Archivio del Tag ‘animali’
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Barnard: divento vegano, basta mangiare sangue (umano)
Basta, mangiare sangue umano: io diventerò vegano, e lo farò in modo intelligente. Il mio “basta, mangiare sangue umano” è la cosa chiave per capire perché io, Paolo Barnard, ho preso questa decisione. Mai ci avrei pensato (mi sono occupato di trentamila battaglie) se Nicolas Micheletti, del partito Democrazia Verde – a cui non appartengo – non mi ci avesse fatto pensare. Non divento vegano per la salute – un cancro non me lo evito così, viviamo sepolti da masse di veleni. Divento vegano perché non posso più mangiare sangue umano. Io sono Paolo Barnard, 32 anni a testimoniare nel mondo guerre, atrocità, il mostro neoliberista, cento inchieste, migliaia di articoli, sei libri. E poi, in trattoria, ordino sangue umano. Stragi, assassinii, sofferenze di milioni di poveri senza voce, e distruzione dell’ambiente. Tutto in un filetto alla griglia. Eh, no: non esistono più dubbi sul fatto che gli allevamenti animali intensivi, del mostro mondiale chiamato agribusiness, sono la causa di milioni di morti di fame nel mondo, e degli omicidi degli attivisti che li difendono – sono nelle cronache: leggetevi i giornali stranieri, in Italia non ne parla nessuno. Sono la causa di inquinamenti inimmaginabili da CO2 e da letame in quanità mostruose, che sterilizzano pezzi d’Oceano e intere regioni grandi come il Belgio, ogni anno.Un potere di devastazione umana e ambientale pari a dieci volte quello di tutte le auto, aerei, moto, fabbriche e riscaldamenti, messi assieme. Non ci sono più dubbi che in una bistecca o in un petto di pollo ci sia tutto questo. Divento vegano in modo intelligente: non è affatto necessario il fanatismo del non voler vedere più neppure la foto di una molecola di carne. Non è questo il modo di diventare vegani in maniera intelligente. Ciò che l’Occidente deve fare è far crollare del 99% il mostro dell’agribusiness. Tradotto, vuol dire che Paolo mangerà un uovo biologico ogni due mesi, un pesce ogni due mesi, un pezzo di parmigiano ogni due mesi, pollo e carne biologici una volta ogni due mesi. Il resto, vegano. Non vi sciorino i dati del 68%, del 32%, o il grafico della Onlus sulla timeline dell’azoto e altre cose del genere che trovate in Rete, perché io i dati li ho visti con i miei occhi, nei miei vent’anni a girare Africa, America Latina, Asia. E l’unica cosa che cito qui è il mio articolo “Mai più chicchi di mais”. Ero in Africa, quando mi portarono a vedere i mega-silos del mostro mondale agribusiness chiamato CarGeo, quello che ha fatto anche le stragi in Iraq. Lungo la strada sterrata, dove passavano file di Tir immensi carichi di mais, una figura di vecchia – donna – morente, forse 35 chili se li aveva, piegata in due; impastata di polvere d’argilla raccoglieva i chicchi di mais che cadevano dai Tir, uno e uno, e li metteva nel pugno di una mano scheletrica, per mangiare. Io ero lì, a due metri da lei.Il 98% di quel mais, coltivato da contadini messi probabilmente poco meglio di quella donna, andava alla CarGeo, per fare mangini per le nostre vacche, il nostro latte, i nostri filetti, le fiorentine, i nostri formaggi, i nostri polli, i nostri maiali. Andava ai polli degli apocalittici allevamenti di Arena, dove c’è più antibiotico che aria, andava ai milioni di maiali del prosciuttino del panino del bambino, qui da noi. E lei crepava, raccattando chicchi di mai. E a milioni, oggi, crepano nello stesso modo (per il prosciuttino del bambino, per la fiorentina a cena con gli amiconi, per la carbonara). Il suo sangue, e quello di milioni come lei, quello degli attivisti ammazzati dal mega-agribusiness, è nell’ossobuco che io – io – ho mangiato ieri sera, e nel créme caramel con cui ho finito la cena. Basta, mangiare sangue mano. Basta, non abbiamo scuse, lo sappiamo da cent’anni cosa significa privare i poveri del mondo di quello che coltivano, del loro cibo, per i nostri bisogni.L’ho detto, l’ho scritto: Winston Churchill fu responsabile, assieme all’Impero Britannico, di almeno 29 milioni di morti di fame, in India, perché quasi il 100% di cià che gli indiani coltivavano veniva esportato per i bisogni dell’Europa. E 29 milioni di morti sono 20 milioni in più di quelli causati da Hitler. Non è una novità, lo sappiamo da tempo. Oggi non è più l’impero di Sua Maestà, oggi è il mostro dell’agribusiness: che fa, precisamente, la stessa cosa. E noi gli compriamo sangue umano. Lo so che anche la maglietta di cotone che indosso è intrisa di ingiustizia e di sangue umano, anche il mio iPhone è colpevole di inquinamento, ma niente – niente – inquina e ammazza, oggi, nel mondo, come il nostro cibo. Soprattutto la carne: la carne, e i derivati dei mega-allevamenti animali. Fidatevi, l’ho visto con i miei occhi. Ora basta, non mangerò più il sangue di quella donna, la donna dei chicchi di mais. Diventerò vegano. E lo diventerò in modo intelligente.(Paolo Barnard, “Basta, mangiare sangue umano. Basta, distruggere masticando”, testo del video-appello inserito da Barnard su YouTube il 28 marzo 2017).Basta, mangiare sangue umano: io diventerò vegano, e lo farò in modo intelligente. Il mio “basta, mangiare sangue umano” è la cosa chiave per capire perché io, Paolo Barnard, ho preso questa decisione. Mai ci avrei pensato (mi sono occupato di trentamila battaglie) se Nicolas Micheletti, del partito Democrazia Verde – a cui non appartengo – non mi ci avesse fatto pensare. Non divento vegano per la salute – un cancro non me lo evito così, viviamo sepolti da masse di veleni. Divento vegano perché non posso più mangiare sangue umano. Io sono Paolo Barnard, 32 anni a testimoniare nel mondo guerre, atrocità, il mostro neoliberista, cento inchieste, migliaia di articoli, sei libri. E poi, in trattoria, ordino sangue umano. Stragi, assassinii, sofferenze di milioni di poveri senza voce, e distruzione dell’ambiente. Tutto in un filetto alla griglia. Eh, no: non esistono più dubbi sul fatto che gli allevamenti animali intensivi, del mostro mondiale chiamato agribusiness, sono la causa di milioni di morti di fame nel mondo, e degli omicidi degli attivisti che li difendono – sono nelle cronache: leggetevi i giornali stranieri, in Italia non ne parla nessuno. Sono la causa di inquinamenti inimmaginabili da CO2 e da letame in quantità mostruose, che sterilizzano pezzi d’Oceano e intere regioni grandi come il Belgio, ogni anno.
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L’Ue imbroglia: ok al glifosato della Monsanto, cancerogeno
L’Unione Europea aiuterà la Monsanto ad avvelenarci per altri 15 anni con un micidiale diserbante come il glifosato. E’ un rischio concreto, denunciato da “Sustainable Pulse”, network di scienziati e attivisti impegnati sul fronte dell’agricoltura sostenibile e contro gli Ogm, dopo la recente decisione dell’agenzia europea per le sostanze chimiche di non considerare il controverso diserbante come un probabile cancerogeno. Tutto ciò, rileva “Voci dall’Estero”, nonostante diversi studi indipendenti – esaminati anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità – abbiano suggerito che si dovrebbe considerarlo tale, quantomeno in via precauzionale. «La Ue ha chiaramente calpestato la propria prassi per la sicurezza alimentare». In più, anche se «la cosa ovviamente non ci sorprende», per “Voci dall’Estero” c’è anche «il sospetto di conflitto di interessi nella commissione incaricata della valutazione», che potrebbe «spianare la strada a un rinnovo di 15 anni dell’autorizzazione».Seguendo quanto già fatto dall’Efsa, l’autorità europea per la sicurezza alimentare – scrive “Sustainable Pulse” – anche l’Echa, l’agenzia per la chimica, «ha respinto l’evidenza scientifica che mostrava che il controverso diserbante chiamato glifosato potrebbe essere cancerogeno». Si tratta di uno dei diserbanti più diffusi al mondo, che la Iarc (l’agenzia per la ricerca sul cancro, una costola dell’Oms) aveva già classificato come “probabile” causa di tumori. Per arrivare alla sua conclusione, Bruxelles «ha rifiutato lampanti prove scientifiche raccolte in laboratorio sugli animali, ha ignorato gli avvertimenti lanciati da oltre 90 ricercatori indipendenti e si è basata su studi non pubblicati commissionati dagli stessi produttori di glifosato». La denuncia è firmata Greenpeace, la cui direttrice dell’unità europea per la politica alimentare, Franziska Achterberg, protesta: «L’agenzia si è spinta molto in là nel momento in cui ha rifiutato tutte le prove che il glifosato potrebbe causare il cancro: le ha nascoste come la polvere sotto il tappeto».«I dati a disposizione – aggiunge la Achterberg – superano di gran lunga il limite legale necessario perché la Ue sia tenuta a bandire l’uso del glifosato, eppure l’agenzia ha preferito guardare dall’altra parte». Se pretende di rispettare le risultanze scientifiche, l’Unione Europea «non può distorcere l’evidenza dei fatti». E attenzione: «Se la Ue non opera come sarebbe tenuta a fare, le persone e l’ambiente continueranno a essere le cavie da laboratorio dell’industria chimica». Come per la valutazione dell’autorità europea per la sicurezza alimentare, anche il parere dell’agenzia per le sostanze chimiche si è basata su un dossier iniziale preparato dal Bfr, l’istituto federale tedesco per la valutazione dei rischi, che però – a detta di Ong e scienziati indipendenti – contraddice l’evidenza scientifica, sottolinea “Sustainable Pulse”. E dire che l’Echa è responsabile della classificazione Ue sulla pericolosità della chimica: ogni sostanza va classificata come “presumibilmente” cancerogena quando almeno due studi indipendenti dimostrano che causa un aumento dell’incidenza del cancro in una stessa specie. La Iarc (Oms) ha provato la proliferazione di tumori in due studi sui topi sottoposti al glifosato, ma l’Ue li ha ignorati.L’agenzia europea, aggiunge “Sustainable Pulse”, ha inoltre respinto altri indizi di una possibile cancerogenicità del glifosato negli esseri umani, nonché le prove sulla presenza, nel glifosato, di due caratteristiche associate alle sostanze cancerogene, tutte cose documentate dalla Iarc. «Secondo le leggi Ue sui pesticidi, le sostanze classificate come “presumibilmente” cancerogene non possono essere utilizzate, a meno che il rischio per l’uomo non sia “trascurabile”». Le organizzazioni ambientaliste e per la salute sollevano preoccupazioni per possibili conflitti d’interessi all’interno della commissione responsabile della valutazione del glifosato, e criticano la scelta dell’agenzia stessa di basarsi su studi non pubblicati condotti dalle stesse industrie chimiche. A febbraio, associazioni e cittadini hanno lanciato un appello alla Commissione Europea affinché proibisca l’uso del glifosato e riformi il processo Ue di approvazione dei pesticidi, stabilendo obiettivi vincolanti per la loro riduzione. Quasi mezzo milione di persone hanno già firmato la petizione.L’Unione Europea aiuterà la Monsanto ad avvelenarci per altri 15 anni con un micidiale diserbante come il glifosato. E’ un rischio concreto, denunciato da “Sustainable Pulse”, network di scienziati e attivisti impegnati sul fronte dell’agricoltura sostenibile e contro gli Ogm, dopo la recente decisione dell’agenzia europea per le sostanze chimiche di non considerare il controverso diserbante come un probabile cancerogeno. Tutto ciò, rileva “Voci dall’Estero”, nonostante diversi studi indipendenti – esaminati anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità – abbiano suggerito che si dovrebbe considerarlo tale, quantomeno in via precauzionale. «La Ue ha chiaramente calpestato la propria prassi per la sicurezza alimentare». In più, anche se «la cosa ovviamente non ci sorprende», per “Voci dall’Estero” c’è anche «il sospetto di conflitto di interessi nella commissione incaricata della valutazione», che potrebbe «spianare la strada a un rinnovo di 15 anni dell’autorizzazione».
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Piramidi hi-tech 30.000 anni fa, la Storia è da riscrivere
«Non vedo l’ora che la verità venga esposta e che i falsi libri di storia vengano bruciati». Per l’antropologo Semir Osmanagich, fondatore del Parco Archeologico Bosniaco, «i mass-media sono complici di un insabbiamento di proporzioni epiche». Osmanagich, scopritore del sito archeologico più attivo del mondo, dichiara che le prove scientifiche, “inconfutabili”, venute alla luce, sull’esistenza di antiche civiltà con tecnologia avanzata, non ci lasciano altra scelta se non quella di riscrivere la nostra storia, la storia dell’umanità sulla Terra. L’attento esame delle strutture emerse nella valle del fiume Visoko, 40 chilometri a nord-ovest di Sarajevo, attraverso la datazione al radiocarbonio rivela definitivamente che quelle grandi piramidi «sono state costruite da civiltà avanzate di oltre 29.000 anni fa», scrive “Il Sapere”. Questo, aggiunge il ricercatore bosniaco, «costringe il mondo a riconsiderare totalmente la sua comprensione sullo sviluppo della civiltà attuale e della sua storia», spiega il dottor Osmanagich. Ormai si scava da otto anni nel sito bosniaco, che si estende sui sei chilometri quadrati attorno a 4 piramidi, collegate da tunnel sotterranei. La colossale Piramide del Sole è la più grande al mondo: è alta 420 metri, contro il 146 di quella di Cheope.«Il dottor Osmanagich – rileva “Il Sapere” – ha stupito l’intera comunità scientifica e archeologica con la raccolta e formazione di un team di ingegneri interdisciplinari, fisici e ricercatori da tutto il mondo per condurre un’indagine aperta e trasparente del sito e per cercare di scoprire la vera natura e il vero scopo di questo complesso piramidale». Per uno scienziato come Tim Moon, «questa è una cultura sconosciuta che ci presenta arti e scienze altamente avanzate, in grado di formare strutture veramente enormi, dimostrando una capacità di sfruttare le risorse energetiche pure». In un tunnel che conduce verso la Piramide del Sole, la squadra ha portato alla luce una enorme pietra megalitica da 25 tonnellate a circa 400 metri di profondità. «Inoltre abbiamo individuato muri di fondazione lungo tutto il suo perimetro formati da blocchi di pietra tagliata», aggiunge Moon. Grandi quantità di reperti sono state recuperati dalle gallerie: effigi, dipinti su pietra, oggetti d’arte e una serie di geroglifici e “testi” antichi, «scavati nelle pareti dei tunnel». La datazione al radiocarbonio è stata effettuata a Kiev su materiale organico presente nel sito della piramide, costruita in calcestruzzo. Mona Haggag, archeologa dell’università di Alessandria, dice che è come «scrivere nuove pagine della storia europea e mondiale».A sbalordire i tecnici, anche la presenza di una fonte di “energia misteriosa” che emanerebbe dalla grande piramide, dalla cui profondità proviene anche un’emissione radio. «I popoli antichi che hanno costruito queste piramidi conoscevano i segreti della frequenza e dell’energia», conclude Osmanagich. «Hanno usato queste risorse naturali per sviluppare tecnologie e per intraprendere la costruzione di scale che non abbiamo visto in nessun altro posto della terra». Non solo: «Le prove dimostrano chiaramente che le piramidi furono costruite allineandole con la griglia energetica della Terra, ed erano come macchine che fornivano energia al potere della guarigione». Ma non è solo dalla Bosnia che giungono rivelazioni sconcertanti, sostiene sempre “Il Sapere”: «Studiosi di storia antica negli Stati Uniti hanno notizie altrettanto sorprendenti su qualcosa trovato negli angoli più lontani del globo. Per esempio la scoperta di Rockwall al di fuori di Dallas, Texas, è solo un esempio di come stiamo riesaminando antichi misteri che rivelano molto sul nostro passato». Il sito texano è un complesso e poderoso muro di dieci miglia di diametro, costruito oltre 20.000 anni fa e coperto dal suolo sette piani sotto terra. «La domanda è: da chi è stata costruita questa struttura e per quale scopo e, soprattutto, la conoscenza data da queste civiltà del passato, in che modo può aiutarci a comprendere il nostro futuro?».Ne parla anche il “National Geographic”, interrogandosi nel 2013 sui “100 più grandi misteri rivelati delle civiltà antiche”: «A volte le culture si lasciano dietro misteri che confondono coloro che vengono dopo di loro, dai menhir ai manoscritti codificati, ci indicano che gli antichi hanno avuto uno scopo profondo». Michal Cremo, nel suo libro “Forbidden Archeology”, teorizza che la conoscenza dell’avanzato homo sapiens sia stata soppressa o ignorata dalla comunità scientifica perché contraddirebbe le attuali opinioni sulle origini umane, che non vanno d’accordo con il paradigma dominante. I recenti risultati, invece, «indicano chiaramente che simili civiltà avanzate erano presenti in tutto il mondo in quel momento storico», cioè 30.000 anni fa. Che alle nostre origini ci sia “tutt’un’altra storia” lo suggerisce anche il Gobekli Tepe, scoperto nel 1995 nella Turchia orientale: un vasto complesso di enormi cerchi di pietre megalitiche, con un raggio tra i 10 e i 20 metri, molto più grandi di quelle di Stonehenge in Gran Bretagna. I test al carbonio radiofonico rivelano che la struttura risale almeno a 11.600 anni fa. Lo conferma l’archeologo tedesco Klaus Schmidt, dell’Istituto Archeologico Tedesco di Berlino, che ha diretto gli studi con il supporto dell’ArchaeoNova Institute di Heidelberg.«Gobekli Tepe è uno dei più affascinanti luoghi neolitici del mondo», sostiene Schmidt. Ma, come spiega in un recente rapporto, per capire le nuove scoperte, gli archeologi hanno bisogno di lavorare a stretto contatto con gli specialisti di religioni comparate, con i teorici dell’architettura e dell’arte, con i teorici della psicologia evolutiva, con i sociologi che utilizzano la teoria delle reti sociali, ed altri ancora. «È la complessa storia delle prime, grandi comunità insediate, la loro vasta rete, e la loro comprensione comune del loro mondo, forse anche delle prime religioni organizzate e delle loro rappresentazioni simboliche del cosmo». Oltre alle strutture megalitiche, sono state scoperte figure e sculture, raffiguranti animali preistorici, come i dinosauri. E lo scavo non è concluso: si pensa che ci siano ancora fino a 50 ambienti nascosti sottoterra, tra gli enormi monoliti svettanti, alti 7 metri e pesanti 25 tonnellate. «L’obiettivo della ricerca archeologica – precisa Schmidt – è soprattutto quello di cercare di capire la loro funzione». Dalla Bosnia, il dottor Osmangich non ha dubbi: è giunto il momento di condividere liberamente la conoscenza, in modo che si possa scoprire il nostro autentico passato. «È tempo per noi di aprire le nostre menti alla vera natura della nostra origine», dice. «La nostra missione è quella di riallineare la scienza con la spiritualità, al fine di progredire come specie. E questo richiede un chiaro percorso di conoscenza condivisa».«Non vedo l’ora che la verità venga esposta e che i falsi libri di storia vengano bruciati». Per l’antropologo Semir Osmanagich, fondatore del Parco Archeologico Bosniaco, «i mass-media sono complici di un insabbiamento di proporzioni epiche». Osmanagich, scopritore del sito archeologico più attivo del mondo, dichiara che le prove scientifiche, “inconfutabili”, venute alla luce, sull’esistenza di antiche civiltà con tecnologia avanzata, non ci lasciano altra scelta se non quella di riscrivere la nostra storia, la storia dell’umanità sulla Terra. L’attento esame delle strutture emerse nella valle del fiume Visoko, 40 chilometri a nord-ovest di Sarajevo, attraverso la datazione al radiocarbonio rivela definitivamente che quelle grandi piramidi «sono state costruite da civiltà avanzate di oltre 29.000 anni fa», scrive “Il Sapere”. Questo, aggiunge il ricercatore bosniaco, «costringe il mondo a riconsiderare totalmente la sua comprensione sullo sviluppo della civiltà attuale e della sua storia», spiega il dottor Osmanagich. Ormai si scava da otto anni nel sito bosniaco, che si estende sui sei chilometri quadrati attorno a 4 piramidi, collegate da tunnel sotterranei. La colossale Piramide del Sole è la più grande al mondo: è alta 420 metri, contro il 146 di quella di Cheope.
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Càtari, Templari, Sufi: San Francesco d’Assisi, quello vero
«Parlava con tutti gli animali, con i lupi; abbracciava i maiali, si spogliava nudo in chiesa, lavorava con i muratori e si faceva beffe delle autorità». Era il vero San Francesco d’Assisi, il “giullare di Dio” cantato da Dario Fo. Non era affatto un uomo di Chiesa: era un laico, che amava la sua compagna – Chiara – e predicava il messaggio di Cristo alle folle, criticando i ricchi e i potenti. Non era un prete, dunque, ma un cavaliere: ispirato dai Templari. E per giunta figlio di una donna proveniente dalla Linguadoca, la terra dei càtari, dove la Crociata Albigese stava facendo decine di migliaia di morti, con lo sterminio sistematico dei “boni homines”, i cristiani alternativi che stavano dalla parte degli ultimi. Ma poi accadde che, appena dopo la sua morte, il vero Francesco d’Assisi scomparve di colpo. Tutti i suoi documenti furono distrutti, bruciati. La sua memoria, cancellata. Al suo posto, nacque un nuovo San Francesco. Inventato di sana pianta, completamente falso: il San Francesco cattolico. Per riesumare le prime tracce di quello autentico ci vollero cinque secoli, col riemergere di un libro antico. Ma ormai era tardi: il Vaticano aveva fabbricato il docile “format” francescano, impresso nell’immaginario popolare.E’ la grande rivelazione al centro del libro “San Francesco, le verità nascoste”, a cura di Gian Marco Bragadin. In 488 pagine pubblicate dalla casa editrice Melchisedek, il libro racconta la vera vita e il carattere del santo d’Assisi, rivelando «l’ipocrita ricostruzione che lo ha trasformato nel più fedele e mansueto servitore della Chiesa, nel medioevo e oltre, fino ai giorni d’oggi». Una clamorosa manipolazione storica: «Moltissimi documenti – scritti, memorie su Francesco (e probabilmente anche su Chiara) – sono stati dati alle fiamme per non propagare un ritratto non idoneo a farne un obbediente santo della Chiesa cattolica», racconta Bragadin, intervistato da “AdnKronos”. Un lavoro, il suo, sulla stessa lunghezza d’onda di “Francesco D’Assisi, la storia negata”, pubblicato di recente da Laterza e scritto dalla storica medievale Chiara Mercuri. Non a caso, per “riscrivere” la biografia dell’uomo di Assisi, fu incaricato «un frate erudito», Bonaventura, «che però non aveva conosciuto Francesco». Al biografo infedele fu ordinato di raccontare la vita del santo «attutendo, modificando, spesso cancellando del tutto ogni aspetto che poteva mettere in discussione quel ritratto del “poverello d’Assisi” che si è perseguito per secoli».Quali sono, dunque, le verità nascoste? «Praticamente tutto quello che Francesco è stato ed ha fatto, per gran parte della sua vita», spiega Bragadin all’“AdnKronos”, sottolineando come San Francesco sia stato «un guerriero, che ha combattuto e che è stato imprigionato, e che più volte ha tentato di andare alla Crociata per diventare un valoroso cavaliere». Il vero Francesco «si è innamorato dell’ideale dei Templari, al punto che il suo ordine è modellato su quello templare». Inoltre, «templari erano alcuni suoi frati». La stessa madre di Francesco era nativa dell’Occitania, la patria dei càtari, cristiani “eretici” perché dualisti come i mazdei, i seguaci di Zoroastro, convinti che la creazione fosse opera del demiurgo, il “dio straniero”, nonostante ogni creatura avesse in sé la scintilla divina del “padre celeste”. In un mondo, quello feudale, basato sulla pretesa investitura “divina” del potere e quindi della proprietà terriera, il messaggio sociale dei càtari era devastante, intollerabile per l’ordine costituito: i “buoni cristiani” (così si chiamavano, tra loro) erano convinti che niente e nessuno potesse legittimare la “privata proprietà dei beni”. Da qui la loro scelta di campo, a fianco degli ultimi.«Dai càtari – conferma Bragadin – Francesco ha preso il concetto di servizio ai poveri, il rifiuto della proprietà. Ma non si deve dire, perché la Chiesa all’epoca lanciò una crociata per distruggere i càtari, con massacri orribili». Si ricorda quello di Béziers: 20.000 persone sterminate per essersi rifiutate di consegnare ai crociati i 200 eretici presenti in città. «Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi», fu l’ordine dell’abate Arnaud Amaury, capo spirituale della crociata. Era il 1209. L’ultimo grande eccidio, nel 1244, a Montségur, sui Pirenei, con 220 “perfetti” càtari arsi sul rogo. Ma non finì lì. Proprio per debellare il Catarismo fu istituito il tribunale speciale dell’Inquisizione, che impiegò 70 anni ad estirpare l’eresia, con “purghe” terribili, torture, roghi. Un regime di terrore, fondato sulla delazione, che devastò la Francia meridionale, distruggendo il tessuto sociale di una regione che, per Simone Veil, era stata la culla della civiltà mediterranea medievale, la terra tollerante dov’era fiorita la poesia dei trovatori. Più tardi la contro-predicazione evangelica dei “buoni uomini” avrebbe lambito lo stesso ordine francescano, a lungo ritenuto anch’esso in odore di eresia, data la sua predilezione per i poveri e i loro diritti.Ma Francesco d’Assisi – quello vero – non stimava solo i càtari. «Ha tentato in tutti i modi il contatto con i musulmani», racconta Bragadin: «Non per convertirli (lui non giudicava nessuno, mostrava il suo esempio di vita), ma per trovare i punti di unione tra le religioni, per raggiungere una pace duratura». Ancora oggi, da allora, i francescani hanno la cura del Santo Sepolcro a Gerusalemme, dono del Sultano a Francesco e Frate Elia. Tutte verità nascoste, perché Francesco, aggiunge Bragadin, «ha vissuto una esistenza da eretico, sempre sul filo di finire al rogo». Vista però la sua enorme popolarità, dovuta al rivoluzionario messaggio d’amore che portava, «si è fatta conoscere solo una parte della sua vita, nascondendo tutto ciò che lo riguardava», incluso il legame con «la sua amata compagna Chiara», unione che «poteva essere disdicevole per l’istituzione ecclesiastica». Pochi sanno, continua Bragadin, che Francesco «ha voluto restare sempre un laico». Certo, un laico sui generis: «Predicava il Vangelo nelle piazze, alle feste, nei mercati: come poteva, la rigida Chiesa del tempo, ammettere che un laico parlasse di Cristo alla gente? Poteva predicare agli uccelli o ai lupi, non alla gente. E invece Francesco non ha fatto altro per tutta la vita, perfino quando era malato». Non a caso, la storica Chiara Frugoni, in varie interviste, si domanda perché esistano migliaia di quadri e affreschi su Francesco, ma neanche uno in cui predica. «E la ragione è la seguente: non si voleva tramandare l’immagine di un laico che parlasse di Cristo».Morto Francesco nel 1226, allontanati i suoi vecchi confratelli e segregata Chiara nel convento, sono scattate le grandi manovre per cancellarne la vera storia e dare ai fedeli «una immagine edulcorata di mansueto, docile soldatino della Chiesa cattolica», spiega Bragadin, attingendo a diverse fonti, tra cui molti scritti di Tommaso da Celano. Come si organizzò la grande impostura? Già nel 1260, al Capitolo, l’annuale riunione dei francescani che quell’anno si teneva a Narbonne, nella Francia mediterranea. A frate Bonaventura venne affidato il compito di scrivere una nuova biografia di Francesco, che fu poi approvata a Pisa nel 1263, durante il Capitolo successivo. Tre anni dopo, sempre il Capitolo (stavolta riunito a Parigi) «giunse a decretare la distruzione di tutte le biografie precedenti alla “Legenda Maior”, con la scusa che biografie diverse avrebbero condotto l’ordine verso una divisione». Una scelta atttuata in modo così meticoloso, aggiunge Bragadin, da far sparire dalla faccia della terra anche gli scritti di Francesco e quelli di Chiara, le lettere, le testimonianze. «Non solo: vennero distrutti nelle chiese immagini, affreschi, tutto». Damnatio memoriae. Sepolto il vero Francesco, doveva sopravvivere solo quello falso. E così sarebbe stato, fino al 1768.Quell’anno, ormai in pieno Illuminismo, viene ritrovata miracolosamente “La Vita Prima”, del Celano, «a più di cinque secoli dalla morte di Francesco». Poco dopo torna alla luce anche “La Vita Seconda”, un manoscritto che Bragadin definisce «molto difettoso», scoperto nel 1806. E infine il terzo libro, “Il Trattato dei Miracoli”, «acquistato casualmente a un’asta pubblica nel 1900». Grazie a quei tre volumi, spiega l’autore, si è potuta finalmente ricostruire la biografia autentica del vero Francesco. Ma nei cinque secoli precedenti, aggiunge, il Vaticano «ha avuto tutto il tempo di costruire una storia artificiale e falsa». Lo confermano anche gli storici ufficiali: nell’agiografia di Bonaventura «si inventano anche false vicende, per far corrispondere la figura di Francesco a quanto si voleva tramandare, funzionale cioè alla posizione che voleva prendere l’ordine. E si trascura del tutto, naturalmente, la figura di Chiara e le sue vicende, quasi che le clarisse non facessero parte del movimento». Di Chiara «si sa poco», conferma il medievista Franco Cardini. Anche perché attorno al santo di Assisi fu fatta, letteralmente, terra bruciata: Bonaventura ordinò di dare alle fiamme tutti gli scritti su Francesco. «Sembra un ordine dal Cremlino». Da quel momento, la verità su Francesco, non sarebbe più stata quella della sua vita privata, ma una verità imposta dalla Chiesa.Bragadin ha ignorato la storiografia ufficiale, affidata a documenti autentici ma inattendibili (menzogneri) e si è spinto in pellegrinaggio ad Assisi per almeno cento volte in un quarto di secolo, raccogliendo indizi e confidenze preziose da anziani monaci, segeretamente “innamorati” del vero Francesco. «Ho studiato attentamente ogni cosa – racconta – incluse le informazioni su Internet di frati o storici non allineati come Paul Sabatier, che ipotizza tutto quello che poi io ho provato a raccontare». E’ il caso, per esempio, dei colloqui con vecchi frati amici che «se ne fregavano, data l’età, di mantenere segreti sui due santi d’Assisi e sul loro immenso amore cosmico, che nell’ordine si tramandava per via orale». Dalle biografie di Celano, poi, affiorano storie «che sono al limite della decenza», perché emerge un Francesco che si mette a nudo, in chiesa, spogliandosi completamente. «Un estremista, barricadero, che incita la folla contro i potenti. No, un santo così non lo si può accettare». E’ decisamente troppo, per vescovi e cardinali.L’autore parla anche dell’amore di Francesco per i Sufi, l’elusiva confraternita dei mistici orientali approdati all’Islam dopo aver attraversato l’induismo e il buddismo, mantenendo vivi molti aspetti del mazdeismo zoroastriano. Un network segreto, quello dei Sufi, da sempre impegnato per la pace. E’ un rosario Sufi, scrive Bragadin, quello tumulato insieme alle spoglie di Francesco, di cui l’autore ripercorre anche lo storico viaggio in Terrasanta. Fonti e storici ufficiali, racconta Bragadin, negano che Francesco, dopo i massacri dei Crociati a Damietta, nel 1220, si sia recato a Gerusalemme, nonostante avesse un permesso speciale del sultano El-Kamil, che aveva incontrato. «Ma come possiamo credere – dice l’autore – che Francesco, a pochi passi dalla meta, in quasi un anno di permanenza in Terrasanta, rinunci al sogno di una vita, visitare i luoghi santi del suo Gesù?». Altri documenti, infatti, dimostrano che quei luoghi li ha visitati. Lo ammette anche Ratzinger, sicuramente basandosi su fonti inoppugnabili: «San Francesco ha visitato il Santo Sepolcro, ci sono elementi certi», scrive Benedetto XVI. «Ha gettato un seme che avrebbe portato molto frutto».Gli stessi documenti arabi confermano che Francesco abbia incontrato i Sufi: «Metà del “Cantico di Frate Sole”, sembra tratto dai poemi di Rumi», il massimo poeta islamico, afghano, fondatore della prima scuola Sufi dei Dervisci Rotanti. E il sultano, Francesco l’aveva incontrato «non certo per “convertirlo” (una fissa della Chiesa Cattolica), ma per confrontarsi in un rapporto di amore reciproco». Pace, nella diversità: unire ciò che è stato diviso. Francesco faceva parte, dunque, di una sorta di “intelligence informale” dell’epoca: una rete che, evidentemente, condivideva conoscenze esoteriche e collaborava per l’unità sostanziale dei popoli, al di là delle differenze religiose. “Perché il mondo non è nostro, e noi non siamo del mondo”, recita il “Pater” dei càtari, che sembra ispirato direttamente da Zoroastro e invita a liberarsi del “giogo” della materia. “Nel mondo, ma non del mondo”, è il motto dei Sufi. “Nulla possedendo, da nulla essendo posseduti”. Ecco in cosa credeva Francesco. Quello vero.(Il libro: Gian Marco Bragadin, “San Francesco. Le verità nascoste”, Melchisedek, 492 pagine, euro 21,25, ebook a 12,99 euro).«Parlava con tutti gli animali, con i lupi; abbracciava i maiali, si spogliava nudo in chiesa, lavorava con i muratori e si faceva beffe delle autorità». Era il vero San Francesco d’Assisi, il “giullare di Dio” cantato da Dario Fo. Non era affatto un uomo di Chiesa: era un laico, che amava la sua compagna – Chiara – e predicava il messaggio di Cristo alle folle, criticando i ricchi e i potenti. Non era un prete, dunque, ma un cavaliere: ispirato dai Templari. E per giunta figlio di una donna proveniente dalla Linguadoca, la terra dei càtari, dove la Crociata Albigese stava facendo decine di migliaia di morti, con lo sterminio sistematico dei “boni homines”, i cristiani alternativi che stavano dalla parte degli ultimi. Ma poi accadde che, appena dopo la sua morte, il vero Francesco d’Assisi scomparve di colpo. Tutti i suoi documenti furono distrutti, bruciati. La sua memoria, cancellata. Al suo posto, nacque un nuovo San Francesco. Inventato di sana pianta, completamente falso: il San Francesco cattolico. Per riesumare le prime tracce di quello autentico ci vollero cinque secoli, col riemergere di un libro antico. Ma ormai era tardi: il Vaticano aveva fabbricato il docile “format” francescano, impresso nell’immaginario popolare.
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Tarchi: un altro mondo è impossibile, dicono. E ci crediamo
Benvenuti nell’era della rassegnazione, in cui siamo costretti ad accettare falsi valori ormai crollati, in un Occidente che non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, dopo l’ultima immensa illusione aperta dal crollo del Muro di Berlino. A parlare è il politologo Marco Tarchi, docente di scienze politiche a Firenze e già ideologo della cosiddetta “nuova destra” italiana, esperienza metapolitica abbandonata nel 1994 insieme alla dicotomia destra-sinistra. Oggi, lo scenario che Tarchi illumina in una lunga riflessione affidata al blog “La Crepa nel Muro”, è segnato dalla disillusione. «Chi ha più di trentacinque anni e ha speso una quota del proprio tempo occupandosi del mondo che gli ruota intorno, difficilmente avrà dimenticato il clima che si diffuse negli ambienti politici ed intellettuali nei giorni e nei mesi che seguirono la caduta del Muro di Berlino». Quella data – ottobre 1989 – parve universalmente segnare un evento fatidico, un punto di svolta. E il crollo dell’impero sovietico, che di lì a poco ne seguì, non fece che confermare là prima impressione. «Quanti avevano in uggia il duopolio che dalla conferenza di Yalta in poi aveva indirizzato le sorti del mondo esultarono. Dilagarono i sogni di nuovi scenari in cui i vincoli oppressivi del bipolarismo si sarebbero sciolti».Sgombrato il campo dalle suggestioni di un “socialismo reale” ormai fallito, e sgretolate le fondamenta dell’apparente opposizione tra destra e sinistra, si pensò a un progetto che all’individualismo contrapponesse «la solidarietà organica, la promozione dell’interesse collettivo, il recupero del senso di comunità e la tutela del diritto alla specificità dei popoli». Al posto del «cosmopolitismo omogeneizzante», l’elogio delle «identità plurali» e della diversità culturale. E al dominio dell’economia sulla politica si opponeva il riconoscimento primario dei valori non-economici, spirituali, e di “qualità della vita”. Stop al «culto delle forme istituzionali», meglio «la sostanza della democrazia: il controllo popolare sul potere». Scrive Tarchi: «Erano sogni, ma gli oltre vent’anni trascorsi li hanno derubricati ad illusioni». La realtà è nuda: «Il tracollo del “blocco orientale” non ha restituito all’Europa alcuna compattezza sostanziale, e soprattutto non le ha restituito l’indispensabile sensazione di possedere, in mancanza di una lingua o di una radice etnoculturale, un’anima comune».Al bipolarismo Usa-Urss, che «aveva fondato un condominio sul pianeta», si è sostituita «una voglia unilaterale di egemonia che ha prodotto instabilità e guerre a getto continuo», verso «un ordine planetario a sovranità limitata controllato da un unico gendarme riconosciuto». E i guasti «provocati da un capitalismo sempre meno umano e produttivo» sono stati «moltiplicati dall’espansione parossistica dello strapotere della speculazione finanziaria, che tramite la globalizzazione ha inaugurato l’era delle delocalizzazioni e dell’economia virtuale». Conseguenza immediata: l’esplosione dei flussi migratori di massa. Un fenomeno che esalta i cantori delle “società multietniche” capaci di dissolvere le “barriere” identitarie, «in nome e per conto di una “società di mercato” la cui pietra miliare è un individuo visto come il titolare di interessi esclusivi, e pertanto egoistici».Ancora: «La diffusione degli stili di vita ispirati al consumismo, considerati l’unica tangibile prova dell’accesso ad un mondo migliore (prima di tutto perché emancipato dall’impiccio di regole dettate dalla tradizione), ha propagato ovunque un materialismo pratico che ha ridotto la coltivazione della dimensione spirituale dell’esistenza a grottesca sopravvivenza di superstizioni fuori moda». E la consacrazione dell’ideologia dei diritti dell’uomo, che Tarchi considera «ipocrita nella sua geometria, variabile secondo le convenienze del momento», di fatto «ha sepolto la nozione del dovere verso qualunque entità che trascenda la soggettività individuale, fatto salvo uno strumentale culto formale di istituzioni che vengono considerate democratiche solo fintanto che servono gli interessi delle élites di potere, e quando cessano di farlo, magari per un voto “sbagliato” del corpo elettorale a favore di qualche outsider, sono additate alla pubblica esecrazione».In questo scoraggiante panorama, aggiunge l’analista, gli ex “non conformisti degli anni Ottanta” hanno offerto pessima prova di sé, a cominciare da «alcuni intellettuali di punta formatisi in ambienti di sinistra largamente predominanti nelle università e nell’editoria», che nel volgere di pochi anni «si sono allineati al nuovo Zeitgeist, limitandosi tutt’al più a connotare la loro marcia di avvicinamento a tappe forzate all’ideologia liberale di qualche accento di apertura “sociale”, fornendo una sequenza disarticolata di versioni progressiste dell’accettato modello occidentale». Un tragitto comodo, «date le posizioni di privilegio e di prestigio che da tempo detenevano e il favore dell’apparato massmediale che ne ha amplificato e lodato le esternazioni, le conversioni, i ripensamenti, le prese di posizione». Percorso analogo, anche se «più accidentato», quello delle «molto più esigue truppe» del perimetro “di destra”, ansionse di «cogliere l’occasione finalmente maturata per riguadagnare il campo della legittimità», a costo di abbandonare la “diversità” coltivata per decenni.Tarchi parla di un inglorioso «ripiegamento convergente, da sinistra e da destra», verso il “centro” liberale che ha «fagocitato pressoché ogni velleità di pensiero critico». Per l’intellettuale fiorentino, è stato «l’avvio di un’era della rassegnazione». Ovvero: «Rassegnazione a vivere in un eterno presente, nel migliore dei mondi possibili – quello che Fukuyama aveva sottilmente descritto e predetto nell’immagine della “fine della Storia”, che vedeva nel modello politico, culturale e sociale del liberalismo realizzato il non plus ultra del cammino della civiltà umana». Ma anche «rassegnazione ad accettare in un primo momento la mentalità diffusa del nostro tempo come sgradevole ma immodificabile, salvo poi, cammin facendo, convincersi che in fondo non è poi così sbagliata: che il consumismo è divertente, che forse la spiritualità è un ingannevole feticcio, che l’orizzonte del vivere è tutto qui e ora, che essere tutti uguali e cancellare ogni segno distintivo fra gli individui – e non fra le persone, concetto troppo impegnativo e complicato – sarebbe più “giusto” che continuare a riconoscersi reciprocamente diversi».Rassegnazione: pensare che, «in fondo, ad Occidente il mondo è libero da tradizioni, convinzioni, regole e convenzioni che impediscono a ciascuno di comportarsi come più gli aggrada, e occidentalizzare l’intero pianeta non sarebbe male». E, soprattutto, «rassegnazione a rinunciare ad ogni progetto di modificare lo stato di cose vigente, perché si sa che cosa si lascerebbe ma non che cosa potrebbe scaturire dal cambiamento». E’ per questo, scrive Tarchi, che – a sinistra come a destra – anche in ambienti che un tempo si volevano ribelli e radicali, cresce la propensione a condividere pubblicamente giudizi storici su eventi del passato che sono stati per decenni oggetto di accese contese, «pensando che una memoria “condivisa” possa favorire compromessi bilateralmente utili sul terreno politico, spartizioni di risorse, alternanze pacifiche e quindi, a turno, vantaggiose». Ed ecco che «prosperano le professioni di fede nei valori del politicamente corretto, nella filosofia dei diritti dell’uomo, nell’universalismo omologante. Mentre annoiano, disturbano, appaiono ripetitive ed inefficaci le critiche ai capisaldi dell’ordine vigente».Criticare l’americanismo? «E’ passato di moda». Aprire gli occhi sulle tante forme in cui, dietro le presunte esplosioni del “desiderio di libertà” qua e là per i continenti, si mettono in opera i dispositivi di un’ulteriore fase di occidentalizzazione del mondo? «Dà un fastidio quasi fisico, puzza di complottismo», come «indignarsi di fronte ai crimini che gli Usa ed i loro alleati perpetrano in nome dei sacri principi che ci assicurano di voler difendere, denunciare le menzogne dietro cui li celano». Tutto questo, ormai, «sa di litania risaputa». Sconveniente e inutile anche «prendersela con la Nato, con l’Onu, con quel profluvio di organizzazioni internazionali che servono realmente solo gli interessi di quella Nuova Classe che a buon diritto Christopher Lasch ha fustigato». E così, «dopo due secoli fin troppo effervescenti, siamo entrati in un tempo nel quale l’orizzonte delle teorie politiche e sociali è integralmente desertificato». Il panorama è piatto: «Non si profilano modelli alternativi all’esistente. E tutti i segnali di insofferenza che le rivolte, i voti di protesta, le ondate di “indignazione” inviano, faticano ad uscire dal recinto di soluzioni già sperimentate».Scommettere sulla legittimità del cosiddetto populismo? Lo scenario è fosco: crisi economica, calo demografico e invecchiamento della popolazione, con il dubbio futuro dei sistemi pensionistici. E poi l’immigrazione, l’avvento “spaesante” dell’universo telematico. E ancora: la messa in crisi degli antichi paradigmi della sessualità, della procreazione e della genitorialità: tutto contribuisce a diffondere nei meno istruiti, nei più anziani, nei soggetti deboli (cioè nella maggioranza) un clima di inquietudine, «di ricerca non tanto di sicurezza quanto di certezze, di valori stabili e riconosciuti», per dirla con Ernesto Galli della Loggia). Ma, obietta Tarchi, quelle stesse tendenze che spaventerebbero «una componente residuale – debole, anziana, meno istruita: insomma, una sorta di relitto», sono invece accolte con favore dai “forti”, «i giovani, gli istruiti». Il vero problema? E’ che «quelle certezze, quei valori stabili e riconosciuti di cui si parla, nel quadro attuale nessuno è in grado di fornirli». Peggio ancora: «Nessuno indaga la possibilità di battere altre vie. Ci si rassegna alla propagazione virale della mentalità del materialismo consumistico e individualista veicolata dall’ideologia liberale. E si punta sul fatto che gli inquieti, i delusi, gli insofferenti, i ribelli, ingabbiati nella logica dell’insuperabilità dello status quo, finiranno per accettare il destino degli animali selvatici rinchiusi, o nati, in uno zoo: preoccuparsi giorno per giorno della mera sopravvivenza, aspettando inconsapevolmente il giorno della fine».Benvenuti nell’era della rassegnazione, in cui siamo costretti ad accettare falsi valori ormai crollati, in un Occidente che non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, dopo l’ultima immensa illusione aperta dal crollo del Muro di Berlino. A parlare è il politologo Marco Tarchi, docente di scienze politiche a Firenze e già ideologo della cosiddetta “nuova destra” italiana, esperienza metapolitica abbandonata nel 1994 insieme alla dicotomia destra-sinistra. Oggi, lo scenario che Tarchi illumina in una lunga riflessione affidata al blog “La Crepa nel Muro”, è segnato dalla disillusione. «Chi ha più di trentacinque anni e ha speso una quota del proprio tempo occupandosi del mondo che gli ruota intorno, difficilmente avrà dimenticato il clima che si diffuse negli ambienti politici ed intellettuali nei giorni e nei mesi che seguirono la caduta del Muro di Berlino». Quella data – ottobre 1989 – parve universalmente segnare un evento fatidico, un punto di svolta. E il crollo dell’impero sovietico, che di lì a poco ne seguì, non fece che confermare là prima impressione. «Quanti avevano in uggia il duopolio che dalla conferenza di Yalta in poi aveva indirizzato le sorti del mondo esultarono. Dilagarono i sogni di nuovi scenari in cui i vincoli oppressivi del bipolarismo si sarebbero sciolti».
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Siamo tutti interconnessi, neuroni-specchio risuonano in noi
“Nessun uomo è un’isola”, scrisse il poeta John Donne. Aveva ragione: siamo tutti interconnessi, collegati strettamente l’uno all’altro. Lo ha scoperto il team del professor Giacomo Rizzolatti, del dipartimento di neuroscienze dell’università di Parma. Quello che ci unisce – questa la scoperta – è qualcosa di infinitamente piccolo: neuroni. Li hanno battezzati “neuroni specchio”, perché riflettono, in modo automatico e senza il filtro della mente, i comportamenti altrui. In pratica, questi neuroni fanno sì che “risuoni”, dentro di noi quello in cui ci imbattiamo: persone, azioni, immagini. «I neuroni specchio – scrive “Coscienze in Rete” – sono una delle più importanti scoperte scientifiche dgli ultimi vent’anni», qualcosa che «ha cambiato il nostro modo di comprendere l’interazione tra gli essere umani (e tra gli animali)». L’esistenza dei neuroni-specchio è stata rilevata prima volta verso a metà degli anni ‘90 da Rizzolatti e colleghi, osservando un gruppo di scimmie, macachi: i ricercatori si accorsero che alcuni gruppi di neuroni non si attivavano solo quando gli animali erano intenti a determinate azioni, ma anche quando guardavano qualcun altro compiere le stesse azioni.Studi successivi, effettuati con tecniche non invasive, hanno dimostrato l’esistenza di sistemi simili anche negli uomini: sembrerebbe che essi interessino diverse aree cerebrali, comprese quelle del linguaggio. I neuroni-specchio «permettono di spiegare fisiologicamente la nostra capacità di porci in relazione con gli altri». Ovvero: «Quando osserviamo un nostro simile compiere una certa azione si attivano, nel nostro cervello, gli stessi neuroni che entrano in gioco quando siamo noi a compiere quella stessa azione. Per questo possiamo comprendere con facilità le azioni degli altri: nel nostro cervello si accendono circuiti nervosi che richiamano analoghe azioni compiute da noi in passato». Il neurone-specchio, dunque, “ricorda” qualcosa che è già avvenuto, e “risponde” in modo simultaneo a qualcosa che appartiene al proprio vissuto. «Anche il riconoscimento delle emozioni sembra poggiare su un insieme di circuiti neurali che, per quanto differenti, condividono quella proprietà “specchio” già rilevata nel caso della comprensione delle azioni». Rispondenza perfetta, riscontrata nei test: «Quando osserviamo negli altri una manifestazione di dolore o di disgusto si attiva il medesimo substrato neuronale collegato alla percezione in prima persona dello stesso tipo di emozione».Un’altra conferma, continua “Coscienze in Rete”, viene da studi clinici su pazienti affetti da patologie neurologiche: una volta perduta la capacità di provare un’emozione non si è più in grado di riconoscerla quando viene espressa da altri. Alcune evidenze sperimentali sembrano indicare che anche la comprensione del linguaggio faccia riferimento, almeno per certi aspetti, a meccanismi di “risonanza” che coinvolgono il sistema motorio: «Comprendere una frase che esprime un’azione provoca probabilmente un’attivazione degli stessi circuiti motori chiamati in causa durante l’effettiva esecuzione di quell’azione». La scoperta dei neuroni-specchio potrebbe offrire una spiegazione biologica per almeno alcune forme di autismo, come, ad esempio, la sindrome di Asperger: gli esperimenti finora condotti sembrano indicare un ridotto funzionamento di questo tipo di neuroni nei bambini autistici, che non riescono a entrare in sintonia con il mondo che li circonda, con i gesti e le azioni altrui, nonché le emozioni degli altri. In ogni caso, «l’esistenza dei neuroni-specchio prospetta la necessità di una profonda modifica nelle attuali concezioni riguardanti il modo di operare della nostra mente», ridimensionando il modello prospettato dalla psicologia cognitivista.Il cognitivismo è basato sull’analogia funzionale con i calcolatori: definisce regole formali che sarebbero alla base del funzionamento della mente, «ignorando completamente il ruolo dell’esperienza corporea legata al comportamento motorio». I neuroni-specchio, invece, implicano l’esistenza di un meccanismo che consente di comprendere immediatamente il significato delle azioni altrui, e persino delle intenzioni, senza porre in atto alcun tipo di ragionamento. Le ricerche sono ancora agli inizi, ma – secondo il neuroscienziato Vilayanur Ramachandran – è probabile che si tratti di una delle più importanti scoperte, destinata ad avere profonde ripercussioni nel nostro modo di concepire la mente. «Praticamente i neuroni-specchio confermano il fatto che non siamo delle isole separate, ma che siamo in rete. E in questa rete i pensieri, le azioni e i sentimenti circolano dall’uno all’altro. Si potrebbe dire che entrano nella psiche-anima delle persone e somatizzano attraverso i circuiti cerebrali», su cui si sedimentano le nostre individuali esperienze di pensiero, sentimento e azione.In questa ottica, osserva “Coscienze in Rete”, i neuroni-specchio «possono probabilmente essere utilizzati per moltiplicare il bene, con l’esempio e con la condivisione». Per contro, «si possono usare anche per moltiplicare elementi negativi, dallo “scandalo” di cui parla il Vangelo, fino ai comportamenti deteriori di ognuno di noi che influenzano gli altri, fino alle grandi operazioni oscure che tendono ad eccitare o deprimere le coscienze di intere popolazioni o del mondo, non solo con le guerre, ma anche tramite l’uso “nero” dell’arte, delle forme pensiero dei comportamenti, della violenza, dell’erotismo fine a se stesso, del vizio». In altre parole, i neuroni-specchio sarebbero un formidabile moltiplicatore, benché invisibile, capace di amplificare le conseguenze di qualsiasi azione, nel bene e nel male: «Se si amano gli altri e la società, ovviamente sarà importantissimo essere esempio vivente delle azioni, dei sentimenti e dei pensieri rivolti al bene, per diventare elementi diffusori di bene», mettendo i propri neuroni-specchio «ancora di più al servizio della evoluzione umana».“Nessun uomo è un’isola”, scrisse il poeta John Donne. Aveva ragione: siamo tutti interconnessi, collegati strettamente l’uno all’altro. Lo ha scoperto il team del professor Giacomo Rizzolatti, del dipartimento di neuroscienze dell’università di Parma. Quello che ci unisce – questa la scoperta – è qualcosa di infinitamente piccolo: neuroni. Li hanno battezzati “neuroni specchio”, perché riflettono, in modo automatico e senza il filtro della mente, i comportamenti altrui. In pratica, questi neuroni fanno sì che “risuoni”, dentro di noi quello in cui ci imbattiamo: persone, azioni, immagini. «I neuroni specchio – scrive “Coscienze in Rete” – sono una delle più importanti scoperte scientifiche dgli ultimi vent’anni», qualcosa che «ha cambiato il nostro modo di comprendere l’interazione tra gli essere umani (e tra gli animali)». L’esistenza dei neuroni-specchio è stata rilevata prima volta verso a metà degli anni ‘90 da Rizzolatti e colleghi, osservando un gruppo di scimmie, macachi: i ricercatori si accorsero che alcuni gruppi di neuroni non si attivavano solo quando gli animali erano intenti a determinate azioni, ma anche quando guardavano qualcun altro compiere le stesse azioni.
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Sta sparendo il buio: in pericolo salute, animali e piante
Tutti abbiamo visto almeno una volta nella vita una falena attirata dalle luci fuori casa andare a sbattere senza alcun timore contro una lampadina. Questo istinto è lo stesso che le guida a volare in circolo quando sono presenti le luci naturali di stelle e luna e che le fa rimbalzare sulle fonti luminose. L’inquinamento luminoso è un fenomeno che disturba i flussi migratori, i rituali di accoppiamento, la caccia e molti altri processi essenziali per la vita di piante, insetti e animali. Alcune fra le 450 specie di uccelli presenti nel Nord America utilizzano la luna e le stelle per orientarsi durante le proprie migrazioni notturne. Gli scienziati hanno documentato incidenti nei quali interi stormi di uccelli sono andati a sbattere contro degli edifici illuminati delle città. Ne sono morti decine di migliaia in una singola notte. Gli effetti negativi dell’inquinamento luminoso vengono subiti da animali migratori volanti, di terra o acquatici. Per esempio, i pattern migratori del salmone sono correlati al sole. Secondo quanto riscontrato in una ricerca citata dall’International Dark-Sky Association, nel momento in cui il salmone viene esposto a luce artificiale, tali pattern divengono irregolari.Alcuni alberi sono sensibili alla durata del giorno poiché questa determina i loro ritmi stagionali. Ma, nel momento in cui la luce artificiale estende la loro esposizione a una fonte luminosa, queste specie cambiano modalità di fioritura, di germoglio e di perdita delle foglie. Uno degli effetti più gravi, secondo William R. Chaney del Dipartimento delle risorse forestali e naturali dell’università Purdue, è che la luce artificiale «promuove la crescita continua degli alberi e pertanto impedisce loro di sviluppare l’inattività che permette di sopravvivere al rigore dell’inverno». Circa 4 americani su 5 non possono vedere la Via Lattea. Più del 99 percento degli americani vive sotto un cielo considerato inquinato. Ma, sebbene l’inquinamento luminoso sia molto diffuso nel paese, gli Stati Uniti non sono presenti nella lista stilata dagli scienziati di Harvard nella quale sono inserite le 20 nazioni più inquinate in questo senso. Tra i paesi del G20, gli Stati Uniti si trovano al nono posto.Per quanto riguarda il corpo umano, l’inquinamento luminoso interferisce con la produzione di melatonina durante la notte. L’esposizione alla luce nelle ore notturne è risultata correlare con molte malattie fra cui diabete, obesità, cancro al seno e alla prostata. Come se non bastasse, secondo l’International Dark-Sky Association la quantità di luce utilizzata ogni anno per illuminare le strade e i parcheggi disseminati nel paese è superiore a quella utilizzata nella città di New York in due anni. Più del 50 percento della luce viene sprecata perché non adeguatamente direzionata. Sebbene illuminare le strade sembri essere una misura necessaria per la sicurezza, Chaney ricorda che «molte aree ad alta concentrazione di traffico sono così intensamente illuminate che la visibilità viene disturbata dal riverbero prodotto dalla poca schermatura degli impianti».(Tara Macisaac, “L’inquinamento luminoso danneggia natura, salute e portafoglio”, da “Epoch Times”, ripreso da “La Crepa nel Muro” l’11 gennaio 2017).Tutti abbiamo visto almeno una volta nella vita una falena attirata dalle luci fuori casa andare a sbattere senza alcun timore contro una lampadina. Questo istinto è lo stesso che le guida a volare in circolo quando sono presenti le luci naturali di stelle e luna e che le fa rimbalzare sulle fonti luminose. L’inquinamento luminoso è un fenomeno che disturba i flussi migratori, i rituali di accoppiamento, la caccia e molti altri processi essenziali per la vita di piante, insetti e animali. Alcune fra le 450 specie di uccelli presenti nel Nord America utilizzano la luna e le stelle per orientarsi durante le proprie migrazioni notturne. Gli scienziati hanno documentato incidenti nei quali interi stormi di uccelli sono andati a sbattere contro degli edifici illuminati delle città. Ne sono morti decine di migliaia in una singola notte. Gli effetti negativi dell’inquinamento luminoso vengono subiti da animali migratori volanti, di terra o acquatici. Per esempio, i pattern migratori del salmone sono correlati al sole. Secondo quanto riscontrato in una ricerca citata dall’International Dark-Sky Association, nel momento in cui il salmone viene esposto a luce artificiale, tali pattern divengono irregolari.
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Monbiot: malati di solitudine, questo sistema ci fa impazzire
Un’epidemia di malattie mentali sta distruggendo mente e corpo di milioni di persone. È arrivato il momento di chiederci dove stiamo andando e perché. Quale maggiore atto d’accusa potrebbe esserci, per un sistema, di una epidemia di malattie mentali? Eppure problemi come ansia, stress, depressione, fobia sociale, disturbi alimentari, autolesionismo e solitudine oggi si abbattono sulle persone in tutto il mondo. Le recenti, catastrofiche statistiche sulla salute mentale dei bambini in Inghilterra riflettono una crisi globale. Ci sono una moltitudine di ragioni secondarie per spiegare questo disagio, ma a me sembra che la causa di fondo sia ovunque la stessa: gli esseri umani, mammiferi estremamente sociali, i cui cervelli sono cablati per rispondere agli altri, sono stati scorticati. I cambiamenti economici e tecnologici in questo svolgono un ruolo importante, ma lo stesso vale per l’ideologia. Benché il nostro benessere sia indissolubilmente legato alla vita degli altri, ci viene spiegato da ogni parte che il segreto della prosperità è nell’egoismo competitivo e nell’individualismo estremo.In Gran Bretagna, uomini che hanno passato tutta la loro vita in circoli privilegiati – a scuola, all’università, al bar, in Parlamento – ci insegnano che dobbiamo sempre camminare con le nostre gambe. Il sistema dell’istruzione diventa ogni anno più brutalmente competitivo. Trovare lavoro è una lotta all’ultimo sangue con una massa di altri disperati che inseguono i sempre meno posti disponibili. I moderni sorveglianti dei poveri attribuiscono a colpe individuali la loro situazione economica. Gli incessanti concorsi televisivi alimentano aspirazioni impossibili come le opportunità reali. Il vuoto sociale è riempito dal consumismo. Ma, lungi dal curare la malattia dell’isolamento, questo intensifica il confronto sociale, al punto che, dopo aver consumato tutto quello che c’era da consumare, iniziamo ad avventarci su noi stessi. I social media ci uniscono ma anche ci dividono, consentendoci di quantificare con precisione la nostra posizione sociale, e di constatare che altre persone hanno più amici e seguaci di noi.Come Rhiannon Lucy Cosslett ha brillantemente documentato, le ragazze e le giovani donne modificano abitualmente le foto che pubblicano per sembrare più levigate e sottili. Alcuni telefoni lo fanno perfino automaticamente, basta attivare l’impostazione “bellezza”; così ci si può trasformare anche da soli in modelli di magrezza da inseguire. Benvenuti nella distopia post-hobbesiana: una guerra di tutti contro se stessi. C’è da stupirsi, in questa solitudine interiore, in cui il contatto è stato sostituito dal ritocco, se le giovani donne stanno annegando nel disturbo mentale? Una recente indagine condotta in Inghilterra suggerisce che tra i 16 e i 24 anni una donna su quattro si è autoinflitta una ferita, e uno su otto oggi soffre di disturbo da stress post-traumatico. Ansia, depressione, fobie o disturbo ossessivo-compulsivo colpiscono il 26% delle donne in questa fascia di età. Dati di questo tipo assomigliano da vicino a una crisi di salute pubblica. Se la frammentazione sociale non è presa in seria considerazione, come si prende sul serio una gamba rotta, è perché non possiamo vederla. Ma i neuroscienziati possono.Una serie di affascinanti articoli suggerisce che il dolore sociale e il dolore fisico sono elaborati dagli stessi circuiti di neuroni. Questo potrebbe spiegare perché in molte lingue è difficile descrivere l’impatto della rottura dei legami sociali senza ricorrere alle parole che usiamo per indicare dolore fisico e lesioni. Negli esseri umani come negli altri mammiferi sociali il contatto sociale riduce il dolore fisico. Questo è il motivo per cui abbracciamo i nostri figli quando si fanno male: l’affetto è un potente analgesico. Gli oppioidi alleviano sia l’agonia fisica sia l’angoscia della separazione. Forse questo spiega il legame tra isolamento sociale e tossicodipendenza. Alcuni esperimenti riassunti sulla rivista “Physiology & Behaviour” il mese scorso suggeriscono che, data la possibilità di scegliere tra dolore fisico o isolamento, i mammiferi sociali scelgono il primo. Alcune scimmie cappuccino prive di cibo e tenute in isolamento per 22 ore, prima di mangiare si sono riunite alle loro compagne. I bambini che sono trascurati dal punto di vista emotivo, secondo alcuni studi, subiscono peggiori conseguenze per la salute mentale rispetto ai bambini che soffrono sia trascuratezza emotiva sia violenza fisica: per quanto orribile, la violenza comporta essere notati e toccati.L’autolesionismo è spesso usato come tentativo di alleviare la sofferenza: un’altra indicazione che il dolore fisico è meno terribile del dolore emotivo. Come il sistema carcerario sa fin troppo bene, una delle forme più efficaci di tortura è proprio l’isolamento. Non è difficile capire quali potrebbero essere le ragioni evolutive per la presenza del dolore sociale. La sopravvivenza tra i mammiferi sociali è notevolmente più alta quando sono fortemente legati al resto del branco. Sono gli animali isolati ed emarginati che hanno più probabilità di essere attaccati dai predatori, o morire di fame. Così come il dolore fisico ci protegge dai danni fisici, il dolore emotivo ci protegge dai danni sociali. Ci spinge a ricostruire connessioni. Ma per molte persone è diventato quasi impossibile.Non è sorprendente che l’isolamento sociale sia fortemente associato alla depressione, al suicidio, all’ansia, all’insonnia, alla paura e alla sensazione di essere minacciati. È più sorprendente scoprire la gamma di malattie fisiche che provoca o aggrava. Demenza, ipertensione, malattie cardiache, ictus, abbassamento della resistenza ai virus, perfino gli incidenti sono più comuni tra le persone sole. La solitudine ha un impatto sulla salute fisica paragonabile al fumare 15 sigarette al giorno: sembra aumentare il rischio di morte prematura del 26%. Questo in parte è perché la solitudine aumenta la produzione dell’ormone dello stress, il cortisolo, che deprime il sistema immunitario. Studi condotti su animali e sull’uomo suggeriscono che mangiare sia motivo di conforto: l’isolamento riduce il controllo dell’impulso, portando all’obesità. Visto che le persone situate nella parte più bassa della scala socioeconomica sono anche quelle più a rischio di soffrire di solitudine, questa potrebbe essere una delle spiegazioni per il forte legame tra basso livello economico e obesità?Chiunque può rendersi conto che qualcosa di molto più importante della maggior parte dei problemi di cui ci si preoccupa è andato storto. Ma allora, perché siamo così impegnati in questa frenesia che distrugge il mondo e si autoannienta, devastando l’ambiente e riducendo in pezzi le società, se tutto ciò che produce è un dolore insopportabile? Questo problema non dovrebbe essere considerato il più scottante nella vita pubblica? Ci sono enti di beneficenza meravigliosi che fanno quello che possono per lottare contro questa marea, con alcuni dei quali ho intenzione di lavorare come parte del mio progetto contro la solitudine. Ma per ogni persona aiutata, molte altre vengono spazzate via. Non basta una risposta politica per tutto questo. Ci vuole qualcosa di molto più grande: ripensare un’intera visione del mondo. Di tutte le fantasie degli esseri umani, l’idea che ce la si possa fare da soli è la più assurda e forse la più pericolosa. O restiamo uniti o andiamo in pezzi.(George Monbiot, “Il nuovo ordine liberale crea solitudine, ecco cosa sta facendo a pezzi la nostra società”, dal “Guardian” del 12 ottobre 2016, articolo tradotto da “Voci dall’Estero”).Un’epidemia di malattie mentali sta distruggendo mente e corpo di milioni di persone. È arrivato il momento di chiederci dove stiamo andando e perché. Quale maggiore atto d’accusa potrebbe esserci, per un sistema, di una epidemia di malattie mentali? Eppure problemi come ansia, stress, depressione, fobia sociale, disturbi alimentari, autolesionismo e solitudine oggi si abbattono sulle persone in tutto il mondo. Le recenti, catastrofiche statistiche sulla salute mentale dei bambini in Inghilterra riflettono una crisi globale. Ci sono una moltitudine di ragioni secondarie per spiegare questo disagio, ma a me sembra che la causa di fondo sia ovunque la stessa: gli esseri umani, mammiferi estremamente sociali, i cui cervelli sono cablati per rispondere agli altri, sono stati scorticati. I cambiamenti economici e tecnologici in questo svolgono un ruolo importante, ma lo stesso vale per l’ideologia. Benché il nostro benessere sia indissolubilmente legato alla vita degli altri, ci viene spiegato da ogni parte che il segreto della prosperità è nell’egoismo competitivo e nell’individualismo estremo.
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Strani antenati dal cranio allungato: antichi astronauti?
Un gruppo di archeologi francesi ha compiuto una scoperta davvero sorprendente nel corso di uno scavo in Alsazia, Francia, rinvenendo un cranio notevolmente allungato risalente a circa 1500 anni fa. La singolare scoperta, avvenuta nel parco industriale di Pays de Sainte Odile, ha spinto i ricercatori ad estendere lo scavo ai 7,5 ettari di terreno rimanenti. Le ricerche hanno portato alla luce un numero enorme di manufatti e resti umani e animali del neolitico, dell’età gallica e del periodo merovingio, coprendo un arco di tempo pari a 6 mila anni. Tra i ritrovamenti spicca una tomba dell’età del bronzo, con all’interno resti di bambini e di cani. Poi alcune ornamenti in vetro del periodo gallico, monete e ceramiche. Ma i reperti merovingi risultano tra i più affascinanti. Quella dei Merovingi è stata la dinastia che ha governato la regione dei Franchi per circa 300 anni, dal 5° all’8° secolo d.C.In una necropoli contenente 18 sepolture, gli archeologi hanno trovato la sepoltura di una donna con un ricco assortimento di oggetti di corredo, come spille d’oro, due Chatelains (catenine attaccate alla cintura per attaccarvi utensili di uso quotidiano), uno specchio d’argento, alcune perle di ambra, un pettine di cervo e una serie di pinzette. Il tumulo mostra chiaramente che si trattava di una persona molto importante, una donna dal rango decisamente elevato. La conferma è data dalla forma allungata del suo cranio, risultato intenzionale di una deformazione finalizzata a sottolineare lo status sociale della donna e la sua appartenenza all’èlite di coloro che governano. La pratica cominciava in età neonatale, quando le ossa del cranio sono ancora morbide e la struttura non è ancora fissata.Il metodo più semplice era quello di sottoporre il cranio ad una pressione costante, con delle bende ad esempio, oppure di massaggiare la testa del bambino tutti i giorni, fino ad ottenere la caratteristica forma oblunga. Un secondo metodo prevedeva l’applicazione di un dispositivo meccanico al cranio del neonato che, nel tempo, produceva la forma allungata desiderata. La domanda più interessante è: perchè una madre sottoponeva suo figlio ad una procedura così dolorosa e trasfigurante? Come spiegato in un precedente articolo, un certo numero di teorici alternativi hanno proposto che la pratica è stata ideata per imitare una progenie di individui nate con i teschi allungati e che erano tenuti in grande considerazione.Brien Foerster è uno degli autori che si è occupato maggiormente dell’argomento, presentando prove convincenti secondo le quali l’allungamento di alcuni teschi, almeno quelli più antichi, sia stato ottenuto attraverso l’utilizzo di ingegneria genetica e non attraverso la deformazione meccanica. Le ricerche di Foester sono eseguite nell’ambito della Teoria degli Antichi Astronauti. Come spiega l’articolo comparso su io9.com, sepolture simili sono state scoperte nel nord della Gallia, in Germania e in Europa orientale, anche queste accompagnate da abbondanti corredi funerari. Esse appaiono quindi come le tombe di alti dignitari e delle loro famiglie. La necropoli di Obernai è uno dei pochi grandi tumuli scoperti in Francia. Sul sito dell’Inrap (Istituto Nazionale di Ricerca Archeologica Preventiva) è possibile vedere la galleria fotografica della scoperta.(“Gli archeologi scoprono teschi allungati anche in Francia”, dal newsmagazine “Il Viaggiatore Curioso”, novembre 2016).Un gruppo di archeologi francesi ha compiuto una scoperta davvero sorprendente nel corso di uno scavo in Alsazia, Francia, rinvenendo un cranio notevolmente allungato risalente a circa 1500 anni fa. La singolare scoperta, avvenuta nel parco industriale di Pays de Sainte Odile, ha spinto i ricercatori ad estendere lo scavo ai 7,5 ettari di terreno rimanenti. Le ricerche hanno portato alla luce un numero enorme di manufatti e resti umani e animali del neolitico, dell’età gallica e del periodo merovingio, coprendo un arco di tempo pari a 6 mila anni. Tra i ritrovamenti spicca una tomba dell’età del bronzo, con all’interno resti di bambini e di cani. Poi alcune ornamenti in vetro del periodo gallico, monete e ceramiche. Ma i reperti merovingi risultano tra i più affascinanti. Quella dei Merovingi è stata la dinastia che ha governato la regione dei Franchi per circa 300 anni, dal 5° all’8° secolo d.C.
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Carotenuto: i Maghi Neri non ci domineranno per sempre
Fa più rumore un albero che cade, lo sappiamo: l’immensa foresta cresce in silenzio. Oggi però di alberi ne cadono a migliaia, tutti i giorni. E’ un fragore spaventoso, che provoca smarrimento. Il che non è casuale: più che il legname, infatti, al taglialegna interessa proprio la paura che il crollo provoca. Guerre, disperazione, crisi economiche accuratamente progettate. Ma l’indotto globalizzato della strage quotidiana, il “core business del male”, non è nemmeno il lucro: l’obiettivo numero uno è lo scoraggiamento di massa, planetario. La resa dell’umanità. I trilioni di dollari contano, eccome – sono la lussuosa paga dei grandi mercenari, gli strumenti della “piramide oscura”. Al cui vertice però siedono tenebrosi “sacerdoti”, i Maghi Neri, il cui vero “fatturato” non è misurabile in denaro, ma in dolore. La loro missione: sabotare le connessioni vitali, amorevoli, tra persone e popoli. Da questa prospettiva, decisamente inconsueta, Fausto Carotenuto fotografa, a modo suo, il senso della grande deriva mondiale che stiamo vivendo, di cui spesso stentiamo a cogliere il significato. Ma non lasciamoci spaventare, aggiunge: se il frastuono è in aumento, se gli “architetti del buio” stanno “esagerando”, è perché cominciando ad avere paura del nostro risveglio.Fausto Carotenuto non è un guru della new age. E conosce bene le dinamiche del quadro geopolitico: per anni, è stato analista strategico dei servizi segreti italiani. Da tempo, ha intrapreso nuove esperienze, confluite nel network “Coscienze in Rete”. E ha scritto libri come “Il mistero della situazione internazionale”, che provano a tradurre anche la politica in termini spirituali: una dimensione inconfessabile, impresentabile a livello mainstream (sarebbe spernacchiata come grottesca surperstizione). Ma in realtà – sostiene l’autore – è l’unica prospettiva capace di spiegare fino in fondo l’attitudine dei “dominus”, la loro incrollabile e misteriosa vocazione al peggio. Carotenuto ricorre alle categorie simboliche dell’invisibile, evocando i due principi-cardine a cui si ispirerebbe la “piramide nera”: da un lato “Lucifero”, il demone della realtà illusoria, presentata come rifugio dorato, dove la coscienza “si addormenta” e smette di evolversi; e dall’altro “Arimane”, «il padrone della scena materiale», la cui missione consisterebbe nel «convincerci che non abbiamo spirito, che siamo solo animali evoluti», e quindi «fa di tutto per meccanizzarci, per legarci a vite prive di amore, abbacinate dal denaro, dai piaceri fisici, dal potere sugli altri».Queste due potenze, scrive Carotenuto, sono il vertice di una piramide – reale, concreta – fatta di uomini in carne e ossa. Sono i sommi sacerdoti e loro discepoli, che coordinano le “fratellanze oscure” e le organizzazioni trasversali, utilizzando schiere di mercenari puntualmente reclutati e profumatamente pagati per fare il “lavoro sporco”, senza averne neppure la piena consapevolezza. Ogni anello di questa catena infernale, sostiene l’autore, interpreta innanzitutto il ruolo del carnefice, per poi scoprirsi vittima a sua volta: le vite degli esponenti del massimo potere, a prima vista comode, sono in realtà tormentate da continue lotte: tutti i grandi boss sono avvelenati dalla paura di essere scalzati e privati degli smisurati privilegi conquistati con ogni mezzo. In altre parole: nessuno è davvero felice, lassù. Al punto che, sempre più spesso, si registrano autentiche ribellioni: eredi designati, rampolli di grandi famiglie ed ex “macellai” di lungo corso (dell’economia, della finanza, delle multinazionali) all’improvviso “vedono” la disperazione del sistema e la respingono, non essendo più disposti a restare complici della “piramide oscura”.Anche per questo, secondo Carotenuto, sta aumentando l’intensità della violenza a cui siamo sottoposti, fra disastri economici, guerre e terrorismo: l’élite “nera” teme di perdere la sua presa. E il suo declino, pronostica l’autore, potrebbe essere più rapido di quanto non s’immagini. Ma non sarà una passeggiata: il potere “nero” è un osso durissimo. A comiciare da loro, quelli che Carotenuto chiama Maghi Neri, cioè personalità votate al male: «Hanno ricevuto enormi fortune, grandissimi poteri». Magia, vera e propria: «Lunghi e ripetuti rituali, contro-iniziazioni», che nel corso della storia hanno reso questi individui «particolarmente acuti, di un’intelligenza fredda e metallica, priva di cuore». Godono del potere immenso che esercitano sull’umanità – che disprezzano, insieme al bene e alla libertà. Coadiuvati dai loro discepoli, continua Carotenuto, i Maghi Neri istruiscono le “fratellanze oscure”, ovvero «ristrette organizzazioni», non note ai più, che «praticano ritualità oscure», di tipo occultistico, «con l’uso intensivo di medium». Oltre ai mezzi ordinari, materiali, «dalla manipolazione agli omicidi» le “fratellanze oscure” «praticano attivamente la magia nera», nella quale hanno evidentemente la massima fiducia. Nella formazione degli adepti «viene spenta ulteriormente la forza dell’amore e vengono accentuate particolari doti, dell’intelligenza e dell’obbedienza».Spesso si tratta di giovani, «lanciati in carriere fulminanti», per arrivare a volte a diventare «consiglieri più o meno occulti di qualche eminente personalità», fino ad essere «investiti in prima persona nei grandissimi incarichi». Secondo Carotenuto, «il lavoro rituale fatto su di loro lascia spesso tracce esteriori visibili negli occhi, che acquistano una apparenza strana, priva di calore o vitrea». Occhi «dotati di una luce inquietante, o spenti». Non è una pagina della saga di Harry Potter. Ricorda da vicino certi film, come “L’avvocato del diavolo”, con Al Pacino e Keanu Reeves. Ma quella di Carotenuto non è fiction: anche se parla apertamente di magia (nera), la modalità narrativa è quella della saggistica. Le “fratellanze oscure”? Esistono, eccome. E funzionano proprio così, sostiene l’autore. «Si tratta probabilmente di qualche decina di organizzazioni segrete, presenti e attive ovunque nelle strutture del potere laico e di quello religioso». Sono queste organizzazioni che «predispongono e dirigono gli uomini che portano avanti in modo piuttosto consapevole le più forti operazioni di condizionamento dell’umanità: le contro-ispirazioni, gli attacchi alla natura umana, le guerre, il terrorismo».Tutto il resto è a valle, assicura l’ex analista geopolitico dell’intelligence: dalla Trilaterale al Council on Foreign Relations, dal Bilderberg all’Aspen Istitute, dal Club di Roma ai Rotschild, fino alla Goldman Sachs e alla super-massoneria deviata. La recente letteratura complottista punta il dito contro i gesuiti e l’Opus Dei, i Fratelli Musulmani, il B’nai B’rith israeliano? «Queste organizzazioni, misteriose ma note, sono sono al quinto livello della scala del potere oscuro», cioè «abbastanza in basso», vale a dire: «Meri esecutori, ben compensati per i loro servigi, con soldi e potere. Ma non sono loro a elaborare le grandi strategie del male». Restano agli ordini dei «livelli superiori», cioè «alcune centinaia di famiglie e organizzazioni». Gli uomini delle “fratellanze oscure” «ricevono spesso incarichi dirigenziali importanti nei principali settori del potere economico, politico, militare, religioso, culturale, scientifico, mediatico e malavitoso». Esecutori speciali, che «rispondono fedelmente agli uomini delle cerchie ristrette», da cui ricevono istruzioni, che applicano alla lettera, senza mai discuterle, per non perdere le posizioni acquisite.Quello degli esecutori disseminati nelle “fratellanze oscure”, sempre secondo Carotenuto, è un vero e proprio esercito: «Sono molte migliaia, in tutte le organizzazioni mondiali di potere, in tutti i settori. Capi e dirigenti importanti delle organizzazioni multinazionali fondamentali», dall’Onu al Fmi, dalla Banca Mondiale al Wto fino all’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Inlcusi «la maggior parte dei capi religiosi e dei capi di Stato e di governo». Leader di partito e capi delle multinazionali, vertici bancari e finanziari, senza contare l’impero dei mass media, la maggior parte dei servizi segreti e delle forze armate. Farebbero parte del sistema anche i maggiori responsabili dei principali gruppi religiosi, nonché i boss dei cartelli criminali mafiosi. «Vicino a loro c’è sempre almeno un emissario della cerchia ristretta, della “fratellanza”, da cui dipende il loro gruppo». E’ un uomo «al quale non si può dire di no, mai: nemmeno il presidente degli Stati Uniti può dire di no a un certo assistente o collaboratore, mai». A volte, aggiunge Carotenuto, il politico non capisce neppure perché gli viene ordinato di fare certe cose, in apparenza senza senso; ma obbedisce sempre, puntualmente premiato con «ricche porzioni di potere materiale».Più a valle ancora, nella serie di gironi danteschi rappresentati da Carotenuto, ci sono i semplici “mercenari” reclutati per singole missioni. E quindi – ultimo anello della catena – ci siamo noi, il resto dell’umanità: «Se non ci fossimo noi, coi nostri attuali comportamenti, a fare da base a ognuna di quelle piramidi, non esisterebbero neppure». L’autore le chiama “forme-impero”, “piramidi del male”. Tutti noi, inconsapevolmente, ne facciamo parte. Come? Lasciando che la nostra coscienza continui a dormire: «Tutti gli spazi della nostra vita non occupati dalla nostra coscienza, dalle nostre azioni e dai nostri pensieri vigili, in direzione del bene, della crescita della coscienza nostra e degli altri intorno a noi, sono il campo di manovra delle forze oscure. Ogni mancanza di amore e di coscienza, da parte nostra, è un mattone delle piramidi del male, che approfittano immediatamente delle nostre omissioni, delle nostre assenze, dei nostri egoismi». Basta poco: fidarsi di quello che il potere racconta, lasciarsi gestire, delegare ai “poteri oscuri” l’orientamento della nostra vita, delle nostre scelte anche politiche, del nostro lavoro, del nostro tempo. «Il loro potere deriva dal sangue che ci succhiano, che sono le nostre energie economiche, fisiche, vitali e psichiche. Ma siamo sempre noi a porgere il collo, inconsciamente, a queste vere e proprie “piramidi di vampiri”».Carotenuto le chiama anche “forze dell’ostacolo”: in apparenza soltanto negative, “demoniache”, ma in realtà – per quanto abominevoli – anch’esse funzionali, in ultima analisi, alla “strategia del risveglio” con cui, silenziosamente, l’umanità sarebbe alle prese. Solo lo stato di crisi, infatti, mobilita le risorse interiori, altrimenti dormienti. Il male, in funzione del bene: una visione filosofica tipicamente orientale, in Occidente abbracciata per lo più dalle correnti minoritarie, esoteriche, come il templarismo (San Bernardo che non uccide il diavolo, ma lo doma tenendolo al guinzaglio, incatenato). Il libro di Carotenuto sorvola sui nomi, preferendo uno sguardo prospettico e teorico. Non denuncia direttamente singoli “colpevoli”, ma descrive il meccanismo che li produce – e lo fa ricorrendo a una visione “animica”, di tipo spiritualistico, insistendo nella convinzione che (al di là dell’apparenza) proprio la dimensione spirituale sia quella dotata di maggiore concretezza, come il super-potere della “piramide” ben sa, assicura l’autore.Quelli a cui manca questa consapevolezza, invece, siamo proprio noi: non abbiamo ancora compreso l’immenso potenziale, anche pratico, di una forza non convenzionale chiamata “amore”, capace di prodigiosi contagi benefici – quelli che la “piramide oscura” teme così tanto, al punto da traumatizzarci anche col terrore diffuso, per spezzare le “reti invisibili, amorevoli”, destinate infine a vincere. E’ infatti questo il messaggio dell’autore: la “foresta” sarà anche silenziosa, ma ultimamente sta crescendo a ritmi inimmaginabili. Milioni di individui, dice Carotenuto, attraverso la condivisione di conoscenze ed esperienze solidali stanno espandendo in profondità la loro coscienza, verso un’evoluzione impensabile dell’umanità, senza più odio. Si avvicina la fine delle “forme-impero”, come Roma (il contario di Amor) trasformatasi in un altro impero, con l’alibi di una religione storicamente manipolata, modellata per riprodurre all’infinito lo schema del dominio, quello dei Maghi Neri? Carotenuto ci crede: il male è scatenato, nel mondo, e questo provoca ondate di angoscia e di egoismo. Ma le “armate bianche” – così le chiama – sono entrate in azione, e spingeranno ognuno di noi a sottrarsi al potere delle “piramidi oscure”, cambiando il modo di pensare la propria vita e cominciando ad amare il prossimo. Questo farà crollare l’architettura dell’inferno che ci tiene prigionieri della paura.(Il libro: Fausto Carotenuto, “Il mistero della situazione internazionale. Come portare la spiritualità in politica”, Uno Editori, 247 pagine, euro 16,90).Fa più rumore un albero che cade, lo sappiamo: l’immensa foresta cresce in silenzio. Oggi però di alberi ne cadono a migliaia, tutti i giorni. E’ un fragore spaventoso, che provoca smarrimento. Il che non è casuale: più che il legname, infatti, al taglialegna interessa proprio la paura che il crollo provoca. Guerre, disperazione, crisi economiche accuratamente progettate. Ma l’indotto globalizzato della strage quotidiana, il “core business del male”, non è nemmeno il lucro: l’obiettivo numero uno è lo scoraggiamento di massa, planetario. La resa dell’umanità. I trilioni di dollari contano, eccome – sono la lussuosa paga dei grandi mercenari, gli strumenti della “piramide oscura”. Al cui vertice però siedono tenebrosi “sacerdoti”, i Maghi Neri, il cui vero “fatturato” non è misurabile in denaro, ma in dolore. La loro missione: sabotare le connessioni vitali, amorevoli, tra persone e popoli. Da questa prospettiva, decisamente inconsueta, Fausto Carotenuto fotografa, a modo suo, il senso della grande deriva mondiale che stiamo vivendo, di cui spesso stentiamo a cogliere il significato. Ma non lasciamoci spaventare, aggiunge: se il frastuono è in aumento, se gli “architetti del buio” stanno “esagerando”, è perché cominciando ad avere paura del nostro risveglio.
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Campo di stelle, la ragazza e la cavalla con un occhio solo
La cavalla si chiama Isotta Raminga. Ha un occhio solo, ma vede lontanissimo. Il suo sguardo si allunga su quasi duemila chilometri, dalle Alpi a Finisterre, dove ha fatto il bagno nell’Atlantico insieme alla sua inseparabile compagna, Paola Giacomini, esperta di trekking estremi. Ragazza e cavalla, sole. Sella e taccuino, per annotare le tappe di un pellegrinaggio dell’anima, scoprendo giorno per giorno la poesia dell’andare, lo sgomento dei cieli infiniti, la durezza della fatica, la magia degli incontri lungo il sentiero. Tutto intorno, la geografia più remota del sud-ovest europeo. Era il 2006, un milione di anni fa. In Sicilia l’antimafia arrestava Provenzano, mentre in Cile moriva Pinochet, uno degli ultimi ruderi del ‘900. Il nuovo millennio già si dava da fare: Jack Dorsay lanciava Twitter, Julian Assange fondava Wikileaks. E ancora all’appello mancavano Lehman Brothers e Fukushima, Mario Draghi e la Troika, la macelleria della Grecia, Monti e Fornero, la fine di Gheddafi, la carneficina della Siria, il losco carnevale di sangue firmato Isis. Se il mondo è impazzito, chi può leggerlo meglio di un cavallo con un occhio solo?«Insensato cercare di assomigliargli, altrettanto insensato chiedergli di assomigliare a noi», scrive Paola di Isotta Raminga. Un cavallo puoi sempre domarlo, ma «è meno scontato conquistarne l’anima: per raggiungerla, occorre concedergli lo spazio per esprimerla, donargli la propria». L’anima, la grande assente del nostro desolato mainstream, desertificato dall’economia di regime, geopolitica e bellica. Il sistema, dice l’ex avvocato Paolo Franceschetti, autore del saggio “Le religioni”, ha letteralmente cancellato la spiritualità dal nostro paesaggio quotidiano, perché ne ha paura: guai, se sospettiamo che la realtà non si esaurisca nella narrazione che ci viene imposta. La pensa così anche Fausto Carotenuto, già analista strategico dell’intelligence, oggi impegnato nel network “Coscienze in rete”: sopra ogni altra cosa, sostiene Carotenuto, il “main-power” teme che ognuno di noi riconquisti l’accesso alla sua dimensione spirituale, la porta della coscienza. A Paola e Isotta è accaduto tanti anni fa: duemila chilometri di meditazione quotidiana, nel silenzio dei grandi spazi. Qualcosa che ti costringe a fare i conti con la vita, senza finzioni.“Campo di Stelle”, singolare diario di viaggio – geografico e interiore – è un esempio di rarissimo nitore espressivo, straordinariamente intenso e coinvolgente: ti porta esattamente là, sul sentiero di Isotta, fra le trepidazioni dei passi alpini e pirenaici, le premure quotidiane per il cibo, la scelta di dove accamparsi per la notte, le incognite del viaggio, le sorprese di un’umanità inattesa. Partire soli, con un cavallo, silenzioso compagno di viaggio. L’animale «catalizza le emozioni, riconosce prima del cavaliere la sua serenità o le sue paure e inquietudini. Se si impara a conoscerlo, si può scoprire un’anima molto più potente del corpo che la contiene». Perché, prima ancora del peso del cavaliere, «sostiene il suo spirito, chiedendogli di vivere in pace e di pensare a una cosa per volta». E se il cavaliere decide inspiegabilmente di lasciare, all’improvviso, il più meraviglioso di tutti i luoghi raggiunti, solo perché è ora di riprendere il viaggio, il cavallo «si stupisce di queste faccende degli uomini che, a volte, non riescono ad accontentarsi di un bel prato e di una fresca fonte».Isotta Raminga è un esemplare arabo-avelignese, sauro, dalla criniera bionda. E’ speciale, «perché sa uscire incolume dalle situazioni più difficili», le fiuta in anticipo, «diventa seria e concentrata». Cessato il pericolo, «torna disincantata e noncurante, come se nulla fosse successo». A volte è distratta: «Quando si annoia dimentica l’attenzione e si fa male». L’occhio lo perse a causa di un calcio, rimediato da un altro cavallo. «La cicatrice dell’occhio che ho dovuto far asportare era appena guarita quando siamo partite», racconta Paola. «Il giorno della partenza, Isotta assomigliava ad un mostro. In Francia il primo impatto con le persone era di ribrezzo; mi chiedevano se avesse fatto la guerra. In un certo senso siamo tutti in guerra. C’è chi le ferite le mostra all’esterno e chi le riporta all’interno». “Campo di stelle” insegna che non esiste cicatrice che non possa rimarginare. Ma bisogna trovare il coraggio di lasciarsi alle spalle ogni certezza.«L’ultimo addio a qualcuno a cui volevo bene è stato a Briançon», scrive Paola, valicato il Monginevro. «Sto cominciando un’avventura desiderata, eppure un nodo mi stringe la gola». Poi, prevale l’incanto degli elementi: «La notte scorsa, poco sopra il Col des Ayes, il cielo ha buttato giù la prima neve». Giorni e notti, a passo lentissimo: la valle della Durance fino a Sisteron, la Provenza, appunti e incontri. Davide, un maniscalco: «Mi ha chiamata mentre passavo sulla strada, come se mi stesse aspettando». E Yves, «un uomo dai modi aristocratici e dall’aspetto selvatico», che vive «nell’umido fondovalle di queste colline profumate di lavanda», scappato da Parigi nel ‘58, quando aveva diciassette anni. «Tante persone stanno realizzando un’idea al limite dell’utopia, con un’armonia che, senza vedere, è difficile immaginare». A Forcalquier, una tribù ospitale: «Il pane viene cotto nel forno a legna una volta la settimana, la cucina è in comune e l’enorme refettorio anche. Mangio con loro, sparecchio e guardo le stelle». Curiosità: «Il ragazzo che si occupa dei cavalli mi chiede cosa mi spinge a partire il mattino seguente. Si chiede se, secondo me, esiste un posto migliore di quello per fermarsi».Acqua e cibo, cartine, la pista più adatta. I deserti pietrosi della Drome, la discesa in Camargue: «Tori, cavalli e fenicotteri oltre recinti di filo spinato». Quindi il Rodano e nuovi silenzi, quelli delle Cevennes. Notti di tregenda: tuoni e lampi, grandine. «Stavolta Isotta è sconsolata e io sono nera come il cielo». L’indomani ricomincia a piovere. «Urlo una bestemmia. Forte. Mi vergogno subito. Dalla casa di fronte si apre una finestra e una signora nigeriana con un sorriso gigante mi chiede, in italiano, se sono italiana». La donna scende in strada in vestaglia, con un ombrellino rosa: «In un attimo sono con lei e la sua pecora in un grande prato recintato con una tettoia, dove metto ad asciugare tutto». Ragazza e cavalla visitano «terre rosse e pietre nere», sostano accanto a una casa dalle cui finestre arriva la musica di un violoncello: «Una pace enorme inonda la terra, quando cala la notte e mi infilo nel sacco a pelo. Grilli e cicale rimbalzano la loro musica. Spengo la luce in ascolto e mi addormento». Altri chilometri, altre lingue: «È la prima notte in Spagna. L’aria è tersa e l’assenza di paesi e di luna fa splendere le stelle all’infinito. Non ho montato il telo».A Roncisvalle, compare una coppia straordinaria. Lei di Strasburgo, lui italiano. Si sono conosciuti in Madagascar. «L’amore è una faccenda tremenda che fa volare e precipitare con la stessa velocità e la stessa dolcezza, senza controllo né previsioni. Ciò che immagini possa funzionare scricchiola, ciò da cui ti aspetti un disastro è una meraviglia». Un saluto e la marcia riprende. Altra beata solitudine: «Immersa nella pozza di acqua limpida, i nodi della stanchezza si sciolgono». In mezzo alle montagne iberiche, a Beldorado, Paola rimedia una camicia bianca che le viene offerta: «Non ho detto di no. Dopo mesi di bivacchi e vita all’aria aperta, sempre vicino a un cavallo, il più possibile lontano dalla civilizzazione, si può diventare dei veri selvaggi». Infine, l’Atlantico: «L’ultimo tramonto d’Europa a questa data e a questa latitudine è verso le dieci e mezza di sera, molto tardi. Il progetto è di raggiungere il Capo di Finisterre per vedere il sole tuffarsi nell’oceano proprio in quel momento lì».Mesi di viaggio, dalla valle di Susa a Santiago de Compostela: «Quest’avventura l’abbiamo vissuta in due: una persona e una cavalla. Quando siamo partite, io sapevo che avremmo viaggiato a lungo. Lei si è accorta solamente che una mattina siamo andate da un’altra parte, e ci siamo fermate a dormire lontano. Il giorno dopo non siamo tornate indietro, abbiamo continuato a camminare verso ovest». Ogni giorno il ritmo era lo stesso, ma i posti sempre nuovi. «Ogni giorno si incontravano altri cavalli e altre persone. Ogni giorno c’erano fieno, orzo e acqua con sapori diversi». Partire, morire, rinascere. Il senso iniziatico do ogni vero viaggio: «Tutto quello che c’è tra oriente e occidente è solo cammino. Partendo è tutto da inventare e tornando diventa quello che riesci a scoprire». Pensieri e sensazioni, in perfetta simbiosi con la cavalla: «Isotta ha saputo tradurmeli mentre comprendeva i miei errori, insegnandomi un linguaggio». Poi dicono che gli animali non abbiano il dono della parola. «Da sola non sarei stata capace di vedere certe cose». L’occhio di Isotta, il cuore della terra: «È stato un pellegrinaggio, non è ancora finito».(Il libro: Paola Giacomini, “Campo di stelle. A Santiago a cavallo”, pagine …. disponibile su Amazon a 15 euro).La cavalla si chiama Isotta Raminga. Ha un occhio solo, ma vede lontanissimo. Il suo sguardo si allunga su quasi duemila chilometri, dalle Alpi a Finisterre, dove ha fatto il bagno nell’Atlantico insieme alla sua inseparabile compagna, Paola Giacomini, esperta di trekking estremi. Ragazza e cavalla, sole. Sella e taccuino, per annotare le tappe di un pellegrinaggio dell’anima, scoprendo giorno per giorno la poesia dell’andare, lo sgomento dei cieli infiniti, la durezza della fatica, la magia degli incontri lungo il sentiero. Tutto intorno, la geografia più remota del sud-ovest europeo. Era il 2006, un milione di anni fa. In Sicilia l’antimafia arrestava Provenzano, mentre in Cile moriva Pinochet, uno degli ultimi ruderi del ‘900. Il nuovo millennio già si dava da fare: Jack Dorsay lanciava Twitter, Julian Assange fondava Wikileaks. E ancora all’appello mancavano Lehman Brothers e Fukushima, Mario Draghi e la Troika, la macelleria della Grecia, Monti e Fornero, la fine di Gheddafi, la carneficina della Siria, il losco carnevale di sangue firmato Isis. Se il mondo è impazzito, chi può leggerlo meglio di un cavallo con un occhio solo?
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Ma i poveri sono bestie, come suggerisce Eugenio Scalfari?
I tempi attuali hanno questo di particolare: dovremo viverli sino in fondo e berne la coppa sino alla feccia. Uno dei maestri residui del pensiero italiano (un altro, celebratissimo, è crepato recentemente), il nababbo Eugenio Scalfari, nei giorni scorsi se ne è uscito con tale argomentazione: i poveri soddisfano esclusivamente i loro istinti e voglie primari; non ne hanno di secondari: la ricerca di Dio, ad esempio; collezionare ceramiche Ming; leggere trattati di socialisti tedeschi dell’Ottocento; scrivere per il teatro; occuparsi di lirica et cetera. Il loro mondo (il mondo dei poveri) è chiuso, basico, animale. I poveri, ne consegue, dei bruti. Ovviamente Scalfari ha ragione. Tutta la mia famiglia, ad esempio, in particolar modo i miei ascendenti diretti (nonni materni e paterni), son lì a confermare le sue tesi. Aggiungo di più. I poveri, quelli veri, quelli che ben presto popoleranno la nazione, sono pure brutti, sporchi e cattivi.Brutti poiché le privazioni imbruttiscono; e un lavoro non intellettuale (lavoro intellettuale: scrivere articoli da quattro soldi con l’aria condizionata, i piedi sul tavolo e le sfogliatelle alla propria destra, ad esempio) non regala tempo per curarsi la barba come un orticello (altro esempio). In quanto brutti i poveri attirano altri brutti: ne nascono, a meno di un terno secco cromosomico, figli brutti. I poveri sono sporchi, poi, perché quando si è brutti, con un lavoro di merda, e la mattina ci si sveglia con una donna laida, grassa e sboccata al fianco (è un esempio pure questo) si va in depressione, e, in depressione, come tutti sanno, non si ha mica voglia di farsi la doccia, profumarsi con essenze che nemmeno si è in grado di comprare o tagliarsi i baffi in maniera cool. Va da sè che un tizio che è brutto, con una moglie brutta, e figli brutti, senza una lira, con un lavoro merdoso e le ascelle che gli puzzano, si incattivisca ogni giorno che passa.Queste mie considerazioni sembrano facili e posticce, ma non è così: si basano su una osservazione costante, empirica, trentennale, degli Italiani. Quando dico che i poveri sono brutti intendo proprio questo: che esiste una relazione diretta, scientifica, causale, fra la mancanza di pecunia e le fattezze umane (le gambe delle donne: basta osservare le gambe delle nostre nonne e le gambe delle loro nipoti; la bellezza delle gambe delle donne è questione di censo. Le belle nipoti però non hanno da illudersi: le gambe delle loro figlie torneranno presto a incurvarsi). Ed esiste una relazione diretta tra povertà e moralità umana (sempre dei poveri: ignoranti, zotici e maleducati). Insomma Scalfari ha ragione: i poveri sono bestie. Tuttavia oserei rivolgergli una domanda: com’è che i nababbi suoi pari (De Benedetti, Tronchetti Provera, Montezemolo, gli Agnelli et cetera) e tutti gli intellettuali che secolui intrattengono altissimi discorsi e pensose meditazioni (con una ruga sulla fronte), e tutti i dotti che ha il privilegio di interrogare con quesiti celesti sulla vita e sulla morte (vescovi illuminati, rabbini illuminatissimi, premi Nobel) – insomma tutta la sceltissima pletora di menti eccelse che i bisogni primari non sanno manco cosa siano, e vantano, invece, bisogni secondari, terziari, quaternari … come mai tutti questi eletti sono, alla fine della fiera, delle micidiali nullità?È una semplice domanda, non altro. Insomma, ragazzi miei, se l’Italia è in declino da trent’anni almeno, tanto che la sua classe media è ormai in putrefazione culturale, a chi addebitare la colpa? Non ai poveri, che pensano solo a magnà’, a beve e a scopà’ (i bisogni primari). Cos’ha dato alla nazione De Benedetti? E Montezemolo? E il cardinal Martini, a ben pensarci, cosa ha fatto per impedire l’agonia dell’Italia? Hanno mai detto qualcosa, questi venerati maestri un tanto al chilo, contro la trasformazione d’un paese geniale e bello in un mattatoio sociale (son solo tre esempi, potrei continuare per decine di pagine)? Sorgono altre domande. Se i poveri sono come porci in calore, il cui unico scopo è guazzare nel tiepido brago della propria limitatezza, quali bisogni secondari aveva uno come Lapo Elkann? Privo di vere urgenze (proprie ai brutti, sporchi e cattivi), in realtà cosa cercava? Son curiosità. Che fanno sorgere altre curiosità. Esempio: cos’ha dato alla nazione Eugenio Scalfari? Come si son inverati i suoi bisogni secondari, terziari? Mentre è sprofondato sui velluti della redazione di Repubblica meditando le superne cose de l’etternal gloria, insomma, che gli passa per la capoccia? Lui che è una delle punte più acuminate del genio nazionale. Che gli passa per la testa a queste flebili increspature della storia della mediocrità, a parte tali sbocchi di boria suprematista, dopo decenni e decenni di chiacchiere, pontificazioni, giri di valzer, tradimenti? Quale debito vantano verso la comunità e il nostro futuro questi tronfi massoni del nulla?(“I poveri sono bestie, parola di Eugenio Scalfari”, pubblicato da “Alceste” su “Pauperclass” il 23 febbraio 2016).I tempi attuali hanno questo di particolare: dovremo viverli sino in fondo e berne la coppa sino alla feccia. Uno dei maestri residui del pensiero italiano (un altro, celebratissimo, è crepato recentemente), il nababbo Eugenio Scalfari, nei giorni scorsi se ne è uscito con tale argomentazione: i poveri soddisfano esclusivamente i loro istinti e voglie primari; non ne hanno di secondari: la ricerca di Dio, ad esempio; collezionare ceramiche Ming; leggere trattati di socialisti tedeschi dell’Ottocento; scrivere per il teatro; occuparsi di lirica et cetera. Il loro mondo (il mondo dei poveri) è chiuso, basico, animale. I poveri, ne consegue, dei bruti. Ovviamente Scalfari ha ragione. Tutta la mia famiglia, ad esempio, in particolar modo i miei ascendenti diretti (nonni materni e paterni), son lì a confermare le sue tesi. Aggiungo di più. I poveri, quelli veri, quelli che ben presto popoleranno la nazione, sono pure brutti, sporchi e cattivi.