Archivio del Tag ‘Il Fatto Quotidiano’
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Inaudito Salvini: colpa dei “verdi” la catastrofe-alluvione
Alberi piegati e spazzati via. Interi versanti stravolti. Anche da smottamenti e frane. Corsi d’acqua, ingrossati da piogge torrenziali ma anche da detriti e tronchi. Tanti, tantissimi, al punto di avere l’impressione che si tratti di distese, in movimento. Strade interrotte, abitazioni danneggiate fino a comprometterne l’agibilità. Collegamenti impossibili, da giorni. Acquedotti disintegrati. Quasi un cataclisma. Come un inferno. Nel quale le persone, quelle di ogni luogo, cercano di mettere un po’ d’ordine. Mentre l’aria odora di resina e di pioggia. Ben oltre di un milione di metri cubi di foreste abbattute, in Trentino, in Alto Adige e in Veneto. «È il giorno dei morti, degli alberi morti. Sgomentano le fotografie che mostrano l’immane cimitero di guerra di uno tra i nostri più preziosi patrimoni naturali», ha scritto il 2 novembre Isabella Bossi Fedrigotti sul “Corriere della Sera”. Insomma, «è cambiato per sempre il profilo delle Dolomiti, nostra straordinaria riserva di ossigeno, pregiatissimo magazzino-vita che non sarà possibile ripristinare chissà per quanto». Chiaro? «Per sempre». Lassù, sulle montagne nelle quali d’estate si va in vacanza a passeggiare oppure d’inverno a sciare, nulla sarà più come prima. Come è stato fino al disastro.«La situazione è pesante, apocalittica, strade devastate, tralicci piegati come fuscelli», ha detto il direttore del dipartimento della Protezione Civile nazionale Angelo Borrelli al termine del sopralluogo sulle zone più colpite dal maltempo. Il presidente del Veneto, Zaia, parla di «almeno 1 miliardo di euro di danni» in tutta la regione e il sottosegretario Giancarlo Giorgetti annuncia di aver deciso di destinare 1 milione di euro al recupero dei boschi dell’Altopiano di Asiago, devastati dal maltempo. Il vicepremier Luigi Di Maio ha annunciato che sarà dichiarato lo stato di emergenza per tutte le regioni colpite e Matteo Salvini, dopo aver sorvolato in elicottero le zone sconvolte dagli eventi, è arrivato all’aeroporto di Belluno dove è stata istituita una sala operativa dalla Prefettura. Chi si sarebbe aspettato, almeno in questa occasione, che Salvini, rispettando il ruolo istituzionale, avesse parlato con toni pacati, sarà rimasto deluso. Chi immaginava che il ministro degli interni e vicepresidente del Consiglio dei ministri avrebbe rinunciato al suo naturale desiderio di protagonismo, di fronte al cataclisma, si sarà sorpreso, forse.«Troppi anni di incuria e malinteso ambientalismo da salotto che non ti fanno toccare l’albero nell’alveo ecco che l’alberello ti presenta il conto», ha detto Salvini. Certo ha dichiarato anche che «il bosco vive e deve essere curato e il greto del torrente dragato», aggiungendo che «la tutela della montagna dovrebbe essere affidata alle comunità locali». Certo, ha anticipato che «in settimana ci sarà un Consiglio dei ministri per questi eventi». Innegabile. Ma quel riferimento al “malinteso ambientalismo da salotto” e ai guasti che avrebbe comportato sommerge tutto il resto. Detto e fatto. Vanifica le altre parole e i prossimi impegni. Quindi l’ecatombe di Trentino, Alto Adige e Veneto è la conseguenza dei comitati ambientalisti che da anni si battono perché proprio quelle aree non siano spazi nei quali gli affari prevalgano sulla natura? Non siano zone nelle quali gli interessi di pochi vedano il sacrificio di beni comuni? Quindi per Salvini le contrarietà avanzate da tante associazioni, a partire dalla sezione di Belluno di Italia Nostra, sono corresponsabili di quel che sta accadendo? Quindi il disastro “è colpa” anche della battaglia contro il prolungamento della A27 lungo la direttrice Cadore-Comelico?Quindi il disastro è imputabile anche alla scelta di plaudire alla decisione, seguendo peraltro la normativa europea a tutela delle acque, di dire basta ai finanziamenti al mini-idroelettrico che distrugge gli ultimi torrenti naturali e produce poca energia? Quindi il disastro va ascritto alla decisione di schierarsi avverso la candidatura di Cortina come sede delle Olimpiadi invernali del 2016? Molti quesiti, ai quali se ne potrebbero aggiungere altri. Molte le domande che il sasso lanciato da Salvini con le sue dichiarazioni, suggerisce. Quel che sembra indubitabile, fra molte incertezze, è che il “malinteso ambientalismo da salotto” evocato dal ministro degli interni e vicepresidente del Consiglio, può anche suonare come una offesa. Per gli abitanti dell’Agordino, quelli del Feltrino, del Comelico e dell’Ampezzo. Per quelli di Pieve di Livinallogo del Col di Lana. Persone che hanno conosciuto la guerra, della quale rimangono ancora le trincee sulla montagna. Lavoratori che preferiscono le azioni alle parole. Soprattutto quando inappropriate. Lì sulle montagne i tweet non contano. Lassù ci si aspetta aiuto, ma si esige rispetto.(Manlio Lilli, “Maltempo, le parole di Salvini sono un’offesa per chi si batte per l’ambiente”, dal blog di Lilli sul “Fatto Quotidiano” del 4 novembre 2018).Alberi piegati e spazzati via. Interi versanti stravolti. Anche da smottamenti e frane. Corsi d’acqua, ingrossati da piogge torrenziali ma anche da detriti e tronchi. Tanti, tantissimi, al punto di avere l’impressione che si tratti di distese, in movimento. Strade interrotte, abitazioni danneggiate fino a comprometterne l’agibilità. Collegamenti impossibili, da giorni. Acquedotti disintegrati. Quasi un cataclisma. Come un inferno. Nel quale le persone, quelle di ogni luogo, cercano di mettere un po’ d’ordine. Mentre l’aria odora di resina e di pioggia. Ben oltre di un milione di metri cubi di foreste abbattute, in Trentino, in Alto Adige e in Veneto. «È il giorno dei morti, degli alberi morti. Sgomentano le fotografie che mostrano l’immane cimitero di guerra di uno tra i nostri più preziosi patrimoni naturali», ha scritto il 2 novembre Isabella Bossi Fedrigotti sul “Corriere della Sera”. Insomma, «è cambiato per sempre il profilo delle Dolomiti, nostra straordinaria riserva di ossigeno, pregiatissimo magazzino-vita che non sarà possibile ripristinare chissà per quanto». Chiaro? «Per sempre». Lassù, sulle montagne nelle quali d’estate si va in vacanza a passeggiare oppure d’inverno a sciare, nulla sarà più come prima. Come è stato fino al disastro.
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Istat: l’economia sommersa in Italia vale oltre 200 miliardi
La ricchezza prodotta nel 2016 da economia sommersa e attività illegali è salita a 210 miliardi dai 208 del 2015, anche se il suo peso sul Pil è lievemente calato dal 14,4 al 12,6%. Le sole attività illegali, cioè produzione e traffico di droga, prostituzione e contrabbando di tabacco, che dal 2014 sono inserite nei conti nazionali e contribuiscono al prodotto interno lordo, hanno generato un valore aggiunto di quasi 18 miliardi in aumento dai 17,2 del 2015. La spesa delle famiglie per questo tipo di “prodotti” è salita da 19 a 19,9 miliardi come conseguenza di “un aumento dei prezzi degli stupefacenti a fronte di una sostanziale stabilità dei volumi”. Sono i dati dell’annuale rapporto dell’Istat sul nero e l’illegalità, da cui emerge anche che i lavoratori irregolari sono 3,7 milioni (in lievissimo calo rispetto al 2015) contro i 20 milioni in regola. Chi lavora in nero, emerge dalle tabelle dell’istituto, viene contato nelle statistiche ufficiali degli occupati. Il valore aggiunto generato dall’economia sommersa, che va dalle sotto-dichiarazioni fiscali all’impiego di lavoro irregolare agli affitti in nero, ammonta a poco meno di 192 miliardi di euro, a cui vanno aggiunti i quasi 18 miliardi dell’illegalità e del suo indotto.Le stime «confermano la tendenza alla discesa dell’incidenza della componente non osservata dell’economia sul Pil dopo il picco del 2014», quando il valore totale era salito a 211 miliardi di euro. Per quanto riguarda le attività illegali, l’Istat segnala che l’incremento complessivo è determinato dal traffico di stupefacenti il cui valore aggiunto è salito di 0,8 miliardi per effetto dell’aumento dei prezzi. Per i servizi di prostituzione si stima un valore aggiunto pari a 3,7 miliardi di euro e consumi per 4 miliardi, sostanzialmente invariati rispetto al 2015. Anche le attività di contrabbando di sigarette mantengono un livello analogo all’anno precedente, con un valore aggiunto pari a 0,4 miliardi e un ammontare di consumi di 0,6 miliardi. L’indotto connesso alle attività illegali, riferito per la maggior parte al settore dei trasporti e del magazzinaggio, si è mantenuto costante, generando un valore aggiunto pari a circa 1,3 miliardi di euro. Quanto alla composizione dell’economia non osservata, la sotto-dichiarazione pesa per il 45,5% del valore aggiunto (-0,6 punti percentuali rispetto al 2015) e il resto è attribuibile per il 37,2% all’impiego di lavoro irregolare (37,3% nel 2015), per l’8,8% alle altre componenti (fitti in nero, mance e integrazione domanda-offerta) e per l’8,6% alle attività illegali (rispettivamente 9,6% e 8,2% l’anno precedente).Per quanto riguarda la ripartizione tra i settori economici, il sommerso pesa di più nei servizi, in cui l’incidenza è del 33,3%, nel comparto commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (23,7%) e nelle costruzioni (22,7%). Anche il peso della sotto-dichiarazione sul complesso del valore aggiunto risulta è più rilevante in quei settori. Nell’industria, l’incidenza è relativamente elevata nella produzione di beni alimentari e di consumo (7,5%) e molto contenuta in quella di beni di investimento (2,3%). Le unità di lavoro irregolari nel 2016 erano 3,7 milioni, in calo di 23mila unità rispetto al 2015. Lavorano in nero 2,7 milioni di dipendenti e 1 milione di autonomi. Il tasso di irregolarità, calcolato come incidenza delle unità di lavoro non regolari sul totale, è pari al 15,6%, 0,3 punti in meno rispetto all’anno precedente. L’incidenza del lavoro irregolare è particolarmente rilevante nel settore dei servizi alle persone (47,2% nel 2016, in calo di 0,4 punti percentuali rispetto al 2015), ma è significativo anche nell’agricoltura (18,6%), nelle costruzioni (16,6%) e nel comparto commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (16,2%).(“Economia sommersa, nel 2016 è salita a 210 miliardi: 18 da attività illegali. Sono 3,7 milioni gli occupati irregolari”, da “Il Fatto Quotidiano” del 12 ottobre 2018).La ricchezza prodotta nel 2016 da economia sommersa e attività illegali è salita a 210 miliardi dai 208 del 2015, anche se il suo peso sul Pil è lievemente calato dal 14,4 al 12,6%. Le sole attività illegali, cioè produzione e traffico di droga, prostituzione e contrabbando di tabacco, che dal 2014 sono inserite nei conti nazionali e contribuiscono al prodotto interno lordo, hanno generato un valore aggiunto di quasi 18 miliardi in aumento dai 17,2 del 2015. La spesa delle famiglie per questo tipo di “prodotti” è salita da 19 a 19,9 miliardi come conseguenza di “un aumento dei prezzi degli stupefacenti a fronte di una sostanziale stabilità dei volumi”. Sono i dati dell’annuale rapporto dell’Istat sul nero e l’illegalità, da cui emerge anche che i lavoratori irregolari sono 3,7 milioni (in lievissimo calo rispetto al 2015) contro i 20 milioni in regola. Chi lavora in nero, emerge dalle tabelle dell’istituto, viene contato nelle statistiche ufficiali degli occupati. Il valore aggiunto generato dall’economia sommersa, che va dalle sotto-dichiarazioni fiscali all’impiego di lavoro irregolare agli affitti in nero, ammonta a poco meno di 192 miliardi di euro, a cui vanno aggiunti i quasi 18 miliardi dell’illegalità e del suo indotto.
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Sicilia, massoni costretti a “svelarsi”. Carpeoro: colpa loro
«Alzi la mano chi è massone, in questa sala. Nessuno? Lo immaginavo: ecco perché la massoneria italiana è ridotta così male». Protagonista del siparietto, nel corso di un incontro pubblico a Torino (presenti diversi massoni) lo scrittore Gianfranco Carpeoro, già “sovrano gran maestro” del Rito Scozzese italiano. Non si stupisce più di tanto, oggi, se la Sicilia ha appena approvato il Ddl Fava, obbligando i consiglieri regionali – entro 45 giorni – a dichiarare la propria eventuale affiliazione massonica, pena la denuncia pubblica di quella che verrà ritenuta, d’ora in poi, una violazione della trasparenza. Provvedimento che il capo del Grande Oriente d’Italia, Stefano Bisi, definisce «mostruoso, sul piano giuridico e morale», gridando alla discriminazione: vengono obbligati a rivelare la loro appartenza i soli massoni – non gli aderenti ad altre associazioni, per i quali resta invece in vigore il diritto alla privacy. «Quest’obbligo è sostanzialmente incostituzionale», sostiene Carpeoro, che è anche avvocato. Ma aggiunge: la colpa, in origine, è comunque della massoneria stessa. Insistendo nel tutelare la sua tradizionale riservatezza (storicamente giustificata ai tempi in cui i massoni erano perseguitati), oggi la libera muratoria finisce per fare da comodo bersaglio. Senza contare ovviamente l’ipocrisia dei censori, che non si sognerebbero mai di pretendere che a “confessare” la propria appartenenza massonica siano personaggi come Draghi e Napolitano, o ministri come Tria e Moavero.«Nonostante le fortissime pressioni in senso contrario, abbiamo affermato un dovere di trasparenza e di responsabilità che adesso andrebbe esteso a tutte le cariche elettive in Italia», dice Claudio Fava, presidente della commissione regionale antimafia della Sicilia. Il disegno di legge (“Obbligo dichiarativo dei parlamentari dell’Ars in tema di affiliazione a logge massoniche o similari”) è stato approvato dopo una serie di emendamenti e modifiche promosse dal Movimento 5 Stelle e dallo stesso Fava, scrive il “Fatto Quotidiano”. Le sanzioni saranno limitate a una pubblica dichiarazione circa la violazione della norma di trasparenza. Nel dettaglio si dovrà dichiarare l’appartenenza ad eventuali logge massoniche entro 45 giorni, pena la comunicazione pubblica della violazione commessa. Contraria alla norma Eleonora Lo Curto, capogruppo Udc, secondo la quale «mai una legge è stata subdola e cattiva come questa voluta dell’onorevole Fava, che persegue obiettivi discriminatori e persecutori solo ed esclusivamente nei confronti della massoneria». Secondo Lo Curto «è una legge liberticida, perché se fosse animata dall’esigenza esclusiva della trasparenza, dovrebbe essere estesa a ogni e qualsivoglia formazione associativa cui i deputati regionali possono essere iscritti».«Dichiarare la propria appartenenza alla massoneria non vuol dire fare liste di proscrizione», si difende il leader siciliano dei 5 Stelle, Giancarlo Cancelleri: «Sia chiaro, si tratta solo di trasparenza». Infuocata, ovviamente, la reazione del Grande Oriente d’Italia, che definisce «mostruosa» la legge appena approvata: lo stesso Fava – quand’era in Parlamento, nella commissione antimafia guidata da Rosy Bindi – avrebbe voluto imporla a livello nazionale. «Oggi in Sicilia è stata scritta una pagina nera per la democrazia e la libertà d’associazione nel nostro paese», tuona Stefano Bisi, gran maestro del Goi. «Ci meravigliamo che un così aggressivo e discriminatorio atto legislativo sia stato avallato anche da forze e partiti che da sempre hanno sbandierato la loro laicità nel pieno rispetto della Costituzione repubblicana». Bisi ricorda che già nel 2007 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva condannato lo Stato italiano, dando ragione al ricorso presentato dal Grande Oriente d’Italia nei confronti di una legge della Regione Friuli Venezia Giulia che fissava regole e norme per le nomine a cariche pubbliche, prevedendo che chi avesse voluto ricoprire determinate cariche dovesse dichiarare l’appartenenza a società di tipo massonico.Lo stesso Bisi annuncia ricorsi contro la norma: «I liberi muratori del Grande Oriente d’Italia percorrerranno tutte le vie legali necessarie perché un simile provvedimento venga rimosso», visto che «ghettizza e marchia in modo inqualificabile e pretestuoso i massoni». Per il capo della maggiore obbedienza massonica italiana, si tratta di «ripristinare un necessario e ineludibile diritto alla libertà di ogni cittadino di far parte di qualsiasi associazione». Tutto questo, però, sottolinea Carpeoro (in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”), purtroppo «avviene per colpa della massoneria stessa». Ovvero: «A chi voglia avere cariche pubbliche, la massoneria dovrebbe suggerire categoricamente di dichiararlo, di essere massone. Quest’obbligo – insiste Carpeoro – sarebbe dovuto partire dalla massoneria, non dallo Stato. Se parte dallo Stato è sostanzialmente incostituzionale. Se invece parte dalla massoneria, le cose cambiano». Basterebbe che fossero le logge stesse ad auto-regolarsi, insomma, evitando di arrivare a una situazione come quella della Sicilia, dove «si va a incrinare il diritto di una persona a essere eletta».Tanto varrebbe decidersi a tagliare la testa al toro: «Se i massoni non rinunziano alla riservatezza, in certe delicate situazioni, dovrebbero venir messi fuori dalla massoneria». Non da oggi, Carpeoro critica duramente la libera muratoria italiana: lui stesso arrivò a disciogliere (caso unico, al mondo) l’obbedienza di cui era a capo. Autorevole simbologo e grande esperto di esoterismo, Carpeoro ama la dottrina massonica ma diffida della maggior parte dei massoni odierni. In ultima analisi, a suo parere, la “crociata” siciliana contro le logge «è nata per l’ennesima omissione, da parte della massoneria, nell’adottare delle regole di legalità al proprio interno». Pur non condividendo per nulla la “caccia alle streghe” scatenata da Fava, Carpeoro insiste: «Era la massoneria che doveva cominciare a preoccuparsi, anche perché uno che è massone non ha niente di cui debba vergognarsi». Anzi: ormai molti anni fa, a novembre, le logge del Rito Scozzese aprivano il “tempio” alla cittadinanza. «Era un giorno speciale, nel quale tutti i massoni si mostravano a viso aperto e ricordavano ai partecipanti, con orgoglio, l’identità massonica dei “fratelli” benemeriti che avevano dato lustro alla loro città».«Alzi la mano chi è massone, in questa sala. Nessuno? Lo immaginavo: ecco perché la massoneria italiana è ridotta così male». Protagonista del siparietto, nel corso di un incontro pubblico a Torino (presenti diversi massoni) lo scrittore Gianfranco Carpeoro, già “sovrano gran maestro” del Rito Scozzese italiano. Non si stupisce più di tanto, oggi, se la Sicilia ha appena approvato il Ddl Fava, obbligando i consiglieri regionali – entro 45 giorni – a dichiarare la propria eventuale affiliazione massonica, pena la denuncia pubblica di quella che verrà ritenuta, d’ora in poi, una violazione della trasparenza. Provvedimento che il capo del Grande Oriente d’Italia, Stefano Bisi, definisce «mostruoso, sul piano giuridico e morale», gridando alla discriminazione: vengono obbligati a rivelare la loro appartenenza i soli massoni – non gli aderenti ad altre associazioni, per i quali resta invece in vigore il diritto alla privacy. «Quest’obbligo è sostanzialmente incostituzionale», sostiene Carpeoro, che è anche avvocato. Ma aggiunge: la colpa, in origine, è comunque della massoneria stessa. Insistendo nel tutelare la sua tradizionale riservatezza (storicamente giustificata ai tempi in cui i massoni erano perseguitati), oggi la libera muratoria finisce per fare da comodo bersaglio. Senza contare ovviamente l’ipocrisia dei censori, che non si sognerebbero mai di pretendere una “confessione” di appartenenza massonica da personaggi come Draghi e Napolitano, o da ministri come Tria e Moavero.
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Draghi a Mattarella: obbedite, o vi faremo morire di spread
Dallo spread ti può difendere la Bce, a una condizione: il commissariamento sostanziale dello Stato, non più libero di decidere come indirizzare la spesa pubblica. Secondo il “Fatto Quotidiano”, sarebbe questo il piano che Mario Draghi ha esposto a Sergio Mattarella, nei giorni scorsi, al Quirinale. «Si tratta dell’acquisto diretto da parte della Bce di titoli di Stato a breve termine emessi dallo Stato in difficoltà, che però per accedervi deve concordare una sorta di memorandum con il Meccanismo Europeo di Stabilità. Di fatto un commissariamento». Nella sostanza: la Banca Centrale Europea, che continua a non voler emettere “eurobond” a garanzia del debito pubblico dei paesi dell’Eurozona, si appresterebbe a esercitare indebite pressioni – modello Grecia – su un paese come l’Italia, di cui non si tollera la decisione di andare in controtendenza, rispetto al pensiero unico neoliberista di Bruxelles, espandendo il deficit. In una nota, la Commissione Europea “avverte” che la previsione del Def gialloverde (disavanzo al 2,4%) non sarà digerita dall’Ue, anche se Lega e 5 Stelle ritengono indispensabile, quel disavanzo, per cominciare a finanziare reddito di cittadinanza, pensioni più dignitose e taglio del carico fiscale. Misure che, secondo il governo, rilancerebbero il Pil già nel 2019.
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Abrogare il vilipendio, antico reato che oggi condanna Bossi
La notizia che Umberto Bossi è stato condannato in via definitiva dalla Cassazione a un anno e 15 giorni di reclusione per vilipendio al capo dello Stato poiché in un comizio del 29 dicembre 2011 aveva dato del “terrone” a Giorgio Napolitano aggiungendovi il gesto delle corna, era passata quasi sotto silenzio. Ma ieri, su Libero, scende in campo da par suo Renato Farina, il noto ‘Betulla’, che quando era vicedirettore di quel giornale collaborava per denaro con i servizi segreti italiani fornendo informazioni e pubblicando notizie false (che i nostri servizi si siano serviti di una nullità come Farina la dice lunga sulla loro efficienza). Giuliano Ferrara, anch’egli giornalista e anch’egli al soldo dei servizi segreti, questa volta americani, la Cia, lo difese così: «Farina ha preso due stipendi? Che male c’è? Se uno fa due lavori è ovvio che prenda anche due stipendi». Che sarebbe come dire che è giusto che un poliziotto prenda uno stipendio dallo Stato e che un altro stipendio lo ricavi dalla refurtiva che requisisce a suo uso e consumo. Naturalmente Farina non affronta il nocciolo della questione ma prende slancio da questa sentenza per attaccare la magistratura (e che altro potrebbe fare uno che agisce nell’orbita del “delinquente naturale”?) e per somministrarci una dotta disquisizione sul termine “terrone” dandosela da uno che la vita la conosce bene mentre in realtà ha frequentato solo oratori e le scuole delle “figlie di Maria”.La magistratura applica le leggi. E le leggi le fa o le convalida il Parlamento. Ciò che si dovrebbe fare oggi non è impetrare una grazia per Bossi, come fa Farina, ma chiedere e ottenere dal Parlamento, non a favore di Bossi ma di tutti i cittadini di questo paese, l’abrogazione di tutti i reati di opinione di cui è zeppo il nostro codice penale, eredità del Codice Rocco vigente durante il regime fascista, fra qui c’è anche il vilipendio: della Repubblica, delle istituzioni costituzionali, delle forze armate, alla bandiera o altro emblema dello Stato, alla nazione italiana, alla religione dello Stato. Per non farci mancar nulla, a queste leggi liberticide ne abbiamo aggiunta un’altra, ancora più aberrante, la legge Mancino del 1993 che punisce l’odio razziale, etnico, religioso, nazionale. Per la prima volta nella storia, credo, si sono volute mettere le manette anche ai sentimenti. Perché l’odio è un sentimento, come l’amore, la gelosia, l’ira.Io ho il diritto di odiare chi mi pare e di aderire alle ideologie, anche quelle che appaiono più aberranti, quelle naziste e fasciste, che più sento vicine. L’unico discrimine in democrazia è che nessun sentimento o idea, giusta o sbagliata che sia, può essere fatta valere con la violenza. E’ il prezzo che la democrazia, ammesso che un sistema del genere esista, paga a se stessa. Altrimenti si trasforma in una sorta di teocrazia laica. Ma uno dei problemi della cosiddetta democrazia italiana non sono solo i partiti che, debordando dalle disposizioni costituzionali, ammesso che la Costituzione abbia un senso, hanno occupato tutte le istituzioni, tutte le aziende di Stato e del parastato, di cui la Rai è solo l’esempio più evidente, ma sono proprio i giornalisti, quasi tutti i giornalisti che, senza arrivare agli estremi di Renato Farina o di Giuliano Ferrara, prendono due stipendi, uno dalle case editrici per cui lavorano, l’altro attraverso i vantaggi che ottengono dai partiti o dalle lobby cui si sono affiliati.(Massimo Fini, “Il reato di Bossi, il codice Rocco e i giornalisti con due stipendi”, dal “Fatto Quotidiano” del 29 settembre 2018, articolo ripreso da “Come Don Chisciotte”).La notizia che Umberto Bossi è stato condannato in via definitiva dalla Cassazione a un anno e 15 giorni di reclusione per vilipendio al capo dello Stato poiché in un comizio del 29 dicembre 2011 aveva dato del “terrone” a Giorgio Napolitano aggiungendovi il gesto delle corna, era passata quasi sotto silenzio. Ma ieri, su “Libero”, scende in campo da par suo Renato Farina, il noto ‘Betulla’, che quando era vicedirettore di quel giornale collaborava per denaro con i servizi segreti italiani fornendo informazioni e pubblicando notizie false (che i nostri servizi si siano serviti di una nullità come Farina la dice lunga sulla loro efficienza). Giuliano Ferrara, anch’egli giornalista e anch’egli al soldo dei servizi segreti, questa volta americani, la Cia, lo difese così: «Farina ha preso due stipendi? Che male c’è? Se uno fa due lavori è ovvio che prenda anche due stipendi». Che sarebbe come dire che è giusto che un poliziotto prenda uno stipendio dallo Stato e che un altro stipendio lo ricavi dalla refurtiva che requisisce a suo uso e consumo. Naturalmente Farina non affronta il nocciolo della questione ma prende slancio da questa sentenza per attaccare la magistratura (e che altro potrebbe fare uno che agisce nell’orbita del “delinquente naturale”?) e per somministrarci una dotta disquisizione sul termine “terrone” dandosela da uno che la vita la conosce bene mentre in realtà ha frequentato solo oratori e le scuole delle “figlie di Maria”.
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Guai a chi tocca i Benetton: l’indegna crociata sui media
Noi non lo sapevamo, ma ogni volta che passavamo in auto sul ponte Morandi di Genova fungevamo da cavie di Autostrade per l’Italia, controllata da Atlantia della famiglia Benetton, che «utilizzava l’utenza, a sua insaputa, come strumento per il monitoraggio dell’opera». Cavie peraltro inutili, inclusi i poveri 43 morti del 14 agosto: «Pur a conoscenza di un accentuato degrado» delle strutture portanti, la concessionaria «non ha ritenuto di provvedere, come avrebbe dovuto, al loro immediato ripristino», né «adottato alcuna misura precauzionale a tutela» degli automobilisti. Lo scrive la Commissione ispettiva del ministero, nella relazione pubblicata dal ministro Danilo Toninelli. Autostrade-Atlantia-Benetton «non si è avvalsa… dei poteri limitativi e/o interdittivi regolatori del traffico sul viadotto» e non ha «eseguito gli interventi necessari per evitare il crollo». Peggio: «Minimizzò e celò» allo Stato «gli elementi conoscitivi» che avrebbero permesso all’organo di vigilanza di dare «compiutezza sostanziale ai suoi compiti». Non aveva neppure «eseguito la valutazione di sicurezza del viadotto»: gl’ispettori l’hanno chiesta e, «contrariamente a quanto affermato nella comunicazione del 23.6.2017 della società alla struttura di vigilanza», hanno scoperto che «tale documento non esiste».Le misure preventive di Autostrade «erano inappropriate e insufficienti considerata la gravità del problema», malgrado la concessionaria fosse «in grado di cogliere qualitativamente l’evoluzione temporale dei problemi di ammaloramento… Tale evoluzione, ormai da anni, restituiva un quadro preoccupante, e incognito quantitativamente, per la sicurezza strutturale rispetto al crollo». Eppure si perseverò nella «irresponsabile minimizzazione dei necessari interventi, perfino di manutenzione ordinaria». Così il ponte è crollato, non tanto per «la rottura di uno o più stralli», quanto per «quella di uno dei restanti elementi strutturali (travi di bordo degli impalcati tampone) la cui sopravvivenza era condizionata dall’avanzato stato di corrosione negli elementi strutturali». E la «mancanza di cura» nella posa dei sostegni dei carroponti potrebbe «aver diminuito la sezione resistente dell’armatura delle travi di bordo e aver contribuito al crollo». Per 20 anni, i Benetton hanno incassato pedaggi e risparmiato in sicurezza: «Nonostante la vetustà dell’opera e l’accertato stato di degrado, i costi degli interventi strutturali negli ultimi 24 anni sono trascurabili». Occhio ai dati: «Il 98% dell’importo (24.610.500 euro) è stato speso prima del 1999», quando le autostrade furono donate ai Benetton, e dopo «solo il 2%».Quando c’era lo Stato, l’investimento medio annuo fu di «1,3 milioni di euro nel 1982-1999»; con i Benetton si passò a «23 mila euro circa». Il resto della relazione, che documenta anche il dolce far nulla dei concessionari, ben consci della marcescenza e persino della rottura di molti tiranti, lo trovate alle pagine 2 e 3. Ora provate a confrontare queste parole devastanti con ciò che avete letto in questi 40 giorni sulla grande stampa. E cioè, nell’ordine, che: per giudicare l’inadempimento di Autostrade (i Benetton era meglio non nominarli neppure) bisogna attendere le sentenze definitive della magistratura (una decina d’anni, se va bene); revocare subito la concessione sarebbe giustizialismo, populismo, moralismo, giustizia sommaria, punizione cieca, voglia di ghigliottina e di Piazzale Loreto, sciacallaggio, speculazione politica, ansia vendicativa, barbarie umana e giuridica, cultura anti-impresa che dice “no a tutto”, pericolosa deriva autoritaria, ossessione del capro espiatorio, esplosione emotiva, barbarie, pressappochismo, improvvisazione, avventurismo, collettivismo, socialismo reale, oscurantismo (“Repubblica”, “Corriere”, “Stampa”, il “Giornale”); l’eventuale revoca senz’attendere i tempi della giustizia costerebbe allo Stato 20 miliardi di penali; è sempre meglio il privato del pubblico, dunque le privatizzazioni non si toccano; il viadotto non sarebbe crollato se il M5S non avesse bloccato la Gronda (bloccata da chi governava, cioè da sinistra e destra, non dal M5S che non ha mai governato; senza contare che la Gronda avrebbe lasciato in funzione il ponte Morandi); e altre cazzate.“Repubblica”: «In attesa che la magistratura faccia luce», guai e fare di Atlantia «il capro espiatorio di processi sommari e riti di piazza, tipici del populismo». “Corriere”: revocare la concessione sarebbe «una scorciatoia, un errore e un indizio di debolezza». “La Stampa”: il crollo del ponte è «questione complessa» e nessuno deve gettare la croce addosso ai poveri Benetton (peraltro mai nominati), «sacrificati» come «capro espiatorio contro cui l’indignazione possa sfogarsi», come nei «paesi barbari». Parole ridicole anche per chi guardava le immagini del ponte crollato con occhi profani: se lo Stato affida un bene pubblico a un privato e questo lo lascia crollare dopo averci lucrato utili favolosi, l’inadempimento è nei fatti, la revoca è un atto dovuto e il concessore non deve nulla al concessionario. O, anche se gli dovesse qualcosa, sarebbero spiccioli (facilmente ammortizzabili con i pedaggi) rispetto al danno che deriverebbe dalla scelta immorale di lasciare quel bene in mani insanguinate. Ora però c’è pure la terrificante relazione ministeriale, che va oltre le peggiori aspettative. In un paese serio, o almeno decente, i vertici di Autostrade-Atlantia-Benetton, anziché balbettare scuse o chiedere danni in attesa di farne altri, si dimetterebbero in blocco rinunciando alla concessione, per pudore. E i giornaloni si scuserebbero con i familiari dei 43 morti e uscirebbero su carta rossa. Per la vergogna.(Marco Travaglio, “Mi fate schifo”, dal “Fatto Quotidiano” del 28 settembre 2018, articolo ripreso da “Come Don Chisciotte”, che pubblica anche il link alla relazione istituzionale su Genova, scaricabile dal sito del ministero di Toninelli).Noi non lo sapevamo, ma ogni volta che passavamo in auto sul ponte Morandi di Genova fungevamo da cavie di Autostrade per l’Italia, controllata da Atlantia della famiglia Benetton, che «utilizzava l’utenza, a sua insaputa, come strumento per il monitoraggio dell’opera». Cavie peraltro inutili, inclusi i poveri 43 morti del 14 agosto: «Pur a conoscenza di un accentuato degrado» delle strutture portanti, la concessionaria «non ha ritenuto di provvedere, come avrebbe dovuto, al loro immediato ripristino», né «adottato alcuna misura precauzionale a tutela» degli automobilisti. Lo scrive la Commissione ispettiva del ministero, nella relazione pubblicata dal ministro Danilo Toninelli. Autostrade-Atlantia-Benetton «non si è avvalsa… dei poteri limitativi e/o interdittivi regolatori del traffico sul viadotto» e non ha «eseguito gli interventi necessari per evitare il crollo». Peggio: «Minimizzò e celò» allo Stato «gli elementi conoscitivi» che avrebbero permesso all’organo di vigilanza di dare «compiutezza sostanziale ai suoi compiti». Non aveva neppure «eseguito la valutazione di sicurezza del viadotto»: gl’ispettori l’hanno chiesta e, «contrariamente a quanto affermato nella comunicazione del 23.6.2017 della società alla struttura di vigilanza», hanno scoperto che «tale documento non esiste».
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Pansa: ho paura per l’Italia, golpe in arrivo o guerra civile
Sarà un golpe a far cadere l’esecutivo Conte, incapace di gestire un’Italia ormai nel caos. Giampaolo Pansa, ovvero: l’apocalisse: il gioverno gialloverde «è pericoloso perché fa solo danni al paese, fa solo annunci e non combina niente: prima o poi verrà abbattuto». Fine della democrazia: «Non si andrà a votare: nessuno andrà a votare, perché le forze armate (che sono le sole ad avere le armi) interverranno. E’ la legge della vita». E’ un fiume in piena, Pansa, nel salotto televisivo di Lilli Gruber, su “La7”. Vede un’Italia sull’orlo della guerra civile: «Qui siamo di fronte a quelli che ti rubano la casa e ti ammazzano la moglie. Siamo in situazione di pre-guerriglia…. e sono peggio del fascismo». Salvini? Imprudente, nel rivolgersi alla “pancia” degli italiani. Di Maio e i 5 Stelle? Drammaticamente inadeguati. «Volete Grillo? Volete una nazione governata da Di Maio? Volete che Grillo decida cosa fare della disoccupazione giovanile in Italia? Che decida come far pagare le tasse a chi non le paga, o come rimettere ordine negli asili, dove i bambini non riescono a trovare posto? Cavoli vostri, provateci. Io cerco di starne lontano. Poi – aggiunge – mi rendo conto che, se qualcuno comincia a usare delle armi diverse da quelle della protesta, e quindi comincia a sparare – cosa che avverrà (lo dico qui, la sera del 18 settembre) – non fingiamo di non sapere che questo è un paese pronto per una nuova guerra civile».Ad accogliere le clamorose esternazioni di Pansa, oltre all’attonita Gruber, Antonio Padellaro del “Fatto” e Marco Damilano de “L’Espresso”, il quale ammette che «l’attuale classe dirigente sollecita le frange estremistiche». Padellaro getta acqua sul fuoco, citando Ennio Flaiano: le barricate, gli italiani le fanno “coi mobili degli altri”. «Siamo in Italia: tutte le tensioni che verifichiamo ogni giorno poi si stemperano sempre in qualcosa che assomiglia al melodramma. Non scordiamoci che abbiamo attraversato persino le Brigate Rosse. E a proposito di complotti, abbiamo avuto la P2. Ricordando il passato, forse il presente ci appare meno drammatico». Pansa non concorda: per lui, Padellaro e il Fatto non hanno «gli occhiali giusti per vedere quello che succede davvero». Le Br? Le avremo anche “attraversate”, ma intanto «hanno ammazzato il politico più importante d’Italia, Aldo Moro, dopo averlo tenuto prigioniero per settimane in un “carcere del popolo” che gli apparati dello Stato facevano finta di non trovare». Flaiano? «Bella battuta, la sua, ma da caffè di via Veneto». La verità non è quella, sostiene Pansa: «C’è un odio profondo, che in Italia cova in tutti i ceti, anche in quelli che non consideriamo mai e chiamiamo ceti popolari: pensionati, casalinghe disperate, giovani che non trovano lavoro».Catastrofe imminente? «Io non vedo attorno a me un clima da guerra civile», protesta la Gruber. «Non lo vedi – replica Pansa – perché sei ancora agganciata all’oggi. Anch’io, se sto agganciato all’oggi, non vedo un clima da guerra civile, perché gli italiani pensano alle vacanze, alle donne, al modo di non pagare le tasse. Vorrebbero lavorare poco e guadagnare molto. Questo è un paese che non ha più spina dorsale». L’anziano giornalista, oggi 83enne, vede un odio dilagante e pericolosissimo, alimentato – più che da questo o quel partito – «dallo stato di fatto delle cose». Ammette: «Da un po’ di anni non vado più a votare, perché so che il mio voto verrebbe comunque sprecato: tutti i partiti sono screditati, la casta politica fa schifo». Insiste, Pansa: «Il governo di Di Maio finisce male perché è composto di prepotenti come Salvini o incompetenti che distruggeranno tutto: o finiscono male da soli o li faranno finire male altri». Il futuro è nero, sostiene il giornalista: «Non sono troppo pessimista, ho sempre visto verificarsi delle storie che non immaginavo si sviluppassero in quel modo». E aggiunge: «Quando succederà, la signora Lilli Gruber dirà: quella sera, quel vecchiaccio pessimista del “Giampa” aveva ragione».Fa impressione, ascoltare Giampaolo Pansa nelle vesti di profeta di sventure. Come giornalista fece storia, fin dagli esordi di “Repubblica”: in un’intervista, Enrico Berlinguer consumò il celebre strappo da Mosca (meglio la Nato che il Patto di Varsavia). Nel suo impareggiabile “Bestiario”, rubrica settimanale di Pansa su “L’Espresso”, trovavano posto l’Elefante Rosso e la Balena Bianca, impietosi ritratti del Pci e della Dc, colonne portanti del potere della Prima Repubblica. Ironico e tagliente, irriverente e sempre indipendente, Pansa, fino a dare scandalo con il saggio “Il sangue dei vinti”, bestseller da un milione di copie, vero e proprio tsunami capace di demolire i tabù della Resistenza raccontando le efferate vendette partigiane dell’immediato dopoguerra. Oggi, il vecchio Pansa appare smarrito di fronte ai confusi albori dell’ipotetica Terza Repubblica. Si rivolge a Lilli Gruber in modo affabile: «Tu sei una donna intelligente, una giornalista esperta, hai fatto politica, sei stata pure parlamentare europea». Già, ma la Gruber è anche ospite fissa del Gruppo Bilderberg, dettaglio che Pansa non cita. Gli altri due giornalisti nello studio di “Otto e mezzo” il 18 settembre? Damilano, punta di lancia del gruppo “Espresso-Repubblica”, è impegnato nel cannoneggiamento quotidiano del governo gialloverde, bombardando Salvini con accuse di xenofobia, razzismo e fascismo. Padellaro e il “Fatto”? Più indulgenti con i 5 Stelle, ma rigorosamente allineati all’impostazione neoliberista della narrazione economica: i tagli alla spesa sono sacrosanti, dogmi di fede.Da anziano veggente, come in una tragedia greca, Pansa-Tiresia vede che l’Italia si sta frantumando, ma è come se non sapesse leggere le cause della catastrofe in atto: una rivolta politica generalizzata, classificata comodamente sotto il nome di “populismo”, ma in realtà innescata dall’inaudito sfascio sociale prodotto dall’economia privatizzata “a tradimento” negli anni ruggenti di Pansa e colleghi. Quanti di loro videro davvero quel che si stava preparando? Quanti, tra gli allora fan di Di Pietro e Mani Pulite, si accorsero del summit a bordo del Britannia per la svendita del paese al capitale finanziario globalizzato? In quanti si accorsero del disastroso effetto del divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, che trasformò il debito pubblico in tragedia nazionale? Da eterno battitore libero, oggi Pansa scorge – con angoscia – i sintomi di un malessere che potrebbe anche degenerare in brutalità palese. Ma è come se non avesse ancora metabolizzato la gravità degli eventi maturati nella storia recente, con il “golpe delle élite” che ci ha precipitato nella post-democrazia (ben prima dell’avvento del governo Conte). Se non altro Pansa parla per sé e racconta quello che gli sembra di vedere. Non è impegnato nella fabbricazione quotidiana del consenso, come i propagandisti di “Repubblica” e come la stessa Gruber, che oltre che “donna intelligente” e “giornalista esperta” è anche, di fatto, contigua agli architetti occulti della post-democrazia, gli “sciacalli” che hanno progettato l’attuale sfacelo – che, come dice Pansa, potrebbe anche far saltare in aria il paese.Sarà un golpe a far cadere l’esecutivo Conte, incapace di gestire un’Italia ormai nel caos. Giampaolo Pansa, ovvero l’apocalisse: il governo gialloverde «è pericoloso perché fa solo danni al paese, fa solo annunci e non combina niente: prima o poi verrà abbattuto». Fine della democrazia: «Non si andrà a votare: nessuno andrà a votare, perché le forze armate (che sono le sole ad avere le armi) interverranno. E’ la legge della vita». E’ un fiume in piena, Pansa, nel salotto televisivo di Lilli Gruber, su “La7”. Vede un’Italia sull’orlo della guerra civile: «Qui siamo di fronte a quelli che ti rubano la casa e ti ammazzano la moglie. Siamo in situazione di pre-guerriglia…. e sono peggio del fascismo». Salvini? Imprudente, nel rivolgersi alla “pancia” degli italiani. Di Maio e i 5 Stelle? Drammaticamente inadeguati. «Volete Grillo? Volete una nazione governata da Di Maio? Volete che Grillo decida cosa fare della disoccupazione giovanile in Italia? Che decida come far pagare le tasse a chi non le paga, o come rimettere ordine negli asili, dove i bambini non riescono a trovare posto? Cavoli vostri, provateci. Io cerco di starne lontano. Poi – aggiunge – mi rendo conto che, se qualcuno comincia a usare delle armi diverse da quelle della protesta, e quindi comincia a sparare – cosa che avverrà (lo dico qui, la sera del 18 settembre) – non fingiamo di non sapere che questo è un paese pronto per una nuova guerra civile».
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Carpeoro: il Lussemburgo, fogna d’Europa, accusa Salvini?
Si vergogni, il ministro del Lussembugo che osa insultare Matteo Salvini e, con lui, tutti gli italiani: il Granducato è il peggior paese d’Europa. Il ministro degli esteri Jean Asselborn? «E’ veramente uno dei personaggi più volgari e più idioti che io abbia mai visto: spero che mi quereli, perché dovrebbe farlo davanti a un giudice italiano, e lo voglio vedere un giudice italiano che mi condanna di fronte a questo personaggio». Parola di Gianfranco Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, all’indomani delle esternazioni dell’esponente del governo lussemburghese al summit europeo di Vienna. «In Lussemburgo – ha detto Asselborn – avevamo migliaia di italiani che sono venuti a lavorare da noi, erano migranti che guadagnavano i soldi affinché ne poteste avere per i vostri figli». Poi l’elegante chiosa finale («merda!»), pronunciata sbattendo il microfono, in perfetta consonanza con l’aggettivo “vomitevole” con cui il portavoce di Macron ha definito la politica italiana sui migranti. Carpeoro protesta: «Peggio ancora se l’insulto di Asselborn non era riferito a Salvini: vuol dire che era indirizzato a tutti gli italiani». Che hanno sì lavorato come immigrati nel Granducato, arricchendolo, ma mai quanto i maxi-evasori fiscali, anche italiani, di cui il Lussembugo è stato un sontuoso rifugio.«Il Lussembugo è lo Stato più volgare dell’Unione Europea», dice Carpeoro, senza giri di parole. «E’ il paradiso fiscale dove finiscono tutte le porcherie». Ne sa qualcosa lo stesso presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, che è stato «l’artefice delle porcherie fiscali più gravi e più importanti». Quindi, aggiunge Carpeoro, «non mi meraviglia se un ministro del Lussembugo dice che ci hanno dato loro i soldi per fare figli, in passato, perché erano i nostri soldi: hanno preso i soldi dai nostri evasori e poi, in qualche modo, li hanno un po’ riciclati». Tutti addosso a Salvini, oggi? Purché non ci si metta anche il Lussembugo, paese che farebbe meglio a tacere. Certo, aggiunge Carpeoro, sui migranti Salvini sta recitando una parte, come del resto lo stesso Trump. «A me le modalità di Salvini non piacciono», premette Carpeoro, che però aggiunge: «Il fatto che in questo momento si sia reso “nemico” di una serie di poteri e di espressioni del potere, per certi aspetti mi fa piacere». In altre parole: «Salvini fa quello che può, in un base a una situazione politica scardinata da una “sovragestione” che ha gestito crisi e risorse in maniera da metterla in ginocchio, l’Italia». Un establishment di cui anche l’increscioso Lussembugo fa parte, anche se il suo ministro degli esteri ha la faccia tosta – attaccando Salvini – di insultare gli italiani come popolo.Il Lussembugo, ricorda “Money.it”, è un piccolo paese di appena 550.000 abitanti, al confine con il Belgio, la Francia e la Germania. È a tutti gli effetti un paradiso fiscale, «perché applica una legislazione favorevole alle imprese, che permette alle società di risparmiare miliardi in tasse». Amazon, per esempio, ha la sua sede europea in Lussemburgo e trasferiva tutti i guadagni delle vendite realizzate in Europa attraverso il suo ufficio nel Lussemburgo. Banche e multinazionali: sono almeno 350 le società platenarie domiciliate fiscalmente nel Granducato: tra queste Abn Amro, Axa, Barclays, Bnp Paribas, Black e Decker, Carlyle e Citigroup. E poi Commerzbank, Credit Suisse e Deutsche Bank, FedEx, Gazprom, General Electric, Glaxo, Ikea. Ancora: Hsbc, Heinz, Jp Morgan e Pepsi, Procter & Gamble, Vodafone, Volkswagen, Walmart e Disney. Ben figurano anche marchi italiani come Banca Sella e Dolce e Gabbana, Finmeccanica, Intesa SanPaolo, Prada, Unicredit. Senza contare l’azienda più grande, Fiat-Chrysler, ora Fca. «Il trattamento fiscale ricevuto da Fiat in Lussemburgo grazie agli accordi sottoscritti nel 2012 con il Granducato – scriveva il “Fatto Quotidiano” nel 2016 – ha comportato un “vantaggio illegale”, riducendo di 20 volte l’utile imponibile». Per questo il gruppo automobilistico è stato chiamato a restituire «tra i 20 e i 30 milioni di euro», come stabilito dall’antitrust Ue.Quanto a Juncker, che Carpeoro definisce “l’architetto” di questo colossale sistema di evasione fiscale, l’attuale capo dell’Ue – già al vertice della Banca Mondiale, del Fmi e dell’Eurogruppo – guidò proprio il Lussembugo per 18 anni, dopo aver fatto del Granducato un paese-cavia: Juncker, ricorda “Rete Voltaire”, è stato l’uomo che, per anni, ha messo illegalmente sotto sorveglianza i tre quinti dei suoi concittadini, spiati segretamente dallo Srel, l’intelligence lussemburghese. Per questo, accusato nel 2013 da una commissione d’inchiesta, fu costretto alle dimissioni. Storica pedina dei poteri forti, Juncker fu accusato, in patria, di aver fatto schedare migliaia di persone a loro insaputa, dopo aver coperto la strategia della tensione di marca Gladio, basata su attentati “false flag” realizzati in collaborazione con i servizi segreti tedeschi. Strategia accuratamente collaudata proprio in Lussembugo, prima ancora che in Italia, con attentati a industrie, aeroporti, giornali, tribunali e commissariati di polizia. Sciolta ufficialmente la Gladio nel 1990, aggiunge “Rete Voltaire”, i servizi segreti di Juncker avrebbero poi «continuato a spiare illegalmente singoli individui per motivi privati senza che il premier intervenisse». Il loro direttore operativo, inoltre, creò «una società d’intelligence economica, la Sandstone, utilizzando risorse statali».Questo è il paese-modello dal quale il ministro Jean Asselborn dà lezioni a Matteo Salvini, ricordandogli che gli italiani “straccioni” dovrebbero dire grazie, in eterno, al generoso e nobile Lussembugo, il paradiso terrestre dei maggiori evasori fiscali. Un posto dove, secondo il giornale lussemburghese “Wort”, l’establishment politico tentò di fermare la magistratura che stava cercando di far luce sui sanguinosi attentati terroristici che avevano scosso il paese. Per zittire il giudice Robert Biever, che era giunto ad accusare direttamente il ministro della giustizia Luc Frieden di sabotare le indagini, fu scatenata una campagna di disinformazione e discredito, arrivando a incolpare il magistrato di turismo pedofilo in Thailandia. Gli oscuri attentati degli anni ‘80 contro l’innocuo Lussemburgo servivano a creare una tensione allarmante nella popolazione, al fine di far accettare leggi restrittive e un controllo totale su ogni singola persona, come afferma lo storico svizzero Daniel Ganser, che denuncia i contatti “coperti” tra l’intelligence lussemburghese e il Bnd, il servizio segreto della Germania. Legami storici: non a caso è stata Angela Merkel a piazzare Juncker a capo della Commissione Ue.Si vergogni, il ministro del Lussembugo che osa insultare Matteo Salvini e, con lui, tutti gli italiani: il Granducato è il peggior paese d’Europa. Il ministro degli esteri Jean Asselborn? «E’ veramente uno dei personaggi più volgari e più idioti che io abbia mai visto: spero che mi quereli, perché dovrebbe farlo davanti a un giudice italiano, e lo voglio vedere un giudice italiano che mi condanna di fronte a questo personaggio». Parola di Gianfranco Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, all’indomani delle esternazioni dell’esponente del governo lussemburghese al summit europeo di Vienna. «In Lussemburgo – ha detto Asselborn – avevamo migliaia di italiani che sono venuti a lavorare da noi, erano migranti che guadagnavano i soldi affinché ne poteste avere per i vostri figli». Poi l’elegante chiosa finale («merda!»), pronunciata sbattendo il microfono, in perfetta consonanza con l’aggettivo “vomitevole” con cui il portavoce di Macron ha definito la politica italiana sui migranti. Carpeoro protesta: «Peggio ancora se l’insulto di Asselborn non era riferito a Salvini: vuol dire che era indirizzato a tutti gli italiani». Che hanno sì lavorato come immigrati nel Granducato, arricchendolo, ma mai quanto i maxi-evasori fiscali, anche italiani, di cui il Lussembugo è stato un sontuoso rifugio.
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Altro che Torino-Lione, c’è da salvare un’Italia a pezzi
Quando un viadotto autostradale si sbriciola in un secondo seppellendo morti e feriti, tutte le parole sono inutili. Ma quelle di chi incolpa la pioggia, il fulmine, il cedimento strutturale, la tragica fatalità imprevedibile, il destino più cinico e più baro della “costante manutenzione”, sono offensive. Se l’ennesima catastrofe da cemento disarmato si potesse prevedere, lo accerteranno i tecnici e i giudici. Ma che si potesse prevenire già lo sappiamo, visto che il ponte Morandi aveva due gemelli italiani, di cui uno già a pezzi e l’altro in manutenzione: per tenere sotto osservazione il terzo non occorreva uno scienziato, bastava il proverbio “non c’è il 2 senza il 3”. Se “il monitoraggio era costante”, allora faceva schifo. Se non c’erano “avvisaglie”, è perché non erano state rilevate. Ora, come dopo ogni terremoto o alluvione di media entità e di enorme tragicità, rieccoci a far la conta dei morti e dei danni, mentre le “autorità” giocano allo scaricabarile. E i palazzinari e i macroeconomisti si fregano le mani per gli affari e gli effetti sul Pil della ricostruzione.Se il “governo del cambiamento” vuole cambiare qualcosa, deve partire proprio di qui. Cioè da zero. Con scelte di drastica discontinuità col passato: rivedere le concessioni ai privati che lucrano sui continui aumenti delle tariffe in cambio di manutenzioni finte o deficitarie; e annullare le grandi opere inutili, dal Tav Torino-Lione in giù, per dirottare le enormi risorse (anche ridiscutendone la destinazione con l’Ue) su piccole e medie opere di manutenzione, prevenzione e ammodernamento delle infrastrutture esistenti (finora ignorate perché la grandezza dei lavori e delle spese è direttamente proporzionale a quella delle mazzette). Da quando i partiti che hanno sgovernato finora hanno perso le elezioni e il potere, non fanno che esortare i successori a non disperdere il grande patrimonio ereditato. Invece proprio questo un “governo del cambiamento” deve fare: buttare a mare la pseudocultura dello “sviluppo” gigantista e della “crescita” faraonica; e invertire la scala dei valori e delle priorità.Il crollo di ieri ci dice che un ponte pericolante, figlio di un sistema marcio e corrotto, fa più danni di tutti i terroristi islamici, i migranti clandestini, le epidemie di morbillo e le altre “emergenze” farlocche o gonfiate che occupano l’agenda industrial-politico-mediatica. Se vuole cambiare seriamente, il governo si occupi di cose serie con politiche serie. Confindustria, Confcommercio, Confquesta, Confquellaltra e i loro giornaloni si metteranno a strillare? Buon segno: è a furia di dar retta a lorsignori che siamo finiti tutti sotto quel ponte.(Marco Travaglio, estratto dall’editoriale “Sotto i ponti” pubblicato dal “Fatto Quotidiano” il 15 agosto 2018 e ripreso da “Il Bene Comune Newsletter”).Quando un viadotto autostradale si sbriciola in un secondo seppellendo morti e feriti, tutte le parole sono inutili. Ma quelle di chi incolpa la pioggia, il fulmine, il cedimento strutturale, la tragica fatalità imprevedibile, il destino più cinico e più baro della “costante manutenzione”, sono offensive. Se l’ennesima catastrofe da cemento disarmato si potesse prevedere, lo accerteranno i tecnici e i giudici. Ma che si potesse prevenire già lo sappiamo, visto che il ponte Morandi aveva due gemelli italiani, di cui uno già a pezzi e l’altro in manutenzione: per tenere sotto osservazione il terzo non occorreva uno scienziato, bastava il proverbio “non c’è il 2 senza il 3”. Se “il monitoraggio era costante”, allora faceva schifo. Se non c’erano “avvisaglie”, è perché non erano state rilevate. Ora, come dopo ogni terremoto o alluvione di media entità e di enorme tragicità, rieccoci a far la conta dei morti e dei danni, mentre le “autorità” giocano allo scaricabarile. E i palazzinari e i macroeconomisti si fregano le mani per gli affari e gli effetti sul Pil della ricostruzione.
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Benetton-Spagna grazie ai nostri pedaggi, regalo di D’Alema
«Genova: il crollo è cominciato nel 1999 – scrive “VoxNews” – quando D’Alema ha regalato le autostrade ai Benetton». Oggi si piangono le vittime del viadotto Morandi, collassato per deficit di manutenzione, e secondo l’esecutivo gialloverde per colpa di Autostrade per l’Italia (che avrebbe dovuto, quantomeno, segnalare il pericolo e chiudere l’arteria). Ma se lo Stato non ha più la gestione dell’infrastruttura, e quindi il controllo della sua sicurezza, lo si deve alla grande privatizzazione decisa trent’anni fa dal centrosinistra dalemiano: un esecutivo che vedeva Sergio Mattarella vicepremier e Carlo Azeglio Ciampi al Tesoro, insieme a Giuliano Amato. Poche varianti nel D’Alema-bis: il tecnocrate Franco Bassanini alla funzione pubblica, il boiardo di Stato Antonio Maccanico alle riforme istituzionali e Amato al Tesoro, con Mattarella alla difesa e Vincenzo Visco alle finanze. Erano gli anni ruggenti della “terza via”, il neoliberismo adottato con entusiasmo dalla post-sinistra clintoniana e blairiana: rottamare lo Stato e svendere il patrimonio ai grandi trust privati. Palazzo Chigi trasformato in una merchant bank: lo stesso D’Alema si vantò di aver realizzato il record europeo, in tema di privatizzazioni. Le autostrade? Dall’Iri ai Benetton: l’affare del secolo (ma solo per i Benetton, a quanto pare).Gli imprenditori trevigiani erano partiti molti anni fa con l’abbigliamento a buon mercato, ricorda Fabio Pavesi sul “Fatto Quotidiano”, ma hanno scoperto ben presto che i soldi – quelli veri e tanti – si fanno con i business monopolistici: «Quelli regolati da tariffe e dove la concorrenza sui prezzi, che ha morso sempre di più il tessile-abbigliamento, è del tutto inesistente». Oggi il marchio Benetton è in crisi profonda, mentre i business delle infrastrutture (autostrade e aeroporti, fino alla ristorazione con Autogrill) in cui la famiglia di Ponzano Veneto ha pensato bene di investire alla grande, sfavillano di luce propria. Atlantia, la capofila del gruppo nel settore delle autostrade, ha trovato l’accordo con la Acs di Florentino Perez (patron del Real Madrid) e la sua controllata tedesca Hochtief per “papparsi” la spagnola Abertis, su cui Atlantia aveva lanciato un’Opa da 16 miliardi. Il progetto: una holding in cui proprio Atlantia avrà il 50% del capitale, più un’azione. «Il gruppo dei Benetton entra così in Abertis dal piano superiore. Una mossa che la dice lunga sull’abilità della famiglia di Ponzano Veneto di giocarsi alla grande i suoi investimenti».Del resto, aggiunge Pavesi, il business delle autostrade è da sempre un investimento a prova di rischio, e molto remunerativo.Basta scorrere i numeri di Atlantia che possiede Autostrade per l’Italia, la rete da 3 mila chilometri (solo in Italia) oltre agli Aeroporti di Roma, cui si è aggiunto quello di Nizza, insieme ad altri piccoli scali. La holding infrastrutturale – posseduta al 30% da Edizione, la cassaforte dei Benetton – sforna ogni anno numeri in costante crescita. Nel 2017, Atlantia ha visto i ricavi salire e lambire i 6 miliardi, contro i 5,4 di solo un anno prima. «La crisi economica in Atlantia non si è mai vista. Nel 2010 il fatturato valeva poco meno di 4,5 miliardi. Eppure il traffico sulla rete autostradale negli anni bui era anche diminuito. A far salire in continuazione il fatturato c’è sempre la ciambella di salvataggio delle tariffe. Quelle non scendono mai – scrive il “Fatto” – nemmeno quando l’inflazione va a zero, come è accaduto». E’ il bengodi, per i gestori: lo Stato concede loro di rincarare i pedaggi per coprire gli investimenti. «Anche nel 2017 per Autostrade per l’Italia le tariffe hanno corso di più dell’incremento da volumi di traffico. Ed è proprio Autostrade per l’Italia l’asset più redditizio per l’intera Atlantia. La sola Autostrade ha fatto ricavi per 3,94 miliardi sui 6 miliardi di tutta Atlantia. Pagati costi operativi e del lavoro, Autostrade ha una redditività industriale stratosferica: su 3,94 miliardi di fatturato il margine operativo lordo è di ben 2,45 miliardi. Un livello del 62%. Livelli che pochi raggiungono».Dal 2012 al 2016, continua il “Fatto”, Atlantia ha girato dividendi per la bellezza di 1,5 miliardi. «Una vera “cash machine”, una macchina da soldi che spende sì in investimenti per la manutenzione e ha speso molto per la Variante di Valico, ma con una redditività così elevata si permette il lusso di portare a casa quasi un miliardo di utile netto su 6 miliardi di ricavi. Niente male, per la famiglia veneta, che ha capito già 20 anni fa che quel business era l’affare della vita». Basti pensare, come documenta Mediobanca, che a primavera del 2017 Atlantia ha ceduto due pacchetti del 5% di Autostrade con una plusvalenza di ben 732 milioni. «Ricchi, ricchissimi, un vero tesoro Autostrade/Atlantia per i Benetton». Le perdite del marchio dei maglioni? Fanno solo il solletico – conclude Pavesi – al gruppo che siede sul tesoro delle autostrade italiane, e domani anche di quelle spagnole. Il governo Conte ora annuncia una multa da 150 milioni per il crollo di Genova. Ma la revoca della storica concessione, si apprende, potrebbe costare al paese qualcosa come 20 miliardi. “E’ la privatizzazione, bellezza”. «Durante la grande svendita delle aziende di Stato, costruite con i soldi degli italiani – scrive “VoxNews” – solo comprando e rivendendo dall’Iri la catena Gs, Benetton ha messo a segno una plusvalenza da 4.500 miliardi di vecchie lire. E come nel caso Telecom, di fatto “regalata” all’amico Colaninno, nel 1999 è il governo di Massimo D’Alema a imporre all’Iri di privatizzare le autostrade».Per i Benetton, aggiunge il newsmagazine, si trattava di un grande affare da affiancare a quello di Autogrill, anch’essa acquistata tre anni prima sempre dall’Iri assieme alla catena della grande distribuzione. L’operazione finì nel mirino dell’Antitrust, che chiese ai Benetton di aprire le strade italiane anche ad altri concorrenti della ristorazione. Ma, secondo l’Agcom, il diktat dell’autorità guidata da Giuseppe Tesauro non venne osservato, e per questo nel 2004 i Benetton si beccarono una multa da quasi 16 milioni di euro. «Una puntura di spillo», rispetto alla voragine di miliardi nel frattempo incassati ogni anno. La tragedia di Genova è uno specchio: di neoliberismo privatizzatore si muore. Romperemo i vincoli di bilancio imposti dall’Ue, annuncia Salvini tra le macerie genovesi, pur di mettere in sicurezza la rete nazionale dei trasporti. Ecco il punto: scardinare la consegna del rigore e riconquistare quella sovranità finanziaria che, negli anni della crescita (attraverso il ricorso strategico al debito pubblico) aveva permesso di realizzarle, le infrastrutture che poi il centrosinistra ha svenduto. E’ solo l’inizio di un rivolgimento epocale inevitabile, drammaticamente urgente. D’Alema tace, mentre l’oscuro Orfini accusa Lega e 5 Stelle di ragliare a vanvera. Non una parola di autocritica, dall’ex sinistra che sta assistendo alla sua cancellazione, ingloriosa, dalla storia italiana.«Genova: il crollo è cominciato nel 1999 – scrive “VoxNews” – quando D’Alema ha regalato le autostrade ai Benetton». Oggi si piangono le vittime del viadotto Morandi, collassato per deficit di manutenzione, e secondo l’esecutivo gialloverde per colpa di Autostrade per l’Italia (che avrebbe dovuto, quantomeno, segnalare il pericolo e chiudere l’arteria). Ma se lo Stato non ha più la gestione dell’infrastruttura, e quindi il controllo della sua sicurezza, lo si deve alla grande privatizzazione decisa trent’anni fa dal centrosinistra dalemiano: un esecutivo che vedeva Sergio Mattarella vicepremier e Carlo Azeglio Ciampi al Tesoro, insieme a Giuliano Amato. Poche varianti nel D’Alema-bis: il tecnocrate Franco Bassanini alla funzione pubblica, il boiardo di Stato Antonio Maccanico alle riforme istituzionali e Amato al Tesoro, con Mattarella alla difesa e Vincenzo Visco alle finanze. Erano gli anni ruggenti della “terza via”, il neoliberismo adottato con entusiasmo dalla post-sinistra clintoniana e blairiana: rottamare lo Stato e svendere il patrimonio ai grandi trust privati. Palazzo Chigi trasformato in una merchant bank: lo stesso D’Alema si vantò di aver realizzato il record europeo, in tema di privatizzazioni. Le autostrade? Dall’Iri ai Benetton: l’affare del secolo (ma solo per i Benetton, a quanto pare).
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Disastro privatizzato: così il neoliberismo ci crolla addosso
A poche ore dalla tragedia del crollo del viadotto Morandi a Genova, la prima riflessione di molti cittadini italiani sta andando alla questione tutt’altro che secondaria della privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici. I numerosi crolli di viadotti, strade, scuole, infrastrutture del paese, da sempre giustificata con i vincoli di bilancio, con il debito pubblico, con le richieste di austerity da parte dell’Europa, ci sta mostrando due fatti evidenti: che se non si spende in infrastrutture e manutenzione si mette in pericolo la vita delle persone, il turismo e l’economia di intere zone; e poi che la semplice privatizzazione di infrastrutture lucrose come le autostrade non porta con sé i meravigliosi benefici promessi dalla propaganda neoliberista degli anni ‘80 e ‘90, con la sua retorica del “privato è bello”, della maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico, dei vantaggi per gli utenti. La verità è che con le privatizzazioni si sono spesso creati monopoli, posizioni di rendita di tipo feudale e ingiustificati guadagni per poche famiglie ricche e strettamente legate con i vertici della politica nazionale e internazionale, a danno dei cittadini, che pagano pedaggi assurdamente costosi a fronte di un servizio tutt’altro che ineccepibile.In Italia i principali gruppi privati concessionari delle autostrade sono il Gruppo Gavio (che è il quarto operatore al mondo nella gestione di autostrade a pedaggio con un network di circa 4.156 km di rete e che in Italia, attraverso la società Sias, gestisce circa 1.423 km di rete, fra i quali l’autostrada Genova-Ventimiglia), e il gruppo Atlantia, di proprietà dei Benetton. Un articolo de “Il Fatto Quotidiano” di qualche mese fa, a firma di Fabio Pavesi, metteva in evidenza gli enormi profitti del gruppo Atlantia (le autostrade italiane fino al 1999 furono di proprietà pubblica, del gruppo Iri, con il nome di Società Autostrade, diventata poi nel 2003 Autostrade per l’Italia S.p.A, 100% di proprietà del gruppo Atlantia, che gestisce autostrade a pedaggio anche in altri paesi). Per essere precisi, 1,9 miliardi di utile operativo solo nel 2017 e solo per Autostrade per l’Italia S.p.A e un utile netto di 972 milioni in crescita del 19% sul 2016. Quale vantaggio ne viene ai cittadini italiani? Ovviamente nessuno. La autostrade a pedaggio sono una gallina dalle uova d’oro ad esclusivo appannaggio di potenti gruppi industriali, in assenza di qualsivoglia criterio di efficienza (come periodicamente si legge nelle riflessioni degli economisti più attenti, per esempio in questo articolo de “Il Sole 24 Ore”).Molti ormai cominciano a rimpiangere i tempi dell’Iri, quando era lo Stato a gestire l’immenso patrimonio delle grandi infrastrutture del paese. E molti si chiedono per quale ragione si dovrebbe continuare così. Riflettendo in questi giorni sulle profetiche analisi del sociologo ungherese Karl Polanyi, scritte nel 1944 e pubblicate nel volume “La grande trasformazione”, mi chiedo se il neoliberismo, con i suoi miti di libertà d’impresa, competizione, privatizzazione, deregolamentazione, sia compatibile con la democrazia in generale e con la Costituzione italiana in particolare. La domanda non è originale e la risposta in certa misura è scontata, per chi frequenta la ricca letteratura al riguardo, ma non credo sia inutile ripercorrere le ragioni per le quali la risposta non può che essere negativa. Da queste ragioni deve derivare infatti un giudizio storico e politico nettissimo sulla classe dirigente che ci ha governato dagli anni ‘80 in poi e la motivazione chiara a ribellarci ad uno stato di cose non più tollerabile. Il neoliberismo ha fatto fortuna, anche nelle masse, equivocando sulla parola “libertà”. Chi non è sensibile alle infinite promesse di una parola tanto pregnante? Chi non vorrebbe essere libero? Il problema è però è duplice: quale libertà? E la libertà di chi?La visione liberale dello Stato si fonda sulla difesa delle libertà civili e politiche: libertà di coscienza, di riunione, di associazione, di espressione, eccetera. Esistono però, osserva Polanyi, anche le libertà negative: la libertà di sfruttare i propri simili, di sottrarre all’utilizzo comune scoperte tecnico-scientifiche per proteggere interessi privati, di trarre profitti da calamità collettive, di inquinare l’ambiente. Nell’economia capitalista, queste due forme di libertà sono i due lati della stessa medaglia. Si potrebbe ipotizzare, continua Polanyi, una società futura nella quale le libertà “positive”, accompagnate da una regolamentazione adeguata, possano essere estese a tutti i cittadini. “Regolamentare” vuol dire porre limiti ai privilegi di una minoranza, proteggere i più deboli dal potere soverchiante di chi detiene la proprietà, correggere gli squilibri economici e sociali, controllare e sanzionare i comportamenti dannosi alla collettività, permettere a tutti i cittadini, anche a quelli svantaggiati, di esercitare le libertà “positive”. Questa società futura sarebbe libera e giusta insieme.Ma ad impedire questo esito (la diffusione della libertà) è proprio l’“ostacolo morale” dell’utopismo liberale (quello che chiamiamo “neoliberismo”), di cui lui riconosceva il massimo esponente nell’economista Von Hayek. La visione neoliberista è utopica perché predica l’assenza del controllo e dell’intervento dello Stato in ambito economico e sociale, proprio mentre invoca l’esercizio della forza e anche della violenza dello Stato a difesa della proprietà. Detto in parole povere, per il neoliberismo lo Stato è al servizio della proprietà individuale e della libera impresa, cioè di quei pochi che non hanno bisogno di incrementare il proprio reddito, il proprio tempo libero e la propria sicurezza, e agisce a svantaggio delle libertà di tutti gli altri. La libertà neoliberista è solo prerogativa dei ricchi (anche se a parole è disponibile a tutti) e non può essere estesa a tutti, perché questo minaccerebbe la proprietà. Chi è povero lo è per colpa sua ed è solo un perdente nella competizione per la ricchezza. La libertà è in sostanza la libertà di arricchirsi senza vincoli né regole. Il neoliberismo (l’utopismo liberale), concludeva Polanyi, è intrinsecamente e incorreggibilmente antidemocratico e autoritario, perché piega lo Stato a difendere gli interessi di una minoranza a danno della maggioranza.Non per nulla il primo esperimento di Stato neoliberista fu il Cile di Augusto Pinochet, dove “libertà” significava azzeramento dei sindacati e dei diritti delle comunità, privatizzazioni selvagge, liberalizzazioni finanziarie e repressione delle libertà civili. Qui il neoliberismo si sposa con il fascismo. Ma c’è anche un modo meno cruento per effettuare un colpo di Stato: corrodere un giorno dopo l’altro, per decenni, i diritti e i redditi dei cittadini, asservirli al potere finanziario, vincolarli a norme-capestro che li rendano schiavi di interessi estranei, modificare la Costituzione a danno della sovranità popolare, indebolire i lavoratori e i sindacati, assecondare gli interessi dei più forti, non intervenire a ridurre le disuguaglianze, privatizzare i beni pubblici, ridurre la spesa sociale, distrarre continuamente l’attenzione pubblica con falsi problemi e individuare sempre nuovi bersagli per la rabbia popolare, colpevolizzare i cittadini per la loro condizione e controllare i mass-media, in modo che veicolino continuamente la visione che più fa comodo ai manovratori (quella che Marcello Foa ha chiamato “il frame”, la cornice), martellare per anni e decenni i cittadini con un linguaggio economicista pieno di concetti come imprenditorialità, libertà d’impresa, debiti e crediti, competizione, eccetera – insomma costruendo un’ideologia che giustifichi e renda accettabile la progressiva riduzione in schiavitù di interi popoli, tenendone a bada l’inevitabile scontento con il senso di colpa, la paura e la menzogna.Questo è ciò che è successo da noi in questi ultimi decenni. Questo è l’imperdonabile tradimento della Costituzione e dei suoi valori realizzato da una classe politica avida e asservita a gruppi di potere nazionali e sovranazionali che l’hanno telecomandata a danno nostro. Il neoliberismo non è solo di una teoria economica, ma di un modello complessivo di società, sorretto da un poderoso e contraddittorio apparato ideologico, incompatibile con la democrazia, come sono incompatibili con la democrazia i monopoli privati di beni collettivi. Il viadotto di Genova è un simbolo di ciò che deve finire in Italia e nel mondo se vogliamo avere un futuro democratico. La globalizzazione neoliberista, che esalta il libero mercato, mentre mira a costituire monopoli e posizioni di forza, sta mettendo in ginocchio interi popoli. Povertà e disuguaglianza aumentano di giorno in giorno a livello globale. Non è più accettabile mantenere in piedi privilegi feudali, massacrando sogni e speranze di miliardi di persone.Il filosofo John Rawls sosteneva che una disuguaglianza è accettabile solo se migliora anche le condizioni di chi ha di meno. La ricchezza non è un male, ma lo è l’ingiusta distribuzione di essa. La libertà senza giustizia sociale è solo un guscio vuoto e uno specchio per le allodole. Questo dice in sostanza la nostra Costituzione. Se la vogliamo difendere, dobbiamo consegnare al passato il neoliberismo, memori della sofferenza e dei disastri che ha provocato. Non vedo altra via d’uscita dal tunnel nel quale ci troviamo. Deve essere lo Stato a regolare l’economia e il fine dell’economia deve essere il benessere dei cittadini. Il mercato non è in grado di autoregolarsi affatto e laddove i governi sono collusi con i potentati economici stanno tradendo la sovranità popolare. Non dimentichiamoci la frase pronunciata dal miliardario Warren Buffett (il terzo uomo più ricco al mondo) a proposito della diminuzione delle tasse per i ricchi: «La lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi». Tanto per ricordarci di che cosa c’è in gioco: non la lotta contro la ricchezza, ma la lotta contro una visione predatoria della ricchezza e contro la menzogna che ci rende schiavi da troppo tempo di un’élite che ha consapevolmente e pazientemente costruito il mondo squilibrato nel quale ci troviamo – di cui troviamo il ritratto nel libro di Gioele Magaldi, “Massoni: società a responsabilità illimitata”, editore Chiarelettere.(Patrizia Scanu, “Il neoliberismo è compatibile con la democrazia?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 15 agosto 2018).A poche ore dalla tragedia del crollo del viadotto Morandi a Genova, la prima riflessione di molti cittadini italiani sta andando alla questione tutt’altro che secondaria della privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici. I numerosi crolli di viadotti, strade, scuole, infrastrutture del paese, da sempre giustificata con i vincoli di bilancio, con il debito pubblico, con le richieste di austerity da parte dell’Europa, ci sta mostrando due fatti evidenti: che se non si spende in infrastrutture e manutenzione si mette in pericolo la vita delle persone, il turismo e l’economia di intere zone; e poi che la semplice privatizzazione di infrastrutture lucrose come le autostrade non porta con sé i meravigliosi benefici promessi dalla propaganda neoliberista degli anni ‘80 e ‘90, con la sua retorica del “privato è bello”, della maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico, dei vantaggi per gli utenti. La verità è che con le privatizzazioni si sono spesso creati monopoli, posizioni di rendita di tipo feudale e ingiustificati guadagni per poche famiglie ricche e strettamente legate con i vertici della politica nazionale e internazionale, a danno dei cittadini, che pagano pedaggi assurdamente costosi a fronte di un servizio tutt’altro che ineccepibile.
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#MattonellaDimettiti, lesa maestà e fake news istituzionali
Cultori sfegatati del nuovo genere letterario di giornaloni, quello delle fake news sulle fake news, leggiamo e collezioniamo tutto. Non ci perderemmo una puntata per nessuna ragione al mondo. Lo spettacolo dell’establishment che prende scoppole in tutto il mondo perché sta sulle palle ai cittadini e, anziché guardarsi allo specchio, cerca in Russia la spiegazione dei suoi continui fiaschi, è semplicemente impagabile. L’establishment ordina agli inglesi di votare no alla Brexit e quelli votano sì? Dev’essere un complotto dei russi a suon di fake news. L’establishment intima agli americani di votare Hillary Clinton contro Trump e quelli eleggono Trump? Sarà per le fake news diffuse da Putin. L’establishment raccomanda agli italiani di votare sì al referendum costituzionale e quelli votano no? Ci dev’essere sotto la congiura delle fake news moscovite. L’establishment diffida gli italiani dal premiare il populismo sovranista 5Stelle e la Lega e quelli corrono a votare 5Stelle e Lega? Le solite fake news della propaganda moscovita. L’establishment beatifica Mattarella che rifiuta il governo Conte con dentro Savona e subito Facebook e (molto meno) Twitter pullulano di messaggi contro Mattarella e pro Conte&Savona? La solita regìa dei troll russi, provenienti stavolta da San Pietroburgo.Il bello è che i fabbricanti di complotti un tanto al chilo sono gli stessi che accusano i populisti sovranisti di complottismo. Dopodiché anche i loro complotti, alla prova dei fatti, si rivelano quello che sono: balle, bufale, patacche, fake news (al cubo). Memorabile il caso di “Beatrice Di Maio”, il nickname di Fb additato dalla “Stampa” come il Grande Vecchio grillin-casaleggiano delle fake news contro Renzi, Boschi, Lotti & C.: peccato fosse la moglie di Brunetta. Una storia da manuale del boomerang, che fa il paio con le accuse di razzismo lanciate dal Pd al governo Conte perché un gruppo di giovinastri aveva lanciato un uovo a un’atleta di colore, poi frettolosamente ritirate dopo la scoperta che un lanciatore era il figlio di un consigliere comunale Pd. Ora ci risiamo. I giornaloni non riescono proprio a digerire che il 27 maggio, quando Mattarella rispedì a casa Conte per via di Savona, molti italiani si siano incazzati da soli: se i social tracimavano di commenti critici o insultanti, non era perché chi aveva appena votato M5S e Lega si sentisse defraudato e invocasse le dimissioni del capo dello Stato; ma perché c’era dietro Putin con la sua fabbrica di troll a San Pietroburgo. Infatti, per un’intera settimana, ci hanno ammorbati con una cascata di articoloni e titoloni.Tutti ispirati dal Colle (bastava leggere le firme: quelle dei quirinalisti), finché il pool Antiterrorismo della Procura di Roma (non è uno scherzo: è tutto vero), la Dia, la Polizia Postale, i servizi segreti e il Copasir non hanno aperto inchieste per vilipendio al capo dello Stato e attentato alla sua libertà. Roba da 20 anni di galera, come minimo. Poi i servizi hanno subito detto che non c’è una sola prova sui famosi troll russi. E chi aveva titolato “L’attacco al Colle via Twitter. Alcune ‘firme’ del Russiagate dietro i messaggi contro il capo dello Stato”, “Le manovre dei russi sul web e l’attacco coordinato a Mattarella”, “Interventi sulla politica italiana dai troll russi che spinsero Trump”, (“Corriere”), “La questione russa in Italia. Interferenze cyber”, “Interferenze russe sul voto del 4 marzo” (“La Stampa”), “Dalla propaganda di Putin 1500 tweet per Lega e 5Stelle”, “Una pioggia sui social in arrivo da San Pietroburgo”, “Il Pd nel mirino dei troll russi” (“Repubblica”), che ha fatto? Ha chiesto scusa per tutte le balle raccontate e lasciato perdere? Macché: fischiettando con grande nonchalance, ha infilato un paio di righette qua e là negli articoli – non più nei titoli – per dire che i russi non c’entrano nulla, o non c’è alcuna prova che c’entrino. Cioè: le critiche al presidente italiano erano tutte italiane. Dunque su chi si indaga, e per quale reato? Sui cittadini che, tutelati dall’articolo 21 della Costituzione, postano sui social il loro legittimo dissenso sulla massima carica, manco fossimo nella Russia di Putin?Mentre il boomerang volteggia all’indietro su chi l’aveva lanciato – cioè il Quirinale sempre più simile al Cremlino – i quirinalisti ispirati dall’alto tentano di intercettarlo in tempo con le nude mani: «Si cerca – scrive ieri il “Corriere” – di far passare Mattarella come un uomo permaloso che, credendosi un semidio, vorrebbe rianimare almeno il reato di lesa maestà». Già, l’impressione è proprio questa. «Manca solo che accusino il Quirinale di istigare i magistrati a recuperare la cultura greca del delitto di hybris» per «veder marcire in galera chiunque si pronunci criticamente su di lui». Già, la sensazione è proprio questa. Invece no: Egli, «nella sua imperturbabilità zen» e immensa bontà, adora chi lo critica, ma solo «in una dialettica accettabile in democrazia, ciò che esclude insulti e minacce». Resta da capire dove siano insulti e minacce nell’hashtag #MattarellaDimettiti dei tweet sotto inchiesta, prima made in Russia e ora rientrati nella cinta daziaria (lo “snodo di Milano”). Ma tutto è bene quel che finisce bene, o quasi.“Repubblica”, mentre autosmentisce una settimana di titoli sulla Russia con una sola frasina («gli account utilizzati per le campagne di influenza dei russi della Internet Research Agency di San Pietroburgo hanno cessato di operare nell’autunno scorso», dunque solo «mani italiane»), monta un’intera pagina su una notizia sensazionale: in Italia i siti dei 5Stelle rilanciano i messaggi di Di Maio e degli altri 5Stelle. Roba forte. Non solo: le critiche a Mattarella furono «un assalto squadrista» (tipo quelli di “Repubblica” a Leone e Cossiga) finalizzato nientepopodimenoché a «eccitare la coscienza del paese». Accipicchia. E chi è stato? «Consolidati network di condivisione di contenuti para-giornalistici di segno sovranista, piuttosto che populisti». Mecojoni. E non è mica finita: «Sono evidenti le stimmate e la regia politica». Perbacco: le pagine Fb di «quelli che si dicono 5S» chiedevano l’impeachment di Mattarella. Chi l’avrebbe mai detto? Una addirittura postava una domanda dal chiaro contenuto eversivo: «Siete d’accordo con Di Maio che invoca la messa in stato d’accusa di Mattarella?». E qualcuno osò financo rispondere, non so se mi spiego. Seguono i nomi dei putribondi mandanti: «Tale Piergiorgio, alias ‘Pierre’ Cantagallo», «Grande Cocomero classic» (il nostro preferito), «tale Francesco Camillo Soro» da Las Palmas. E ho detto tutto. Che si aspetta ad arrestarli, fustigarli, convertirli in appositi campi di rieducazione? L’Antiterrorismo non ponga altro tempo in mezzo.E, già che c’è, non trascuri le indagini sulla leggendaria «fabbrica delle fake news» e sull’inquietante «fiume di denaro che porta a Londra, a Mosca, in Albania», smascherati mesi fa dai segugi di “Repubblica”, che ne inseguirono le tracce fino al covo operativo: «Una fabbrica di manufatti in alluminio a Terni». Lì, «in una sera gelida di novembre, durante una pausa di cambio turno, Leonardo, un metalmeccanico di 34 anni, ex punk, la terza media in tasca e i soldi per comprare il primo modem non più di sei anni fa, apre le porte del Sistema». Roba grossa, di cui però non si seppe più nulla. Se non che – fu sempre “Repubblica” a rivelarlo, con grave sprezzo del pericolo – «Leonardo di cognome fa Piastrella», ma quando diventa un «cavaliere nero dell’intossicazione online», si fa chiamare “Ermes Maiolica”, molto ricercato dai «broker pubblicitari». Perché voi non ci crederete, ma «più traffico hai, più soldi prendi dalla pubblicità». Strano, eh? Infatti «in Rete ha cominciato a fare capolino un certo Vincenzo Ceramica. Provate a indovinare chi sia». Sono mesi che tratteniamo il fiato, in attesa che qualcuno sveli l’arcano – se non “Repubblica”, che abbandonò la pista proprio sul più bello, almeno l’Antiterrorismo. Se il sor Piastrella c’entra col sor Maiolica, c’entrerà anche col sor Ceramica? E non è che l’hashtag eversivo #MattarellaDimettiti era un messaggio in codice per il sor Mattonella?(Marco Travaglio, “#MattonellaDimettiti”, dal “Fatto Quotidiano” del 9 agosto 2018, ripreso da “Il bene comune newsletter”).Cultori sfegatati del nuovo genere letterario di giornaloni, quello delle fake news sulle fake news, leggiamo e collezioniamo tutto. Non ci perderemmo una puntata per nessuna ragione al mondo. Lo spettacolo dell’establishment che prende scoppole in tutto il mondo perché sta sulle palle ai cittadini e, anziché guardarsi allo specchio, cerca in Russia la spiegazione dei suoi continui fiaschi, è semplicemente impagabile. L’establishment ordina agli inglesi di votare no alla Brexit e quelli votano sì? Dev’essere un complotto dei russi a suon di fake news. L’establishment intima agli americani di votare Hillary Clinton contro Trump e quelli eleggono Trump? Sarà per le fake news diffuse da Putin. L’establishment raccomanda agli italiani di votare sì al referendum costituzionale e quelli votano no? Ci dev’essere sotto la congiura delle fake news moscovite. L’establishment diffida gli italiani dal premiare il populismo sovranista 5Stelle e la Lega e quelli corrono a votare 5Stelle e Lega? Le solite fake news della propaganda moscovita. L’establishment beatifica Mattarella che rifiuta il governo Conte con dentro Savona e subito Facebook e (molto meno) Twitter pullulano di messaggi contro Mattarella e pro Conte&Savona? La solita regìa dei troll russi, provenienti stavolta da San Pietroburgo.