alle gambe dell’insetto adulto) scatenando l’ordalia del tifo. A strillare come per un goal sono ragazzi in armi, che sanno di essere impuniti. Militari di leva, non serial killer sociopatici. Eppure impazziscono di gioia, di fronte allo strike – gran bel colpo, figlio di puttana! – e soprattutto: gran bel video, accidenti a te. Sulla base di questa antropologia da videogame, c’è qualcuno al mondo che sia disposto a scommettere un bottone su uno straccio di pace, tra i Neanderthal di Tel Aviv e i Negri di Gaza, gli untermenschen arabi, gli scarafaggi palestinesi?Odio, macelleria e menzogne. L’industria delle fake news. «Assad è un animale», proclama l’autorevole zoologo Donald Trump, rifiutando però un’indagine dell’Onu che chiarisca chi ha usato davvero le armi chimiche, nella zona siriana della Ghouta, la stessa in cui – come appurato proprio dalle Nazioni Unite – furono i “ribelli” a gasare civili siriani, sperando di innescare la vendetta del giustiziere Obama. Stesso copione nel replay di qualche tempo fa, nel nord della Siria: sono i “ribelli” a detenere quegli arsenali tossici, basta una cannonata finita su un deposito per fare una strage. Da dove vengono molti di quei gas? Dalla Libia del dopo-Gheddafi, hanno svelato fior di inchieste giornalistiche. Ne sapeva qualcosa l’ambasciatore americano di Bengasi, saltato in aria con la dinamite, insieme ai suoi carteggi imbarazzanti elettronici con la Clinton, che a sua volta “sbianchettò” le email, azzerando le memorie dei suoi server. Qualcuno vuole che sia l’Onu a fare luce sull’ultimo massacro? Ingenui: la verità è ormai una barzelletta, dosata a rate dal telegiornale in modo smart, in mezzo alla pubblicità. E la strage impunita è figlia di quella precedente, la macelleria non raccontata. L’omissione è menzogna. Per noi è solo un’opinione, per altri è la strada che porta al cimitero.L’ultimo grande voto, in Medio Oriente, fu quello che volò con la pallottola diretta al cranio di Yitzhak Rabin. Dopo di allora fu archiviata la pratica palestinese, la storiella umoristica dei due Stati gemelli. Un imponente smottamento: le false primavere, la grandine di fosforo su Gaza. E i tagliagole in costume medievale sceneggiati a Hollywood, pagati e armati fino ai denti, protetti da droni onniveggenti. Putin e l’Iran, l’abominevole Erdogan socio dell’Isis, spalleggiato da una Nato clandestinamente a zonzo sulle alture della Siria, bombardate dai caccia israeliani in violazione di qualsiasi legge. La verità non interessa più, è insopportabile: come l’antico marinaio cui dà voce Coleridge, che tenta di convincere gli increduli gettando loro in faccia l’immane ferocia del naufragio. E se qualcuno poi dovesse sopravvivere, in ogni caso non sarà mai creduto: era il cinismo sfrontato dei nazisti, a tormentare Primo Levi. La verità è una pattuglia di scolari in gita, sorpresi a festeggiare mentre sparano su gente disarmata, filmando le balistiche prodezze in un’allegra gara di barbarie. Un video come quello può valere tonnellate d’odio, sangue futuro sparso a orologeria. Jeremy Corbyn, da Londra, è l’unico a suonare le dolenti note del poeta: peggio per tutti, se nessuno ascolterà la verità. Bombe e menzogne a oltranza, mentre un Senato alieno – dall’altra parte dell’oceano – ascolta il mesto pigolio di Zuckerberg.«Figlio di puttana, che clip leggendaria!». Parole immortali, come il proiettile che ha abbattuto in mondovisione l’ennesimo palestinese, oltre il reticolato dello zoo di Gaza. Domande: chi si premura sempre di difendere Israele da qualsiasi accusa non rischia forse di incoraggiare all’infinito il bowling dell’orrore, il tiro a segno contro gli inermi mandati allo sbaraglio? Sconforta, l’esercito israeliano che si sente schiamazzare – come allo stadio – al di qua della telecamera dello smartphone, esultando come per un goal. Beninteso: l’eroico cecchino è umanitario, responsabile, armato dall’Unica Democrazia Del Medio Oriente, quindi aspetta lodevolmente che dallo scarafaggio di Hamas si allontani il bambino che gli ronza attorno. Poi finalmente spara (alle gambe dell’insetto adulto) scatenando l’ordalia del tifo. A strillare come fossero in tribuna sono ragazzi in armi, che sanno di essere impuniti. Militari di leva, non serial killer sociopatici. Eppure impazziscono di gioia, di fronte allo strike – gran bel colpo, figlio di puttana! – e soprattutto: gran bel video, accidenti a te. Sulla base di questa antropologia da videogame, c’è qualcuno al mondo che sia disposto a scommettere un bottone su uno straccio di pace, tra i Neanderthal di Tel Aviv e i Negri di Gaza, gli untermenschen arabi, gli scarafaggi palestinesi?
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Israele in Patagonia, coi soldi inglesi. E quel sommergibile
Perché un miliardario britannico Joe Lewis sta acquistando terre in Patagonia, dove Israle sta mandando “in vacanza” migliaia di soldati, proprio di fronte al mare – affacciato sull’Antartide – dove è scomparso il sommergibile argentino San Juan, alle prese con una imprecisata “missione segreta” di cui però gli inglesi erano al corrente? Se lo domanda un giornista internazionale come Thierry Meyssan, di stanza in Libano: «Probabilmente il San Juan è esploso: la stampa argentina è convinta che abbia urtato una mina o sia stato distrutto da missile nemico». E gli immensi territori in via di acquisizione sud dell’Argentina e anche nel vicino Cile? Per il momento, ragiona Meyssan, «è impossibile stabilire se Israele abbia avviato un programma di sfruttamento dell’Antartide o se stia costruendo una base in cui ripiegare in caso di disfatta in Palestina». Ma il reporter si interroga sulle possibili connessioni “invisibili” che sembrano legare Patagonia e Antartide, Tel Aviv e Londra, la guerra in Siria e la strana sparizione del sottomarino, scomparso (in fondo al mare?) dopo l’ultima comunicazione con la terraferma, il 15 novembre, con a bordo 44 marinai.Nel XIX secolo, ricorda Meyssan su “Rete Voltaire” in un post ripreso da “Megachip”, il governo britannico era indeciso se istallare lo Stato di Israele nell’attuale Uganda, in Argentina o in Palestina. «All’epoca l’Argentina era controllata dal Regno Unito e, per iniziativa del barone francese Maurice de Hirsch, era diventata terra di accoglienza per gli ebrei che fuggivano dai pogrom dell’Europa centrale». Nel XX secolo, dopo il colpo di Stato militare contro il generale Juan Domingo Peron, presidente democraticamente eletto, nelle forze armate si affermò una corrente antisemita: «Questa fazione dell’esercito diffuse una brochure in cui accusava il nuovo Stato d’Israele di preparare un’invasione della Patagonia, il Piano Andinia». Oggi emerge che, «nonostante l’esagerazione dei fatti dell’estrema destra degli anni ’70», esisteva davvero un progetto di insediamento (e non di invasione) in Patagonia, sottolinea Meyssan. «Tutto cambiò con la guerra delle Malvine del 1982, quando la giunta militare argentina tentò di rientrare in possesso delle isole Malvine, della Georgia del Sud e del Sandwich del Sud, territori dal suo punto di vista occupati da un secolo e mezzo dai britannici».L’Onu riconobbe la legittimità della rivendicazione dell’Argentina, ma il Consiglio di Sicurezza ne condannò il ricorso alla forza al fine di recuperare i territori contesi. «La posta in gioco era considerevole», spiega il giornalista francese, «perché le acque territoriali di questi arcipelaghi danno accesso alle ricchezze del continente antartico». Alla fine della guerra delle Malvine, che fece oltre un migliaio di morti (i numeri ufficiali britannici sono di molto inferiori), Londra impose a Buenos Aires un trattato di pace particolarmente duro, che riduceva al minimo le forze armate argentine. «In particolare, all’Argentina venne sottratto il controllo dello spazio aereo del sud del paese e dell’Antartico, che passò alla Royal Air Force». Inoltre, continua Meyssan, ancora oggi «Buenos Aires deve informare il Regno Unito di ogni sua operazione militare». E non tutto è andato liscio, da quelle parti, dopo la guerra della Falkland: «Nel 1992 e nel 1994 due misteriosi attentati, particolarmente sanguinosi e devastanti, distrussero l’ambasciata d’Israele e la sede dell’associazione israelita Amia». Il primo attentato, rivela Meyssan, avvenne subito dopo che i capi della sezione dell’intelligence israeliana per l’America Latina avevano lasciato l’edificio.Il secondo attentato ebbe luogo durante le ricerche congiunte egiziano-argentine per i missili balistici Condor. «Nello stesso periodo la fabbrica principale dei Condor esplose, e i figli dei presidenti Carlos Menem e Hafez al-Assad morirono entrambi in incidenti. Le numerose inchieste che seguirono furono inquinate da una serie di manipolazioni». Dopo aver designato la Siria come responsabile dei due attentati, aggiunge Meyssan, il procuratore Alberto Nisman passò all’Iran, accusandolo di esserne il committente, e a Hezbollah, accusandolo di esserne l’esecutore. «L’ex presidente peronista Cristina Kirchner fu accusata di aver negoziato la chiusura del procedimento contro l’Iran in cambio di un prezzo vantaggioso per il petrolio». Poco dopo, però, «il procuratore Nisman è stato trovato morto in casa e la presidente Kirchner è stata incolpata di alto tradimento». La settimana scorsa, infine, «un nuovo colpo di scena ha mandato all’aria quello che si dava per certo: l’Fbi ha tirato fuori analisi del Dna che dimostrano che il presunto terrorista non era tra le vittime e che tra queste vi era invece un corpo mai identificato». Morale: «Venticinque anni dopo, non si sa ancora nulla degli attentati di Buenos Aires».E intanto, l’interesse anglo-israeliano per il Sud dell’Argentina non ha fatto che aumentare: «Nel XXI secolo, approfittando dei vantaggi ottenuti con il Trattato della guerra delle Malvine, Regno Unito e Israele intraprendono un nuovo progetto in Patagonia. Le sue proprietà si estendono ormai su una superficie più volte multipla dello Stato d’Israele», avverte Meyssan. «Si trovano nella Terra del Fuoco, all’estremo Sud del continente. In particolare, circondano il Lago Escondido, cui impediscono l’accesso nonostante un’ingiunzione della magistratura argentina». Il miliardario inglese Joe Lewis «ha costruito un aeroporto privato con una pista di due chilometri, su cui possono atterrare aerei di trasporto civile e militare». Dalla fine della guerra delle Malvine, l’esercito israeliano organizza in Patagonia “campi di vacanza” (sic) per i suoi soldati. «Ogni anno, da 8.000 a 10.000 soldati trascorrono due settimane nelle proprietà di Joe Lewis». Se negli anni ’70 l’esercito argentino lanciò l’allarme per 25.000 nuovi alloggi rimasti inabitati, dando vita al mito del piano Andinia, oggi ne sono stati costruiti centinaia di migliaia. «È impossibile verificare lo stato di avanzamento dei lavori perché, essendo proprietà privata, Google Earth oscura le fotografie satellitari della zona, così come fa per le istallazioni militari dell’Alleanza Atlantica».Poi c’è il ruolo del vicino Cile, aggiunge Meyssan, che «ha ceduto una base di sottomarini a Israele, dove sono stati scavati tunnel per sopravvivere al rigore dell’inverno polare». Gli indiani Mapuche, che abitano la Patagonia argentina e cilena, sono rimasti sorpresi nell’apprendere che a Londra è stata riattivata la Resistencia Ancestral Mapuche (Resistenza Ancestrale Mapuche – Ram), misteriosa organizzazione che rivendica l’indipendenza. «Inizialmente accusata di essere una vecchia associazione rispolverata dai servizi segreti argentini, la Ram è ora considerata dalla sinistra un movimento secessionista legittimo e dai leader Mapuche un’iniziativa finanziata da George Soros». Infine, in questo scenario opaco, si è inserita la sparizione del sommergibile San Juan, con il quale la marina argentina ha perso i contatti il 15 novembre 2017, dichiarandolo poi “inabissato in mare”. Era uno dei due sottomarini diesel-elettrici Tr 1700, fiore all’occhiello della difesa argentina. «Alla fine il governo ha dovuto ammettere che il sottomarino era in “missione segreta”, non meglio specificata, di cui Londra era a conoscenza». L’esercito statunitense ha partecipato alle ricerche e la marina russa ha inviato un drone in grado di scandagliare i fondali marini a 6.000 metri di profondità, che però non ha trovato nulla. Che sta succedendo, dunque, all’estremo confine meridionale del pianeta?Perché il miliardario britannico Joe Lewis sta acquistando terre in Patagonia, dove Israele sta mandando “in vacanza” migliaia di soldati, proprio di fronte al mare – affacciato sull’Antartide – dove è scomparso il sommergibile argentino San Juan, alle prese con una imprecisata “missione segreta” di cui però gli inglesi erano al corrente? Se lo domanda un giornalista internazionale come Thierry Meyssan, di stanza in Libano: «Probabilmente il San Juan è esploso: la stampa argentina è convinta che abbia urtato una mina o sia stato distrutto da missile nemico». E gli immensi territori in via di acquisizione nel sud dell’Argentina e anche nel vicino Cile? Per il momento, ragiona Meyssan, «è impossibile stabilire se Israele abbia avviato un programma di sfruttamento dell’Antartide o se stia costruendo una base in cui ripiegare in caso di disfatta in Palestina». Ma il reporter si interroga sulle possibili connessioni “invisibili” che sembrano legare Patagonia e Antartide, Tel Aviv e Londra, la guerra in Siria e la strana sparizione del sottomarino, scomparso (in fondo al mare?) dopo l’ultima comunicazione con la terraferma, il 15 novembre, con a bordo 44 marinai.
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Ma il nemico è comodo, per gli oligarchi del Medio Oriente
Quando la smetteranno, israeliani e palestinesi, di fornire alibi a chi campa da decenni speculando comodamente sul loro drammatico conflitto? Un accordo diretto e spettacolare che puntasse a una pace definitiva, oggi impensabile, spiazzerebbe di colpo tutte le diplomazie, regionali e mondiali, da sempre abituate a dare per scontata l’impossibilità di risolvere una buona volta quello scontro ormai antico, degenerato in cancrena. «Ci provò il massone progressista Yitzhak Rabin, ma sappiamo come finì». Fu assassinato a Tel Aviv il 4 novembre del ‘95 da un ebreo fondamentalista, contrario al processo di pace e spaventato dalla determinazione del primo ministro, un uomo che la pace la voleva davvero. «Gli eroi come Rabin, però, illuminano il percorso di quelli che verrano dopo», dice Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, a colloquio con David Gramiccioli di “Colors Radio” all’indomani della decisione di elevare Gerusalemme al rango di capitale dello Stato ebraico, con il placet della Casa Bianca, nonostante il prevedibile terremoto in corso, fatto di proteste e tensioni. «Deploro la metodologia utilizzata», chiarisce Magaldi: non è con simili alzate d’ingegno che si può trovare una soluzione, tantomeno nell’assenza (catastrofica) di una politica europea in grado di far sedere israeliani e palestinesi allo stesso tavolo.Sarebbe un bel sogno, dice Magaldi, veder sorgere la democrazia sia in Europa che in Medio Oriente: un’Europa «unita e finalmente democratica al posto dell’attuale Europa matrigna», e sull’altra sponda del Mediterraneo una convivenza-modello tra due Stati che si rispettano, Israele e Palestina. Ma se oggi questo sogno resta nel cassetto, aggiunge, è anche per colpa degli europei, dei loro leader inconsistenti: «L’alto commissario per gli affari esteri Ue è Federica Mogherini, scelta perché non avrebbe fatto ombra a nessuno. Ma non è che gli altri brillino per carisma e personalità: l’Ue è inesistente, lo si è visto nella crisi dell’ex Jugoslavia e lo si vede oggi nell’assoluta incapacità di fornire una voce univoca per la soluzione del problema israelo-palestinese». Magaldi si definisce filo-israeliano nella misura in cui resta minaccioso il fronte anti-istraeliano: «Quel piccolo Stato, un fazzoletto di terra, lo considero la maggior garanzia, anche psicologica, per tutti gli ebrei nel mondo: la sua esistenza certifica che non accadrà mai più quello che è accaduto in secoli e millenni, con persecuzioni e vessazioni materiali incise nella carne viva di tanti ebrei».Al tempo stesso, però, Magaldi è favore della costituzione di uno Stato palestinese che possa convivere pacificamente con Israele «e che però sia guidato, a differenza di quanto accaduto sin qui, da autorità governative garanti di un equilibrio democratico, laico e liberale». Ma attenzione: «Spesso gli attori del Medio Oriente non sono quello che sembrano e non pensano davvero di voler fare quello che dicono: c’è una narrazione infedele, spesso da decodificare, fatta di avvertimenti incrociati». Se la bandiera della pace ancora non sventola, fra Tel Aviv e Ramallah, è soprattutto per colpa di classi dirigenti caratterizzate da una visione «bieca e spregiudicata, spesso d’intesa con quelli che appaiono nemici». Troppe volte, insiste Magaldi, «tra settori israeliani e settori apparentemente anti-istraeliani ha pesato una segreta e occulta connivenza nel senso dello sfascio, attraverso progressive provocazioni che poi consentono agli uni e agli altri di perseguire propri interessi inconfessabili». Una politica a doppio fondo, nutrita di sangue (per lo più palestinese) e perfettamente impunita, anche grazie alla vergognosa assenza del vicino più potente, l’Europa.Quando la smetteranno, israeliani e palestinesi, di fornire alibi a chi campa da decenni speculando comodamente sul loro drammatico conflitto? Un accordo diretto e spettacolare che puntasse a una pace definitiva, oggi impensabile, spiazzerebbe di colpo tutte le diplomazie, regionali e mondiali, da sempre abituate a dare per scontata l’impossibilità di risolvere una buona volta quello scontro ormai antico, degenerato in cancrena. «Ci provò il massone progressista Yitzhak Rabin, ma sappiamo come finì». Fu assassinato a Tel Aviv il 4 novembre del ‘95 da un ebreo fondamentalista, contrario al processo di pace e spaventato dalla determinazione del primo ministro, un uomo che la pace la voleva davvero. «Gli eroi come Rabin, però, illuminano il percorso di quelli che verrano dopo», dice Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, a colloquio con David Gramiccioli di “Colors Radio” all’indomani della decisione di elevare Gerusalemme al rango di capitale dello Stato ebraico, con il placet della Casa Bianca, nonostante il prevedibile terremoto in corso, fatto di proteste e tensioni. «Deploro la metodologia utilizzata», chiarisce Magaldi: non è con simili alzate d’ingegno che si può trovare una soluzione, tantomeno nell’assenza (catastrofica) di una politica europea in grado di far sedere israeliani e palestinesi allo stesso tavolo.
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Sorpresa: la lobby Usa vota contro Gerusalemme capitale
Gerusalemme capitale d’Israele: pietra tombale sulle speranze di pace nella regione? Solo in apparenza, avverte Paolo Barnard: perché la potente stampa ebraica americana ha clamorosamente bocciato l’idea, nauseata dall’abuso di violenza anti-palestinese del governo Nenyahu. A monte, un retroscena strategico: il prossimo boom delle energie rinnovabili, in accoppiata con lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, potrebbe di colpo metter fine al ruolo di Israele come “cane da guardia” dei giacimenti petroliferi. Prima della presidenza Einsehower, ricorda Barnard, «Israele non era nulla, per gli Usa». La politica statunitense «neppure celebrava l’Olocausto». Col crescere della dipendenza di Washington sul petrolio del Golfo, e poi con la grande crisi del 1973, «l’America decise che Israele doveva diventare la più grande base militare americana del mondo a guardia dell’oro nero. E lì, il destino dei palestinesi fu segnato». Oggi però «il mondo sta marciando alla velocità di una supernova verso le rinnovabili», sicché «il petrolio è destinato al cestino della storia, e con esso molta dell’importanza d’Israele per gli Usa». L’America che dà il suo placet su Gerusalemme, suggerisce Barnard, in realtà si sta già muovendo in direzione contraria: basta leggere gli editoriali-chiave apparsi sul “New Yorker” e su “New Republic”, organi storici dell’intellighenzia ebraica americana, fino a ieri pro-Israele “senza se e senza ma”.Solo dieci anni fa, scrive Barnard nel suo blog, entrambi i giornali erano «integralisti fanatici pro-Israele». Poi, semplicemente, lo Stato ebraico «li ha sempre più disgustati» con la sua brutalità contro i civili del Libano o quelli di Gaza: le operazioni militari “Grapes of Wrath” e “Cast Lead” sono state mostrate in Tv, e adesso due uomini come Peter Beinart (ex direttore del “The New Republic”) e David Remnick (già direttore del “The New Yorker”), entrambi ebrei, «hanno detto basta: hanno vomitato anche loro. E con loro, e i loro editoriali, ha iniziato a vomitare anche l’ebraismo americano». Attenti, osserva Barbard: «Non accadeva dal primo minuto della nascita d’Israele nel 1948 che gli ebrei americani voltassero le spalle a quello che l’immenso dissidente ebreo Norman Finkelstein chiama “lo Stato Psicotico”». Sulla “New Republic”, ecco l’editoriale di Alex Shepard: «L’America storicamente ha assunto la posizione secondo cui la divisione di Gerusalemme come capitale dei due Stati è parte integrante ed essenziale della pace. L’eventuale riconoscimento di Gerusalemme come capitale indivisibile sarebbe come gettare veleno nell’acquedotto prima che vi bevano sia gli israeliani che i palestinesi».La posizione odierna della Casa Bianca e dei sauditi, sulla questione, «distrugge le promesse di pace», scrive Shepard: «Si tratta di una decisione che era ovvio avrebbe portato sugli Usa le critiche di tutto il mondo». Il “New Yorker” affida a un’altissima personalità ebraica un raffinato ma tagliente editoriale. Parla Bernard Avishai, professore alla Dartmouth and Hebrew University, autore di “La tragedia del Sionismo”, oltre che “senior” associato al Guggenheim: «In Israele la destra di Netanyahu ha controllato la realtà del paese così a lungo che fra poco sarà inutile persino tentare di ricordare un passato che loro non hanno mai contribuito a costruire». Aggiunge, Avishai: «La realtà che Gerusalemme Est sia, dalla guerra del 1967, territorio occupato da Israele secondo la legalità internazionale è ovvia a chiunque al mondo, meno che a Israele». E’ lo stesso Israel Democracy Institute, attraverso un sondaggio, a rivelare che il 61% degli stessi israeliani hanno ormai accettato Gerusalemme come città divisa. E il passaggio che segue, sottolinea Barnard, è di cruciale importanza storica: «Gerusalemme – scrive Avishai – non fu mai un luogo di adorazione atavica per l’ebraismo. Il massimo moralista della storia ebraica moderna, Ahad Ha’am (1891), lasciò scritto il suo shock nel vedere quegli strani uomini ebrei fare mosse inconsulte al Muro del Pianto… Ha’am scrisse che le pietre di quel muro rappresentavano la distruzione della nostra terra, e quegli uomini rappresentavano la distruzione della nostra razza».Commenta Barnard: «Non so se voi lettori italiani potete capire che micidiale portata hanno parole così, scritte da quelli che in America erano le lobby-megafono telecomandate da Tel Aviv da sempre. Esse rappresentano non solo l’inizio della fine dell’Israele irragionevole, fanatico, “neonazista” nell’oppressione, ma anche le prime pietre della pace futura laggiù. Infatti pochi hanno notato che lo stesso Trump, nella sua dichiarazione, si è guardato bene dal sancire Gerusalemme come capitale “indivisibile” d’Israele». Il capo della Casa Bianca ha infatti detto, alla lettera: «Non prendo posizione sugli accordi finali, inclusi i confini finali della sovranità d’Israele a Gerusalemme: è una questione che devono risolvere israeliani e palestinesi». Chi mai gli avrà scritto quelle parole? Trump, dice Barnard, sa benissimo che l’ebraismo americano ora non tollera più gli eccessi dello Stato ebraico. E sa anche che il 64% dei potentissimi ebrei americani aveva votato per la Clinton, mentre lui si era beccato un misero 18%. Conclusione: «Calma tutti, gli strilli lasciamoli ai fessi austeri delle Tv. Là dove veramente si fanno i giochi (inclusa l’ebrea Goldman Sachs o nella Coca Cola Company), la corrente è cambiata. E, caro psicotico e assolutamente anti-ebraico signor Netanyahu, tu e i tuoi sionisti fanatici avete gli anni contati».Gerusalemme capitale d’Israele: pietra tombale sulle speranze di pace nella regione? Solo in apparenza, avverte Paolo Barnard: perché la potente stampa ebraica americana ha clamorosamente bocciato l’idea, nauseata dall’abuso di violenza anti-palestinese del governo Nenyahu. A monte, un retroscena strategico: il prossimo boom delle energie rinnovabili, in accoppiata con lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, potrebbe di colpo metter fine al ruolo di Israele come “cane da guardia” dei giacimenti petroliferi. Prima della presidenza Einsehower, ricorda Barnard, «Israele non era nulla, per gli Usa». La politica statunitense «neppure celebrava l’Olocausto». Col crescere della dipendenza di Washington sul petrolio del Golfo, e poi con la grande crisi del 1973, «l’America decise che Israele doveva diventare la più grande base militare americana del mondo a guardia dell’oro nero. E lì, il destino dei palestinesi fu segnato». Oggi però «il mondo sta marciando alla velocità di una supernova verso le rinnovabili», sicché «il petrolio è destinato al cestino della storia, e con esso molta dell’importanza d’Israele per gli Usa». L’America che dà il suo placet su Gerusalemme, suggerisce Barnard, in realtà si sta già muovendo in direzione contraria: basta leggere gli editoriali-chiave apparsi sul “New Yorker” e su “New Republic”, organi storici dell’intellighenzia ebraica americana, fino a ieri pro-Israele “senza se e senza ma”.
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‘Edoardo Agnelli era un Sufi, ma con parenti nel B’nai B’rith’
Edoardo Agnelli era un Sufi: lo scomodo figlio dell’Avvocato, morto il 15 novembre del 2000, era approdato all’ala mistica dell’Islam. Una mosca bianca, nell’impero Fiat, oggi retto da una famiglia «il cui capostipite fa parte del B’nai B’rith», cioè dell’élite massonica del sionismo più reazionario. Lo afferma l’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, che pubblica su Facebook una foto del giovane Agnelli raccolto in preghiera: «Se le fonti sono giuste», scrive Carpeoro, la foto è stata scattata a Teheran il 27 marzo 1981 durante la Preghiera del Venerdì, condotta dall’ayatollah Seyyed Khamenei, “guida suprema” della repubblica islamica. Edoardo, in prima fila sulla destra, prega insieme a un Imam «che è famoso per aver avuto forme di collaborazione anche con Battiato». Si tratta di un religioso musulmano che, «appartenendo alla parte sciita dell’ambiente islamico, era anche uno dei capi del movimento Sufi». Molto si è detto sul mistero della fine di Edoardo Agnelli, trovato morto ai piedi di un viadotto dell’autostrada Torino-Savona 17 anni fa. Si era anche parlato della sua insofferenza verso il potere, delle sue inclinazioni mistiche e della sua vicinanza all’Islam. In diretta web-streaming, Carpeoro mette a fuoco il problema in modo più preciso: «Che risulti a me, Edoardo Agnelli era diventato Sufi».L’impatto sulla famiglia, di una scelta così radicale? «Per l’Avvocato, bastava che Edoardo non mettesse piede in azienda», dichiara Carpeoro a Fabio Frabetti di “Border Nigths”. «Poi lì c’è un entourage, però, che mal sopportava questo, sicuramente». E aggiunge: oggi siamo passati da un Sufi a una famiglia il cui capostipite, «che poi è il marito di Margherita Agnelli», cioè lo scrittore e giornalista Alain Alkann, appartiene al B’nai B’rith, espressione «di un certo sionismo reazionario che ha fatto tanti danni alla cultura israeliana». Il primo che si è scagliato contro questo tipo di potere «è un grande personaggio della cultura ebraica che si chiama Moni Ovadia», dice Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. B’nai B’rith? Per Wikipedia, si tratta di una innocua loggia di ebrei, di prevalente origine tedesca, nata un secolo prima dello Stato di Israele: fondata il 13 ottobre del 1843 a New York. Da allora, i “figli dell’alleanza” hanno una missione ufficiale: assistere i poveri. «L’organizzazione partecipa a numerose attività legate ai servizi sociali, tra cui la promozione dei diritti degli ebrei, l’assistenza negli ospedali e alle vittime dei disastri». Inoltre, la “lega dei fratelli” stanzia premi per gli studenti di scuole ebraiche e combatte l’antisemitismo tramite il suo Center for Human Rights and Public Policy.Oltre alle sue attività sociali, continua Wikipedia, il B’nai B’rith è anche un sostenitore dello Stato di Israele: insieme all’Aipac, potente lobby ebraica di Washington, la super-massoneria ebraica ha finanziato associazioni giovanili e studentesche. Ma, secondo Carpeoro, non sono soltanto umanitari gli scopi del B’nai B’rith, che apparterrebbe a pieno titolo al panorama delle potentissime superlogge internazionali, in strettissimo contatto con il Mossad, l’intelligence di Tel Aviv: sempre secondo Carpeoro, oltre ad Alain Elkann (cognato di Edoardo Agnelli), al B’nai B’rith apparteneva l’anziano Lion Klinghoffer, ucciso dal commando palestinese che dirottò la nave la crociera Achille Lauro nel 1985, da cui poi la crisi di Sigonella, con i carabinieri inviati da Craxi a proteggere i dirottatori, che i marines volevano catturare. Una tensione senza precedenti, in ambito Nato, che probabilmente costò il futuro politico dello stesso Craxi: «La sua telefonata con Reagan – racconta Carpeoro, allora vicino al leader socialista – fu deliberatamente mal tradotta, in diretta, dal politologo statunitense Michael Ledeen: cosa che Craxi non gli perdonò mai, perché compromise i suoi rapporti col presidente Usa».Di Ledeen, Carpeoro ha parlato spesso, anche nel suo saggio (uscito nel 2016) che denuncia la manipolazione atlantica dell’opaco neo-terrorismo europeo targato Isis. Ledeen? «All’epoca era vicino a Craxi, ma al tempo stesso anche a Di Pietro. Poi, in tempi assai più recenti, è stato al fianco di Renzi ma anche del grillino Di Maio». L’altra notizia? «Lo stesso Ledeen è un autorevole esponente del B’nai B’rith». Dunque il giovane Edoardo Agnelli, già scomodo anche per la Fiat (durissima una sua lettera al padre, all’epoca di Tangentopoli) poteva non essere più facilmente tollerato in una famiglia con componenti fortemente sioniste? La verità è più complessa, spiega Carpeoro, ricordando che Gianni Agnelli ha sposato la principessa Marella Caracciolo, sorella del fondatore de “L’Espresso”: «La linea materna di Edoardo è particolare: colta, raffinata, un po’ decadente». Il giovane Agnelli, semplicemente, «era molto più simile al ramo di sua madre che non a quello di suo padre». Lo conferma, nel modo più estremo possibile, il motto dei Sufi: “Nel mondo, ma non del mondo – nulla possedendo, da nulla essendo posseduti”.Quando a Torino si impose il ramo Elkann, ricorda Lapo in un’intervista rilasciata a Giovanni Minoli per “La Storia siamo noi”, Edoardo Agnelli era già stato “bruciato” una prima volta dalla scelta del cugino Giovannino (Giovanni Alberto, figlio di Umberto Agnelli) come successore dell’Avvocato al vertice dell’impero Fiat. Poi Giovannino morì e al suo posto, pochi giorni dopo il funerale nel dicembre 1997, ricorda Gigi Moncalvo su “Lo Spiffero”, nel consiglio di amministrazione della Fiat venne nominato John Elkann, che di anni ne aveva appena 22 e nemmeno era laureato. Nella sua ultima intervista, rilasciata a Paolo Griseri per il “Manifesto”, il 15 gennaio 1998, Edoardo Agnelli boccia la designazione di “Jaky”: «Considero quella scelta uno sbaglio e una caduta di stile, decisa da una parte della mia famiglia, nonostante e contro le perplessità di mio padre». E aggiunge: «Non si nomina un ragazzo pochi giorni dopo la morte di Giovanni Alberto, per riempire un posto». E ancora: «Si è preferito farsi prendere dalla smania con un gesto che io considero offensivo anche per la memoria di mio cugino».Nel documentario di Minoli, è lo stesso Lapo Elkann – non ancora travolto dal suo secondo scandalo sessuale, quello di New York – ad avere parole umanissime per Edoardo Agnelli: «Era una persona bella dentro e bella fuori. Molto più intelligente di quanto molti l’hanno descritto: un insofferente che soffriva, che alternava momenti di riflessività e momenti istintivi». Nella villa di famiglia a Villar Perosa, in val Chisone, non lontano dal Sestriere, «ci sono state tante gioie ma anche tanti dolori». Dice Lapo, di Gianni Agnelli: «Con tutto l’affetto e il rispetto che ho per lui e con le cose egregie che ha fatto nella vita, mio nonno era un padre non facile. Quel che ci si aspetta da un padre – dei gesti di tenerezza, non parlo di potere: i gesti normali di una famiglia normale – probabilmente mancavano». Lapo Elkann riconosce quanto abbia pesato, su Edoardo, l’indicazione di far entrare suo fratello, John Elkann, nell’impero Fiat: «Credo che la parte difficile sia stata prima, la nomina di Giovanni Alberto. Poi, “Jaky” è stata come una seconda costola tolta. Ma Edoardo si rendeva conto che non era una posizione per lui», così portato per l’introspezione filosofica e religiosa – addirittura pervasa del misticismo Sufi, quello dei Dervisci rotanti, la confraternita iniziatica fondata dal sommo poeta afghano Rumi nel 1200.A ben altra scuola esoterica, secondo Carpeoro, appariene invece l’ebreo Alain Elkann, classe 1950, nato a New York da padre francese e madre italiana, giornalista e scrittore, docente universitario in Pennsylvania. Suo padre, il rabbino Jean-Paul Elkann, banchiere e industriale, è stato presidente del Concistoro ebraico di Parigi. La madre di Alain, Carla Ovazza, discende da una famiglia di banchieri torinesi (e nel 1976 fu vittima di un sequestro di persona). Un suo zio, il banchiere Ettore Ovazza, fascista fino al 1938 e amico di Mussolini, aveva fondato il giornale ebraico antisionista “La Nostra Bandiera”, prima di essere assassinato nel 1943 dai nazisti. Giornalista e scrittore, Alain Elkann è stato sodale di Alberto Moravia e Indro Montanelli. Ha scritto romanzi e saggi, anche in collaborazione con personaggi prestigiosi come Elio Toaff, storico rabbino capo emerito di Roma, nonché l’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini e il Re di Giordania Abdullah. Tema a lui caro: la fede ebraica in rapporto alle altre religioni, e l’essere ebrei oggi. Dal 2004 è presidente della Fondazione del Museo Egizio di Torino, e ha collaborato con l’allora ministro Sandro Bondi (beni culturali).Alain Elkann è membro della Fondazione Italia-Usa e fa parte del comitato scientifico del Meis di Ferrara, il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, nonché di istituzioni universitarie italo-americane. Nel 2009 è stato anche insignito della Legion d’Onore, massima onorificenza francese. Ma ovviamente nel suo curriculum non c’è traccia dell’appartenenza al B’nai B’rith. Suo figlio, John, è oggi il reggente dell’impero industriale Fca, Fiat-Chrysler. Suo cognato Edoardo Agnelli morì suicida, senza un cenno di addio, o fu assassinato? E’ la domanda irrisolta a cui cerca di rispondere Minoli, nel suo reportage televisivo. «Se qualcuno mi dimostrasse che Edoardo è stato ucciso ne sarei in qualche modo felice, perché significherebbe che non era così disperato da fare questo gesto», dice il cugino, Lupo Rattazzi, convinto però che Edoardo fosse proprio deciso a farla finita. «L’inchiesta giornalistica sulla figura dell’erede mancato della famiglia Agnelli, e sulla sua tragica scomparsa – scrive Mario Baudino sulla “Stampa” – mette in fila tutti gli elementi, anche quelli controversi, di un avvenimento che, data la notorietà del protagonista, ha avuto negli anni anche interpretazioni assai dietrologiche».Soprattutto, aggiunge il giornalista, Minoli ricostruisce una personalità complessa e tormentata, e una vicenda umana dolorosa. A tenere aperto il giallo sulla fine di Edoardo Agnelli è la testimonianza di un pastore, che la mattina del 15 novembre del 2000 pascolava i suoi animali sulle rive del fiume Stura di Demonte: l’uomo sostiene di aver visto il cadavere di Edoardo Agnelli verso le 8.30, cioè molto prima che l’auto – abbandonata sul viadotto soprastante – avesse varcato il casello autostradale. Ma l’ex capo dei Ris di Parma, Luciano Garofalo, non dà credito alla testimonianza: la ritiene un tipico caso di auto-inganno della memoria. Se invece il pastore avesse ragione, scrive Baudino, «bisognerebbe pensare che sulla Croma di Edoardo Agnelli ci fosse, in quel momento, qualcun altro; anzi, che ci fosse sempre stato qualcun altro a bordo. Un giallo troppo complicato e inverosimile». C’è poi la tesi di una televisione iraniana, che aveva fatto scalpore con un documentario in cui prospettava l’ipotesi di un omicidio “sionista”, «commesso per eliminare un erede della dinastia italiana convertitosi all’Islam». Edoardo Agnelli, ricorda Baudino, era affascinato dalle fedi: si era laureato in storia delle religioni, con una tesi su quelle orientali. Era «affascinato dalla mistica Sufi», anche se «nessuno degli amici più intimi ha mai avuto il più lontano sentore che fosse diventato musulmano». A ricordarlo, oggi, c’è invece quella foto inequivocabile, postata su Facebook da Carpeoro.Edoardo Agnelli era un Sufi: lo scomodo figlio dell’Avvocato, morto il 15 novembre del 2000, era approdato all’ala mistica dell’Islam. Una mosca bianca, nell’impero Fiat, oggi retto da una famiglia «il cui capostipite fa parte del B’nai B’rith», cioè dell’élite massonica del sionismo più reazionario. Lo afferma l’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, che pubblica su Facebook una foto del giovane Agnelli raccolto in preghiera: «Se le fonti sono giuste», scrive Carpeoro, la foto è stata scattata a Teheran il 27 marzo 1981 durante la Preghiera del Venerdì, condotta dall’ayatollah Seyyed Khamenei, “guida suprema” della repubblica islamica. Edoardo, in prima fila sulla destra, prega insieme a un Imam «che è famoso per aver avuto forme di collaborazione anche con Battiato». Si tratta di un religioso musulmano che, «appartenendo alla parte sciita dell’ambiente islamico, era anche uno dei capi del movimento Sufi». Molto si è detto sul mistero della fine di Edoardo Agnelli, trovato morto ai piedi di un viadotto dell’autostrada Torino-Savona 17 anni fa. Si era anche parlato della sua insofferenza verso il potere, delle sue inclinazioni mistiche e della sua vicinanza all’Islam. In diretta web-streaming, Carpeoro mette a fuoco il problema in modo più preciso: «Che risulti a me, Edoardo Agnelli era diventato Sufi».
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Catalogna? Dezzani: tremo per l’Italia, il Nord-Est scapperà
Come in Catalogna, così in Lombardia e Veneto: secessione? Dopo le aspirazioni di Barcellona, ecco i due referendum per l’autonomia regionale che si terranno il 22 ottobre nel lombardo-veneto: tra Milano e Venezia sarebbero in azione «gli stessi poteri che sferrarono l’assalto del 1992-1993», poteri stranieri «che hanno oggi condotto l’Italia al default e mirano a smembrare il paese». Lo afferma un analista geopolitico indipendente come Federico Dezzani, che attribuisce a potenze extra-italiane la vera regia del crollo della Prima Repubblica, con il ciclone Mani Pulite ma anche gli attentati terroristici eseguiti da Cosa Nostra tra Roma, Milano e Firenze, senza contare le stragi costate la vita a Falcone e Borsellino. «L’Italia deve osservare da vicino quanto accade in Spagna e prepararsi al peggio», ammonisce Dezzani. «Nell’autunno del 2017 è ufficialmente subentrata la penultima fase dell’eurocrisi: sovraccaricata l’Europa meridionale di tensioni economiche-sociali e portato l’indebitamento pubblico a livello critico grazie alla moneta unica, si fomentano le spinte secessionistiche in seno ai membri più deboli, in vista di un default più o meno ordinato e lo smembramento dei medesimi».
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La Truffa dei Sei Giorni: così Israele eliminò l’Ataturk arabo
La Truffa dei Sei Giorni: «In realtà la guerra-lampo del 1967 durò appena 6 minuti, il tempo che impiegò l’aviazione israeliana per annientare quella egiziana, ancora a terra», senza che un solo aereo del Cairo avesse potuto decollare. E i famosi Sei Giorni? «Servirono solo a occupare e annettere territori non-israeliani, che da allora – con la sola eccezione del Sinai – fanno parte di Israele». Parola dello storico statunitense Norman Filkenstein, intervistato da Aaron Mate per l’emittente “The Real News” nel cinquantesimo anniversario della Guerra dei Sei Giorni, giugno 1967, evento fondante del mito vittimistico dell’autodifesa di Israele, paese “attaccato dagli arabi”. Un falso storico, accusa l’autore del bestseller “Palestine: Peace Not, Apartheid”, tradotto in 50 paesi. Fu Israele a provocare il conflitto, afferma Filkenstein: abbattè deliberatamente alcuni aerei siriani, ben sapendo che l’Egitto sarebbe stato costretto a schierarsi con la Siria, cui era legato da un patto di mutua assistenza. Obiettivo segreto di Tel Aviv: conquistare falcilmente territori, sapendo (da Cia e Mossad) che gli arabi non avrebbero potuto resistere. E soprattutto: demolire il leader politico egiziano Nasser, temutissimo come possibile “Ataturk arabo”, capace di guidare lo sviluppo laico del Medio Oriente, superando la storica arretratezza della regione.A partire dal 5 giugno del 1967, ricorda Filkenstein, Israele «ha catturato il Sinai egiziano, le alture del Golan siriano, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Con l’eccezione del Sinai, Israele controlla ancora tutti questi territori. Di fatto l’occupazione militare israeliana della Cisgiordania e di Gaza è la più lunga dei tempi moderni». La versione ufficiale del mainstream è quella ancora oggi rilanciata dal “New York Times”, che scrive: «Quest’anno segna mezzo secolo dalla guerra arabo-israeliana del 1967, nella quale Israele ha resistito vittoriosamente a una minaccia di annientamento da parte dei suoi vicini arabi». Tutto falso, replica lo storico: «E’ un grosso problema, è ciò che noi chiamiamo “falsificare la storia”». E spiega: sia la Cia che il Mossad – è documentato – sapevano perfettamente che gli eserciti arabi non avrebbero potuto resistere all’attacco di Israele, la cui unica preoccupazione era: come avrebbe reagito il presidente americano Lyndon Jonhson? «Nel 1957, dieci anni prima, gli Usa avevano agito con molta severità. Dwight Eisenhower aveva dato a Israele un ultimatum: uscite dal Sinai, o dovrete affrontare una forte reazione del governo degli Stati Uniti. Nel 1967 gli israeliani avevano paura che si ripetesse la situazione del 1957».Sicché, Tel Aviv mandò emissari a tastare il polso di Washington. Come il generale Meir Amit, capo del Mossad. La risposta degli Usa: nessun indizio che il presidente egiziano Abdel Gamal Nasser stesse per attaccare Israele. Nasser, disse Johnson, sa benissimo che, «se vi attacca, voi israeliani gli darete una batosta». Una valutazione Cia, identica a quella del Mossad. Tel Aviv sapeva perfettamente che non aveva nulla da temere, dall’Egitto. Il segretario alla difesa, Robert McNamara, fu ancora più preciso: disse a Israele che, in caso di guerra, avrebbe vinto in 7 giorni, 10 al massimo. Era vero: la guerra sarebbe terminata «non solo in 6 giorni, ma letteralmente in 6 minuti circa», afferma Filkenstein. «Nel momento in cui Israele ha lanciato il suo attacco-lampo e distrutto la flotta aerea egiziana, che era ancora al suolo, ha tolto tutti gli appoggi aerei alle truppe al suolo. Era finita. L’unica ragione per la quale questa guerra è durata sei giorni, è perché volevano impadronirsi dei territori. Era un’occupazione violenta delle terre». Come sono riusciti a coinvolegere l’Egitto, sapendo che mai Nasser – di sua iniziativa – avrebbe aperto le ostilità? Semplice: attaccando la Siria, alleata dell’Egitto. Fu lo stesso Moshe Dayan ad ammettere che, nell’aprile del 1967, Israele abbattè 6 aerei siriani, uno dei quali nel cielo sopra Damasco.Ammise Dayan, poi uomo-chiave del governo Begin a partire dal 1977: «Vi dirò perché noi avevamo tutti questi conflitti con la Siria. C’era una zona smilitarizzata tracciata dopo la guerra del 1948 tra la Siria e Israele. Almeno l’80% del tempo noi mandavamo dei bulldozer in questa zona smilitarizzata perché Israele era impegnata a occupare territori con la forza». Israele, quindi, cercava di impadronirsi di terre nella zona smilitarizzata. Racconta Filkenstein: «Mandava dei bulldozer, i siriani reagivano, e questo aumentava la tensione. Nel aprile 1967 questo è sfociato in un combattimento aereo tra siriani e israeliani. Dopodiché Israele ha cominciato a minacciare, verbalmente, di lanciare un attacco contro la Siria. La dichiarazione più celebre in quel momento la fece Yitzhak Rabin, ma numerosi responsabili israeliani minacciavano la Siria». Lo storico israeliano Ami Gluska, nel suo libro “L’esercito israeliano e le origini della guerra del 1967”, scrive: «La valutazione sovietica della metà di maggio 1967, che Israele stava per colpire la Siria, era giusta e ben fondata». C’erano voci attendibili, dunque, secondo le quali Israele avrebbe aggredito gli arabi. Gluska «conferma che gli israeliani avevano preso la decisione di attaccare».L’Egitto aveva un patto di difesa con la Siria: sapendo che era imminente un attacco israeliano aveva l’obbligo di andare in aiuto di Damasco. Per questo, Nasser ha schierato – a scopo dissuasivo – delle truppe egiziane nel Sinai, zona allora presidiata da una forza di pace dell’Onu, l’Unef. La United National Emergency Force divideva l’Egitto da Israele. Nasser ha chiesto a U Thant, segretario generale dell’Onu, di ritirarla. In forza della legge, U Thant era obbligato a ritirare quelle truppe. «Ma c’era una risposta molto semplice alla richiesta di Nasser: spostate le truppe dell’Onu sul versante israeliano», ricorda Filkenstein. «Nel 1957, quando era stata schierata l’Unef, si erano accordati per disporla sia sul lato egiziano della frontiera, sia sul lato israeliano. Così, nel 1967, quando Nasser ha detto: “Ritirate l’Unef dalla nostra parte”, tutto quello che Israele doveva dire era: “Bene, noi la riposizioniamo dalla nostra parte della frontiera”, sul versante israeliano. Ma non lo hanno fatto». Ragiona lo storico: «Se l’Unef avrebbe veramente potuto evitare un attacco egiziano, come suggerisce Israele quando dice che U Thant ha commesso un errore monumentale ritirando la forza dell’Onu, perché gli israeliani non l’hanno semplicemente schierata dall’altra parte della frontiera?». Ovvio: perché erano loro a volere la guerra.Altro piccolo casus belli: c’erano degli attacchi di guerriglia contro la frontiera israeliana lanciati dalla Giordania e dalla Siria, descritti nella storia ufficiale come una grande minaccia per la sicurezza di Israele. Si trattava di incursioni di commandos palestinesi, sostenuti principalmente dal regime siriano. «Ma come hanno riconosciuto anche gli ufficiali superiori israeliani – obietta Filkenstein – la ragione per la quale la Siria incoraggiava questi raid di commandos era l’occupazione delle terre nelle zone smilitarizzate da parte di Israele». Inoltre si trattava di «azioni coraggiose ma estremamente inefficaci», peraltro «compiute da persone che erano state private della loro patria nel 1948». In alre parole, quei palestinesi «erano dei rifugiati». Avverte lo storico: «Ricordatevi che era passato poco tempo tra il 1948 e il 1967, meno di una generazione». Ma, appunto, quegli attacchi erano poco più che simbolici. A confermarlo è uno dei capi dello spionaggio israeliano, Yehosafat Harkabi, che dopo il 1967 li ha descritto come «ben poco significativi, secondo tutti i metri di giudizio».L’altro incidente storico importante che viene citato er giustificare la guerra-lampo di Israele è la chiusura, da parte dell’Egitto, dello Stretto di Tiran, all’imbocco del Mar Rosso, strategico per accedere al porto israeliano di Eilat. Passaggio marittimo chiuso effettivamente da Nasser a metà maggio. «Israele adesso respira con un solo polmone», protestò il diplomatico Abba Eban, allora rappresentante israeliano all’Onu, poi ministro degli esteri. Era vero? Non proprio, osserva Filkenstein: intanto, Israele disponeva di riserve di petrolio che garantivano allo Stato ebraico un’autonomia di mesi. «Ma la cosa più importante è che non c’è stato un blocco. Nasser era un fanfarone: ha annunciato il blocco, lo ha applicato per ciò che si stima abitualmente essere due o tre giorni, poi ha cominciato a lasciar passare tranquillamente le navi israeliane. Non c’era blocco, il problema non era un blocco fisico effettivo, il problema era politico. E cioè che Nasser aveva sfidato pubblicamente Israele. La chiusura di un canale navigabile non è un attacco armato. Comunque la si guardi, Israele non aveva alcuna valida ragione».L’Egitto aveva reagito in modo prevedibile – con il blocco (solo simbolico) del Mar Rosso – per “difendere a distanza” la Siria attaccata un mese prima dall’aviazione israeliana, agevolando così la “regia occulta” della guerra, progettata unilateralmente da Tel Aviv, travestitasi da vittima. Domanda Aaron Mate: perché Israele ha preso delle misure così straordinarie per iniziare quella guerra e impadronirsi di così tanti territori? Risponde Norman Finkelstein: perché il vero incubo di Israele era il presidente egiziano Nasser. Un politico arabo laico, indipendente, autorevole. Fin dalla sua fondazione nel 1948, il leader fondatore di Israele, David Ben Gurion, «si è sempre preoccupato che potesse arrivare al potere nel mondo arabo quello che lui chiamava un Ataturk arabo. Cioè qualcuno come il personaggio turco Kemal Ataturk, che ha modernizzato la Turchia, ha introdotto la Turchia nel mondo moderno; Ben Gurion ha sempre avuto paura che una figura come Ataturk potesse emergere nel mondo arabo, e quindi il mondo arabo si sottraesse allo Stato di arretratezza e di dipendenza dall’Occidente e potesse diventare una potenza con la quale bisognava fare i conti nel mondo e nella regione». La paura del regime sionista si impersonificò nel 1952, quando emerse Nasser come leader della rivoluzione attraverso cui l’Egitto si liberò del dominio europeo post-coloniale.Nasser, continua Filkenstein, era una figura emblematica di quell’epoca «molto inebriante», chiamata “decolonizzazione”: «L’epoca del dopoguerra, dei non-allineati, del terzomondismo». Anti-imperialismo e decolonizzazione: leader come Nehru in India, Tito in Jugoslavia. E Nasser. «Non erano ufficialmente compresi nel blocco sovietico. Erano una terza forza. Non allineata». Più incline a rivolgersi al blocco sovietico perché «ufficialmente antimperialista», ma solo a scopo difensivo: nel 1956, quando Nasser aveva sbarrato il Canale di Suez per protestare contro la mancata concessione del maxi-prestito della Banca Mondiale (Usa) per costruire sul Nilo la Diga di Assuan che averebbe dato respiro all’agricoltura egiziana, francesi e inglesi sbarcarono in armi a Port Said minacciando di deporre Nasser. Intervenne direttamente l’Urss, rivolgendo un ultimatum agli eserciti europei, tacitamente avallato dagli Stati Uniti: se le truppe anglo-francesi non avessero lasciato il litorale egiziano, Mosca le avrebbe colpite con la bomba atomica. Questo consacrò Nasser come grande leader arabo, senza farne – per forza – un satellite dei russi. Inutile aggiungere che il crescente prestigio internazionale del carismatico leader egiziano faceva paura soprattutto a Israele: sembrava davvero arrivato “l’Atarurk arabo”, il modernizzatore paventato da Ben Gurion.«Israele era considerato non senza ragione, come una postazione occidentale nel mondo arabo, e veniva ugualmente interpretato come il tentativo di mantenere nell’arretratezza il mondo arabo», osserva Filkenstein. C’era dunque una sorta di conflitto e di contrapposizione tra Nasser e Israele. E questo ha dato il via, come viene documentato anche stavolta assai scrupolosamente non da Finkelstein ma da uno storico importante molto considerato, cioè Benny Morris. Nel libro “Le guerre di frontiera di Israele”, che parla del periodo tra il 1949 ed il 1956, Morris dimostra che «intorno al 1952-53 Ben Gurion e Moshe Dayan erano veramente determinati a provocare Nasser, a continuare a stuzzicarlo fino a che avessero un pretesto per distruggerlo: volevano sbarazzarsi di lui». Insistettero, in modo che a un certo punto il leader egiziano non potesse fare a meno di rispondere: «Sostanzialmente Nasser è stato preso in trappola». Per Morris, la stessa crisi di Suez del 1956 era nata da «un complotto ordito dagli israeliani per rovesciarlo, con il concorso degli inglesi e dei francesi», con i quali Israele collaborò invadendo il Sinai.Gli americani non si opposero alla ferma difesa di Nasser da parte dell’Urss. «Eisenhower pensava che non fosse ancora il momento adatto», per abbattere il “raiss” egiziano. «Ma anche gli americani sicuramente volevano sbarazzarsi di Nasser», aggiunge Filkenstein: «Lo vedevano tutti come una spina nel fianco». Sicché, la guerra-lampo del 1967 non sarebbe altro che «una ripetizione del 1956, con una differenza fondamentale: il sostegno americano». Alla Guerra dei Sei Giorni, infatti, «gli Stati Uniti non si sono opposti», restando «molto prudenti e cauti nelle loro dichiarazioni». Non hanno sostenuto apertamente la guerra di Israele, «perché era illegale». E gli Usa erano già impantanati nella tragedia del Vietnam, estremamente impopolare: «Non volevano impegnarsi anche nel sostegno a Israele, che sarebbe stato visto allo stesso modo come il colonialismo occidentale che tenta di prevalere sul Terzo Mondo, sul mondo non-allineato». Ma c’era un comune interesse strategico: eliminare Nasser. «Era un obiettivo a lungo termine, mantenere il mondo arabo nell’arretratezza. Mantenerlo in uno stato subordinato, primitivo».Perfettamente funzionali, in questo, il “falchi” israeliani come Ariel Sharon: «Dobbiamo attaccare adesso, perché altrimenti perdiamo la nostra capacità di dissuasione». Frase storica, rimasta – da allora – a fondamento della “dottrina” politico-militare di Israele, la propaganda vittimistica che ha giustificato massacri come quello della popolazione della Striscia di Gaza. «La “capacità di dissuasione” – traduce Filkenstein – significa: “la paura che di noi ha il mondo arabo”». La “colpa” di Nasser? «Risollevava il morale degli arabi, i quali non avevano più paura». E per gli israeliani la paura «è una carta molto forte, per tenere gli arabi al loro posto». A questo, ovviamente, si aggiunge la “necessità”, per Israele, di incrementare i propri territori a spese degli arabi. E in tutto questo, chiarisce lo storico, la religione non c’entra: «Bisogna ricordare che il movimento sionista era per la maggior parte secolare, per la grandissima parte ateo. Una larga parte si considerava socialista e comunista e non aveva nessun aggancio con la religione. Ma consideravano lo stesso di avere un titolo legale di proprietà sulla terra perché nel loro pensiero la Bibbia non era solo un documento religioso, era un documento storico». Una mentalità “secolare”, «profondamente radicata e fanatica». Al punto da falsificare la storia, inventare un’aggressione araba mai avvenuta e organizzare la Truffa dei Sei Giorni per metter fine alla carriera di Nasser, il temutissimo Ataturk arabo.La Truffa dei Sei Giorni: «In realtà la guerra-lampo del 1967 durò appena 6 minuti, il tempo che impiegò l’aviazione israeliana per annientare quella egiziana, ancora a terra», senza che un solo aereo del Cairo avesse potuto decollare. E i famosi Sei Giorni? «Servirono solo a occupare e annettere territori non-israeliani, che da allora – con la sola eccezione del Sinai – fanno parte di Israele». Parola dello storico statunitense Norman Finkestein, intervistato da Aaron Mate per l’emittente “The Real News” nel cinquantesimo anniversario della Guerra dei Sei Giorni, giugno 1967, evento fondante del mito vittimistico dell’autodifesa di Israele, paese “attaccato dagli arabi”. Un falso storico, accusa l’autore del bestseller “Palestine: Peace Not, Apartheid”, tradotto in 50 paesi. Fu Israele a provocare il conflitto, afferma Finkestein: abbattè deliberatamente alcuni aerei siriani, ben sapendo che l’Egitto sarebbe stato costretto a schierarsi con la Siria, cui era legato da un patto di mutua assistenza. Obiettivo segreto di Tel Aviv: conquistare falcilmente territori, sapendo (da Cia e Mossad) che gli arabi non avrebbero potuto resistere. E soprattutto: demolire il leader politico egiziano Nasser, temutissimo come possibile “Ataturk arabo”, capace di guidare lo sviluppo laico del Medio Oriente, superando la storica arretratezza della regione.
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Bufale giganti: per seppellire indizi sui “giganti” veri?
Scheletri di giganti alti 4 metri, scoperti in America e subito occultati: scoperta clamorosa, ma “insabbiata” da una autorevolissima istituzione scientifica come la Smithsonian Institution, un glorioso organismo scientifico finanziato dal governo degli Stati Uniti. Una sentenza della Corte Suprema americana, si legge sul web in diversi blog, avrebbe «costretto la Smithsonian Institution a rilasciare i documenti classificati risalenti agli inizi del 1900 che dimostrano che l’organizzazione è stata coinvolta in una grande, storica copertura di prove». Documenti che proverebbero «la scoperta di migliaia di scheletri di giganti umani rinvenuti in tutta l’America: fu ordinato di distruggerli dagli amministratori di alto livello per proteggere la principale cronologia corrente dell’evoluzione umana». Davvero? Niente affatto: quegli scheletri non sono mai stati distrutti. E per un semplice motivo: non sono mai esistiti. Lo ripetono in coro altre fonti, sempre su Internet, secondo cui la storia rientrerebbe tra le classiche “fake news”, sempre più in voga per gettare discredito sulle vere notizie che circolano sul web, disturbando gli omertosi silenzi del mainstream.Le accuse sarebbero state mosse «dall’istituzione americana di Alternative Archeology (Aiaa)», che affermerebbe che la Smithsonian Institution «aveva distrutto migliaia di scheletri di giganti umani nei primi anni del 1900», scrive il blog “Compl8”. «E questa accusa non è stata presa alla leggera da parte della Smithsonian, che ha risposto facendo causa all’organizzazione per diffamazione», visto che l’iniziativa finirebbe per danneggiare la reputazione di un istituto culturale che ha da 168 anni di storia: basato a Washington ma con 19 musei, negli Usa e non solo, lo Smithsonian dispone di 142 milioni di pezzi, nelle sue collezioni, che ne fanno il più grande complesso di musei al mondo. La storia degli scheletri dei giganti, tenuta nascosta fino alla denuncia avallata dalla Corte Suprema? Tutto falso, assicurano siti come “ThatsFake.com” e “BadSatireToday.com”: una vicenda inventata, di sana pianta, da un’unica fonte, il sito “World News Daily Report”, che si definisce «giornale ebreo sionista americano basato a Tel Aviv, specializzato in archeologia biblica e altri misteri della Terra». Il newsmagazine, attivo dal 1988 e con alle spalle oltre 200.000 edizioni, dichiara di essere gestito da giornalisti pluri-premiati «cristiani, musulmani ed ebrei», nonché da «ex agenti del Mossad e veterani dell’esercito israeliano». Il sito però non ne riporta i nomi, e lo stesso “scoop” sugli scheletri extra-large non è firmato.La tesi sostenuta: durante «la causa in tribunale», sarebbero stati «portati alla luce molti elementi», tanto da costringere «molti informatori della Smithsonian» ad ammettere l’esistenza di documenti che, «presumibilmente», comprovavano «la distruzione di decine di migliaia di scheletri di giganti». Esseri decisamente fuori misura, «che raggiungevano un’altezza tra i 6 e 12 piedi (fra circa 2 metri e 4 metri)». Il “World News Daily Report” cita un nome, quello di James Churward, definito «il portavoce Aiaa», associazione archeologica che “UnveilingKnowledge.com” definisce «immaginaria»: sul web non esiste proprio, non dispone di un sito. Nessuna traccia nemmeno del James Churward, citato dal newsmagazine israeliano. L’accusa: «C’è stata una copertura importante dalle istituzioni archeologiche occidentali, fin dai primi anni del 1900, per farci credere che l’America è stata colonizzata da popolazioni asiatiche che migrarono attraverso lo stretto di Bering circa 15.000 anni fa, quando in realtà, ci sono centinaia di migliaia di sepolture e tumuli in tutta l’America, che i nativi affermano che esistevano già prima di loro, e che mostrano tracce di una civiltà altamente sviluppata, con un uso complesso di leghe metalliche, e in cui si trovano gli scheletri di giganti umani, ma ancora non vengono denunciati dai media e dalle agenzie di stampa».Si cita anche l’enorme femore che sarebbe stato scoperto in Ohio nel 2011, ma il “World News Daily Report” va oltre: sostiene che in sede giudiziaria sarebbe stato esibito «un osso lungo 1,3 metri» che, nientemeno, sarebbe stato «rubato dalla Smithsonian da uno dei loro stessi curatori di alto livello a metà degli anni ’30, che aveva conservato l’osso per tutta la vita, e che sul letto di morte aveva ammesso per iscritto che ci furono operazioni sotto copertura dello Smithsonian per far sparire questi scheletri di giganti definitivamente». E ancora: «Stiamo nascondendo la verità sui progenitori dell’umanità, i nostri antenati, i giganti che popolavano la terra come ricordato anche nella Bibbia e nei testi antichi del mondo». Il sito “ThatsFake” smentisce tutto e dichiara falsa l’intera ricostruzione: la denuncia, la causa legale, tutto quanto. «L’intero articolo è una bufala», scrive. «Non è mai stata effettuata alcuna ammissione di quel genere da parte dello Smithsonian». L’esistenza di esseri umani giganti, quelli che la stessa Bibbia chiama “Nephilim”, oppone da lungo tempo evoluzionisti e creazionisti, aggiunge “ThatsFake”. «Ciò ha portato a molte teorie del complotto, che sostengono lo Smithsonian ed enti governativi abbiano coperto l’esistenza di esseri umani giganti per “proteggere la teoria dell’evoluzione umana”».Sempre il sito anti-bufale ammette che il web pullula di foto che ritraggono persone accanto a ossa gigantesche, in apparenza umane, ma sostiene che «è dimostrato che la maggior parte di queste sono state manipolate digitalmente». I giganti, comunque, appassionano: “Esoterya.com” riferisce del ritrovamento di «resti scheletrici di un essere umano di dimensioni fenomenali» scoperto nel 2004 nel nord dell’India da ricercatori di “National Geographic”, subito però “blindati” «dall’esercito indiano». Molti hanno dato la notizia per falsa, aggiunge “Esoterya”, che però cita «il femore di un gigante» che sarebbe stato «spedito in Spagna da Hernán Cortés durante la conquista del Messico». Tracce di altri “giganti” sarebbero state avvistate da esploratori come Magellano, Drake, Hernández , mentre «alcuni soldati a Lampock Ranch, in California, rinvennero lo scheletro di un gigante», ma purtroppo «un frate cattolico ordinò loro di sotterrarlo nuovamente perché i nativi locali erano adirati da tale profanazione», attribuendo quei resti «a un antico dio». Non c’è odore di “fake news”, invece, nel Gigante di Castelnau, cioè i tre frammenti ossei fossili (probabilmente omero, tibia e femore) scoperti dall’antropologo Georges Vacher de Lapouge nel 1890, in Francia.Quei resti affiorarono da un tumulo relativo a una sepoltura dell’Età del Bronzo, databile probabilmente al Neolitico. «Secondo de Lapouge – si legge su Wikipedia – le ossa fossili potrebbero appartenere ad uno dei più grandi esseri umani mai esistiti. Sulla base della dimensione dei frammenti, egli riteneva che l’uomo potesse essere alto circa 3,5 metri». Sui frammenti ossei del presunto gigante, aggiunge Wikipedia, non sono stati pubblicati studi moderni con revisione paritaria. Però il Gigante di Castelnau fu studiato all’università di Montpellier da Sabatier e Delage, professori rispettivamente di zoologia e paleontologia, oltre ad altri anatomisti. «Nel 1892, i frammenti furono approfonditamente studiati dal dottor Paul Louis André Kiener, professore di anatomia patologica presso la Scuola di Medicina di Montpellier». Kiener concluse che i frammenti «rappresentavano “una razza molto alta”, non trovandoli però anomali nelle dimensioni». Due anni dopo, notizie di stampa riportarono un’ulteriore scoperta di ossa umane “giganti” rinvenute nel corso dello scavo di un’area cimiteriale preistorica a Montpellier, ad appena 5 chilometri da Castelnau, individuata durante scavi per opere idriche. «Si rinvennero teschi che misuravano “28, 31 e 32 pollici di circonferenza”, assieme ad altre ossa di proporzioni gigantesche che indicavano l’appartenenza a una popolazione umana alta “tra 10 e 15 piedi” (circa 3-4,5 metri)».Sono le stesse dimensioni, che ricorrono praticamente ovunque. Quelle ossa, scrive ancora Wikipedia, furono poi trasmesse all’Accademia delle Scienze a Parigi per ulteriori studi, di cui non si precisano gli esiti. Ma la curiosità per queste ipotetiche, misteriose creature – di cui non parla solo la Bibbia, ma anche l’Odissea (Polifemo) – non accenna a scemare: l’ultima notizia viene dalla Sardegna, dove un paio d’anni fa è emerso uno scheletro di grandi dimensioni nel complesso nuragico di Barru, tra i comuni di Guamaggiore e Guasila. «Ha un femore enorme», disse il sindaco di Guamaggiore, Nello Cappai, citato dal quotidiano “L’Unione Sarda”, parlando di un osso risultato poi lungo 60 centimetri. Tempo fa fece il giro del web la storia, diffusa dal giornale tedesco “Blid”, del dito mummificato, lungo 38 centimetri, che sarebbe stato scoperto da un tombarolo egiziano vicino alla piramide di Giza e fotografato dallo svizzero Gregory Spoerri.Per Zecharia Sitchin, il padre della paleo-astronautica, la controversa teoria basata sulla reinterpretazione degli antichi testi sumeri, proprio nei giganti sarebbero riscontrabili le tracce dei nostri veri progenitori. In libri come “Il pianeta degli dei” e “Quando i giganti abitavano la Terra”, il ricercatore azero-statunitense sostiene che gli Elohim biblici che dissero “Creiamo Adamo a nostra immagine e somiglianza” siano stati gli dei della Sumeria e di Babilonia, gli Anunnaki giunti sulla Terra dal loro pianeta, Nibiru. Secondo Sitchin, Adamo fu geneticamente progettato circa 300.000 anni, quando i geni degli Anunnaki vennero uniti a quelli di un ominide. Poi, secondo la Bibbia, vennero celebrati matrimoni misti: sulla Terra abitarono i Giganti, che presero in moglie le discendenti di Adamo, dando alla luce “uomini eroici”, figure che l’autore riconduce ai semidei delle tradizioni sumere e babilonesi, tra cui il famoso re mesopotamico Gilgamesh, colui che rivendicò il diritto all’immortalità, e Utnapishtim, l’eroe babilonese del Diluvio. Ma allora tutti noi discendiamo da semidei? Lo storico romano Giuseppe Flavio, nel 79 dopo Cristo, scrive: «Vi erano dei giganti. Molto più grandi e di forma diversa rispetto alle persone normali. Terribile a vedersi. Chi non ha visto con i miei occhi, non può credere che siano stati così immensi».Un sito che si occupa di aspetti scientifici poco noti, “Il Navigatore Curioso”, rievoca la storia di 18 scheletri giganti scoperti nel Wisconsin nel maggio del 1912 da un team di archeologi del Beloit College. Una notizia accolta con enorme risalto dai grandi giornali: uno scavo realizzato presso il lago Delavan «portò alla luce oltre duecento tumuli con effigie che furono considerate come esempio classico della cultura Woodland», una ascendenza preistorica americana che si crede risalga al primo millennio avanti Cristo. «Ma ciò che stupì i ricercatori fu il ritrovamento di diciotto scheletri dalle dimensioni enormi e con i crani allungati, scoperta che non si adattava affatto alle nozioni classiche contenute nei libri di testo. Gli scheletri erano veramente enormi e, benchè avessero fattezze umane, non potevano appartenere a esseri umani normali. La notizia – aggiunge il “Navigatore Curioso” – ebbe una grande eco e fece molto scalpore, tanto che il “New York Times” riportò la notizia tra le sue pagine. Forse, a quei tempi, c’era più libertà e meno paura rispetto alle scoperte che potevano cambiare le consolidate credenze scientifiche fondate solo su teorie». L’unica certezza che abbiamo, ripete Mauro Biglino, noto per la rilettura letterale della Bibbia, è che la nostra storia è interamente da scrivere. E se qualcuno ha davvero “paura” di possibili verità scomode, forse non c’è niente di meglio che qualche bufala “gigante”: l’ideale, per seppellire nel ridicolo qualsiasi pista alternativa a quella ufficiale.Scheletri di giganti alti 4 metri, scoperti in America e subito occultati: scoperta clamorosa, ma “insabbiata” da una autorevolissima istituzione scientifica come la Smithsonian Institution, un glorioso organismo scientifico finanziato dal governo degli Stati Uniti. Una sentenza della Corte Suprema americana, si legge sul web in diversi blog, avrebbe «costretto la Smithsonian Institution a rilasciare i documenti classificati risalenti agli inizi del 1900 che dimostrano che l’organizzazione è stata coinvolta in una grande, storica copertura di prove». Documenti che proverebbero «la scoperta di migliaia di scheletri di giganti umani rinvenuti in tutta l’America: fu ordinato di distruggerli dagli amministratori di alto livello per proteggere la principale cronologia corrente dell’evoluzione umana». Davvero? Niente affatto: quegli scheletri non sono mai stati distrutti. E per un semplice motivo: non sono mai esistiti. Lo ripetono in coro altre fonti, sempre su Internet, secondo cui la storia rientrerebbe tra le classiche “fake news”, sempre più in voga per gettare discredito sulle vere notizie che circolano sul web, disturbando gli omertosi silenzi del mainstream.
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Giulietto Chiesa: illusionismo Trump, vincerà Wall Street
Non ho mai pensato, né detto dunque, che Trump sia “contro il sistema”. Del resto non so bene cosa significhi la parola “sistema”. Se per “sistema” s’intende il capitalismo, la risposta è no. Trump mi pare semmai un capitalista tradizionale. Mentre il turbocapitalismo impersonato da Wall Street è una cosa ormai sostanzialmente diversa. Trump è comunque un miliardario plurimo. Come potrebbe essere contro il capitalismo? Vedo che in molti c’è una grande confusione sui termini. Con quelli tradizionali non si va da nessuna parte. Trump è un fenomeno. Tutto interno alla crisi del capitalismo finanziario. La sua linea non è ancora definita. Come non lo è la sua cultura (non solo la sua cultura politica). Dà l’impressione di avere capito qualche cosa del mondo in cui vive. Ma nemmeno lui è consapevole di cosa sa e di cosa non sa. È inoltre evidente (a me, per lo meno) che non riesce a connettere piani diversi e a cogliere le connessioni tra di essi. Per esempio dice di non volersi ingerire troppo negli affari degli altri. Ma poi si ingerisce subito nel conflitto palestinese schierandosi con le richieste di Netanyahu e degli oltranzisti sionisti per trasferire la capitale di Israele (e quindi l’ambasciata americana) da Tel Aviv a Gerusalemme. Non so se qualcuno gli ha spiegato le conseguenze di questo gesto.Non parliamo del suo atteggiamento verso la Cina. Che sembra essere tornata il nemico principale, come lo era nel famoso documento del Pnac (Project for the New American Century) dei neocon. Se Trump confermerà questa linea, lo scontro con la Cina sarà inevitabile. Cioè sposta in là di qualche anno il pericolo della catastrofe nucleare, o peggio. Altro esempio: cancella il Trattato interpacifico di Obama (e quindi viene visto come un progressista da tutti coloro che erano e sono contro il Ttp e anche contro il Ttip) ma non lo fa per gli stessi motivi con cui, per esempio, io sono contro, insieme a tutti coloro che si sono battuti per fermarlo. Lo fa perché pensa che quei trattati avrebbero favorito la finanza e non fatto aumentare i posti di lavoro americani. Forse ha ragione, ma non è la nostra ragione. Dice di volere riaprire il dialogo con la Russia, ma solo perché pensa che oggi sia conveniente alla politica americana, non perché vuole realisticamente ridimensionare l’America e accettare che sia posta sullo stesso piano dei suoi interlocutori. Mostra aperto disprezzo per l’Europa, ma sembra inconsapevole che, così facendo (e riaprendo il dialogo con Putin), crea un terremoto in Europa di cui sicuramente non sa prevedere le ripercussioni.Insomma voglio dire che i suoi gesti possono apparire a molti di noi come positivi (e alcuni lo sono), ma lo fa sulla base di idee che sono lontanissime da quelle che tutti noi condividiamo, cioè quelle di un mondo giusto e pacifico. Io diffido moltissimo di lui e di coloro che lo circondano. Anche loro sono l’America. Anche loro sono portatori del virus che ci sta portando in guerra con la Natura. Se lui riaprirà il dialogo con la Russia sarà comunque un fatto positivo: perché ci consentirà di respirare qualche anno di più. Ma che questo sia l’inizio della trasformazione degli Stati Uniti in un fattore di pace per il mondo, questo non lo credo. Credo che sia la prosecuzione, in altre forme, del dominio americano sul mondo. Era impossibile quello di Clinton-Bush-Obama. Sarà impossibile anche quello di Trump. Il popolo americano non è in grado di operare questa svolta. Che implicherebbe una vera e propria rivoluzione. Il mostro del denaro ha già ingoiato i cervelli di troppa gente, in America. E gli altri sono in larga maggioranza privati di ogni capacità di organizzazione di un’alternativa.Alla fin fine io credo che non ci sia nessun presidente che possa torcere il braccio a Wall Street e che voglia fare la fine di Kennedy. Neanche Trump potrà farlo. Sarà la crisi di quello che molti chiamano il “sistema” che fermerà Wall Street. Il massimo sarebbe stato, forse, Sanders. Ma non c’è nessun presidente che possa torcere il braccio a Wall Street. Neanche Trump. E Wall Street è il male assoluto per il pianeta Terra. Ma non è nemmeno escluso che Wall Street faccia saltare in aria il mondo quando si accorgerà del disastro che ha creato. Potrà sembrare strano, ma nelle leggi fondamentali della stupidità umana del professor Carlo Maria Cipolla c’è quella che definisce lo stupido come il più pericoloso dei soggetti. Perché è colui che può fare del male agli altri e a se stesso, in quanto stupido. Lo stupido è imparabile. A Wall Street e nella sua filiale, la City di Londra, c’è una altissima concentrazione di stupidi strategici che hanno un potere sterminato. Il “sistema” sono loro. In queste condizioni chi è ottimista è stupido, anche se non abita a Wall Street.(Giulietto Chiesa, “Chi è Trump e dove ci porterà, se resterà”, da “Megachip” del 27 gennaio 2017Non ho mai pensato, né detto dunque, che Trump sia “contro il sistema”. Del resto non so bene cosa significhi la parola “sistema”. Se per “sistema” s’intende il capitalismo, la risposta è no. Trump mi pare semmai un capitalista tradizionale. Mentre il turbocapitalismo impersonato da Wall Street è una cosa ormai sostanzialmente diversa. Trump è comunque un miliardario plurimo. Come potrebbe essere contro il capitalismo? Vedo che in molti c’è una grande confusione sui termini. Con quelli tradizionali non si va da nessuna parte. Trump è un fenomeno. Tutto interno alla crisi del capitalismo finanziario. La sua linea non è ancora definita. Come non lo è la sua cultura (non solo la sua cultura politica). Dà l’impressione di avere capito qualche cosa del mondo in cui vive. Ma nemmeno lui è consapevole di cosa sa e di cosa non sa. È inoltre evidente (a me, per lo meno) che non riesce a connettere piani diversi e a cogliere le connessioni tra di essi. Per esempio dice di non volersi ingerire troppo negli affari degli altri. Ma poi si ingerisce subito nel conflitto palestinese schierandosi con le richieste di Netanyahu e degli oltranzisti sionisti per trasferire la capitale di Israele (e quindi l’ambasciata americana) da Tel Aviv a Gerusalemme. Non so se qualcuno gli ha spiegato le conseguenze di questo gesto.
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“Ma Trump voleva solo appalti, non diventare presidente”
Il più grosso problema di Donald Trump? Essere diventato presidente degli Stati Uniti: mai più pensava di essere eletto, né tantomeno ci teneva. «Il suo obiettivo era un altro: ottenere appalti per le sue aziende, nella posizione privilegiata di grande sconfitto». Lo sostiene l’avvocato Gianfranco Carpeoro, giornalista e scrittore, autore del recente saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. «E’ la verità: Trump sperava solo di ottenere appalti una volta che fosse stata eletta Hillary Clinton. Che poi non è stata eletta soprattutto per un incidente di percorso a due settimane dal traguardo: la fuga di notizie sulle sue condizioni di salute. E gli americani, con il loro culto dell’efficienza, mai avrebbero eletto una presidente malata». Ed è così che “The Donald” si è ritrovato alla Casa Bianca, forse anche anche suo malgrado. Ma perché si era candidato? «Perché persino l’élite non avrebbe più tollerato alla Casa Bianca un altro esponente della famiglia Bush, specie dopo le notizie sul ruolo di quella famiglia nell’11 Settembre e nella nascita dell’Isis. Trump è stato candidato tra i repubblicani proprio per quello, per tagliare la strada a Jeb Bush».Affermazioni clamorose, che Carpeoro affida alla diretta web-streaming con Fabio Frabetti di “Border Nighs” il 29 gennaio. Sul tappeto, le roboanti iniziative del neo-presidente in materia di immigrazione. «Il Muro alla frontiera col Messico? Pochi lo dicono, ma quel muro esiste già: lo eresse Bill Clinton. Trump si è solo ripromesso di completarlo». In altre parole: cambiano gli orchestrali, non lo spartito. «Per il potere è indifferente il pullman su cui salire». L’annuncio del trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme? «Non è un fatto epocale, come si pretende: Gerusalemme è già sotto il pieno controllo ebraico». Nel suo saggio sul rapporto fra massoneria e terrorismo, lo stesso Carpeoro racconta che, a Yalta, «due massoni e mezzo», cioè Roosevelt e Churchill, più Stalin, «negando la nascita di uno Stato palestinese accanto a quello ebraico stabilirono, già nel 1945, che in Medio Oriente la guerra sarebbe durata per sempre: questo era l’interesse del grande potere, che non ammette deroghe». La riprova? «Chiunque si sia opposto, scommettendo sulla pace, ha fatto una brutta fine: Arafat, Hussein di Giordania e lo stesso Rabin, ucciso da estremisti ebraici».Morale: «Non aspettiamo chissà cosa, da Trump. Il neoeletto vedrà il da farsi, volta per volta». Secondo Carpeoro, “The Donald” è alla Casa Bianca essenzialmente per via della defaillance di Hillary. Ed era stato candidato per opporsi, anche con l’aiuto inatteso della super-massoneria “progressista”, al pericoloso Jeb Bush, che Gioele Magaldi (nel libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”) riconduce alla filiera della Ur-Lodge “Hathor Pentalpha”, creata da George Bush (padre) nel 1980, dopo la sconfitta subita per mano di Reagan alle primarie repubblicane. Magaldi la definisce «loggia del sangue e della vendetta», descrivendola come un circolo esclusivo e sanguinario, responsabile della strategia della tensione a livello internazionale, con il contributo di personaggi come George W. Bush, Nicolas Sarkozy, Tony Blair, Recep Tayyip Erdogan. «Quanto sta emergendo sul ruolo della “Hathor Pentalpha” in relazione al caso Bin Laden e all’Isis – afferma Carpeoro – ha motivato il sostegno a Trump per fermare Jeb Bush». E ora che Trump è alla Casa Bianca? Niente paura, conclude Carpeoro: «Come presidente non potrà più auto-assegnarsi appalti, ma li riceverà da Putin in Russia. E Trump contraccambierà, concedendo appalti a Putin in America».Il più grosso problema di Donald Trump? Essere diventato presidente degli Stati Uniti: mai più pensava di essere eletto, né tantomeno ci teneva. «Il suo obiettivo era un altro: ottenere appalti per le sue aziende, nella posizione privilegiata di grande sconfitto». Lo sostiene l’avvocato Gianfranco Carpeoro, giornalista e scrittore, autore del recente saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. «E’ la verità: Trump sperava solo di ottenere appalti una volta che fosse stata eletta Hillary Clinton. Che poi non è stata eletta soprattutto per un incidente di percorso a due settimane dal traguardo: la fuga di notizie sulle sue condizioni di salute. E gli americani, con il loro culto dell’efficienza, mai avrebbero eletto una presidente malata». Ed è così che “The Donald” si è ritrovato alla Casa Bianca, forse anche anche suo malgrado. Ma perché si era candidato? «Perché persino l’élite non avrebbe più tollerato alla Casa Bianca un altro esponente della famiglia Bush, specie dopo le notizie sul ruolo di quella famiglia nell’11 Settembre e nella nascita dell’Isis. Trump è stato candidato tra i repubblicani proprio per quello, per tagliare la strada a Jeb Bush».
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Kerry confessa: noi con l’Isis in Siria, dalla base di Smirne
La guerra contro la Siria è il primo conflitto dell’epoca informatica a durare oltre sei anni. Numerosissimi documenti che sarebbero dovuti rimanere a lungo segreti sono già stati pubblicati. Benché siano stati divulgati, in misura diversa, in paesi diversi e l’opinione pubblica non abbia così potuto prenderne piena consapevolezza, essi consentono sin da ora una ricostruzione degli avvenimenti. La pubblicazione della registrazione di quanto dichiarato da John Kerry in privato, a settembre scorso, rivela la politica del Dipartimento di Stato americano e costringe tutti gli osservatori, noi compresi, a rivedere le proprie analisi. La registrazione integrale dell’incontro del segretario di Stato John Kerry con membri della Coalizione nazionale siriana delle forze dell’opposizione e della rivoluzione, avvenuta il 22 settembre nei locali della delegazione olandese alle Nazioni Unite, pubblicata da “The Last Refuge”, rimette in causa la nostra analisi della posizione Usa nei confronti della Siria.In primo luogo, avevamo creduto che Washington, dopo aver dato inizio all’operazione chiamata “Primavera araba”, finalizzata a rovesciare i regimi laici a beneficio dei Fratelli Musulmani, avesse lasciato i propri alleati da soli a dare l’avvio alla seconda guerra contro la Siria, iniziata a luglio 2012. E avevamo creduto che, perseguendo questi alleati obiettivi propri (ricolonizzazione per Francia e Regno Unito; conquista del gas per il Qatar; espansione del wahabismo e vendetta della guerra civile libanese per l’Arabia Saudita; annessione della Siria del nord per la Turchia, secondo il modello cipriota, ecc.), l’obiettivo iniziale fosse stato abbandonato. Invece, nella registrazione si sente John Kerry affermare che Washington non ha mai rinunciato ai tentativi di rovesciamento della repubblica araba siriana. Ciò significa che gli Usa hanno seguito passo per passo l’operato degli alleati. Di fatto, negli ultimi quattro anni gli jihadisti sono stati comandati, armati e coordinati dall’AlliedLandCom (Comando delle forze terrestri) della Nato, basato a Smirne (Turchia).In secondo luogo, John Kerry riconosce che Washington non poteva esporsi maggiormente per due ragioni: il diritto internazionale e la posizione della Russia. Sia chiaro, gli Stati Uniti non hanno mai avuto scrupoli a violare il diritto internazionale: hanno distrutto le strutture nodali della rete petrolifera e del gas della Siria, con il pretesto di combattere gli jihadisti (ciò che è conforme al diritto internazionale), senza però che il presidente al-Assad glielo avesse chiesto (quindi, in violazione del diritto internazionale). Non hanno invece osato mandare truppe terrestri per combattere in campo aperto la repubblica siriana, come viceversa avevano fatto in Corea, in Vietnam e in Iraq. E hanno scelto di mandare in prima linea i loro alleati (secondo la strategia della “leadership from behind” – leadership occulta) e di sostenere, senza peraltro grande discrezione, i mercenari, come avvenne in Nicaragua, rischiando di venire condannati dalla Corte internazionale di Giustizia (il tribunale dell’Onu).In realtà, Washington non vuole imbarcarsi in una guerra contro la Russia. E, dal canto suo, la Russia, che non si era opposta alla distruzione della Jugoslavia e della Libia, ora ha rialzato la testa e spinto più in là il limite da non oltrepassare. Mosca è in condizione di difendere il diritto con la forza, qualora Washington ingaggiasse apertamente una nuova guerra di conquista. In terzo luogo, quanto detto da John Kerry dimostra che Washington sperava in una vittoria di Daesh sulla repubblica siriana. Fino a oggi, basandoci sul rapporto del generale Michael Flynn del 12 agosto 2012 e dell’articolo di Robert Wright sul “New York Times” del 28 settembre 2013, avevamo ritenuto che il Pentagono volesse creare un “Sunnistan” a cavallo tra Siria e Iraq, per tagliare la via della seta. Nella registrazione Kerry confessa che il piano andava ben oltre. Probabilmente, Daesh avrebbe dovuto prendere Damasco per poi venirne cacciato da Tel Aviv (ossia, ripiegare sul “Sunnistan”, appositamente creato). La Siria avrebbe potuto così essere spartita: il sud a Israele, l’est a Daesh, il nord alla Turchia.Ciò fa capire perché Washington abbia dato l’impressione di non controllare nulla, di “lasciar fare” gli alleati: gli Stati Uniti hanno indotto Francia e Regno Unito a impegnarsi nel conflitto, facendo loro credere che avrebbero potuto ricolonizzare il Levante, mentre, al contrario, avevano già deciso che sarebbero stati esclusi dalla spartizione della Siria. In quarto luogo, John Kerry, ammettendo di aver “sostenuto” Daesh, riconosce di averlo armato. La retorica della “guerra contro il terrorismo” si riduce perciò a nulla. Dall’attentato del 22 febbraio 2006 alla moschea al-Askari di Samarra, Iraq, sapevamo che Daesh (che inizialmente si chiamava “Emirato islamico dell’Iraq”) era stato creato dal direttore nazionale dell’intelligence Usa, John Negroponte, e dal colonnello James Steele per stroncare la resistenza irachena e provocare una guerra civile, sul modello di quanto fatto in Honduras. Dopo la pubblicazione sul quotidiano del Pkk, Partito dei lavoratori del Kurdistan, “Özgür Gündem”, del processo verbale della riunione di pianificazione, tenutasi ad Amman il 1° giugno 2014, sapevamo che gli Stati Uniti avevano organizzato un’offensiva congiunta di Daesh su Mosul, e del governo regionale del Kurdistan iracheno su Kirkuk.In quinto luogo, abbiamo ritenuto che il conflitto tra il clan Allen/Clinton/Feltman/Petraeus da un lato, e l’amministrazione Obama/Kerry dall’altro vertesse sul sostegno o no a Daesh. Non è affatto così. Entrambi i campi non hanno avuto scrupoli a organizzare e sostenere gli jihadisti più fanatici. Il loro disaccordo attiene esclusivamente al ricorso alla guerra aperta – e al rischio di un conflitto con la Russia – o alla scelta di manovrare dietro le quinte. Solo Flynn, attuale consigliere per la sicurezza di Trump – si è opposto allo jihadismo. Se accadesse che, fra qualche anno, gli Stati Uniti crollassero, com’è accaduto per l’Urss, la registrazione di John Kerry potrebbe essere utilizzata contro di lui e contro Obama davanti a una giurisdizione internazionale – ma non davanti alla Corte penale internazionale dell’Onu, ormai screditata. Avendo riconosciuto la veridicità degli estratti pubblicati dal “New York Times”, Kerry non potrebbe contestare l’autenticità del documento sonoro integrale. Il sostegno a Daesh che Kerry esibisce vìola parecchie risoluzioni delle Nazioni Unite e costituisce una prova della responsabilità sua e di Obama nei crimini contro l’umanità commessi dall’organizzazione terrorista.(Thierry Meyssan, “Le confessioni del criminale John Kerry”, da “Megachip” del 19 gennaio 2017).La guerra contro la Siria è il primo conflitto dell’epoca informatica a durare oltre sei anni. Numerosissimi documenti che sarebbero dovuti rimanere a lungo segreti sono già stati pubblicati. Benché siano stati divulgati, in misura diversa, in paesi diversi e l’opinione pubblica non abbia così potuto prenderne piena consapevolezza, essi consentono sin da ora una ricostruzione degli avvenimenti. La pubblicazione della registrazione di quanto dichiarato da John Kerry in privato, a settembre scorso, rivela la politica del Dipartimento di Stato americano e costringe tutti gli osservatori, noi compresi, a rivedere le proprie analisi. La registrazione integrale dell’incontro del segretario di Stato John Kerry con membri della Coalizione nazionale siriana delle forze dell’opposizione e della rivoluzione, avvenuta il 22 settembre nei locali della delegazione olandese alle Nazioni Unite, pubblicata da “The Last Refuge”, rimette in causa la nostra analisi della posizione Usa nei confronti della Siria.