Archivio del Tag ‘beneficenza’
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Q-Anon, il dovere della serietà: fake news e indizi attendibili
Siamo in guerra! Una guerra diversa da quelle a cui siamo stati abituati fino ad oggi, una guerra tra due modi di vedere il mondo, una guerra tra un sistema tiranno che cerca di dare gli ultimi colpi di coda per avere il totale controllo del pianeta e dei suoi abitanti contro un sistema più conservatore che combatte la perversione di questo “drago feroce”. Sappiamo bene che il controllo della popolazione passa da un presupposto fondamentale: Il controllo dell’informazione. Abbiamo parlato più volte di come i 5 gruppi più grossi che controllano il 90% dell’informazione siano stati furabescamente infiltrati, acquisiti nelle loro quote di maggioranza, pilotati e resi funzionali e dipendenti dal “Drago”. Da questo fondamentale presupposto nasce Q. Nell’ottica di questa nuova tipologia di guerra, combattuta a colpi di disinformazione e condizionamento, diventa essenziale un nuovo tipo di esercito, un esercito digitale che sia in grado di veicolare e diffondere le vere notizie, un esercito che diventi megafono delle istanze del popolo ma anche divulgatore del marcio che piano piano viene a galla grazie ai suggerimenti di Q. Per questo nascono i “Q Anon”.Q è un’operazione di intelligence militare, la prima nel suo genere, il cui obiettivo è quello di fornire al pubblico informazioni segrete. Molti seguaci di Q pensano che il team Q sia stato fondato dall’ammiraglio Michael Rogers, ex direttore della National Security Agency ed ex comandante del Cyber Command degli Stati Uniti. E’ possibile che Dan Scavino, direttore dei social media della Casa Bianca, faccia parte del team, perché l’alta qualità della scrittura di Q è senza ombra di dubbio quella di un esperto di comunicazione. Q è una nuova arma nel gioco della guerra delle informazioni, che evita i media ostili e il governo corrotto per comunicare direttamente con il pubblico. Mentre Trump comunica senza mezzi termini e direttamente, Q è criptico, scaltro e sottile, offrendo solo indizi che richiedono contesto e connessione. La prima fase di The Great Awakening è accrescere la consapevolezza sull’esistenza del Deep State – le entità governative interconnesse che operano al di fuori della legge per espandere il proprio potere. Le elezioni e l’opinione popolare non incidono sulla capacità del Deep State di rispettare la sua agenda.La seconda fase di The Great Awakening indaga sull’alleanza del Deep State con altri potenti settori: media, Hollywood, enti di beneficenza e non profit, scuole pubbliche e università, organizzazioni religiose, istituzioni mediche, scientifiche e finanziarie e società multinazionali. Questa fase può essere dolorosa, poiché scopri che “quelli di cui ti fidi di più” (nella frase di Q) ti stanno ingannando. Celebrità amate, leader religiosi, dottori, educatori, innovatori e do-gooder sono tutti nella menzogna. La terza fase di The Great Awakening è forse la più dolorosa di tutte. Le persone che ci governano non sono semplicemente creature amorali che ci vedono come danni collaterali nel loro desiderio di denaro e potere. È più spaventoso di così. I potenti che serviamo stanno attivamente cercando di farci del male. Questo è il loro obiettivo. Siamo sotto attacco coordinato.Tutto quello che si richiede ai Q Anon è di diffondere notizie vere partendo dalle indicazioni dei Drop rilasciati da Q a questo indirizzo. Sulla base di questi drop il compito di un Q Anon è quello di cercare notizie riguardanti quel drop specifico e di indagare il più possibile quell’argomento per far venire a galla il marciume del “Drago”.Purtroppo in queste ultime settimane il movimento è stato evidentemente infiltrato dal sistema. La tecnica è sempre la solita: inondare di assurdità le pagine e i siti dei Q Anon, oltre che crearne di nuovi che ad un primo sguardo sembrano provenire da veri Anon. Mischiare argomenti seri ed importanti, elementi essenziali per indagare il marcio con assurdità che mai e poi mai saranno rintracciabili nei drop di Q, rendendo di fatto quello dei Q Anon un argomento relegabile al becero “complottismo”. C’è da dire che un limite del progetto Q è proprio questo: tutti diventiamo possibili divulgatori di notizie, anche chi non ha un background culturale e scolastico solido. Così diventano tanti gli Anon che fanno il gioco del sistema, mettendo in ridicolo tutto il movimento, rischiando di farci perdere questa guerra. E ci riferiamo a tutte quelle finite notizie (Fake News) su arresti ed esecuzioni già avvenute, come l’elenco apparso in un sito greco di disinformazione in cui si può leggere che il Papa e tutti i cardinali sono stati giustiziati e sostituiti con dei cloni, o dell’esecuzione di George Soros con tanto di fotomontaggio mentre sta andando al patibolo, e così via.La macchina del Deep State sta reagendo inondando il web di notizie false costruite a tavolino e condivise da agenti disinformatori e persone ingenue e credulone che in buona fede credono a tutto e sostengono le loro tesi con grinta ed arroganza. Q non ha mai parlato di esecuzioni già avvenute… tutt’altro, ha sempre dichiarato che le cose si devono fare nella trasparenza e legalità e nel rispetto del diritto, e che la Tempesta in atto serve a mostrare alla gente cosa veramente sia il Deep State, perché le parole non basterebbero. Q aggiunge inoltre che le informazioni e i drop che vengono trasmessi sono molto importanti, da maneggiare con cura (Handle with care) facendo capire di non scadere nel sensazionalismo o nella paranoia, come spesso abbiamo visto attraverso “bollettini” di futuri black-out durante i quali si sarebbe fermata ogni cosa sul Pianeta per facilitare gli arresti, cosa che non è mai accaduta, ma divulgata dai soliti ingenui ottenendo un effetto boomerang su tutto il Movimento Q.«Ognuno di noi sa che i processi legati al Pizzagate o il famigerato caso Epstein sono tutt’ora in corso e colpiranno tutti i frequentatori dell’isola dei pedofili, come è stata rinominata la sede dei suddetti incontri, e che quindi tutti i frequentatori, divi di Hollywood e politici di tutto il mondo nonché finanzieri e finti filantropi oggi famosi per strategie vaccinali da imporre al mondo, arriveranno a processo e saranno giudicati per le loro colpe; ma tutto, come dice Q, avverrà attraverso tribunali civili e militari, e il mondo finalmente potrà capire la trama di quello che stiamo tutti vivendo ormai da anni. Il progetto del Nwo è alle sue ultime battute dopo secoli di colpi di Stato, manipolazioni e controllo della finanza mondiale e della comunicazione… non lasciamoci travolgere dai suoi ultimi colpi di coda».(Davide Donateo e The Q Italian Patriot, “Q-Anon, il dovere della serietà”, da “Database Italia” del 7 luglio 2020).Siamo in guerra! Una guerra diversa da quelle a cui siamo stati abituati fino ad oggi, una guerra tra due modi di vedere il mondo, una guerra tra un sistema tiranno che cerca di dare gli ultimi colpi di coda per avere il totale controllo del pianeta e dei suoi abitanti contro un sistema più conservatore che combatte la perversione di questo “drago feroce”. Sappiamo bene che il controllo della popolazione passa da un presupposto fondamentale: Il controllo dell’informazione. Abbiamo parlato più volte di come i 5 gruppi più grossi che controllano il 90% dell’informazione siano stati furbescamente infiltrati, acquisiti nelle loro quote di maggioranza, pilotati e resi funzionali e dipendenti dal “Drago”. Da questo fondamentale presupposto nasce Q. Nell’ottica di questa nuova tipologia di guerra, combattuta a colpi di disinformazione e condizionamento, diventa essenziale un nuovo tipo di esercito, un esercito digitale che sia in grado di veicolare e diffondere le vere notizie, un esercito che diventi megafono delle istanze del popolo ma anche divulgatore del marcio che piano piano viene a galla grazie ai suggerimenti di Q. Per questo nascono i “Q Anon”.
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Wall Street Journal: i soldi per i poveri restano in Vaticano
Mentre Papa Francesco predica contro i mali della disuguaglianza economica e i peccati del capitalismo, la Chiesa cattolica sottrae all’Obolo di San Pietro oltre 50 milioni di dollari l’anno per tappare i buchi del proprio bilancio ormai fuori controllo. E tutto questo, scrove Tyler Durden su “Zero Hedge”, dopo aver pagato, in diversi decenni, oltre 3 miliardi di dollari di risarcimenti nei processi contro i preti pedofili in tutto il mondo. Secondo il “Wall Street Journal”, la maggior parte dei circa 55 milioni di dollari che la Chiesa riceve ogni anno va a «colmare il buco nel bilancio amministrativo del Vaticano, mentre solo il 10% viene speso per opere di beneficenza». Questa assai poco pubblicizzata indiscrezione su come la Santa Sede spenda l’Obolo di San Pietro, «conosciuta solo da alcuni alti funzionari vaticani», secondo il quotidiano statunitense «sta suscitando tra alcuni leader della Chiesa cattolica il timore che i fedeli si sentano ingannati sull’utilizzo delle loro donazioni, cosa che potrebbe danneggiare ulteriormente la credibilità della gestione finanziaria vaticana di Papa Francesco». Eppure, l’Obolo di San Pietro – che raccoglie fondi ogni anno, a fine giugno – viene definito come una iniziativa per i bisognosi: un «gesto di carità, un modo per sostenere l’attività del Papa e della Chiesa Universale per favorire soprattutto i più poveri e le Chiese in difficoltà». È anche «un invito a conoscere e ad essere vicini alla nuove forme di povertà e fragilità».Una sezione del sito web, dedicata alle “opere realizzate” descrive l’utilizzo delle sovvenzioni individuali. Esempio: 100.000 euro in aiuti di prima necessità ai sopravvissuti al terremoto del mese scorso in Albania, 150.000 euro per le persone colpite nel mese di marzo dal ciclone Idai nell’Africa sud-orientale. «Lo scopo della raccolta dell’Obolo di San Pietro è quello di fornire al Santo Padre i mezzi finanziari per rispondere a coloro che soffrono a causa di guerre, oppressioni, calamità naturali e malattie», secondo il sito web della Conferenza Episcopale statunitense. Solo che, negli ultimi cinque anni – scrive Durden, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte” – solo il 10% del denaro raccolto (oltre 55 milioni di dollari nel 2018) è stato realmente destinato alle varie cause benefiche pubblicizzate per sollecitarne la raccolta. Lo affermano «persone che hanno familiarità con la questione», secondo cui «circa i 2/3 dei fondi vengono utilizzati per contribuire a colmare il deficit di bilancio della Santa Sede, in pratica l’amministrazione centrale della Chiesa Cattolica e la rete diplomatica mondiale della stessa Santa Sede». Per il 2018, si parla di un disavanzo di circa 78 milioni di dollari, su una spesa totale di circa 334 milioni.La “riallocazione” delle donazioni di beneficenza – aggiunge Durden – arriva nel momento in cui la Santa Sede sta affrontando un deficit di bilancio in forte espansione che, nell’ammonimento del Papa ai cardinali, potrebbe avere un «grave impatto» sul futuro economico della Chiesa. Papa Francesco era stato eletto nel 2013 anche con il mandato di revisionare le finanze vaticane, «dopo le accuse di corruzione, sprechi e incompetenze», secondo il “Wall Street Journal”. La notizia della cattiva gestione finanziaria del Vaticano «non potrebbe arrivare in un momento peggiore», visto che la Chiesa è alle prese «con uno scandalo legato a dubbi investimenti immobiliari londinesi che hanno portato, nel mese di novembre, al licenziamento del suo principale gestore finanziario, René Brülhart». Scoppiato per la prima volta a ottobre, quest’ultimo scandalo è imperniato sui tentativi della Santa Sede di ottenere un prestito di 110 milioni di dollari) per l’acquisto di proprietà di lusso nel quartiere londinese di Chelsea. Per contro, «i regolamenti vaticani consentono al Papa di usare le donazioni come ritiene più opportuno, anche per sostenere la propria amministrazione». Il patrimonio dell’Obolo ammonta attualmente a circa 600 milioni di euro, «in calo rispetto ai circa 700 milioni dell’inizio dell’attuale pontificato», secondo Durden «in gran parte a causa di investimenti sbagliati».Mentre Papa Francesco predica contro i mali della disuguaglianza economica e i peccati del capitalismo, la Chiesa cattolica sottrae all’Obolo di San Pietro oltre 50 milioni di dollari l’anno per tappare i buchi del proprio bilancio ormai fuori controllo. E tutto questo, scrive Tyler Durden su “Zero Hedge”, dopo aver pagato, in diversi decenni, oltre 3 miliardi di dollari di risarcimenti nei processi contro i preti pedofili in tutto il mondo. Secondo il “Wall Street Journal”, la maggior parte dei circa 55 milioni di dollari che la Chiesa riceve ogni anno va a «colmare il buco nel bilancio amministrativo del Vaticano, mentre solo il 10% viene speso per opere di beneficenza». Questa assai poco pubblicizzata indiscrezione su come la Santa Sede spenda l’Obolo di San Pietro, «conosciuta solo da alcuni alti funzionari vaticani», secondo il quotidiano statunitense «sta suscitando tra alcuni leader della Chiesa cattolica il timore che i fedeli si sentano ingannati sull’utilizzo delle loro donazioni, cosa che potrebbe danneggiare ulteriormente la credibilità della gestione finanziaria vaticana di Papa Francesco». Eppure, l’Obolo di San Pietro – che raccoglie fondi ogni anno, a fine giugno – viene definito come una iniziativa per i bisognosi: un «gesto di carità, un modo per sostenere l’attività del Papa e della Chiesa Universale per favorire soprattutto i più poveri e le Chiese in difficoltà». È anche «un invito a conoscere e ad essere vicini alla nuove forme di povertà e fragilità».
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Ong, l’industria dei Buoni: stipendi da centomila euro l’anno
Sulle Ong in affari e la questione dei migranti il mainstream chiede prove e rincara la dose: «Dobbiamo ringraziare queste organizzazioni che aiutano gli altri, che contribuiscono ad abbattere la povertà e l’analfabetismo», ci stanno ripetendo da qualche giorno in tutte le trasmissione politicizzate della televisione. Eppure, a prescindere dai dettagli sulla questione degli sbarchi, che le organizzazioni no-profit siano per alcuni assolutamente profit è un po’ il segreto di Pulcinella. Anzi, è accertato che ai piani alti del settore stia un business molto remunerativo, caratterizzato da voto di scambio e lauti stipendi. In questi ultimi dieci anni sono diverse le analisi svolte da cooperanti “insider” e giornalisti che hanno denunciato le disparità di trattamento economico nel mondo della cooperazione internazionale; gente come Tarcisio Arrighini, che al tema ha dedicato il libro “Il mercato degli aiuti”, alla veneta Valentina Furlanetto, che ha analizzato i bilanci di Onlus e Ong nel suo approfondimento “L’industria della carità”, scoprendo le montagne di soldi che circolano tra vestitini donati ai poveri, vendita di azalee e persino adozioni di bambini.Beninteso: gli stipendi dei cooperanti sono mediamente più bassi rispetto a chi lavora (sempre mediamente) nel mondo del “profit”. Vi è anche maggiore precarietà, visto che alcune attività richieste dalle associazioni sono legate al periodo, all’emergenza e, quindi, alla stagionalità. Ma nel mondo di Onlus, Ong e della cooperazione in generale non vi sono solo gli operatori semiprofesssionali e i volontari. Curiosando nel sito “Open-cooperazione”, ad esempio, si possono vedere alcune statistiche sugli stipendi del terzo settore nel 2015, dalle quali emerge come stipendio più alto registrato tra gli associati italiani del sito la cifra di 103.200 euro. Niente male, per un manager che si occupa di poveretti… Il punto da capire è questo: le organizzazioni che fanno volontariato all’estero cercano e ottengono tutta una serie di fondi, da quelli pubblici a quelli privati, anche tramite il meccanismo del “fundraising”, per il quale spesso gli organizzatori frequentano anche dei corsi di formazione.Mentre l’operatore riceve stipendi nella media o sotto la media – e spesso, soprattutto se novizio, lavora gratis magari in cambio di qualche benefit (viaggi pagati, ecc) – i manager che organizzano la struttura del servizio guadagnano una percentuale sui progetti che vengono presentati ai grandi finanziatori. E’ dunque evidente che se il finanziatore ritiene che il progetto che l’organizzatore gli presenta può essere buono in termini di “posizionamento”, immagine e indotto, può decidere di conferire altissime cifre, anche milioni di euro. Con oltre 40.000 associazioni non governative, quasi un migliaio di organizzazioni governative internazionali, milioni di milioni di capitali pubblici e privati mossi, non possiamo più fingere di non vedere che profughi e rifugiati non fanno altro che aumentare al pari del numero dei poveri, dato che la povertà si misura in rapporto alla differenza con la ricchezza. E non sarà certo l’aumento del numero delle organizzazioni, governative o non governative, o dell’entità dei finanziamenti, pubblici o privati, la strada che ci condurrà verso la soluzione.Chi afferma il contrario o non ha ben compreso di cosa si sta parlando o sta sognando. Sentite cosa scriveva “Repubblica” nel 2013 (oggi ha cambiato liena editoriale): «Amnesty International ha concesso una buonuscita d’oro al suo ex-segretario generale, Irene Khan, che ha ricevuto una liquidazione di 500 mila sterline (circa 600 mila euro), apparentemente più del doppio di quanto inizialmente stabilito dal suo contratto. Sempre Amnesty ha organizzato un evento per la raccolta di fondi di beneficenza l’anno scorso a New York con ospiti del calibro della rock band Coldplay e dell’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, finendo per spendere di più di quanto ha incassato: un “buco” da 750 mila sterline (900 mila euro). Save The Children, per parte sua, avrebbe evitato di criticare uno dei suoi maggiori donatori e sponsor, la British Gas, azienda fornitrice di servizi alla popolazione britannica, per le bollette troppo alte, a detta di molti commentatori, imposte alle famiglie del Regno Unito. E infine si è scoperto che Comic Relief, l’organizzazione che fa mettere un “naso rosso” da clown ai suoi rappresentanti e finanziatori, investe milioni di sterline in fondi di investimento che acquistano tra l’altro azioni di aziende che producono armamenti, alcolici e tabacco, non proprio il massimo per un’associazione che sostiene la pace e le iniziative benefiche per l’infanzia».(Massimo Bordin, “Quanto si guadagna in una Ong?”, post apparso su “Micidial” il 29 aprile 2017 e ora rilanciato dall’autore, alla luce delle recenti polemiche italiane su migranti e Ong).Sulle Ong in affari e la questione dei migranti il mainstream chiede prove e rincara la dose: «Dobbiamo ringraziare queste organizzazioni che aiutano gli altri, che contribuiscono ad abbattere la povertà e l’analfabetismo», ci stanno ripetendo da qualche giorno in tutte le trasmissione politicizzate della televisione. Eppure, a prescindere dai dettagli sulla questione degli sbarchi, che le organizzazioni no-profit siano per alcuni assolutamente profit è un po’ il segreto di Pulcinella. Anzi, è accertato che ai piani alti del settore stia un business molto remunerativo, caratterizzato da voto di scambio e lauti stipendi. In questi ultimi dieci anni sono diverse le analisi svolte da cooperanti “insider” e giornalisti che hanno denunciato le disparità di trattamento economico nel mondo della cooperazione internazionale; gente come Tarcisio Arrighini, che al tema ha dedicato il libro “Il mercato degli aiuti”, alla veneta Valentina Furlanetto, che ha analizzato i bilanci di Onlus e Ong nel suo approfondimento “L’industria della carità”, scoprendo le montagne di soldi che circolano tra vestitini donati ai poveri, vendita di azalee e persino adozioni di bambini.
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Notre-Dame, la pista dei soldi: per trovarli serviva l’incendio
Subito dopo l’incendio di Notre-Dame, accanto alla tesi ufficiale dell’incidente casuale hanno cominciato ad accavallarsi anche le ipotesi complottiste: c’era chi parlava di una mossa di Macron per riunificare la popolazione francese in un momento di forti divisioni sociali, e chi è andato a spulciare tra i possibili simbolismi esoterici di quella chiesa per cercare il significato nascosto di quell’incendio. C’è chi ha tirato fuori le profezie del vescovo Irlmaier, che parlava della grande città con la torre in fiamme. E c’è naturalmente chi ha cercato di gettarla sulle guerre tra religioni, ipotizzando un attacco alle chiese cattoliche da parte dell’Islam (e ovviamente Rita Katz del “Site” non ha perso l’occasione per gettare benzina sul fuoco, facendoci subito sapere che i jihadisti avevano esultato per l’incendio di Notre-Dame). Insomma, nell’arco di poche ore è uscita tutta la gamma di opzioni possibili, che andavano dal puro incendio casuale fino alle tesi complottistiche più contorte ed esasperate.C’è solo una ipotesi che non mi sembra sia stata molto esplorata, ed è l’ipotesi dei soldi. La chiesa di Notre-Dame è di proprietà dello Stato, che deve mantenerla in buone condizioni. E il budget per le ristrutturazioni intraprese era enorme. Ma a quanto pare, di soldi per mandarle avanti non se ne trovavano. Ascoltate bene questo telegiornale di oggi, 16 aprile, e vediamo se fra le righe delle varie notizie riusciamo a trovare il filo della matassa: «La chiesa più famosa di Francia versava da anni in pessime condizioni: poca manutenzione, strutture quasi pericolanti. I luoghi di culto, secondo una legge del 1905, appartengono allo Stato, che li confiscò alla Chiesa: una conseguenza, questa, dell’atteggiamento laicista della repubblica francese. Dunque Notre-Dame non appartiene al Vaticano ma allo Stato, che non ha colpevolmente curato – come avrebbe dovuto – questo suo patrimonio storico. Lo scorso anno erano stati stanziati 2 milioni di euro per i primi restauri: una goccia nell’oceano, poiché il restauro totale avrebbe avuto un costo di almeno 150 milioni. Qualche tempo fa il governo aveva proposto di istituire una lotteria di beneficenza per recuperare fondi per i restauri delle chiese: una proposta che suona ora come una beffa».Allora, la chiesa versava da anni in pessime condizioni. La ristrutturazione sarebbe costata almeno 150 milioni di euro. Finora ne avevano trovati soltanto 2, ed erano addirittura arrivati a pensare ad una lotteria di beneficenza per tirare su i soldi del restauro. E adesso guarda un po’ cosa è successo: arriva l’incendio, tutto il mondo si commuove, i parigini piangono per le strade, e cominciano a piovere donazioni dappertutto. Solo con le donazioni arrivate nelle prime 24 ore hanno già superato di diverse volte il budget necessario. La famiglia Pinault, che controlla marchi come Gucci e Balenciaga, ha già donato 100 milioni di euro. La Louis Vuitton, che controlla Fendi, Bulgari e Christian Dior, ha subito raddoppiato la posta, donando 200 milioni di euro. La famiglia Bettencourt, che controlla il colosso dei cosmetici L’Oréal, ha annunciato altri 200 milioni di euro in arrivo. E la gara ormai è aperta a chi fa più bella figura. Entro domani supereranno il miliardo di euro, e andranno avanti a raccogliere soldi per diversi giorni. Con tutti quei soldi, i francesi di cattedrali ne faranno quattro, completamente nuove. E in più aggiusteranno anche tutte le strade di Francia, da Parigi fino alla Normandia. Guarda, a volte, i miracoli che può fare un mozzicone acceso, dimenticato nel posto giusto al momento giusto.(Massimo Mazzucco, video-intervento “Notre-Dame: la pista dei soldi”, pubblicato su “Luogo Comune” il 16 aprile 2019).Subito dopo l’incendio di Notre-Dame, accanto alla tesi ufficiale dell’incidente casuale hanno cominciato ad accavallarsi anche le ipotesi complottiste: c’era chi parlava di una mossa di Macron per riunificare la popolazione francese in un momento di forti divisioni sociali, e chi è andato a spulciare tra i possibili simbolismi esoterici di quella chiesa per cercare il significato nascosto di quell’incendio. C’è chi ha tirato fuori le profezie del vescovo Irlmaier, che parlava della grande città con la torre in fiamme. E c’è naturalmente chi ha cercato di gettarla sulle guerre tra religioni, ipotizzando un attacco alle chiese cattoliche da parte dell’Islam (e ovviamente Rita Katz del “Site” non ha perso l’occasione per gettare benzina sul fuoco, facendoci subito sapere che i jihadisti avevano esultato per l’incendio di Notre-Dame). Insomma, nell’arco di poche ore è uscita tutta la gamma di opzioni possibili, che andavano dal puro incendio casuale fino alle tesi complottistiche più contorte ed esasperate.
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Bamiyan, Babilonia, Palmira. E adesso anche Notre-Dame
I Budda di Bamiyan erano stati distrutti da una setta intollerante che si dichiarava seguace dell’Islam. I buddisti in tutta l’Asia avevano pianto. L’Occidente non se ne era quasi neanche accorto. Quello che restava delle rovine di Babilonia e il museo annesso erano stati occupati, saccheggiati e vandalizzati dall’installazione di una base dei marines americani durante l’operazione “Shock and Awe”, nel 2003. L’Occidente non ci aveva fatto caso. Una vasta area di Palmira, la leggendaria oasi sulla Via della Seta, era stata distrutta da un’altra setta intollerante, che fingeva di seguire l’Islam mentre veniva protetta, a più livelli, dall’“intelligence” occidentale. L’Occidente aveva fatto finta di non vedere. In Siria, decine di chiese cattoliche e ortodosse erano state rase al suolo dalla stessa setta intollerante che fingeva di seguire l’Islam, sponsorizzata e armata, tra gli altri, dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dalla Francia. L’Occidente non ci aveva neanche fatto caso. Notre-Dame, che per più aspetti può essere considerata il simbolo dell’Occidente, è stata parzialmente consumata da un fuoco teoricamente cieco. In modo particolare il tetto, centinaia di travi di quercia, alcune risalenti al 13° secolo. Metaforicamente, questo potrebbe essere interpretato come l’incendio del tetto sulla collegialità dell’Occidente. Cattivo karma? Finalmente?Ed ora veniamo al sodo. Notre-Dame appartiene allo Stato francese, che aveva prestato poca o nessuna attenzione ad un gioiello gotico sopravvissuto per otto secoli. Frammenti di arcate, chimere, rilievi, gargoyle cadevano in continuazione a terra e venivano conservati in un deposito improvvisato nella parte posteriore della cattedrale. Solo l’anno scorso, Notre-Dame aveva ottenuto un finanziamento di 2 milioni di euro per il restauro della guglia, che ieri è bruciata fino a crollare. Il ripristino dell’intera cattedrale sarebbe costato 150 milioni di euro, secondo il massimo esperto mondiale di Notre-Dame, che sembrerebbe essere un americano, Andrew Tallon. Recentemente, i custodi della cattedrale e lo Stato francese erano arrivati ai ferri corti. Lo Stato francese incassava almeno 4 milioni di euro l’anno, facendo pagare ai turisti il biglietto per l’ingresso ai campanili gemelli, reinvestendo però solo 2 milioni di euro per il mantenimento di Notre-Dame. Il rettore di Notre-Dame si era rifiutato di far pagare il biglietto d’ingresso alla cattedrale, come succede, per esempio, nel duomo di Milano.Notre-Dame sopravvive, essenzialmente, grazie alle donazioni, che servono a pagare gli stipendi a meno di 70 dipendenti, che devono non solo sorvegliare l’afflusso dei turisti, ma anche organizzare otto messe al giorno. La proposta dello Stato francese è quella di minimizzare la catastrofe organizzando una lotteria di beneficenza. Proprio così, privatizzare quello che è un impegno e un obbligo dello Stato. Quindi sì: Sarkozy e Macron e tutte le loro amministrazioni sono, direttamente e indirettamente, responsabili dell’incendio. Ora sta per arrivare la Notre-Dame dei miliardari. Pinault (Gucci, St. Laurent) ha promesso 100 milioni di euro del suo patrimonio personale per il restauro. Arnault (Louis Vuitton Moet Hennessy) ha raddoppiato, impegnandosi per 200 milioni di euro. Quindi, perché non privatizzare questo maledetto pezzo di raffinata proprietà immobiliare, in perfetto stile capitalismo dei disastri? Benvenuti nell’esclusivo condominio Notre-Dame, hotel e centro commerciale annessi.(Pepe Escobar, “Bamyian, Babilonia, Palmira, Notre-Dame”, da “The Saker” del 16 aprile 2019, tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”).I Budda di Bamiyan erano stati distrutti da una setta intollerante che si dichiarava seguace dell’Islam. I buddisti in tutta l’Asia avevano pianto. L’Occidente non se ne era quasi neanche accorto. Quello che restava delle rovine di Babilonia e il museo annesso erano stati occupati, saccheggiati e vandalizzati dall’installazione di una base dei marines americani durante l’operazione “Shock and Awe”, nel 2003. L’Occidente non ci aveva fatto caso. Una vasta area di Palmira, la leggendaria oasi sulla Via della Seta, era stata distrutta da un’altra setta intollerante, che fingeva di seguire l’Islam mentre veniva protetta, a più livelli, dall’“intelligence” occidentale. L’Occidente aveva fatto finta di non vedere. In Siria, decine di chiese cattoliche e ortodosse erano state rase al suolo dalla stessa setta intollerante che fingeva di seguire l’Islam, sponsorizzata e armata, tra gli altri, dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dalla Francia. L’Occidente non ci aveva neanche fatto caso. Notre-Dame, che per più aspetti può essere considerata il simbolo dell’Occidente, è stata parzialmente consumata da un fuoco teoricamente cieco. In modo particolare il tetto, centinaia di travi di quercia, alcune risalenti al 13° secolo. Metaforicamente, questo potrebbe essere interpretato come l’incendio del tetto sulla collegialità dell’Occidente. Cattivo karma? Finalmente?
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Pietà per Michael Jackson, viveva come se fosse già morto
A dieci anni dalla morte di Michael Jackson, un film in uscita mette a soqquadro la memoria della pop star e getta lunghe ombre di pedofilia sulla sua controversa figura. Due ex-adolescenti lo accusano di abusi sessuali e il mondo nuovamente si divide tra i suoi perduranti fan e i suoi detrattori, i suoi famigliari e i suoi accusatori, mentre fioccano denunce e querele. Non entrerò nel merito della questione, ma mi soffermerò sul mito di questo cantante. Quando morì, nel 2009, Michael Jackson era già morto da tempo immemorabile e passava la sua vita di cadavere ad amministrare la sua sontuosa decomposizione, il suo mito e le sue apparizioni. Mandava videoclip dall’aldilà, a volte canzoni, spargeva aneddoti e immagini sconcertanti, in una danza scatenata, musicale e farmaceutica, sanitaria e giudiziaria, intorno alla sua bara. Studiava da morto da parecchi anni, annunciava tumori e paralisi, simulava morti e resurrezioni, e dissimulava le malattie troppo banali come la vitiligine, esibiva mutazioni raccapriccianti e malattie genetiche esclusive, come si addice agli dei; ma la sua divinità non sprigionava l’aura dell’immortalità, era una morte prolungata per ripararsi dalla vita, le sue offese e le sue invadenze.Non era mai capitato ma ci fu un mercato nero per procurarsi a caro prezzo un invito ai suoi funerali; e mai espressione come mercato nero fu più azzeccata per indicare un traffico di soldi illeciti intorno al funerale di un nero pentito. Funerali rinviati per gestire la gigantesca dimensione del cordoglio, a più di dieci giorni dalla morte. Fu un’icona e un prototipo di chi si rivolge alla tecnica e ai farmaci per manipolare la vita e risolvere i problemi che un tempo affidava alla religione, alla filosofia e al mito. Non esprimo giudizi morali di condanna per la sua vita né giudizi musicali di celebrazione davanti al suo corpo irriconoscibile, al suo naso ridotto ad una presa elettrica, alle sue labbra simili alla fessura di un bancomat, a un viso sfigurato che perde quel che Lévinas riteneva essere l’inalterabile specificità di una persona: il volto. Non aveva volto, Jackson. Quel che gli era rimasto addosso era una specie di mascherina estetico-funeraria, un incrocio tra il visage dall’estetista e la cera mortuaria da obitorio. Non voglio soffermarmi sulle accuse di pedofilia che lo hanno accompagnato anche in vita e tantomeno abbracciare gli alibi dei suoi fan che ebbe un’infanzia difficile e da ricco finanziò opere benefiche in favore dell’infanzia.Sbianchettandosi in quel modo orrendo tradì la sua identità e quella di tutti i neri della terra. Offese la negritudine. Quel suo essere un Ogm umano, geneticamente modificato per sfuggire alla sua identità, quel suo razzismo biologico, masochista, contro la sua origine, suscita un’infinita, irredimibile pietà. Quel suo stuprarsi la vita, resettare l’origine e la memoria, rivelava pena e strazio di vivere. E la sua immensa ricchezza, la sua straordinaria fama, non alleviavano quella pena, semmai la ingigantivano, la facevano più clamorosa e cosmica, fino a renderlo il testimonial planetario della condizione umana che volta le spalle al cielo e alla terra, cioè alla vita e all’immortalità, per vivere una gloriosa parodia di morte prolungata, uno spettacolo di agonia anestetizzata. Alla sua morte pensarono di asportargli il cervello per capire di che era morto. Ma al di là del referto medico, chi studia l’animo umano in rapporto alla vita e al suo svanire già lo sa. Jackson è morto di rifiuto della condizione umana e terrena, rifiuto della realtà, del mondo, orrore della vita e dei suoi limiti, ricusazione del fato.È martire della società postumana, transgenica e transumana, che si illude di sopravvivere alla vita rinunciando a viverla, che si sottrae agli urti, all’invecchiamento e alla realtà per preservarsi pura e incontaminata in una surreale esistenza asettica che coincide con un’eutanasia. Fuori dall’età che avanza, fuori dal mondo. Terrore di contatti con gli umani. Odori umani troppo umani, schifo per le cose e per i cibi, cordone sanitario per ripararsi dalla vita e da quella rude e primitiva verità che è la natura. Figli nati senza incontro carnale, senza eros; della vita resta solo un’icona incorporea. E per sottrarsi alle passioni umane, analgesici e anoressia. Jackson era la proiezione su maxischermo di una condizione mentale diffusa tra chi vuol modificare la sua vita e allontanarsi dalla natura, dalla finitudine, dal declino: tatuaggi e chirurgie, pillole e lifting, alcol e droga, diete e radicali modifiche del proprio look, perché si soffre la propria identità, voglia di autocrearsi e di sottrarsi al carcere del proprio corpo. Antiche eresie, religioni gnostiche degenerate, paradisi artificiali che somigliano all’inferno. La cura di sé sfocia nell’imbalsamazione già da vivo.Il suo simulacro è quella cassa a ossigeno scelta per la toilette funeraria. E la sua location più appropriata era quella sua villa che si chiamava non a caso Neverland e che, non a caso, non riescono a vendere. La terra che non c’è per una vita che non c’era. Neverlife. Il simbolo più efferato di questa condizione postumana è il suo stomaco: era vuoto di cibi e pieno di pillole e sostanze contro il dolore, contro la depressione, contro l’ansia, contro i contagi. Nel suo stomaco si raccoglieva come un’urna il male occidentale, i suoi fantasmi, la sua paura di invecchiare, di morire, di soffrire, di contagiarsi, di finire in solitudine e di restare incarcerati nei limiti della condizione umana. Un rifiuto del destino, un odio del fato, che è stato fatale. Neverlife è l’epitaffio più sensato per titolare la compilation della sua vita. Ha speso la vita a organizzare il suo funerale. Non infierite ora a dieci anni dalla morte riesumando la sua vera o presunta pedofilia. Abbiate pietà di quell’uomo che si inflisse già da morto la pena di una vita sontuosa in fuga da se stesso, dal mondo, dagli umani.(Marcello Veneziani, “Michael Jackson, il nero pentito”, da “La Verità” del 17 marzo 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).A dieci anni dalla morte di Michael Jackson, un film in uscita mette a soqquadro la memoria della pop star e getta lunghe ombre di pedofilia sulla sua controversa figura. Due ex-adolescenti lo accusano di abusi sessuali e il mondo nuovamente si divide tra i suoi perduranti fan e i suoi detrattori, i suoi famigliari e i suoi accusatori, mentre fioccano denunce e querele. Non entrerò nel merito della questione, ma mi soffermerò sul mito di questo cantante. Quando morì, nel 2009, Michael Jackson era già morto da tempo immemorabile e passava la sua vita di cadavere ad amministrare la sua sontuosa decomposizione, il suo mito e le sue apparizioni. Mandava videoclip dall’aldilà, a volte canzoni, spargeva aneddoti e immagini sconcertanti, in una danza scatenata, musicale e farmaceutica, sanitaria e giudiziaria, intorno alla sua bara. Studiava da morto da parecchi anni, annunciava tumori e paralisi, simulava morti e resurrezioni, e dissimulava le malattie troppo banali come la vitiligine, esibiva mutazioni raccapriccianti e malattie genetiche esclusive, come si addice agli dei; ma la sua divinità non sprigionava l’aura dell’immortalità, era una morte prolungata per ripararsi dalla vita, le sue offese e le sue invadenze.
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La fantasia al potere, per davvero: cent’anni fa, a Fiume
Vi propongo la trama di un film per celebrare un fantasioso centenario. Un poeta rimasto orbo, reduce da imprese eroiche e spettacolari come la trasvolata su Vienna o la Beffa di Buccari, marcia su Fiume con poeti, letterati, musicisti, donne e soldati. Il mondo lo osserva curioso. Lui progetta la marcia su Fiume dalla casetta rossa di Venezia, dove riceve donne e ufficiali, e poi arriva in Istria nel settembre del 1919 con un’auto scoperta, il monocolo e i legionari al seguito. La compagnia che lo segue è di personaggi straordinari. Giovani letterati come Giovanni Comisso, Henri Furst, Raffaele Carrieri, ufficiali come l’ebreo russo polacco Leòn Kochnitsky, di nascita belga, nordico affascinato dalla solarità mediterranea, musicista e letterato; o un ufficiale che ha compiuto imprese folli come Guido Keller che lanciò in una trasvolata un pitale su Montecitorio e fiori sul Vaticano e per la regina sul Quirinale; vive nudo e sfrenato a Fiume, defeca da un albero, ha una dieta assurda, fa amore di gruppo. A Fiume nasce lo Yoga, associazione trasgressiva di spiriti liberi, tra ladri, prostitute, tossicomani. Ha come simbolo la svastica ma nel verso tradizionale, opposta a quella che sarà poi del nazismo. E progetta il castello d’Amore, dove simulare feste medievali con donne e soldati.Il rituale politico-cameratesco annuncia il fascismo ma Mussolini è freddo e scettico sull’impresa fiumana perché la considera velleitaria; e il poeta lo attacca sul suo stesso “Popolo d’Italia”, lo accusa d’avere paura e di tradire la Vittoria. A Fiume arrivano un po’ tutti, Guglielmo Marconi a bordo del suo bianco yacht Elettra, e poi torna per divorziare, consigliato da Mussolini, perché a Fiume è facile separarsi: Toscanini con la sua orchestra fa concerti devolvendo gli incassi ai poveri; Filippo Tommaso Marinetti, accolto trionfalmente, si produce in vari discorsi show; arrivano ufficiali giapponesi, belgi e ungheresi che diventano legionari fiumani. Difende Fiume anche Gramsci da chi lo presenta come «un luogo di bestialità, prepotenza, possesso di donne»; anche Lenin è affascinato da Fiume. Per la prima volta partecipano all’impresa alcune donne, come Fiammetta, pseudonimo di una nobildonna milanese, Margherita Besozzi; o donna Ninetta, splendida moglie dell’aviatore Casagrande, bionda ed elegante contessa; ragazze in grigioverde e qualche prostituta. A Fiume si svolgono convegni suggestivi notturni al chiarore delle fiaccole, baccanali in spiaggia, feste dionisiache con vino, donne, sesso e cocaina, “la polvere folle” del Poeta.Battaglie simulate, orge in costume, soldati inghirlandati, che danzano e vestono in modo stravagante, si fanno crescere barba e capelli o se li rasano a zero, e fondano la Congregazione del Pelo. Lui guerrafondaio inventa lo slogan pacifista “mettete dei fiori nei vostri cannoni”, infilando un fiore nel moschetto e parlando di fiori e libero amore. Ci sono gli animalisti, un ufficiale gira con una volpe al guinzaglio, Keller vive con un’aquila e si presenta alla mensa con un pappagallo sul petto; una volta carica sul velivolo un asino… Spopola a Fiume un romanzo futurista, “L’isola dei baci”, ambientato a Capri, di Corra e Marinetti, dove si immagina il primo gay pride, un congresso di omosessuali il cui motto è “raffinati di tutto il mondo unitevi”. Importanti sono i diari fiumani, come quello di Comisso che descrive Fiume come «una città in amore», in cui «tutti si diedero a un godimento irruente». Il Comandante rimprovera gli eccessi sessuali dei legionari, ma ha varie avventure erotiche a Fiume (si auto-definì “porco con le ali”, antesignano di Lidia Ravera).Da una porticina segreta faceva entrare una canzonettista chiamata Lilì di Montresor, che poi ripartiva con ben 500 lire in borsetta; o una donna sensuale e selvaggia chiamata Barbarella nei suoi Taccuini, una quindicenne per lui 53enne, “Bianca, la piccola”, “Gr, Bruna e molle”, una maestrina di Merano. Nella sala del comando, racconta Nino d’Aroma, passarono «molte donne di tutta Europa, vecchi amori, spente fiamme e nuove conquiste». Leggendaria la nascita del profilattico a Fiume battezzato Habemus Tutorem, poi noto come Hatù (ma un’altra versione attribuisce il nome nientemeno che al cardinal Nasalli Rocca). Arrivano a Ronchi pure i frati modernisti, che disobbediscono alla chiesa per seguire il patriottismo del Comandante, espongono alla finestra del monastero il motto dannunziano “Hic manebimus optime” e alla fine sette cappuccini abbandonano il saio. L’amministratore apostolico di Fiume, don Celso Costantini, accusa il poeta di paganesimo. La reggenza del Carnaro, col sindacalista Alceste de Ambris, dura sedici mesi, da settembre al Natale dell’anno dopo. Poi sarà cannoneggiata.Provano prima con le trattative e le promesse – c’è anche Badoglio, mandato dal presidente del consiglio Nitti, detto dal Poeta il “Cagoja” – poi sarà Giolitti a far bombardare Fiume e costringere alla resa. L’ultimo discorso del Comandante a Fiume si conclude con un Viva l’Amore. Quasi un promo del ’68, degli hippy e un riassunto delle rivoluzioni, da quella fascista a quella sovietica, che allora il Vate ammirava (sognava un comunismo senza dittatura, libertario, aristocratico, anarchico e nazionalista). Insomma un microcosmo-manicomio di utopisti, sognatori e velleitari. Un film d’immaginazione, ma la storia è vera, come il mitico Comandante-Poeta. Cent’anni fa la fantasia andò davvero al potere, ma non vi restò molto. Ps: il poeta in questione, l’avrete capito, è Gabriele d’Annunzio, su cui ieri si è aperta una mostra al Vittoriale. Sulla sua impresa fiumana uscirà tra un paio di settimane un’opera ponderosa di Giordano Bruno Guerri. Anni fa Tinto Brass e Pasquale Squitieri mi proposero di scrivere la sceneggiatura di un film dedicato a D’Annunzio a Fiume. Eccone l’abbozzo postumo…(Marcello Veneziani, “La fantasia al potere, cent’anni fa”, da “La Verità” del 10 marzo 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani. Nell’appendice storiografica del romanzo “Il volo del pellicano”, pubblicato da Melchisedek nel 2016, Gianfranco Carpeoro svela la profonda motivazione dell’impegno civile di D’Annunzio, grande poeta e fine letterato: è stato il terz’ultimo “Ormùs” – gran maestro – dei Rosa+Croce, leggendaria confraternita sapienziale di natura iniziatica; i successori di D’Annunzio sarebbero stati l’artista francese Jean Cocteau e poi il genio surrealista spagnolo Salvador Dalì; poi i Rosa+Croce si sarebbero eclissati, in realtà per effetto di una decisione programmata già dai tempi della conferenza di Yalta, dove emersero i germi della futura guerra fredda e del conflitto israelo-palestinese, concepito per colonizzare militarmente il Medio Oriente petrolifero. L’ispirazione “rosacrociana” è evidente nella Carta del Carnaro, in vigore nell’effimera reggenza dannunziana di Fiume: a detta degli storici resta la Costituzione più avanzata – la più moderna, democratica e rivoluzionariamente libertaria che sia mai stata varata, nel mondo. Non è strano, sottolinea Carpeoro: i Rosa+Croce sono i progenitori culturali del socialismo, avendo “firmato” già nel ‘600 opere come “Christianopolis” di Johann Valentin Andreae, “Utopia” di Tommaso Moro e “La Città del Sole” di Tommaso Campanella, tutte ispirate dal sogno di un mondo più giusto).Vi propongo la trama di un film per celebrare un fantasioso centenario. Un poeta rimasto orbo, reduce da imprese eroiche e spettacolari come la trasvolata su Vienna o la Beffa di Buccari, marcia su Fiume con poeti, letterati, musicisti, donne e soldati. Il mondo lo osserva curioso. Lui progetta la marcia su Fiume dalla casetta rossa di Venezia, dove riceve donne e ufficiali, e poi arriva in Istria nel settembre del 1919 con un’auto scoperta, il monocolo e i legionari al seguito. La compagnia che lo segue è di personaggi straordinari. Giovani letterati come Giovanni Comisso, Henri Furst, Raffaele Carrieri, ufficiali come l’ebreo russo polacco Leòn Kochnitsky, di nascita belga, nordico affascinato dalla solarità mediterranea, musicista e letterato; o un ufficiale che ha compiuto imprese folli come Guido Keller che lanciò in una trasvolata un pitale su Montecitorio e fiori sul Vaticano e per la regina sul Quirinale; vive nudo e sfrenato a Fiume, defeca da un albero, ha una dieta assurda, fa amore di gruppo. A Fiume nasce lo Yoga, associazione trasgressiva di spiriti liberi, tra ladri, prostitute, tossicomani. Ha come simbolo la svastica ma nel verso tradizionale, opposta a quella che sarà poi del nazismo. E progetta il castello d’Amore, dove simulare feste medievali con donne e soldati.
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Bifarini: dove sono finiti i miliardi di dollari di aiuti all’Africa?
Ingenti prestiti da parte delle organizzazioni finanziarie internazionali, consistenti sgravi del debito statale, fondi raccolti da iniziative private, che hanno mobilitato tutti, dai singoli cittadini occidentali attraverso forme organizzate di beneficenza alle star dello spettacolo, che si sono spese per i diritti dei più deboli attraverso concerti ed esibizioni. Fiumi di miliardi di dollari che non sembrano aver intaccato per nulla il problema del sottosviluppo e della povertà endemica del Terzo Mondo. Anzi. E’ stato riscontrato che, dalla metà degli anni Novanta, circa 60 paesi in via di sviluppo siano diventati più poveri in termini di reddito pro-capite rispetto a 15 anni prima. Entro il 2030 i due terzi dei poveri di tutto il mondo proveranno dall’Africa. L’Africa dunque è sempre più povera, ma di una povertà nuova rispetto a quella del passato coloniale. Il continente africano annovera infatti i paesi con i più alti livelli di disuguaglianza al mondo, in cui il divario tra una ristretta élite dedita al lusso e il resto della popolazione che vive in uno stato di miseria è abissale. Dunque, cosa non ha funzionato? Dove sono finiti i fiumi di miliardi di dollari?La risposta in realtà è alquanto intuitiva: hanno seguito la stessa corrente che trascina la ricchezza collettiva su scala mondiale. Sono finiti in conti offshore, hanno arricchito a dismisura élite locali consenzienti e complici dei grandi speculatori internazionali e soprattutto hanno arricchito loro, i Signori del debito. Dopo essere finita nella spirale micidiale dei prestiti per il pagamento del debito e degli interessi maturati su di esso a seguito della crisi del debito del 1982 che ha coinvolto i paesi del Terzo Mondo, l’Africa post coloniale ha definitivamente perso ogni possibilità di sviluppo. Si stima che per ogni dollaro preso a prestito da banche e organizzazioni finanziarie internazionali ne abbia restituiti 13! Un Piano Marshall al contrario, che ha dirottato i soldi stanziati per il Terzo Mondo verso i finanziatori del debito del Primo Mondo. La stessa depredazione da parte della finanza attraverso l’arma del debito che sta oggi asfissiando il nostro paese (in 20 anni abbiamo pagato ben 1700 miliardi di euro di soli interessi!).Il passaggio dal colonialismo imperialista al post-colonialismo del debito è stato brutale per il Continente Nero e ha soffocato quei timidi tentativi di sviluppo economico nazionale avviati attraverso la politica di sostituzione delle importazioni. Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale sono intervenuti attraverso i cosiddetti “programmi di aggiustamento strutturale” (Pas): in cambio di prestiti e assistenza hanno imposto il controllo economico, monetario e politico dell’Africa. Contravvenendo a ogni logica e a ogni esempio di percorso di sviluppo economico nazionale, hanno imposto l’apertura incondizionata alle liberalizzazioni e al libero scambio a paesi che non avevano ancora avviato la creazione di un tessuto industriale e produttivo su base locale. Il modello coercitivamente introdotto ha previsto l’utilizzo dei prestiti per incentivare le esportazioni, senza nessun investimento nello sviluppo tecnologico e del capitale umano, al fine di ottemperare gli oneri del debito.Sono state abolite tutte le forme di protezionismo necessarie a tutelare l’economia locale e sfruttare le potenzialità di sviluppo industriale nazionale. Così in Ghana nel 2002 sono state abolite le tariffe sull’importazione di prodotti alimentari, con una conseguente impennata di importazioni di prodotti alimentari dall’Unione Europea, come i famosi scarti di pollo congelati che costano un terzo di quelli prodotti localmente. Nello Zambia l’abolizione dei dazi sulle importazioni dei capi di abbigliamento ha soffocato una piccola rete di ditte locali a favore delle importazioni dei capi di abbigliamento usati dall’Occidente. I programmi del Fondo Monetario hanno inoltre imposto tagli alla spesa sanitaria e all’istruzione, i cui livelli erano già molto carenti, e la privatizzazione di servizi pubblici essenziali – come la fornitura idrica- in gran parte dei paesi. Sebbene le due istituzioni di Bretton Woods (Fmi e Bm) abbiano spesso imputato la causa dell’evidente fallimento dei propri “piani di aggiustamento strutturale” al fenomeno radicato della corruzione dei governanti africani, il loro coinvolgimento è ineludibile.Così, nonostante fosse risaputa l’indole cleptomane di Mobutu nello Zaire, che rubò oltre la metà degli aiuti economici ricevuti dal paese, essi continuarono a concedergli prestiti. Non a caso i programmi di privatizzazione del Fondo Monetario sono altresì conosciuti come “programmi di tangentizzazione”. Gran parte di questi fondi sono finiti nelle offshore, dove gran parte dei trilioni di denaro sporco che ogni anno vengono versati provengano dal Terzo Mondo. In questo immenso flusso di denaro «è stato stimato che almeno metà dei fondi presi in prestito dai principali debitori siano tornati indietro dalla porta di servizio, di solito nello stesso anno – se non nello stesso mese – in cui arrivano prestiti» (James S. Henry, “Where the money went”). Non dobbiamo dunque stupirci se la povertà e sottosviluppo dell’Africa sono peggiorati e se al flusso di denaro fanno seguito gli attuali flussi migratori di esseri umani. Il colonialismo mondiale del debito prevede anche questo.(Ilaria Bifarini, “Dove sono finiti i miliardi di dollari degli aiuti all’Africa?”, dal blog della Bifarini del 13 luglio 2018. L’economista Bifarini, che si autodefinisce “bocconiana redenta”, è autrice di saggi sulla catastrofe del neoliberismo e del recentissimo lavoro “I coloni dell’austerity”, ovvero “Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”).Ingenti prestiti da parte delle organizzazioni finanziarie internazionali, consistenti sgravi del debito statale, fondi raccolti da iniziative private, che hanno mobilitato tutti, dai singoli cittadini occidentali attraverso forme organizzate di beneficenza alle star dello spettacolo, che si sono spese per i diritti dei più deboli attraverso concerti ed esibizioni. Fiumi di miliardi di dollari che non sembrano aver intaccato per nulla il problema del sottosviluppo e della povertà endemica del Terzo Mondo. Anzi. E’ stato riscontrato che, dalla metà degli anni Novanta, circa 60 paesi in via di sviluppo siano diventati più poveri in termini di reddito pro-capite rispetto a 15 anni prima. Entro il 2030 i due terzi dei poveri di tutto il mondo proveranno dall’Africa. L’Africa dunque è sempre più povera, ma di una povertà nuova rispetto a quella del passato coloniale. Il continente africano annovera infatti i paesi con i più alti livelli di disuguaglianza al mondo, in cui il divario tra una ristretta élite dedita al lusso e il resto della popolazione che vive in uno stato di miseria è abissale. Dunque, cosa non ha funzionato? Dove sono finiti i fiumi di miliardi di dollari?
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Usa, la religione fattura (esentasse) più di Apple e Microsoft
Secondo stime prudenziali, negli Stati Uniti le organizzazioni religiose genererebbero ogni anno un giro d’affari pari a circa 378 miliardi di dollari: ovvero, più dei fatturati globali di Apple e Microsoft messi assieme. Includendo anche le imprese con radici religiose, la cifra aumenta fino a circa 1,2 trilioni di dollari, mentre le stime che comprendono anche i redditi delle famiglie degli americani “affiliati” portano il reddito totale delle organizzazioni religiose a circa 4,8 trilioni di dollari l’anno, circa un terzo del Pil degli Stati Uniti. Lo rivela Phillip Schnieder su “Intellihub”, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte” che cita uno studio realizzato nel 2016 da Melissa e Brian Grim della Georgetown University e del Newseum Institute. Obiettivo dell’indagine: calcolare il costo e il contributo delle religioni alla società americana. «Fin dalla fondazione del paese, la religione ha sempre avuto un ruolo attivo nella vita della maggioranza degli americani», scrive Schnieder. «Nonostante la fede religiosa sia su una tendenza al ribasso, al contrario della laicità che invece è in aumento, nel 2014 il 70,6% degli americani s’identificava ancora per essere “cristiano”, mentre il 5,9% professava “fedi non cristiane”, come ad esempio il giudaismo e l’Islam, secondo il Pew Research Center».Molte ricerche sono ormai state fatte sull’impatto che le religioni hanno sulla comunità. A volte, aggiunge Schnieder, vengono usate come pretesto per cose terribili come l’estremismo violento o l’abuso sui minori. Ma c’è tuttavia una gran quantità di bene che viene catalizzato dalla religione, come ad esempio il volontariato, l’impegno civico e la sanità. Melissa e Brian Grim lo riconoscono e ben comprendono che «le cattive notizie fanno rumore, ma è importante guardare entrambi i lati della questione, per poter capire con chiarezza». Su queste premesse si fonda la raccolta dei dati presentati nel loro lavoro, “The Socio-economic Contribution of Religion to American Society: An Empirical Analysis”. Gli autori ritengono che la stima più ragionevole del “fatturato” religioso in America sia quella che si attesta su 1,2 trilioni di dollari annui, «perché tiene conto sia del valore dei servizi forniti dalle organizzazioni religiose, che dell’impatto che la religione ha su un certo numero di importanti imprese americane». I Grim hanno scoperto che le entrate combinate delle cinque maggiori organizzazioni religiose di beneficenza del paese ammontino a poco meno di 38 miliardi. Queste organizzazioni sono: Lutheran Services in America, Young Men’s Christian Association (Ymca), Catholic Charities, Salvation Army e Habitat for Humanity.Tuttavia, osserva Schnieder presentando lo studio, «la religione sta anche diventando una delle più grandi industrie esentasse del paese». I Grim hanno stimato (prudenzialmente) che i “media” cristiani generavano fin dal 2003 un fatturato di circa 6,8 miliardi di dollari annui: «Le stime indicano che il mercato dell’editoria religiosa e dei prodotti collegati valesse fin dal lontano 2003 ben 6,8 miliardi, poi in crescita ad un tasso di quasi il 5% l’anno». Un mercato suddiviso in tre categorie: libri (il segmento più grande, pari a 3,5 miliardi annui e un tasso di crescita del 7%), quindi cancelleria, articoli-regalo e merchandise (1,4 miliardi, e un tasso di crescita del 4,5%) e infine audio, video e software (1,4 miliardi, andamento costante). Assemblati i dati, Melissa e Brian Grim hanno concluso che il fatturato annuale “della religione”, pari a 378 miliardi, può essere suddiviso in cinque categorie: assistenza sanitaria (161 miliardi), attività congregazionali locali (83,8 miliardi), istruzione, come ad esempio le scuole cattoliche (74 miliardi), beneficenza (44,3 miliardi), media (0,9 miliardi) e alimentazione (14,4 miliardi). Gli autori riconoscono che le congregazioni religiose locali «forniscono un significativo livello di servizi sociali alla comunità, oltre a quelli offerti dalle organizzazioni religiose istituite con lo scopo specifico di fornire servizi di assistenza sanitaria, istruzione e beneficienza». Un modello di carità, chiosa Phillip Schnieder, che rischia però di diventare anche «un modello di business esentasse».Secondo stime prudenziali, negli Stati Uniti le organizzazioni religiose genererebbero ogni anno un giro d’affari pari a circa 378 miliardi di dollari: ovvero, più dei fatturati globali di Apple e Microsoft messi assieme. Includendo anche le imprese con radici religiose, la cifra aumenta fino a circa 1,2 trilioni di dollari, mentre le stime che comprendono anche i redditi delle famiglie degli americani “affiliati” portano il reddito totale delle organizzazioni religiose a circa 4,8 trilioni di dollari l’anno, circa un terzo del Pil degli Stati Uniti. Lo rivela Phillip Schnieder su “Intellihub”, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte” che cita uno studio realizzato nel 2016 da Melissa e Brian Grim della Georgetown University e del Newseum Institute. Obiettivo dell’indagine: calcolare il costo e il contributo delle religioni alla società americana. «Fin dalla fondazione del paese, la religione ha sempre avuto un ruolo attivo nella vita della maggioranza degli americani», scrive Schnieder. «Nonostante la fede religiosa sia su una tendenza al ribasso, al contrario della laicità che invece è in aumento, nel 2014 il 70,6% degli americani s’identificava ancora per essere “cristiano”, mentre il 5,9% professava “fedi non cristiane”, come ad esempio il giudaismo e l’Islam, secondo il Pew Research Center».
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Soros, 18 miliardi a Open Society: nuovo colpo in arrivo?
George Soros ha “donato” 18 miliardi di dollari alla Open Society Foundation, facendo registrare una cifra record per una donazione ad un ente di diritto privato. Il trasferimento di questo ingente quantitativo di denaro sarebbe avvenuto negli anni passati. La notizia, però, è stata ripresa solo ieri dai quotidiani. Il “Wall Street Journal”, al riguardo, ha parlato di “Instant Giant”. Alcuni, ancora, mettono in evidenza come più che di una “donazione” si possa parlare di un “trasferimento di denaro”. L’Open Society Foundation, lo strumento che Soros ha utilizzato per le sue iniziative “filantropiche”, diverrebbe così un vero e proprio gigante della “beneficenza”, ma questo ente, in realtà, è anche il cavallo di Troia che Soros mette puntualmente in moto per le sue campagne progressiste e per orientare mediante i finanziamenti la politica americana e non. Alcuni quotidiani stanno inserendo questa notizia all’interno di una narrativa che vedrebbe Geroge Soros contrapposto a Bill Gates in una sfida tra titani nel campo della “filantropia”. Secondo questo articolo, poi, i 18 milardi di dollari donati da Soros corrisponderebbero all’80% del suo patrimonio totale. Un moto di bontà giunto durante la terza età oppure l’avvio di una campagna spietata sui temi cari al magnate ungherese?Per “Bloomberg”, semplicemente, il gesto sarebbe nato dalla necessità di pagare meno tasse sui gestori degli hedge fund negli Stati Uniti. “Bretibart News”, il portale dell’Alt-Right americana, ha sottolineato, nel riportare la notizia, che Soros è coinvolto, tra le varie campagne più attuali, in azioni contrastanti l’attuale governo israeliano, nel promuovere l’integrazione e l’arrivo dei migranti e in alcune promozioni di campagne pro-aborto in Irlanda. “Breitbart”, ovviamente, si riferisce a Soros come a un influencer che starebbe contribuendo all’invasione islamica dell’Occidente. Il sospetto, per l’Alt-Right e per quanti hanno messo in evidenza le attività di Soros in questi anni, è che il magnate si prepari per mezzo di questo maxifinanziamento ad operare con forza nel campo della geopolitica e in quello degli equilibri economico-finanziari mondo. Leggere le prossime mosse, in questo senso, potrebbe risultare decisivo. Un obiettivo possibile è certamente Donald Trump, contro la cui presidenza Soros ha già scommesso.Oltre ad aver finanziato la campagna elettorale di Hilary Clinton, infatti, il fondatore della Open Society aveva scommesso un miliardo di dollari sul fatto che Trump non vincesse le elezioni presidenziali. Sappiamo com’è andata a finire. Ultimamente, poi, il nome del magnate che ha adottato gli Stati Uniti come seconda patria era stato citato dal quotidiano spagnolo “La Vanguardia” in relazione alla Catalogna. L’Open Society Foundationc ha finanziato con 27.049 dollari il consiglio per la diplomazia pubblica della Catalogna. Indirettamente, quindi, il miliardario avrebbe avuto un ruolo anche nella partita per l’indipendenza catalana. Il fine del maxifinanziamento potrebbe essere quello di allargare ancor di più la sua influenza nel mondo. La fondazione avrebbe dichiarato, tuttavia, di non essere intenzionata ad espandersi nell’immediato. L’Open Society, del resto, è già operativa in 120 nazioni del mondo. Se questo denaro dovesse servire per cercare di modificare indirettamente gli equilibri globali, per sostenere ancor di più l’arrivo dei migranti in Occidente e per sponsorizzare la causa gender e quella favorevole all’aborto, si scoprirà solo nel tempo. Di certo c’è che Soros pare intenzionato a mettere nuovamente mano al portafoglio.(Francesco Boezi, “Quegli strani giri di soldi di Soros: sta preparando un nuovo colpo?”, dal “Giornale” del 19 ottobre 2017).George Soros ha “donato” 18 miliardi di dollari alla Open Society Foundation, facendo registrare una cifra record per una donazione ad un ente di diritto privato. Il trasferimento di questo ingente quantitativo di denaro sarebbe avvenuto negli anni passati. La notizia, però, è stata ripresa solo ieri dai quotidiani. Il “Wall Street Journal”, al riguardo, ha parlato di “Instant Giant”. Alcuni, ancora, mettono in evidenza come più che di una “donazione” si possa parlare di un “trasferimento di denaro”. L’Open Society Foundation, lo strumento che Soros ha utilizzato per le sue iniziative “filantropiche”, diverrebbe così un vero e proprio gigante della “beneficenza”, ma questo ente, in realtà, è anche il cavallo di Troia che Soros mette puntualmente in moto per le sue campagne progressiste e per orientare mediante i finanziamenti la politica americana e non. Alcuni quotidiani stanno inserendo questa notizia all’interno di una narrativa che vedrebbe Geroge Soros contrapposto a Bill Gates in una sfida tra titani nel campo della “filantropia”. Secondo questo articolo, poi, i 18 milardi di dollari donati da Soros corrisponderebbero all’80% del suo patrimonio totale. Un moto di bontà giunto durante la terza età oppure l’avvio di una campagna spietata sui temi cari al magnate ungherese?
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Monbiot: malati di solitudine, questo sistema ci fa impazzire
Un’epidemia di malattie mentali sta distruggendo mente e corpo di milioni di persone. È arrivato il momento di chiederci dove stiamo andando e perché. Quale maggiore atto d’accusa potrebbe esserci, per un sistema, di una epidemia di malattie mentali? Eppure problemi come ansia, stress, depressione, fobia sociale, disturbi alimentari, autolesionismo e solitudine oggi si abbattono sulle persone in tutto il mondo. Le recenti, catastrofiche statistiche sulla salute mentale dei bambini in Inghilterra riflettono una crisi globale. Ci sono una moltitudine di ragioni secondarie per spiegare questo disagio, ma a me sembra che la causa di fondo sia ovunque la stessa: gli esseri umani, mammiferi estremamente sociali, i cui cervelli sono cablati per rispondere agli altri, sono stati scorticati. I cambiamenti economici e tecnologici in questo svolgono un ruolo importante, ma lo stesso vale per l’ideologia. Benché il nostro benessere sia indissolubilmente legato alla vita degli altri, ci viene spiegato da ogni parte che il segreto della prosperità è nell’egoismo competitivo e nell’individualismo estremo.In Gran Bretagna, uomini che hanno passato tutta la loro vita in circoli privilegiati – a scuola, all’università, al bar, in Parlamento – ci insegnano che dobbiamo sempre camminare con le nostre gambe. Il sistema dell’istruzione diventa ogni anno più brutalmente competitivo. Trovare lavoro è una lotta all’ultimo sangue con una massa di altri disperati che inseguono i sempre meno posti disponibili. I moderni sorveglianti dei poveri attribuiscono a colpe individuali la loro situazione economica. Gli incessanti concorsi televisivi alimentano aspirazioni impossibili come le opportunità reali. Il vuoto sociale è riempito dal consumismo. Ma, lungi dal curare la malattia dell’isolamento, questo intensifica il confronto sociale, al punto che, dopo aver consumato tutto quello che c’era da consumare, iniziamo ad avventarci su noi stessi. I social media ci uniscono ma anche ci dividono, consentendoci di quantificare con precisione la nostra posizione sociale, e di constatare che altre persone hanno più amici e seguaci di noi.Come Rhiannon Lucy Cosslett ha brillantemente documentato, le ragazze e le giovani donne modificano abitualmente le foto che pubblicano per sembrare più levigate e sottili. Alcuni telefoni lo fanno perfino automaticamente, basta attivare l’impostazione “bellezza”; così ci si può trasformare anche da soli in modelli di magrezza da inseguire. Benvenuti nella distopia post-hobbesiana: una guerra di tutti contro se stessi. C’è da stupirsi, in questa solitudine interiore, in cui il contatto è stato sostituito dal ritocco, se le giovani donne stanno annegando nel disturbo mentale? Una recente indagine condotta in Inghilterra suggerisce che tra i 16 e i 24 anni una donna su quattro si è autoinflitta una ferita, e uno su otto oggi soffre di disturbo da stress post-traumatico. Ansia, depressione, fobie o disturbo ossessivo-compulsivo colpiscono il 26% delle donne in questa fascia di età. Dati di questo tipo assomigliano da vicino a una crisi di salute pubblica. Se la frammentazione sociale non è presa in seria considerazione, come si prende sul serio una gamba rotta, è perché non possiamo vederla. Ma i neuroscienziati possono.Una serie di affascinanti articoli suggerisce che il dolore sociale e il dolore fisico sono elaborati dagli stessi circuiti di neuroni. Questo potrebbe spiegare perché in molte lingue è difficile descrivere l’impatto della rottura dei legami sociali senza ricorrere alle parole che usiamo per indicare dolore fisico e lesioni. Negli esseri umani come negli altri mammiferi sociali il contatto sociale riduce il dolore fisico. Questo è il motivo per cui abbracciamo i nostri figli quando si fanno male: l’affetto è un potente analgesico. Gli oppioidi alleviano sia l’agonia fisica sia l’angoscia della separazione. Forse questo spiega il legame tra isolamento sociale e tossicodipendenza. Alcuni esperimenti riassunti sulla rivista “Physiology & Behaviour” il mese scorso suggeriscono che, data la possibilità di scegliere tra dolore fisico o isolamento, i mammiferi sociali scelgono il primo. Alcune scimmie cappuccino prive di cibo e tenute in isolamento per 22 ore, prima di mangiare si sono riunite alle loro compagne. I bambini che sono trascurati dal punto di vista emotivo, secondo alcuni studi, subiscono peggiori conseguenze per la salute mentale rispetto ai bambini che soffrono sia trascuratezza emotiva sia violenza fisica: per quanto orribile, la violenza comporta essere notati e toccati.L’autolesionismo è spesso usato come tentativo di alleviare la sofferenza: un’altra indicazione che il dolore fisico è meno terribile del dolore emotivo. Come il sistema carcerario sa fin troppo bene, una delle forme più efficaci di tortura è proprio l’isolamento. Non è difficile capire quali potrebbero essere le ragioni evolutive per la presenza del dolore sociale. La sopravvivenza tra i mammiferi sociali è notevolmente più alta quando sono fortemente legati al resto del branco. Sono gli animali isolati ed emarginati che hanno più probabilità di essere attaccati dai predatori, o morire di fame. Così come il dolore fisico ci protegge dai danni fisici, il dolore emotivo ci protegge dai danni sociali. Ci spinge a ricostruire connessioni. Ma per molte persone è diventato quasi impossibile.Non è sorprendente che l’isolamento sociale sia fortemente associato alla depressione, al suicidio, all’ansia, all’insonnia, alla paura e alla sensazione di essere minacciati. È più sorprendente scoprire la gamma di malattie fisiche che provoca o aggrava. Demenza, ipertensione, malattie cardiache, ictus, abbassamento della resistenza ai virus, perfino gli incidenti sono più comuni tra le persone sole. La solitudine ha un impatto sulla salute fisica paragonabile al fumare 15 sigarette al giorno: sembra aumentare il rischio di morte prematura del 26%. Questo in parte è perché la solitudine aumenta la produzione dell’ormone dello stress, il cortisolo, che deprime il sistema immunitario. Studi condotti su animali e sull’uomo suggeriscono che mangiare sia motivo di conforto: l’isolamento riduce il controllo dell’impulso, portando all’obesità. Visto che le persone situate nella parte più bassa della scala socioeconomica sono anche quelle più a rischio di soffrire di solitudine, questa potrebbe essere una delle spiegazioni per il forte legame tra basso livello economico e obesità?Chiunque può rendersi conto che qualcosa di molto più importante della maggior parte dei problemi di cui ci si preoccupa è andato storto. Ma allora, perché siamo così impegnati in questa frenesia che distrugge il mondo e si autoannienta, devastando l’ambiente e riducendo in pezzi le società, se tutto ciò che produce è un dolore insopportabile? Questo problema non dovrebbe essere considerato il più scottante nella vita pubblica? Ci sono enti di beneficenza meravigliosi che fanno quello che possono per lottare contro questa marea, con alcuni dei quali ho intenzione di lavorare come parte del mio progetto contro la solitudine. Ma per ogni persona aiutata, molte altre vengono spazzate via. Non basta una risposta politica per tutto questo. Ci vuole qualcosa di molto più grande: ripensare un’intera visione del mondo. Di tutte le fantasie degli esseri umani, l’idea che ce la si possa fare da soli è la più assurda e forse la più pericolosa. O restiamo uniti o andiamo in pezzi.(George Monbiot, “Il nuovo ordine liberale crea solitudine, ecco cosa sta facendo a pezzi la nostra società”, dal “Guardian” del 12 ottobre 2016, articolo tradotto da “Voci dall’Estero”).Un’epidemia di malattie mentali sta distruggendo mente e corpo di milioni di persone. È arrivato il momento di chiederci dove stiamo andando e perché. Quale maggiore atto d’accusa potrebbe esserci, per un sistema, di una epidemia di malattie mentali? Eppure problemi come ansia, stress, depressione, fobia sociale, disturbi alimentari, autolesionismo e solitudine oggi si abbattono sulle persone in tutto il mondo. Le recenti, catastrofiche statistiche sulla salute mentale dei bambini in Inghilterra riflettono una crisi globale. Ci sono una moltitudine di ragioni secondarie per spiegare questo disagio, ma a me sembra che la causa di fondo sia ovunque la stessa: gli esseri umani, mammiferi estremamente sociali, i cui cervelli sono cablati per rispondere agli altri, sono stati scorticati. I cambiamenti economici e tecnologici in questo svolgono un ruolo importante, ma lo stesso vale per l’ideologia. Benché il nostro benessere sia indissolubilmente legato alla vita degli altri, ci viene spiegato da ogni parte che il segreto della prosperità è nell’egoismo competitivo e nell’individualismo estremo.
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Ma nemmeno il Premio Nobel svelerà l’enigma Bob Dylan
«Se la misura della grandezza è quella di allietare il cuore di ogni essere umano sulla faccia della terra, allora era veramente il più grande. In ogni modo è stato il più coraggioso, il più gentile e il più eccellente degli uomini». Così Bob Dylan in memoria di Muhammad Alì, scomparso il 3 giugno 2016. Sincronicità: nel giorno della dipartita di Dario Fo, l’accademia di Svezia concede il Premio Nobel per la letteratura – sospiratissimo, soprattutto da parte di migliaia di fan e supporter – all’immenso artista di Duluth, il cui capolavoro forse consiste nell’essere sopravvissuto a se stesso dopo oltre mezzo secolo di dischi e concerti, perfettamente intatto nell’ispirazione creativa di cantante, musicista, compositore e performer. Un’autorevolezza culturale, quella di Dylan, che ne ha fatto un involontario maestro, riconosciuto da generazioni di cantanti, artisti e intellettuali di ogni parte del mondo. Un maestro singolare, laconico, riluttante. Enigmatico come il simbolo che lo accompagna da anni, sul palco: un occhio in fiamme, sormontato da una corona.Se il “flaming delta” simboleggia la presenza immanente della divinità («percepisco ovunque la presenza di Dio», ha detto in una recente intervista), nell’affascinante logo che accompagna il “neverending tour” si può riconoscere “l’occhio di Horus”, o “occhio dell’iniziato”, quello dell’uomo che ha accesso al cammino verso la “verità profonda”. In più, l’occhio di Dylan – sul drappo calato come un sipario alle spalle della band, in chiusura di concerto – ha un’iride particolarissima, in forma di spirale (in codice esoterico, può significare: verità raggiungibile). E la corona che sovrasta l’occhio richiama direttamente la scienza alchemica, ritenuta la “regina” di ogni conoscenza. Traduzione ipotetica: attraverso l’alchimia interiore – trasformare in “oro” il proprio piombo terreno – è possibile arrivare a «vedere Dio ogni giorno, in ogni cosa», specie a 75 anni, con davanti un calendario di appuntamenti concertistici da schiantare un ventenne. «Morirò su un palco, un giorno, da qualche parte nel mondo», ebbe a dire Dylan qualche anno fa, cercando di spiegare il suo tour infinito, fondato sulla strepitosa reintepretazione, ogni volta rivoluzionaria, di leggendari successi resi irriconoscibili dai nuovi arrangiamenti, ogni volta diversi, regalati in esclusiva al pubblico presente.Rarissime le esternazioni pubbliche, dall’ex ragazzo del Minnesota, nipote di ebrei ucraini e lituani, protagonista di una traiettoria culturale ricchissima: la venerazione per il menestrello Woody Guhrie, “Blowin’ in the wind” e la protesta degli anni ‘60, le battaglie civili come quella per far uscire di prigione il pugile nero Rubin “Hurricane” Carter, o la campagna “Farm Aid” per il sostegno degli agricoltori americani colpiti dalla crisi. Fino all’incredibile disco natalizio del 2009, “Christmas in the Heart”, coi proventi interamente devoluti a “Feeding America”, associazione caritativa che fornisce pasti caldi ai senzatetto. Forse, tra i giudici del Nobel ha pesato soprattutto il Dylan politico, quello di “Masters of war” contro i signori della guerra, tema riproposto in modo magistrale attraverso canzoni più recenti, come “Ring them bells”, del 1989. “I pity the poor immigrant”, cantava un Dylan giovanissimo, soffermandosi su “The lonesome death of Hattie Carroll”, schiava nera uccisa a bastonate dal suo “padrone”, ricco proprietario terriero. Dall’ultimo Dylan, pensieroso fino alla cupezza, sono scaturite gemme di autentica poesia come il disco “Tempest”, ispirato al poeta Henry Timrod, uscito nel 2009 – già allora, sul palco, a fine serata compariva il misterioso simbolo dell’occhio “incoronato”.«Capirete fra trent’anni quello che ho scritto», si sbilanciò nel 1967 quando uscì “John Wesley Harding”, il disco contenente una traccia come “All along the Watchtower”, poi resa immortale dall’interpretazione di Jimi Hendrix a Woodstock. Tutto il lavoro – in apparenza country-western – svelava la profonda intimità dell’artista con una dimensione metafisica presente tra i risvolti del quotidiano, attraverso fotogrammi che illuminano verità senza tempo, percezioni astoriche e immateriali, in un mondo di evocazioni e citazioni bibliche, tra il fantasma di Sant’Agostino e l’arrivo di oscuri messaggeri. “Ci dev’essere il modo di uscire di qui, disse il buffone al ladro”: come i personaggi di “All along the Watchtower”, anche Dylan crede alla possibilità di un riscatto, un Piano-B, mentre si interroga sull’umanità senza mai smettere di denunciarne gli orrori – la vigorosa rock-ballad “Union Sundown” (da “Infildels”, con Mark Knopfler alla chitarra) è un grido, profetico, contro la catastrofe della globalizzazione: porta la data del 1983. «Ha vinto Dinsey, quindi abbiamo perso tutti», sentenziò. Ma non smise di girare il mondo, e – anzi – aggiunse sul palco quel misterioso stendardo-pirata, come monito ammiccante: io so, vedo, capisco. L’occhio in fiamme, la corona. E ora anche il Nobel Prize for Literature.«Se la misura della grandezza è quella di allietare il cuore di ogni essere umano sulla faccia della terra, allora era veramente il più grande. In ogni modo è stato il più coraggioso, il più gentile e il più eccellente degli uomini». Così Bob Dylan in memoria di Muhammad Alì, scomparso il 3 giugno 2016. Sincronicità: nel giorno della dipartita di Dario Fo, l’accademia di Svezia concede il Premio Nobel per la letteratura – sospiratissimo, soprattutto da parte di migliaia di fan e supporter – all’immenso artista di Duluth, il cui capolavoro forse consiste nell’essere sopravvissuto a se stesso dopo oltre mezzo secolo di dischi e concerti, perfettamente intatto nell’ispirazione creativa di cantante, musicista, compositore e performer. Un’autorevolezza culturale, quella di Dylan, che ne ha fatto un involontario maestro, riconosciuto da generazioni di cantanti, artisti e intellettuali di ogni parte del mondo. Un maestro singolare, laconico, riluttante. Enigmatico come il simbolo che lo accompagna da anni, sul palco: un occhio in fiamme, sormontato da una corona.