Archivio del Tag ‘web’
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L’Italia è nella spazzatura, e loro fan la guerra ai sacchetti
L’Italia è stata trasportata in discarica e serve quanto prima un sacchetto. Possibilmente biodegradabile… Il cervello e l’intelligenza del gregge oramai sono un optional e un vero e proprio mistero. Viviamo in una dittatura oligarchica sfacciatamente manifesta, nella quale ci hanno svuotato e privato di ogni diritto, libertà e sovranità (monetaria, economica, politica) e il popolino si preoccupa e si scandalizza per il sacchetto della spazzatura! Migliaia di persone su Facebook e nel web si stanno mobilitando per acquistare le zucchine senza sacchetto. Spedizioni punitive di consumatori furibondi entrano nei supermercati con la maschera di Anonymous per prendere in ostaggio le bilance pesa-verdura. Ha ragione il grande Natalino Balasso quando dice che siamo un popolo da «rivoluzione polleggiata». «Siamo i Pile Fighter: combattenti con la tuta di pile e le ciabatte a forma di Brunetta che si scandalizzano per le ingiustizie di X-Factor». E’ come affogare in un oceano e preoccuparsi dello schizzetto di fango nella maglietta Nike… Abbiamo una gigantesca trave nel didietro e un anello al naso, ma il gregge si preoccupa di pesare singolarmente frutta e verdura per attaccare le etichette evitando così di pagare l’ingiusto balzello legato al sacchetto.
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Così parlò Mattarella: anche lo Stato adesso ha paura
Cosa abbiamo scorto di nuovo nel discorso di fine anno, ed in questo caso anche di fine legislatura, fatto dal presidente della Repubblica a reti unificate? La paura. La paura del futuro che si fa largo anche tra coloro che per un lungo periodo si sentivano al caldo sicuri della propria forza di controllo mediatico e finanziario della massa della popolazione. La gestione del controllo proveniva anche da un ruolo che lo Stato attraverso i propri governi e le dirigenze ministeriali esprimevano e portavano avanti nel rapporto capitale-lavoro. La globalizzazione ha creato delle circostanze differenti in cui i media sono sempre più difficili da gestire e la finanza con tutta la sua forza economica si è liberata di certi vincoli che la costringevano ad osservare i dettami di banche centrali e governi in carica. Il capitale si è liberato dalla politica fino addirittura a sublimarsi dalla realtà verso i mercati finanziari lasciando gli Stati in circostanze complicate con aumenti della disoccupazione, afflussi di migranti, caduta di investimenti pubblici e privati e la riduzione delle entrate fiscali rispetto alle previsioni che comportano poi incrementi dell’aliquota Iva. Inoltre le riforme strutturali che l’Fmi ha imposto agli Stati aderenti al trattato hanno contribuito al processo di sublimazione del capitale rispetto alla realtà, di conseguenza anche dalla politica, comparto da sempre odiatissimo a cui ha dovuto elargire somme non meritate.Non a caso Mattarella lancia un monito preciso contro il “risentimento”, perché sa benissimo che un ritorno della psicologia di massa verso l’istinto tribale della chiusura verso lo straniero è già nei pensieri di troppa gente che si è vista spogliare progressivamente del proprio benessere. Il nazionalismo infatti purtroppo ritorna ad essere argomento di discussione animata, più o meno consapevole, sul web con una dirompenza ed una accelerazione molto più marcata rispetto a ciò che accadeva nei bar e nei circoli prima del Ventennio. Lo Stato ha paura perché ha la consapevolezza della propria esclusione dalla regolazione del rapporto capitale-lavoro. Appena tenta di metterci le mani è inevitabile la creazione di vincoli che il capitale non accetta e vola via, altrove. Si guardi al modo con cui i fondi d’investimento intervengono nell’economia reale e come i governi e lo Stato si rapportino con essi. Ma lo Stato non è pronto neanche ad affrontare una eventuale conduzione autarchica come le forze di destra o comunque nazionaliste vorrebbero. Questa forma di Stato è attualmente immobilizzata.Le persone avvertono il disagio, pensano nella forma nuova ossia puramente individuale che ormai ha assunto un valore normativo legittimato in tutto il mondo, ma non sanno bene a chi dare la colpa se non istintivamente al “non-io” e al “non-noi”, vale a dire “l’altro”, soprattutto “il migrante economico”. Negli occhi di Mattarella sembra proprio trasparire questa paura, avverte il risentimento della psicologia di massa e sa bene che è molto peggio di ogni altro fenomeno che ha contrastato la Repubblica nei suoi 70 anni di pace. Il richiamo ai millennials (i nati dal 1999) alla loro responsabilità di giovanissimi uomini che devono necessariamente attivarsi per il loro futuro è un altro elemento su cui Mattarella cerca di far leva per condividere con qualcuno le proprie paure senza però dare niente di tangibile in cambio. I partiti hanno la stessa paura di Mattarella poiché il loro destino è legato alle evoluzioni istituzionali della Costituzione che oggi è completamente spiazzata dalle circostanze in cui verte proprio il rapporto capitale-lavoro. Non a caso la Costituzione lo aveva messo nel suo primo articolo. Il fatto che il lavoro sia menzionato nell’articolo 1 non significa che sia un diritto universale.Se lo Stato che ha questa Costituzione non se ne riappropria, dimostrandone una capacità di gestione effettiva ed efficace, pone fine a quel patto sociale tra massa e Stato che si era consolidato progressivamente nella storia recente, soprattutto dopo la distruzione e la perdita di una guerra mondiale. La gestione di questa paura, che Mattarella ha chiamato risentimento presso la massa nascondendo la propria, sarà il principale nodo rispetto al quale le varie forze politiche che agiscono sul territorio italiano dovranno confrontarsi. La destra nazionalista, di fatto avvantaggiata poiché è proprio grazie alla paura nella massa che ha trovato la sua linfa per risorgere, dovrebbe dimostrare che può riappropriarsi del potere a tal punto da poter gestire il rapporto capitale-lavoro. Cosa che non ha assolutamente in dote come ogni altro partito attuale. La parte amministrativa dello Stato è completamente bloccata nel proprio ruolo e affogata in concezioni politiche dello sviluppo obsolete, per cui lo Stato è immobilizzato davvero.(“Il discorso di Mattarella ovvero lo Stato ha paura”, dal newsmagazine “Senza Soste” del 2 gennaio 2018).Cosa abbiamo scorto di nuovo nel discorso di fine anno, ed in questo caso anche di fine legislatura, fatto dal presidente della Repubblica a reti unificate? La paura. La paura del futuro che si fa largo anche tra coloro che per un lungo periodo si sentivano al caldo sicuri della propria forza di controllo mediatico e finanziario della massa della popolazione. La gestione del controllo proveniva anche da un ruolo che lo Stato attraverso i propri governi e le dirigenze ministeriali esprimevano e portavano avanti nel rapporto capitale-lavoro. La globalizzazione ha creato delle circostanze differenti in cui i media sono sempre più difficili da gestire e la finanza con tutta la sua forza economica si è liberata di certi vincoli che la costringevano ad osservare i dettami di banche centrali e governi in carica. Il capitale si è liberato dalla politica fino addirittura a sublimarsi dalla realtà verso i mercati finanziari lasciando gli Stati in circostanze complicate con aumenti della disoccupazione, afflussi di migranti, caduta di investimenti pubblici e privati e la riduzione delle entrate fiscali rispetto alle previsioni che comportano poi incrementi dell’aliquota Iva. Inoltre le riforme strutturali che l’Fmi ha imposto agli Stati aderenti al trattato hanno contribuito al processo di sublimazione del capitale rispetto alla realtà, di conseguenza anche dalla politica, comparto da sempre odiatissimo a cui ha dovuto elargire somme non meritate.
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Tolstoj: se paghi le tasse, finanzi il sistema che ti domina
C’è un bel saggio di Tolstoj – il Tolstoj vecchio, quello più pericoloso – che in Italia è stato tradotto solo nel 1989, pensate: un terzo della produzione di Tolstoj non tradotta in Italia fino all’89 perché troppo pericolosa. Impressionante. Quindi, le biografie italiane di Tolstoj – compresa quella, famosa, di Citati, ancora nelle librerie – sono fatte su due terzi dell’opera di Tolstoj: manca un terzo, che sono i suoi saggi terribili, popolarissimi prima della Prima Guerra Mondiale, che hanno determinato un sacco di guai, per i regimi del tempo. C’era una vignetta interessante su “Le Figaro”, dove si vedeva lo Zar Nicola II piccolino così, spaventato, che scappava, e Tolstoj (enorme) che voleva dargli una pacca sulla testa, per punirlo – pensate che fama aveva. Ecco, è un saggio del 1908, che si intitola “Di chi è la colpa”. Era un periodo brutto, per la Russia: Nicola II era quasi impazzito, a quel tempo, e permetteva ai cosacchi di fare di tutto – dai pogrom alle sciabolate durante le manifestazioni, esecuzioni capitali ogni giorno. E Tolstoj fa un brevissimo elenco di 7-8 righe su quello che è terribile, in Russia, in quel periodo, e dice: quante pene di morte ci sono al giorno? Nove, dieci. Quanta gente viene deportata?Proprio Nicola II aveva cominciato a fare le deportazioni forzate. Tutta la popolazione di una regione viene presa e viene messa in fondo alla Siberia, in un posto che ha sempre l’isobara di gennaio totalmente negativa. Capitava alle sètte religiose. C’era quella dei Molochany, quella dei Duchobory – Molochany vuol dire “bevitori di latte”, perché erano ultra-vegetariani, mentre i Duchobory aborrivano le armi: si rifiutavano di usare persino i coltelli. Gruppi ritenuti pericolosi per la società russa, quindi deportati in massa. E Tolstoj, arrabbiato contro questo, scrive un libro, “Resurrezione”. Gli fanno dei contratti pazzeschi, in tutto il mondo. Tutti i soldi che prende da “Resurrezione”, Tolstoj li usa per comprare una nave e un pezzo di Canada. Dopodiché manda i suoi figli a raccogliere tutti i Duchobory lungo la strada della deportazione, li carica sulla nave nel Mar Nero e li porta in Canada, dove vivono ancora adesso i loro discendenti, che tuttora parlano russo. Tutto ciò, con “Resurrezione”: una cosa grandiosa. Era un pericolo vivente, Tolstoj: non potevano ammazzarlo, né arrestarlo, perché troppo famoso. E in Italia di questo s’è saputo pochissimo, tra l’altro, fino agli anni ‘90.Il saggio “Di chi è la colpa” dice: le cose in Russia vanno male. Di chi è la colpa? Tutti quanti dicono: dello Zar. Ma lo Zar – dice Tolstoj, che era un nobile russo dell’alta società – è un ometto piccolo così, che gioca a tennis e a cricket tutto il tempo. Lui scrive diari, la Zarina segue Rasputin. Come fa, uno così, a dominare 180 milioni di russi? Non può essere tutta colpa sua, la colpa sarà della corte. Ci sono tremila persone, a corte, che fanno i loro maneggi – allora non c’erano le multinazionali, c’erano le corti. Colpa loro, quindi? Ma io, dice Tolstoj, sono vissuto in mezzo a questi fin da bambino: è gente che si fa gli affari suoi, che cerca vantaggi personali anche piccoli; sono tutti indebitati, si sono rovinati con il gioco tutti quanti, bevono come spugne. Come volete che facciano, queste duemilacinquecento persone, a dominare 180 milioni di russi? Allora la colpa è del governo, della Duma, del Parlamento. Inclusi sottosegretari e uscieri, sono settemila persone. Può darsi che sia colpa loro, dice Tolstoj. Però, aggiunge, sono settemila, mentre i russi sono 180 milioni. Come fanno, ’sti settemila, a imporre il loro dominio su 180 milioni di persone?Dicono che esiste il potere, ragiona Tolstoj, che ha sempre odiato questa parola. Cos’è il potere? Nessuno l’ha mai definito. Napoleone sposta cinquecentomila uomini, dalla Francia alla Russia, e ne muoiono 480.000. Napoleone, si dice, aveva un grande potere. Ma era un turacciolo, spinto da una marea di francesi che – chissà perché – volevano andare in Russia e sono morti tutti lì. Il potere? Io non ci credo, dice Tolstoj. E poi questi parlamentari, fisicamente, cosa fanno? Vanno dal russo e gli dicono “tu mi obbedisci”? Se vanno dal Mugik, quello li uccide: li mangia, se non c’è nessuno che guarda. Quindi il problema non sono quei tremila. Chi può essere, allora? L’esercito. Qui ragioniamo, dice: sono quattro milioni di persone. E quello russo era l’esercito più potente del mondo. Ma cos’è un esercito? E’ un insieme di soldati. Va bene, e cos’è un soldato? Questa era il modo di ragionare di Tolstoj, affascinante: sembra un bambino, che fa domande su domande. Dunque, che differenza c’è tra un soldato e un normale cittadino? Le armi: il soldato ha le armi. Le ha comprate lui? No. Gliele ha pagate lo Zar? No. Il governo? No. La corte? Nemmeno. Le armi gliele hanno pagate le tasse. E quindi: chi ha pagato le armi, che fanno diventare un uomo un soldato? E’ chiaro che sei stato tu, perché le tasse le hai pagate tu. E allora: tu perché le paghi, le tasse?E’ chiaro che questo libro qui non poteva uscire negli anni Trenta, non poteva uscire negli anni Settanta e non può uscire oggi. Io l’ho fatto nell’89, questo librone (“Perché la gente si droga”, sono 800 pagine di saggio di Tolstoj). Era un periodo buono, quello. L’Ottantanove, poco prima di Berlusconi. Lì è uscito, il libro. E’ andato molto bene, poi è sparito. E non lo ripubblicano più, perché è troppo pericoloso. Se tu metti una pagina di quel libro lì su Internet, su Facebook, il giorno dopo ricevi una comunicazione della questura, perché è un reato. Oggi, fare questo discorso è un reato: perché è un’esortazione a non rispettare una legge della nazione. Non pagare le tasse? Grave: ti trovi subito nei guai. Tolstoj poteva, a quel tempo. E l’idea è questa: se tu paghi le tasse, perché le paghi? Cosa ti spinge a pagarle? La psicologia del dominio, in realtà, è tutta qua. E’ vero: il dominio non è l’esercizio di un potente, è l’esercizio di un potente condizionato all’approvazione del suddito. Anche la multinazionale può manipolarti, ma si regge sugli acquisti: e tu puoi smettere, di comprare. Sartre diceva: l’uomo è condannato a essere libero; se è servo, è perché ha scelto lui di esserlo.(Igor Sibaldi, estratto della conferenza nell’ambito del seminario “Psicologia del dominio”, svoltosi il 3 dicembre 2017 con Salvatore Brizzi, Giorgio Galli e Calogero Falcone, ripreso su YouTube).C’è un bel saggio di Tolstoj – il Tolstoj vecchio, quello più pericoloso – che in Italia è stato tradotto solo nel 1989, pensate: un terzo della produzione di Tolstoj non tradotta in Italia fino all’89 perché troppo pericolosa. Impressionante. Quindi, le biografie italiane di Tolstoj – compresa quella, famosa, di Citati, ancora nelle librerie – sono fatte su due terzi dell’opera di Tolstoj: manca un terzo, che sono i suoi saggi terribili, popolarissimi prima della Prima Guerra Mondiale, che hanno determinato un sacco di guai, per i regimi del tempo. C’era una vignetta interessante su “Le Figaro”, dove si vedeva lo Zar Nicola II piccolino così, spaventato, che scappava, e Tolstoj (enorme) che voleva dargli una pacca sulla testa, per punirlo – pensate che fama aveva. Ecco, è un saggio del 1908, che si intitola “Di chi è la colpa”. Era un periodo brutto, per la Russia: Nicola II era quasi impazzito, a quel tempo, e permetteva ai cosacchi di fare di tutto – dai pogrom alle sciabolate durante le manifestazioni, esecuzioni capitali ogni giorno. E Tolstoj fa un brevissimo elenco di 7-8 righe su quello che è terribile, in Russia, in quel periodo, e dice: quante pene di morte ci sono al giorno? Nove, dieci. Quanta gente viene deportata?
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Microchip sottopelle per pagare il treno, se viaggi in Svezia
Niente più biglietti o sms, per viaggiare sui treni svedesi basta un microchip sottopelle. La compagnia ferroviaria di Stato svedese “Sj” ha cominciato ad accettare biglietti caricati su microchip impiantati nella mano dei viaggiatori, annuncia il “Corriere della Sera”. Basta solo essere iscritti al programma di fedeltà e avere già il microchip impiantato nel proprio corpo. «In Svezia sono circa già 3.000 le persone dotate del microchip (che usa la tecnologia Nfc Near Field Communication, quella delle carte di credito) e passate quindi allo stadio di cyborg, cioè organismi cibernetici composti da corpo naturale e uno o più elementi artificiali». Niente di così diverso, in teoria, dai pazienti cardiaci che da decenni vivono con un pacemaker o un defibrillatore impiantato nel torace e collegato al cuore, scrive Stefano Montefiori sul “Corriere”. «Quelle però sono tecnologie avanzate e costose destinate a salvare la vita del malato, mentre nel caso svedese si tratta di un piccolo congegno grande quanto un chicco di riso, del costo di circa 150 euro, che serve per rendere più facili alcune operazioni della vita quotidiana». I passeggeri svedesi lo utilizzano per viaggiare: possono comprare il biglietto sul web o sull’applicazione “Sj” e, una volta connessi con il loro numero di “programma fedeltà”, il titolo di trasporto viene caricato sul microchip.Sui treni svedesi, il controllore avvicina il lettore alla mano del passeggero e appaiono tutti i dati del biglietto. «Qualcuno ha sollevato dubbi sulla privacy – dice un portavoce della compagnia – ed è una questione che prendiamo molto sul serio. Ma se davvero la paura è di essere tracciati, allora sono più preoccupanti smartphone e carte di credito». Dopo gli orologi connessi che monitorano il sonno e il battito cardiaco o il riconoscimento facciale usato per fare acquisti o il check-in agli aereoporti (lo usa la Finnair), i microchip simili a quelli usati da anni sugli animali «vengono impiantati nell’uomo per aprire e chiudere le porte degli uffici senza bisogno di digitare un codice, accendere e spegnere le luci, pagare il caffé alla macchinetta e adesso, appunto, mostrare il biglietto al controllore delle ferrovie di Stato svedesi», aggiunge Montefiori. I circa 3.000 microchip già in uso in Svezia, spiega il giornalista, hanno cominciato a essere impiantati tra il pollice e l’indice della mano all’inizio del 2015 dalla start-up Epicenter, a Stoccolma, che propone ai dipendenti di usarli per entrare nell’azienda, fare funzionare le stampanti o comprare una bottiglietta d’acqua ai distributori automatici. «Impiantare qualcosa di elettronico nel corpo è stato un passo importante anche per me – dice Patrick Mesterton, capo di Epicenter – ma poi diventa naturale e molto comodo».Altre aziende, in Belgio e negli Usa, hanno seguito l’esempio svedese. In Australia, scrive ancora il “Corriere”, centinaia di persone hanno già fatto ricorso al servizio “Chip My Life”, fondato da Shanti Korporaal. «Ma è la prima volta che il microchip viene usato in un’azienda rivolta al grande pubblico come le ferrovie svedesi». La tendenza di incorporare la tecnologia nell’uomo fa immaginare a Elon Musk (Tesla, Space X, Neuralink) un futuro prossimo in cui i nostri cervelli saranno collegati a Internet: «Le persone non capiscono che già adesso sono dei cyborg. Se ti dimentichi il cellulare ti senti come se ti mancasse un braccio. Ci stiamo già fondendo con i telefonini e la tecnologia». Tra i non entusiasti si segnala Massimo Mazzucco, inorridito dall’ennesima inquietante innovazione tecnologica di massa introdotta dal paese scandinavo: «Più passa il tempo, più mi convinco che la Svezia sia stata scelta come laboratorio umano per far passare le successive “rivoluzioni” del nuovo ordine mondiale», scrive Mazzucco su “Luogo Comune”.«Prima c’è stata la rivoluzione cash-free, nella quale un popolo di beoti ha accettato con entusiasmo l’idea di abolire progressivamente il contante, fino ad arrivare ad una moneta esclusivamente elettronica, mettendosi interamente nelle mani di un qualunque banchiere, che può decidere da un giorno all’altro di azzerare tutto quello che hanno». In seguito, continua Mazzucco, «gli svedesi si sono vantati di essere i primi ad aver sperimentato il microchip sottopelle per pagare il biglietto del treno». Fa impressione guardare con quale orgoglio i “testimonial” dei video promozionali raccontano di aver fatto parte di questo esperimento. «Naturalmente, una volta impiantato, quel microchip tornerà utile per metterci mille altre cose: il problema principale era quello di farlo accettare, e a quanto pare i “controllori del treno” ci sono riusciti in pieno».Infine, gli svedesi «stanno studiando una “rivoluzione” nel campo sessuale», eliminando la spontainetà nei rapporti. E’ infatti in preparazione una legge secondo la quale «gli adulti svedesi potrebbero essere condannati per violenza sessuale a meno di ricevere un segnale verbale o non verbale di consenso dal loro partner, durante ogni passaggio dell’incontro sessuale». In altre parole, scrive Mazzucco, uno svedese dovrebbe chiedere alla sua ragazza “ti posso baciare?” prima di baciarla, “ti posso toccare?” prima di toccarla, “ti posso penetrare?” prima di penetrarla. «Altrimenti rischia di finire in prigione. E a quanto pare sono tutti convinti che questo sia “il progresso”». Conclude Mazzucco: «Poveri svedesi, una volta erano considerati all’avanguardia per quel che riguarda la società civile e il diritto individuale, ora stanno passando all’avanguardia per quel che riguarda il processo di rincoglionimento globale».Niente più biglietti o sms, per viaggiare sui treni svedesi basta un microchip sottopelle. La compagnia ferroviaria di Stato svedese “Sj” ha cominciato ad accettare biglietti caricati su microchip impiantati nella mano dei viaggiatori, annuncia il “Corriere della Sera”. Basta solo essere iscritti al programma di fedeltà e avere già il microchip impiantato nel proprio corpo. «In Svezia sono circa già 3.000 le persone dotate del microchip (che usa la tecnologia Nfc Near Field Communication, quella delle carte di credito) e passate quindi allo stadio di cyborg, cioè organismi cibernetici composti da corpo naturale e uno o più elementi artificiali». Niente di così diverso, in teoria, dai pazienti cardiaci che da decenni vivono con un pacemaker o un defibrillatore impiantato nel torace e collegato al cuore, scrive Stefano Montefiori sul “Corriere”. «Quelle però sono tecnologie avanzate e costose destinate a salvare la vita del malato, mentre nel caso svedese si tratta di un piccolo congegno grande quanto un chicco di riso, del costo di circa 150 euro, che serve per rendere più facili alcune operazioni della vita quotidiana». I passeggeri svedesi lo utilizzano per viaggiare: possono comprare il biglietto sul web o sull’applicazione “Sj” e, una volta connessi con il loro numero di “programma fedeltà”, il titolo di trasporto viene caricato sul microchip.
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American Moon: davvero saremmo andati sulla Luna?
“American Moon”, ovvero: ci siamo stati davvero, sulla Luna? E’ la domanda a cui cerca di rispondere Massimo Mazzucco, con l’atteso documentario – appena uscito, acquistabile on-line su “Luogo Comune – che indaga sul mitico “allunaggio” televisivo, in mondovisione, andato in onda a reti unificate il 20 luglio 1969. A metter piede per la prima volta sul satellite sarebbe stato Neil Armstrong, comandante della missione Apollo 11, accompagnato da Buzz Aldrin, mentre un terzo astronauta, Michael Collins, controllava il modulo di comando Columbia. “American Moon” parla della storia dei viaggi lunari a partire dagli anni ’60, spiega Stefania Nicoletti sul blog “Petali di Loto”, condotto insieme a Paolo Franceschetti. «In particolare viene esaminata la veridicità del primo sbarco sulla Luna, ma viene anche descritto il contesto storico e politico in cui nacque e si sviluppò il progetto delle missioni Apollo». Mazzucco analizza le argomentazioni a favore degli allunaggi e quelle contrarie, esaminando video e fotografie, dettagli tecnici, i tanti incidenti e le contraddizioni, i misteriosi silenzi degli astronauti, assai reticenti sull’impresa che li ha consegnati alla storia. L’autore fornisce anche prove inedite. La conclusione? E’ praticamente impossibile credere che quelle immagini siano state davvero girate sulla Luna.Innanzitutto, Mazzucco inquadra il il contesto storico che ha portato al primo allunaggio. Il 18 settembre 1963, il presidente Kennedy espone al direttore della Nasa, James Webb, i suoi dubbi sulle missioni lunari. «A me sembra una montagna di soldi per andare sulla Luna, quando possiamo scoprire scientificamente, con gli strumenti, quasi tutto quello che ci interessa». E aggiunge: «Mandare un uomo sulla Luna è soltanto un numero da circo che non vale tutti quei miliardi di dollari». Parole molto chiare, considerando soprattutto il fatto che a pronunciarle è il presidente degli Stati Uniti. Soltanto due giorni dopo, continua Stefania Nicoletti, sempre nel contesto della guerra fredda tra Usa e Urss, in un discorso all’Onu lo stesso Jfk fa un appello alla collaborazione con i sovietici: chiede che i russi – i primi a mandare un uomo nello spazio, Yurij Gagarin – collaborino con l’America, per una spedizione congiunta sulla Luna. Il capo dell’Urss, Nikita Khrushev, risponde picche. E dive: vedremo cosa riusciranno a combinare gli americani. «In seguito, l’impressione è che Kennedy sia quasi costretto a proseguire nell’impresa e che, pur essendo scettico, non possa rifiutarsi di andare avanti». E il 22 novembre 1963, come sappiamo, viene ucciso a Dallas.«Nel frattempo i russi continuarono ad addestrare i propri astronauti e a portare avanti un programma segreto per andare sulla Luna». Ma nel gennaio 1966, Sergej Korolev, responsabile del programma spaziale sovietico, muore improvvisamente durante un banale intervento chirurgico. Aveva lanciato il primo satellite, lo Sputnik, e aveva messo in orbita Gagarin. Korolev aveva concepito l’intero programma spaziale sovietico, ed era l’unico in grado di mandare avanti la controparte russa del programma americano Apollo. «Una morte assai strana, che causò confusione e disagi nell’agenzia sovietica. Infatti in seguito il programma spaziale russo, dopo diversi incidenti e fallimenti, subì un arresto». Nell’autunno 1965, il generale Samuel Phillips, direttore del progetto Apollo, presentò ai suoi superiori un rapporto che denunciava senza mezzi termini lo stato di confusione e di arretramento del programma lunare. «Dopo 4 anni e mezzo e a poco più di un anno dal primo lancio spaziale – scrive Phillips – vi sono ancora significativi problemi tecnici e incognite che riguardano: le capacità del sistema elettrico, la propulsione secondaria, l’integrità strutturale, l’incremento del peso».Tutti problemi ancora da risolvere. «Cosette da niente, insomma. E sottolineiamo il fatto che a parlare è il direttore stesso del programma Apollo», annota Stefania Nicoletti. «Invece di risolversi, i problemi denunciati da Phillips continuavano ad aumentare: pezzi costruiti e installati male, cavi elettrici fragili e forse rotti, perdite di carburante dappertutto nel sistema, difficoltà con l’equipaggiamento e con le procedure, incidenti e scarsi standard di sicurezza, mancanza di coordinamento fra le persone in posizione di responsabilità, mancanza di comunicazione praticamente fra tutti. Tutte queste cose furono denunciate nel gennaio 1967 da Thomas Baron, un addetto alle verifiche della North American, la società appaltatrice». Proprio in questo contesto di problemi e di approssimazioni si arriva al famoso incidente del 27 gennaio 1967. «Durante una simulazione a terra di Apollo 1, tre astronauti furono bruciati vivi sulla rampa di lancio, all’interno della capsula che avrebbe dovuto portarli nello spazio tre settimane dopo». Poco prima di morire, l’astronauta Virgil Grissom si è lamentato per il malfunzionamento delle comunicazioni fra la capsula e la torre di controllo: «Come faremo ad andare sulla Luna se non riusciamo nemmeno a parlare fra tre edifici?».A questo punto, continua Nicoletti, il programma cominciò ad andare sempre più in crisi. Secondo il direttore della Nasa, Webb (colui che nell’incontro con Kennedy del ’63 si dimostrava entusiasta e ottimista), le possibilità di andare sulla Luna diminuivano di anno in anno, anziché aumentare. Nell’ottobre 1968 Webb lasciò la Nasa, pochi mesi prima della missione Apollo 8. «Strano che un uomo che aveva dedicato la sua vita alle missioni spaziali e che era stato a capo della Nasa negli anni cruciali del programma Apollo, improvvisamente decida di dimettersi, a un passo dalla sua realizzazione». Non solo: all’inizio del 1968 si era già dimesso il vicedirettore dell’agenzia spaziale Usa, Robert Seamans. E quattro giorni dopo le dimissioni di Webb, anche l’astronauta Walter Schirra annuncia le proprie dimissioni e si ritira a vita privata. «Molto strano anche in questo caso che un astronauta che faceva parte dei leggendari Mercury 7 lasci la Nasa pochi mesi prima del primo sbarco sulla Luna, che sarebbe stato una consacrazione, per lui».Sono tanti, poi, gli elementi che non quadrano nella versione ufficiale degli allunaggi, secondo il documentario di Mazzucco. «Le famose “rocce lunari”, che si disse fossero di composizione diversa da quella terrestre, è probabile che in realtà siano meteoriti recuperati in Antartide. Casualmente Werner von Braun, insieme ad altri membri della Nasa, visitò proprio l’Antartide in una spedizione nel 1967 alla ricerca di meteoriti provenienti dalla Luna. Inoltre, molte di queste rocce lunari riportate dagli astronauti di Apollo risultarono essere false o modificate». In occasione del Google Lunar X Prize, un premio assegnato da Google alla prima organizzazione privata che riuscirà a mandare una sonda sulla Luna trasmettendo le immagini in diretta, la Nasa chiede di disporre una “no-fly zone” per «preservare storicamente» i luoghi di allunaggio delle missioni Apollo. «I partecipanti al concorso hanno improvvisamente deciso di ritirarsi, rinunciando così anche al premio di 4 milioni di dollari».Altro scoglio, le Fasce di Van Allen: avvolgono e proteggono l’atmosfera terrestre, «sono radioattive ed è impossibile superarle». Lo stesso scopritore, il fisico statunitense James Van Allen, metteva in guardia dalla pericolosità loro delle radiazioni. «Poi però, quando arrivò il momento dei lanci sulla Luna, il problema della radioattività scomparve: la Nasa disse che le radiazioni a cui sono stati sottoposti gli astronauti erano “trascurabili”». Altrri dubbi sorgono osservando il modulo lunare Lem, piccola navetta spaziale progettata per portare gli astronauti sulla superficie della Luna. «Sembra un modellino in scala gigante: all’esterno sono ben visibili tubi d’acciaio e fogli di cartapesta, tenuti insieme con del semplice scotch appiccicato un po’ dappertutto. Non si capisce come si sia potuti andare sulla Luna con uno strumento costruito in modo così approssimativo. Ed è costato oltre 2 miliardi di dollari dell’epoca, che equivalgono ad oltre 21 miliardi di dollari in valuta attuale». I progetti originali del Lem non esistono più: la ditta costruttrice li ha buttati, ufficialmente perché «occupavano troppo spazio». Quindi, dei documenti così importanti sarebbero stati eliminati come se fossero scarti di magazzino.Molto strani anche i video in cui si vede la partenza del razzo dalla superficie lunare: «Non c’è la fiamma sotto al motore», inoltre «il motore non produce rumore», ma in compenso «si sente ad alto volume la musica di un registratore portatile azionato da uno degli astronauti».In più, ufficialmente, la Nasa ha “perso” i nastri originali del primo passo sulla Luna di Armstrong. O meglio, quei nastri non si trovano più: «Uno dei documenti più importanti della storia dell’umanità, che dovrebbe essere custodito in modo perfetto, semplicemente “non si trova”, e la Nasa lo confessa candidamente». Tra le altre stranezze dell’affare-Luna, spicca la luce che si vede nelle foto: «Sembra un’illuminazione artificiale in uno studio, più che la luce del sole. Anche le ombre prodotte dagli astronauti e dagli oggetti sono tipiche della presenza di luce artificiale e non del sole». E ancora: «In alcuni video si vedono gli astronauti che cadono e si rialzano in maniera non naturale e anche un po’ goffa, come se fossero legati a dei fili che li fanno muovere per simulare l’assenza di gravità. E in effetti in alcuni fotogrammi sembra proprio di vedere i riflessi dei cavi d’acciaio a cui sarebbero appesi gli astronauti».Da segnalare, infine, il comportamento degli astronauti: «Al ritorno dalla prima missione Apollo, in conferenza stampa, i tre astronauti sono tesi, cupi, tristi», annota Stefania Nicoletti. «Danno risposte imbarazzanti e non ricordano cose importanti che gli vengono chieste. Sembrano sconvolti e obbligati a stare lì e a recitare un copione controvoglia». Eppure, in teoria, sono appena tornati dalla missione più emozionante della loro vita: uno degli eventi più importanti della storia dell’umanità. Tre eroi, quindi, che però si affrettano a dire addio alle missioni spaziali, cambiando mestiere: «I primi tre astronauti che sbarcarono sulla Luna, invece di perseguire una carriera di successo ai vertici della Nasa come ci si aspetterebbe, decisero improvvisamente di abbandonare l’agenzia spaziale poco dopo la loro missione. Tutti e tre si licenziano dalla Nasa». Neil Armstrong scompare dalla scena e si ritira a vita privata: «Va a vivere in campagna, decide di non concedere più interviste, diventa schivo e inavvicinabile». Peggio: «Si rifiuta di partecipare alla cerimonia per la conclusione delle missioni Apollo. Proprio Armstrong, l’astronauta più importante di tutti».E il suo collega Buzz Aldrin? «Cadde in depressione e mise in guardia i giovani dal mestiere di astronauta e dalle possibili delusioni», ricorda Stefania Nicoletti. Aldrin esortò gli esordienti a prepararsi al peggio, perché «le cose potrebbero non andare come previsto», disse. E aggiunse:: «La gente ci considera degli eroi, ma la verità è che la Luna ci ha distrutti». Durante una cerimonia alla presenza dell’allora presidente Bill Clinton, Armstrong pronunciò una frase ambigua e misteriosa, parlando della necessità di «rimuovere uno degli strati che proteggono la verità». In seguito, Armstrong si rifiutò di partecipare alle celebrazioni del quarantennale delle missioni Apollo. «Interpellati da un giornalista, Armstrong e gli altri due astronauti di Apollo 11 si rifiutano di giurare sulla Bibbia di essere stati veramente sulla Luna. Il loro comportamento è piuttosto sospetto e le reazioni appaiono esagerate», sottolinea Stefania Nicoletti, ricordando che in America «una testimonianza giurata in video può essere portata in tribunale contro la persona che ha fatto questo giuramento». Il documentario di Mazzucco, quindi, fornisce «un quadro a nostro avviso piuttosto chiaro, che confuta alcune delle più famose argomentazioni proposte dai cosiddetti “debunkers”, ovvero coloro che dedicano il loro lavoro a smontare le teorie alternative». Dopo aver visto “American Moon”, come credere ancora che siamo davvero andati sulla Luna?“American Moon”, ovvero: ci siamo stati davvero, sulla Luna? E’ la domanda a cui cerca di rispondere Massimo Mazzucco, con l’atteso documentario – appena uscito, acquistabile on-line su “Luogo Comune” – che indaga sul mitico “allunaggio” televisivo, in mondovisione, andato in onda a reti unificate il 20 luglio 1969. A metter piede per la prima volta sul satellite sarebbe stato Neil Armstrong, comandante della missione Apollo 11, accompagnato da Buzz Aldrin, mentre un terzo astronauta, Michael Collins, controllava il modulo di comando Columbia. “American Moon” parla della storia dei viaggi lunari a partire dagli anni ’60, spiega Stefania Nicoletti sul blog “Petali di Loto”, condotto insieme a Paolo Franceschetti. «In particolare viene esaminata la veridicità del primo sbarco sulla Luna, ma viene anche descritto il contesto storico e politico in cui nacque e si sviluppò il progetto delle missioni Apollo». Mazzucco analizza le argomentazioni a favore degli allunaggi e quelle contrarie, esaminando video e fotografie, dettagli tecnici, i tanti incidenti e le contraddizioni, dai dubbi di Kennedy alle invalicabili Fasce di Van Allen che avvolgono la Terra. E poi i misteriosi silenzi degli astronauti, assai reticenti sull’impresa che li avrebbe consegnati alla storia. L’autore fornisce anche prove inedite. La conclusione? E’ praticamente impossibile credere che quelle immagini siano state davvero girate sulla Luna.
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Ratto: questa scuola fabbrica soltanto servi, ragazzi infelici
I ragazzi sono spinti ad accettare tutto da una scuola che educa alla servitù, al non lamentarsi, alla sottomissione. A scuola si esercita una forma di terrorismo già dai primi anni delle secondarie superiori. Si ripete cioè: occhio, guarda che siamo in crisi – cosa che è sempre molto utile da ribadire – e quindi sarà difficilissimo trovare lavoro. Dunque prendi qualsiasi cosa ti capiti, non alzare la testa, non farti valere, sottomettiti alle logiche neoliberiste e a tutto quello che ne consegue. Quindi nessuno si lamenta più. Il fatto stesso che nel mio liceo qualcuno abbia osato lamentarsi del freddo, visto che si viveva in gran parte delle aule e dei corridoi a 14 gradi per sei ore di seguito, ha suscitato un grandissimo scalpore. Quasi tutti gli insegnanti si sono nascosti dietro a un dito. Da un lato speravano che i ragazzi si lamentassero perché loro stessi avevano freddo. Dall’altro, però li punivano se lo facevano, “perché io devo interrogare, perché io devo spiegare”. Insomma, il sistema che si sta creando è un sistema che insegna molto bene a sottomettersi. Faccio un esempio per tutti: è un classico trovare il ragazzo che ti dice: «Il tema è andato bene perché ho detto quello che voleva la professoressa». Questo è il modo grazie al quale, con una gravissima responsabilità da parte nostra, noi produciamo servi.E questa scuola – che ha preso spunto dal sistema d’istruzione statunitense – è una scuola fortemente globalizzata, finalizzata esattamente a questo genere di obiettivo. L’aspetto negativo è questa trasformazione progressiva che l’istruzione pubblica ha subìto in una logica aziendale, dal 2000 in avanti. La scuola è sempre più un sistema, in cui i ragazzi sono stati progressivamente trasformati in “clienti”. Tramite questa scuola dell’autonomia, i singoli istituti locali si sono trovati in competizione per attirare più “clienti” possibili. Quindi questo ha significato anche promuoverli più facilmente. Si è creata una situazione in cui si è parlato sempre più di “saperi minimi”. Si è diffusa una disistruzione di ragazzi sempre meno a conoscenza dei fatti, sempre meno istruiti. E in questa situazione, dopo una prima fase di coccole, siamo entrati nella seconda fase, quella attuale, in cui gli alunni sono oramai inebetiti, annichiliti, con una bassa cultura, così come probabilmente un certo sistema vuole, così come il modello americano impone. Quindi una cultura molto bassa, un grado di consapevolezza pressoché pari a zero. Passioni politiche, interessi, convinzioni religiose pari a zero, nel senso che basta aderire alla tradizione: ragazzi che in classe te li trovi come delle specie di mummie, non interessati a nulla se non all’ultima generazione di smartphone.In qualche modo gli elettori ideali, i cittadini consumatori ideali, individui che sono come delle nere lavagne vuote, su cui puoi scrivere quello che vuoi. E’ come sottomettere l’insegnamento dei valori elevati della vita alle esigenze di un pensiero neoliberista, perché in realtà ormai chi va a scuola è inserito nell’ottica del profitto, del primeggiare sugli altri, ognuno per sé. La stessa introduzione del concetto di credito scolastico, avvenuta con la riforma Berlinguer, ha portato a una svalutazione della centralità del voto, con la sua connotazione morale: se prendevi quattro ti vergognavi, ti sentivi un verme perché avevi preso quattro. Adesso il voto è solo un tramite per arrivare a un punteggio e il punteggio è il più possibile appiattente: annulla molto le differenze tra i più bravi e i meno bravi. E soprattutto è l’anticamera dei soldi: i ragazzi a scuola sono tirati su in forte competizione gli uni con gli altri, finalizzando tutto a prendere più credito possibile, più punteggio possibile, per una questione utilitaristica. C’è questa idea del sapere che deve servire a qualcosa. Sempre più spesso, mentre spiego, mi capita di sentirmi interrompere da qualcuno: “Questa cosa la dobbiamo sapere? Questa cosa serve?”. Non è che ci siano la passione o l’interesse: c’è soltanto l’interrogativo rispetto a quanto ciò che diciamo possa poi essere spendibile in termini di credito, in termini di pezzi di carta, in termini di soldi, in termini occupazionali.Una delle strategie che io trovo più orrende è proprio quella dell’orientamento scolastico. Cioè i ragazzi vengono convogliati solo in alcuni rami, in alcuni percorsi di studio universitario e poi occupazionale: quelli che interessano a chi gestisce l’aspetto tecnologico, quelli più valorizzati nel sistema economico, scoraggiando invece inclinazioni artistiche, inclinazioni letterarie e umanistiche. Perché? Perché ormai da un po’ di tempo sappiamo tutti che la potenza di uno Stato è basata sulla sua capacità tecnologica, su quella economico-capitalistica e non certo sulla bellezza delle sue opere d’arte o sulla musica, come in Italia invece dovrebbe essere. Si indottrinano persone che interiorizzano che l’unica cosa che conta sono i soldi, attraverso l’insegnamento della scuola, della televisione e della pubblicità. Bisogna apparire, bisogna essere di successo. Tra i vari termini orrendi di cui si alimentano tutte le ultime riforme scolastiche, c’è quella del “successo formativo”, che in qualche modo gonfia di significato il vuoto di una conoscenza spesso piuttosto mediocre. È chiaro che è tutta una rincorsa a costruire una società, un sistema di persone che ha in cima alla sua scala di valori questo apparire, questo possedere, questo avere più soldi possibile, ma infelice.La cosa che noto di più è questa diffusissima infelicità che si dirama dai ragazzi di quest’età, fino poi agli individui di età superiore. Una società in cui ogni individuo non è messo nelle condizioni di essere ciò che è, ovvero di realizzare sé stesso, costituirà una società di infelici. Ce l’ha insegnato Platone ne “La Repubblica” e di fatto le cose stanno effettivamente andando in questa direzione. Quale valore ha il dubbio e come lo si coltiva, in un mondo che emargina gli anticonformisti? Il dubbio ha un valore totale. Io dico sempre ai miei ragazzi: se c’è un’unica cosa che deve restarvi nell’animo, alla fine dei cinque anni di liceo, quella cosa è il dubbio. La cultura è soltanto quello. Non è il sapere, ma è il dubbio di non sapere. E d’altra parte, socraticamente, la questione è sempre la stessa: è il sapere di non sapere che fa la differenza tra chi è (forse) sapiente, e chi no. Sapiente nel senso che sa che non sa, e che quindi deve continuare a cercare. Quando non è scetticismo fine a se stesso, il dubbio scatena voglia di capire, voglia di interessarsi, di cercare. E dunque scatena un impegno personale, individuale, mette in gioco aspirazioni che portano poi a un percorso individuale di crescita continua. Finché c’è dubbio c’è la crescita, quando si arriva alla certezza si smette di crescere.È una scuola che invece svende il sapere a un livello estremamente banale, marginale. Una scuola che sforna esperti. Seminare, senza curarsi del raccolto? Uno dei più grandi filosofi dell’ottocento, Kierkegaard, ha insistito moltissimo su questo aspetto. E dopo lui altri, compreso in Italia Augusto Del Noce. I problemi insiti in una cultura per obiettivi è stato analizzato benissimo dai grandi filosofi come un pericolo enorme, perché se un obiettivo venga raggiunto o meno è qualcosa che si valuta dal di fuori, nel momento in cui viene esternato. Questa cultura per obiettivi di fatto vanifica e banalizza il lavoro, che spesso non è valutabile così facilmente da un punto di vista esteriore. Mi ricordo quando ho cominciato a insegnare, all’inizio degli anni 90: ci si lamentava molto della riforma di Gentile. Di fatto la scuola reggeva ancora su quelle che erano le linee direttive della scuola gentiliana della metà degli anni Venti. E si diceva: è una scuola fascista o comunque nata in quell’ambito. Ma c’erano dei concetti, come quello della vocazione all’insegnamento, come una missione con un ruolo che non può essere in nessun modo insegnato, perché l’insegnante quel ruolo ce l’ha dentro. Insegnante è colui che sa insegnare perché dentro di sé è insegnante. C’era una fiducia nei nostri insegnanti, che poi di fatto è la fiducia che forse avevamo gli uni nei confronti degli altri.Una società invece basata su questo clima del sospetto – questo mettere tutti contro tutti, questo smantellamento di ogni valore – ha portato a tutta una serie di privazioni e di abbassamenti del valore degli insegnanti, così come di moltissimi altri profili. L’insegnante adesso è un impiegato. Non ci sono più i presidi, ci sono i “dirigenti”, in una logica assolutamente aziendale. L’insegnante non può essere l’impiegato, quello che compila i moduli, quello che progetta per rendere la scuola sempre più apprezzabile dall’esterno. Deve essere un insegnante nel senso di “lasciare un segno”. Invece gli insegnanti oggi non lasciano nulla: lasciano il vuoto, quel vuoto che ci portiamo dietro tutti e che abita nella nostra società. Io credo che questa scuola non sia certo ormai il luogo ideale per l’apprendimento. Quella che può insegnare è una scuola invece fatta di insegnanti veri, persone che sanno lasciare un segno, che coinvolgono, che danno un’impronta importante ai ragazzi. Sì, la Rete è importante: io insegno filosofia e storia, non termino mai una lezione di storia che non finisca con questa esortazione: «Andate a informarvi». E informarsi vuol dire andare a cercare.C’è il problema della verità: come faccio a sapere chi ha la verità? Questo è un problema, ma forse la verità non è tanto la conseguenza di una certa testimonianza: forse la verità è il dialogo tra le varie testimonianze. Cioè forse la verità è il confronto: forse la verità sta nel problematizzare non nel risolvere. E si ritorna a quello che secondo me è l’aspetto fondamentale: la cultura sta nella domanda, non nella risposta. Io esorto gli studenti a pretendere una scuola che li coinvolga, che li interessi, che li appassioni. Avete diritto ad una scuola che vi faccia saltare sulle sedie, che vi prenda. Una scuola nella quale il tempo passi alla stessa velocità con cui passa quando siete col fidanzato, quando siete a giocare a calcio, quando state suonando la chitarra con il vostro gruppo. Deve essere una scuola interessante nel senso proprio di interessarvi, di farvi entrare all’interno del meccanismo, di farvi partecipare. Voi vi meritate una scuola così, una scuola che in qualche modo vi chiami in causa, che vi faccia sentire vivi e che riesca a produrre in voi la felicità, cioè accordare per ognuno di voi la propria strada e la propria capacità di realizzare se stessi.(Pietro Ratto, dichiarazioni rilasciate a Claudio Messora nella video-intervista “Noi insegnanti produciamo servi”, pubblicata su “ByoBlu” il 15 dicembre 2017. Scrittore, filosofo e saggista, il professor Ratto ha appena pubblicato il romanzo “La scuola nel bosco di Gelsi”).I ragazzi sono spinti ad accettare tutto da una scuola che educa alla servitù, al non lamentarsi, alla sottomissione. A scuola si esercita una forma di terrorismo già dai primi anni delle secondarie superiori. Si ripete cioè: occhio, guarda che siamo in crisi – cosa che è sempre molto utile da ribadire – e quindi sarà difficilissimo trovare lavoro. Dunque prendi qualsiasi cosa ti capiti, non alzare la testa, non farti valere, sottomettiti alle logiche neoliberiste e a tutto quello che ne consegue. Quindi nessuno si lamenta più. Il fatto stesso che nel mio liceo qualcuno abbia osato lamentarsi del freddo, visto che si viveva in gran parte delle aule e dei corridoi a 14 gradi per sei ore di seguito, ha suscitato un grandissimo scalpore. Quasi tutti gli insegnanti si sono nascosti dietro a un dito. Da un lato speravano che i ragazzi si lamentassero perché loro stessi avevano freddo. Dall’altro, però li punivano se lo facevano, “perché io devo interrogare, perché io devo spiegare”. Insomma, il sistema che si sta creando è un sistema che insegna molto bene a sottomettersi. Faccio un esempio per tutti: è un classico trovare il ragazzo che ti dice: «Il tema è andato bene perché ho detto quello che voleva la professoressa». Questo è il modo grazie al quale, con una gravissima responsabilità da parte nostra, noi produciamo servi.
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Carpeoro: il potere dell’eggregora, energia esponenziale
Se qualcuno ci racconta che abbiamo le ali, forse è il caso di credergli. A patto che non dica di essere lui, a farcele spuntare. Mai sentito parlare di eggregore? Eccome, quasi sempre a sproposito. Sono energie sovrumane, ma non soprannaturali: «Si innescano durante le manifestazioni cerimoniali, quando molte persone pensano la stessa cosa, nel medesimo istante – non solo in un rito religioso, va bene anche un concerto di Vasco Rossi». Parola di Gianfranco Carpeoro, simbologo, autore del saggio “Summa Symbolica”, a colloquio con Fabio Frabetti di “Border Nights” in diretta streaming su YouTube alla vigilia di Natale. A proposito: «Non sparate sul Natale, solo perché è diventato un festival del consumismo. Quello del Natale è un simbolismo affascinante: la nascita è la memoria ancestrale di come iniziamo a vivere». Francesco Saba Sardi, grande intellettuale triestino, fu scomunicato dopo aver scritto il libro “Il Natale ha 5.000 anni”? «Volendo, sono anche di più: Gesù è un simbolo universale, non un individuo figlio di Dio. E’ un archetipo, per il quale la divinità è in ognuno di noi». Le ali, appunto: sono roba nostra, fin dall’inizio, anche se poi qualcuno va dal “mago” a chiedere consigli, «come faceva Gianni Agnelli con Gustavo Rol».«Spero che nessuno mi denunci», premette Carpeoro, nel raccontare un risvolto finora inedito della vita dell’Avvocato: «Filmava i suoi incontri d’affari e poi mostrava a Rol le pellicole, chiedendogli di pronunciarsi sulla credibilità dell’interlocutore». Potere e chiaroveggenza, magia e divinazione? Su questo, Carpeoro ha più volte espresso il suo parere, che è nettissimo: la magia è illusionismo, puro strumento del potere. L’effetto magico? Non è mai il “mago” a innescarlo, ma il “cliente”, che però non ne è consapevole. Le religioni? Vittime, anch’esse, di una «deriva magica del pensiero». Inclusa la celebrazione del Natale, che può avere un effetto di grandissima suggestione: «La nascita di un bambino è per noi un momento di grande commozione, la stessa morte non commuove quanto una nascita». Ma attenzione: «Lasciamo perdere i dati folkloristici legati ai dogmi del Cristianesimo. Se esiste un Dio, per mostrarsi a noi ha dovuto necessariamente intervenire al momento della nostra nascita. E’ un evento immanente, irripetuto, incredibile, importante». L’effetto che ha su di noi? «E’ inconsapevole, ma solo per colpa nostra: siamo noi che vogliamo che sia inconsapevole. Anche il Natale fa parte di quelle aree di consapevolezza che, col tempo, ci siamo precluse».Per questo, è possibile che molte persone diano una interpretazione “magica” dell’effetto – teoricamente anche molto potente – delle cosiddette eggregore, le forme-pensiero suscitate da comunità di persone. Nessuna magia, assicura Carpeoro: quell’effetto esiste, ma dipende da precise leggi energetiche. Spiegazione: «Ognuno di noi è espressione anche di energie, che porta dentro. Per uno strano meccanismo – potrei dire coincidenza, Jung direbbe sincronicità, altri direbbero qualcos’altro – quando diventano assolutamente complementari l’una all’altra e viaggiano tutte in un’unica direzione, si sommano in un’unica energia: che nella maggior parte dei casi è addirittura superiore, come forza, all’addizione delle singole unità». Nel campo delle eggregore, aggiunge Carpeoro, «uno più uno non fa due – può fare tre, cinque, dieci». Il che non è “magico”, è “soltanto” sovrumano: sta al di sopra dell’ordinarietà. «Se tu una cosa la interpreti in senso magico avrai un tipo di conseguenza, se invece la interpreti in senso simbolico e laico, ne trai altre conseguenze». Generalmente, precisa Carpeoro, «di fronte a cose che abbiano un senso magico, la gente non deve sforzarsi di capire». Ovvero: «Quando una cosa ha un effetto magico – che poi si nasconda sotto una religione, una fascinazione – la gente non si preoccupa di capire, tant’è vero che uno dei principi della magia è la ripetizione astratta delle formule».Tutt’altro pianeta, invece, la dimensione – libera, seria, autonoma – del pensiero simbolico: «Quando tu alle cose dai un’interpretazione in senso simbolico, ti poni nella logica del capire il perché. Puoi anche non metterne in discussione l’effetto, ma sai che questo effetto risponde a delle leggi, a dei meccanismi che teoricamente noi siamo in grado di capire. Meccanismi che hanno una logica e, per la loro caratura, una caratteristica quasi scientifica». Secondo Carpeoro, nel caso delle eggregore «possono verificarsi effetti notevoli quando tutte le menti delle persone sono dirette verso un unico obiettivo». Uno dei casi più eclatanti di eggregora? «E’ quello delle manifestazioni cerimoniali. Chiamali concerti, eventi religiosi, Via Crucis del Papa, preghiere collettive. Chiamatele come volete: sono manifestazioni cerimoniali. E nelle manifestazioni cerimoniali – anche quelle della massoneria, tipo la Catena d’Unione – nel momento in cui tutte le menti riescono a essere rivolte verso un unico obiettivo, allora si crea quella forza, che non è più dovuta alla forza della somma delle singole menti, ma è una forza superiore. La sua durata? Dipende dall’obiettivo e dalle circostanze. E’ positivo partecipare a questo tipo di raduni? Non sempre».Generalmente, aggiunge Carpeoro, l’obiettivo non dev’essere mai individuale, né riguardare uno dei partecipanti: «Sarebbe un ostacolo, perché colui che è oggetto pensa diversamente dagli altri. I partecipanti devono essere in una posizione di tale complementarità che mi sembra impossibile che uno abbia un pensiero diverso e si individualizzi». Gli ultras allo stadio fanno un tipo di cerimoniale? «Può succedere, sì. Anche la diffusione di certe notizie può avere l’effetto di far concentrare le stesse persone, simultaneamente, su un unico obiettivo». La televisione invece «non può creare eggregore, ma solo sovrastrutture, mentre l’eggregora è un’energia. E la televisione può creare dicerie, dogmi, luoghi comuni e pregiudizi, ma non può creare energie». Ammette Carpeoro: «Un paio di volte queste eggregore hanno consentito la mia purificazione, rispetto a stati di agitazione o di torpidità momentanea che mi avevano coinvolto. Uno degli effetti positivi di un’eggregora può essere il fatto che ne esci completamente purificato da determinate cose». Ma anche qui, attenzione: «Non è l’eggregora a toglierti la negatività. L’hai eliminata tu stesso. Bisogna smetterla di spostare tutto fuori: è tutto dentro. Ogni cosa si verifica sempre al nostro interno. La stessa negatività fa parte di noi, è una nostra componente».Prima ancora di essere individui, cosa siamo? «Siamo parte di qualcosa di più grande. Oppure “non siamo”; ma, anche “non essendo”, siamo parte di qualcosa di più grande. Quindi, l’eggregora cosa fa? Restituisce un’integrazione». Nell’eliminare la tua individualità, continua Carpeoro, puoi avere conseguenze positive o negative. «Quando tu, reintegrandoti in una comunità particolare, in un organismo più grande, elimini l’individualità con conseguenze positive, vuol dire che poi, quando ne esci, tutta una serie di problemi legati all’ego li hai in qualche modo eliminati, rimossi». Domanda: è da respingere con forza la credenza in base alla quale altre persone ci possano inculcare delle negatività? «Dipende sempre da te», risponde Carpeoro: «Se io sono un soggetto pensante, non ci riesce». Chi pensa, in sostanza, non è manipolabile. «E’ che noi, in certi casi, non pensiamo. Pensare significa: avere l’aspirazione di capire tutto quello che ti succede. In realtà, il 90% delle cose che ci succedono e che ci troviamo a fare, il 90% delle nostre scelte, le facciamo non pensando. E questo è frutto del pensiero magico, che è un non-pensiero».Sicché noi possiamo “creare” la realtà, se circoscriviamo l’ego? «Noi siamo realtà», sottolinea Carpeoro: «Possiamo essere consapevoli della realtà che siamo». Poi, appunto, ci sono anche le eggregore. Una rockstar come Vasco? Ne ha create di enormi, secondo il suo pubblico anche molto positive: «Sicuramente, tramite le parole e alcune sue canzoni, ha mosso delle energie in un’unica direzione». Può farlo anche una messa cattolica? «Se il celebrante è bravo, sì». In altre parole: ci sono straordinarie concentrazioni di energia, che possono raggiungerci. Esistono dimensioni invisibili, ma non per questo non naturali o non fisiche. E ci sono leggi che tuttora ci sfuggono: «Una cosa che mi capita quasi quotidianamente – racconta Carpeoro – è che, se penso intensamente a qualcuno, un amico che non sento da tempo, nel giro di pochi secondi mi telefona. Mi succede quasi ogni giorno, con una frequenza che a volte mi disorienta». Ipotesi: «Secondo me sono messaggi che noi mandiamo e che automaticamente il destinatario è in grado di recepire, e quindi poi chiama. Il fatto che questo non avvenga nella consapevolezza non significa che non sia possibile», conclude Carpeoro. «La cosa in sé non mi meraviglia: me ne meraviglia la frequenza».Se qualcuno ci racconta che abbiamo le ali, forse è il caso di credergli. A patto che non dica di essere lui, a farcele spuntare. Mai sentito parlare di eggregore? Eccome, quasi sempre a sproposito. Sono energie sovrumane, ma non soprannaturali: «Si innescano durante le manifestazioni cerimoniali, quando molte persone pensano la stessa cosa, nel medesimo istante – non solo in un rito religioso, va bene anche un concerto di Vasco Rossi». Parola di Gianfranco Carpeoro, simbologo, autore del saggio “Summa Symbolica”, a colloquio con Fabio Frabetti di “Border Nights” in diretta streaming su YouTube alla vigilia di Natale. A proposito: «Non sparate sul Natale, solo perché è diventato un festival del consumismo. Quello del Natale è un simbolismo affascinante: la nascita è la memoria ancestrale di come iniziamo a vivere». Francesco Saba Sardi, grande intellettuale triestino, fu scomunicato dopo aver scritto il libro “Il Natale ha 5.000 anni”? «Volendo, sono anche di più: Gesù è un simbolo universale, non un individuo figlio di Dio. E’ un archetipo, per il quale la divinità è in ognuno di noi». Le ali, appunto: sono roba nostra, fin dall’inizio, anche se poi qualcuno va dal “mago” a chiedere consigli, «come faceva Gianni Agnelli con Gustavo Rol».
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L’Italia è il paese Ue con più poveri: sono oltre 10 milioni
L’Italia è il paese europeo in cui vivono più poveri. Sono 10,5 milioni, su un totale a livello Ue di 75 milioni, i cittadini che hanno – per esempio – difficoltà a fare un pasto proteico ogni due giorni, sostenere spese impreviste, riscaldare a sufficienza la casa, pagare in tempo l’affitto e comprarsi un paio di scarpe per stagione e abiti decorosi. Gli italiani in questa condizione rappresentano il 14% del totale europeo e sono più dei 9,8 milioni di abitanti della Romania nella stessa situazione, anche se in termini percentuali la Penisola è undicesima tra i 28 Stati membri con un 17,2% di indigenti sul totale. A rendere ufficiale la classifica è stata l’Eurostat, secondo cui dietro Roma e Bucarest c’è Parigi: i francesi in stato di deprivazione sociale sono 8,4 milioni. Il poco invidiabile primato non stupisce se si pensa che, stando ai dati Istat, negli ultimi dieci anni i “poveri assoluti” – chi non è in grado di acquistare nemmeno beni e servizi essenziali – sono triplicati. Nel 2006 erano 1,66 milioni, l’anno scorso l’istituto di statistica ne ha contati 4,7 milioni. Tra cui 1,3 milioni di bambini. Gli indicatori Ue: possibilità di fare un pasto proteico, possesso di due paia di scarpe. La cifra diffusa martedì dall’istituto europeo è più del doppio rispetto a quella relativa ai poveri assoluti perché la visuale si allarga a tutti i residenti “in stato di deprivazione”.Sono considerate tali le persone che non si possono permettere almeno cinque cose ritenute necessarie, come un pasto proteico ogni due giorni, vestiti nuovi per sostituire quelli inutilizzabili, un’auto, due paia di scarpe, una settimana di vacanze all’anno, una connessione a internet, un‘uscita al mese con gli amici. Se invece dei numeri assoluti si guardano le percentuali, la classifica cambia. I Paesi europei con le maggiori quote di cittadini deprivati sono Romania, con il 49,7%, Bulgaria (48%), Grecia (36%), Ungheria (32%) e Lituania (29%). I paesi nordici sono quelli che stanno meglio. La percentuale di indigenti sulla popolazione è solo del 3% in Svezia, del 4% in Finlandia e del 5% in Lussemburgo e del 6% in Danimarca. In tutta la Ue la deprivazione colpisce di più le persone con livelli di istruzione bassi. Il 25% dei cittadini con bassi livelli di istruzione ne soffre, mentre il tasso è solo del 14% tra chi ha un’istruzione secondaria e del 5% per i laureati. Povertà triplicata in dieci anni. La povertà in Italia è aumentata esponenzialmente dopo la crisi finanziaria: tra 2007 e 2008 i poveri assoluti sono saliti di 400mila unità, a 2,1 milioni, e i poveri relativi sono aumentati altrettanto, a 6,5 milioni.Di lì al 2012 l’incremento è stato lento e costante: i poveri assoluti sono diventati 2,3 milioni nel 2009, 2,47 milioni nel 2010, 2,65 nel 2011, addirittura 3,5 nel 2012 (la crisi ha iniziato a falcidiare i posti di lavoro), 4,4 nel 2013. L’incidenza della povertà assoluta sulla popolazione italiana è passata di conseguenza dal 2,9% del 2006 al 7,9% del 2016. Il nuovo Reddito di inclusione, un assegno variabile tra 187 e 485 euro che può essere richiesto ai Comuni dai nuclei in difficoltà, è un passo avanti ma non basta: i fondi stanziati dal governo bastano per circa 1,8 milioni di persone, un terzo di chi ne avrebbe bisogno. Nel frattempo, sempre stando ai dati Istat, ben 18 milioni di italiani si sono ritrovati “a rischio povertà o esclusione”. Si tratta del 30% della popolazione, in salita rispetto al 2015 mentre a livello Ue la percentuale è diminuita dal 23,8 al 23,5%. E’ l’effetto, secondo l’istituto di statistica, di un aumento della disuguaglianza: il quinto più ricco della popolazione ha visto crescere i propri redditi molto più di quelli della parte più povera. Il rischio povertà in Italia è “molto superiore”, ha segnalato l’Istat, “a quelli registrati in Francia (18,2%), Germania (19,7%) e Gran Bretagna (22,2%) e di poco più alto rispetto a quello della Spagna (27,9%)”.(“Povertà, Italia primo paese europeo per numero di cittadini in condizioni di deprivazione: sono 10,5 milioni”, dal “Fatto Quotidiano” del 13 dicembre 2017).L’Italia è il paese europeo in cui vivono più poveri. Sono 10,5 milioni, su un totale a livello Ue di 75 milioni, i cittadini che hanno – per esempio – difficoltà a fare un pasto proteico ogni due giorni, sostenere spese impreviste, riscaldare a sufficienza la casa, pagare in tempo l’affitto e comprarsi un paio di scarpe per stagione e abiti decorosi. Gli italiani in questa condizione rappresentano il 14% del totale europeo e sono più dei 9,8 milioni di abitanti della Romania nella stessa situazione, anche se in termini percentuali la Penisola è undicesima tra i 28 Stati membri con un 17,2% di indigenti sul totale. A rendere ufficiale la classifica è stata l’Eurostat, secondo cui dietro Roma e Bucarest c’è Parigi: i francesi in stato di deprivazione sociale sono 8,4 milioni. Il poco invidiabile primato non stupisce se si pensa che, stando ai dati Istat, negli ultimi dieci anni i “poveri assoluti” – chi non è in grado di acquistare nemmeno beni e servizi essenziali – sono triplicati. Nel 2006 erano 1,66 milioni, l’anno scorso l’istituto di statistica ne ha contati 4,7 milioni. Tra cui 1,3 milioni di bambini. Gli indicatori Ue: possibilità di fare un pasto proteico, possesso di due paia di scarpe. La cifra diffusa martedì dall’istituto europeo è più del doppio rispetto a quella relativa ai poveri assoluti perché la visuale si allarga a tutti i residenti “in stato di deprivazione”.
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Sommergibile argentino: tangenti tedesche dietro il guasto
Benché le ricerche del relitto del sottomarino argentino scomparso con 44 persone a bordo siano ancora in corso, emergono le prime, possibili responsabilità per la presunta combustione senza fiamma delle batterie del natante, che ne avrebbe causato l’implosione. Secondo informazioni dei portali tedeschi “Br Recherche” e “Ard-Studio Südamerika”, due aziende tedesche si sarebbero accaparrate la sostituzione dei dispositivi pagando delle tangenti e avrebbero installato dei prodotti di qualità scadente per risparmiare. In occasione di una revisione completa del “San Juan” conclusasi nel 2011, scrive il “Corriere del Ticino”, la Ferrostaal e la EnerSys-Hawker avevano ottenuto un contratto per la consegna di 964 celle per un importo di 5,1 milioni di euro. Secondo quanto indicato alle testate da alcuni politici argentini, è praticamente certo che le due aziende tedesche abbiano pagato delle tangenti per ottenere quella commessa. Un’accusa depositata nel 2010 in tal senso era finita in un insabbiamento. «È tutto molto opaco», conferma la presidente della Commissione esteri del Parlamento argentino, Cornelia Schmidt-Liermann.Riguardo alla qualità della merce consegnata, Schmidt-Liermann commenta: «Sussiste il sospetto che le batterie non fossero, in parte o per niente, della qualità che avrebbero dovuto essere», dichiara. «Non sappiamo nemmeno da dove venissero, se dalla Germania o da un altro paese», aggiunge. «Purtroppo abbiamo innanzi un altro esempio di ipocrisia interessata», commenta Mitt Dolcino su “Scenari Economici”. «Come ben sapete, i partner tedeschi sono sempre in prima fila quando si tratta di dare il buon esempio nei conti (o forse no, visto che all’inizio del III millennio quando si trattò di sforarli in ambito Eu per loro propri interessi non si fecero molti problemi)». Certamente, comunque, «i germani sono sempre prontissimi a richiamare l’Italia al rigore, dall’alto di una supposta superiorità morale». Fa dunque pensare, continua Dolcino, «dover scoprire che il sommergibile argentino San Juan affondato poche settimane or sono per un incendio con a bordo 44 marinai, sommergibile costruito dai tedeschi di Thyssen, era stato riammodernato con la fornitura da parte di due aziende tedesche di nuove batterie nel 2011, batterie che sembrano essere state riconosciute come scadenti. Oltre a scoprire che i soliti tedeschi, quelli dalla grande moralità, hanno pagato le solite tangenti agli argentini per accaparrarsi detta fornitura di batterie (scadenti). Causando il disastro successivo».L’atteggiamento corruttivo-approfittativo tedesco non è un caso isolato, insiste Dolcinio: «I tedeschi pagarono immense tangenti in Grecia per le Olimpiadi di Atene, contribuendo al successivo default». Inoltre, «pagarono la più grande tangente in Italia dopo Enimont: Siemens, per le turbine di Enel». Sempre imprenditori tedeschi «hanno evitato spese – dicesi risparmiato – per la sicurezza alla Thyssen di Torino, causando la strage di 10 anni dopo: caso per certi versi similissimo al sommergibile argentino». In più, «Deutsche Bank è presente in quasi tutti gli scandali finanziari scoperti negli ultimi 10 anni», mentre Siemens «ha una lista lunghissima di tangenti pagate all’estero». Insomma, «c’è qualcuno che evidentemente fa il santerello a casa sua e poi ne combina di ogni all’estero». E quindi, «forse dobbiamo dubitare che anche le ricette austere che propina all’Italia siano una enorme fregatura a loro vantaggio?». Quando aziende italiane hanno tentato di acquisire omologhi in Francia e Germania, continua Dolcino, sono state bellamente “rimbalzate” senza troppi complimenti, anche andando contro il diritto comunitario (vedasi il caso Fincantieri-Stx), «mentre francesi e tedeschi pretendono di poter acquisire quelle italiane, magari per il tramite di privatizzazioni imposte per via austera-EUropea: si chiama neocolonialismo del III millennio, per chi non l’avesse ancora capito».Pur sapendo che l’austerità non serve per uscire dalla crisi, anzi la peggiora, l’Ue persevera soprattutto con Italia e Grecia. «Se poi voleste davvero arrabbiarvi – aggiunge Dolcino – sappiate che i governi di sinistra non eletti lo sapevano dal 2013 che l’austerità fa male, dalla data dell’articolo de “L’Espress”», del gruppo editoriale di “Repubblica”, quello di Carlo De Benedetti. «Ci sono tutti gli indizi di un piano Eu per annichilire l’Italia, oggi che Londra non è più in grado di difendere la sua creatura ottocentesca nel cuore del Mediterraneo, un paese arricchitosi troppo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e dunque divenuto preda». A maggior ragione oggi, dal momento che la rediviva Europa riscopre la sua innata natura coloniale: «Essendo gran parte dei paesi che furono colonie oggi indisponibili o eccessivamente forti, le potenze ex imperiali devono approfittarsi delle prede più accessibili, magari degli stessi vicini, ad esempio l’Italia, a maggior ragione se si tratta di “conquistare” o anche “neutralizzare” alleati diciamo “strutturali” del vero avversario europeo dei prossimi anni, gli Usa».A riprova di ciò, Dolcino segnala che l’ex vice-cancelliere tedesco Sigmar Gabriel ha annunciato che la rottura con Washington non verrà sanata nemmeno dalla dipartita di Trump. Tradotto: «La sfida tedesca a Washington è appena iniziata». La cosa che più stupisce Dolcino è come la gran massa degli italiani, «non il manipolo di globalisti elitari tipo Elkann o DeBenedetti», non abbiamo ancora capito che «bisogna abbandonare il carro euro-tedesco il più velocemente possibile», perché il rischio è quello di «finire precisamente come si sta finendo: schiavi del debito e poveri». Dolcino parla della gente comune, della classe media in via di demolizione programmata, via crisi economica innescata dall’oligarchia finanziaria franco-tedesca. «Chi invece ha convertito enormi patrimoni da instabili lire in solidi pseudomarchi se la gode». Fidarsi di quest’Europa e di questa euro-Germania? Impossibile. «Appunto, il rischio è di finire come il sommergibile argentino».Benché le ricerche del relitto del sottomarino argentino scomparso con 44 persone a bordo siano ancora in corso, emergono le prime, possibili responsabilità per la presunta combustione senza fiamma delle batterie del natante, che ne avrebbe causato l’implosione. Secondo informazioni dei portali tedeschi “Br Recherche” e “Ard-Studio Südamerika”, due aziende tedesche si sarebbero accaparrate la sostituzione dei dispositivi pagando delle tangenti e avrebbero installato dei prodotti di qualità scadente per risparmiare. In occasione di una revisione completa del “San Juan” conclusasi nel 2011, scrive il “Corriere del Ticino”, la Ferrostaal e la EnerSys-Hawker avevano ottenuto un contratto per la consegna di 964 celle per un importo di 5,1 milioni di euro. Secondo quanto indicato alle testate da alcuni politici argentini, è praticamente certo che le due aziende tedesche abbiano pagato delle tangenti per ottenere quella commessa. Un’accusa depositata nel 2010 in tal senso era finita in un insabbiamento. «È tutto molto opaco», conferma la presidente della Commissione esteri del Parlamento argentino, Cornelia Schmidt-Liermann.
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Macché neofascismo: comanda il denaro, l’Italia non esiste
Al di là del ridicolo di un ministero della difesa che scambia la bandiera della marina militare guglielmina per quella del Terzo Reich e colpisce con ignorante ingiustizia il carabiniere che l’aveva esposta nella sua stanza, chi oggi paventa un pericolo neofascista o populista è uno sciocco, perché la realtà è che il potere politico ed economico sta saldamente nelle mani (armate) di una oligarchia globale tecnocratico-finanziaria che si impone unilateralmente a due terzi del mondo, e ciò rende impossibile non soltanto il ritorno del fascismo o del comunismo per spinta dal basso, ma qualsiasi cambiamento politico strutturale che venga dal basso e dagli umori popolari anziché dall’alto. E’ finita l’epoca dei movimenti popolari che cambiano qualcosa di importante (se mai vi è stata). Al più, un’ideologia rossa o nera o verde potrebbe essere usata come verniciatura per nuove operazioni di ingegneria sociale calate dall’alto, oppure per agitare le masse additando un capro espiatorio, oppure per giustificare giri di vite sulla libertà di pensiero, stampa, insegnamento, privacy, diretti a corroborare il dominio del pensiero unico e dei suoi falsi clichés.Appare ormai chiaramente che le costituzioni reali oggi sono foggiate e trasformate dalle tecnologie finanziarie, informatiche, elettroniche e biologiche (sempre più rapidamente evolutive) della dominazione top-down sulla società. Non sono fatte dalle ideologie o dalle morali diffuse né da processi democratici. L’Italia unitaria è stata progettata e realizzata durante il cosiddetto Risorgimento da forze e interessi esterni ad essa (finanza anglo-francese), progettata e costruita come una specie di protettorato al loro servizio e non per essere uno Stato indipendente. Tale essa è rimasta e rimarrà. Nel corso della sua storia, l’Italia unitaria ha cercato più volte di sollevarsi a una condizione di indipendenza e parità con le altre potenze e di tutelare i propri interessi rispetto ad esse. Tentò dapprima partecipando alla Grande Guerra, ma poi gli Usa imposero che rinunciasse a quanto le spettava in base ai trattati con l’Intesa. La seconda volta tentò con Mussolini, conquistando una sorta di impero e alleandosi con Hitler; finì come sappiamo: da quella sconfitta in poi, abbiamo più di cento basi militari Usa sul territorio nazionale.Si provarono a darle almeno una qualche autonomia politica e capacità di difendere i propri interessi dapprima Craxi (ricordate Sigonella e la sua politica medio-orientale?) e poi Berlusconi (ricordate i suoi accordi con la Libia e la sua resistenza alle imposizioni tedesche in materia di bilancio?): entrambi sono stati tolti di mezzo con mezzi giudiziari. Dimenticavo: prima ancora aveva tentato qualcosa di simile Enrico Mattei (ricordate la sua politica petrolifera in concorrenza con i petrolieri angloamericani?), e fu tolto di mezzo con l’esplosivo. I migliori interpreti del ruolo dell’italia (con la “i” minuscola) nell’ordinamento mondiale sono stati, per contro, gli statisti europeisti come Ciampi e da ultimo soprattutto Giorgio Napolitano con l’operazione Monti, che oggi viene messa alla luce persino da gente quale Romano Prodi, come colpo di palazzo richiesto dall’estero.(Marco Della Luna, “Simboli fascisti e destini italiani”, dal blog di Della Luna del 7 dicembre 2017).Al di là del ridicolo di un ministero della difesa che scambia la bandiera della marina militare guglielmina per quella del Terzo Reich e colpisce con ignorante ingiustizia il carabiniere che l’aveva esposta nella sua stanza, chi oggi paventa un pericolo neofascista o populista è uno sciocco, perché la realtà è che il potere politico ed economico sta saldamente nelle mani (armate) di una oligarchia globale tecnocratico-finanziaria che si impone unilateralmente a due terzi del mondo, e ciò rende impossibile non soltanto il ritorno del fascismo o del comunismo per spinta dal basso, ma qualsiasi cambiamento politico strutturale che venga dal basso e dagli umori popolari anziché dall’alto. E’ finita l’epoca dei movimenti popolari che cambiano qualcosa di importante (se mai vi è stata). Al più, un’ideologia rossa o nera o verde potrebbe essere usata come verniciatura per nuove operazioni di ingegneria sociale calate dall’alto, oppure per agitare le masse additando un capro espiatorio, oppure per giustificare giri di vite sulla libertà di pensiero, stampa, insegnamento, privacy, diretti a corroborare il dominio del pensiero unico e dei suoi falsi clichés.
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Amazon è partner Cia, di Bezos anche il Washington Post
Jeff Bezos non è solo l’uomo più ricco del mondo, dopo aver superato la vetta dei 100 miliardi di dollari grazie al “black friday”, impennata che la relegato in seconda posizione Bill Gates, patron della Microsoft. L’uomo-Amazon, che ha inaugurato l’ultima generazione dei nuovi iper-miliardari, con «un ammontare di denaro diluviano e perennemente in crescita», è anche un cardine del potere “totale” dell’élite: il maxi-contratto da 600 milioni stipulato con la Cia, ricorda “Dedefensa”, gli ha permesso di acquisire una testata giornalistica leader come il “Washington Post”, che da quel momento ha preso di mira gli avversari geopolitici dell’intelligence, condizionando l’intero mainstream statunitense, a cominciare dal “New York Times”. A questo si aggiunge «l’interessante maniera con cui Amazon si appropria di territori concreti, rispolverando il fenomeno della “città di una sola compagnia”», come al tempo in cui Detroit “apparteneva” alla General Motors. L’Institute for Policy Studies ha stabilito che i tre miliardari più ricchi possedevano quanto la metà più povera degli Stati Uniti. Grazie a Bezos, questo studio è sorpassato: perché il miliardario, nel frattempo, ha accresciuto la propria ricchezza di altri 20 miliardi di dollari. Nel mondo intero, i cinque miliardari più ricchi possiedono quanto la ricchezza della metà della popolazione mondiale, all’incirca 3,5 miliardi di persone.«Bezos ha acquisito la sua ricchezza grazie allo sfruttamento della sua forza lavoro, circa 300.000 persone in tutto il globo», scrive “Dedefensa” citando il sito economico Wsws.org. «I lavoratori di Amazon guadagnano 233 dollari al mese in India, per una media di solo 12,40 dollari l’ora negli Stati-Uniti». I dipendenti hanno tutele minime, salari bassi, contratti flessibili e spesso temporanei, aggiunge “Dedefensa”, in un post tradotto da Vollmond per “Come Don Chisciotte”. A rischio, pare, anche le condizioni di sicurezza sul lavoro: «In settembre, quando Phillip Terry, di 59 anni, è stato schiacciato da un carrello elevatore in una fabbrica di Amazon a Indianapolis, il ministro del lavoro ha dichiarato che l’impresa potrebbe essere costretta a pagare 28.000 dollari d’ammenda. Bezos guadagna una cifra simile in un minuto, più dei suoi operai americani in un intero anno». La società, inoltre, «esige gli stessi privilegi dei governi del mondo, privilegi fiscali e altre agevolazioni gratuite in cambio della costruzione dei suoi magazzini». Amazon messo in competizione più di 200 città americane desiderose di diventare il secondo quartier generale della compagnia, ottenendo in cambio enormi donazioni. «Chicago, per esempio, ha offerto ad Amazon un “pacchetto di incentivi” da 2,25 miliardi di dollari, mentre Stonecrest, in Georgia, ha deciso di cambiare il suo nome in “Amazonie” e di nominare Bezos “sindaco a vita”».Ma il binonio Bezos-Amazon, aggiunge “Dedefensa”, ha un tratto assai particolare, ovvero «la sua relazione estremamente forte e pubblicamente ostentata con la Comunità di sicurezza nazionale (Csn), e in particolare la comunità dell’intelligence». La sua collaborazione con la Cia è ormai palese, rileva il blog, dopo il contratto firmato nel 2013 tra Amazon e l’agenzia di Langley: 600 milioni di dollari, con i quali Bezos ha comprato il “Washington Post”, da allora divenuto «l’organo officiale della sicurezza nazionale (in particolare della Cia) e, durante la campagna Usa-2016, l’organo anti-Trump», in nome della posizione assunta dalla stessa Central Intelligence Agency. Una vera e propria luna di miele, con la Cia che «afferma apertamente la sua soddisfazione per questa cooperazione». Da registrare anche una visita ad Amazon altamente mediatizzata dal segretario alla difesa, James Mattis, «che ci permette di comprendere che anche il Pentagono amoreggi con Bezos». Ovvero: «Non si lavora più in segreto, come accadeva prima dell’affare Snowden». Secondo le fonti citate da “Dedefensa”, «Bezos ha trasformato la sua società in un organo semi-ufficiale dell’apparato di informazione militare americana». Amazon e la Cia hanno appena annunciato il lancio di un nuovo sistema di cloud “regione segreta”, nel quale la società ospiterà dei dati per la Cia, l’Nsa, il Dipartimento della difesa e altre agenzie di informazione militare.Un portavoce della Cia ha recentemente qualificato l’accordo sull’acquisto del “Washington Post” da parte di Bezos come «la migliore decisione che abbiamo preso». Nel quadro delle spese militari approvate a novembre dal Senato, Amazon sarà tra i maggiori fornitori di attrezzature informatiche. «L’uomo da 100 miliardi di dollari – scrive “Dedefensa” – ha impiegato la propria ricchezza per esercitare un’influenza considerevole nei corridoi del potere. Quest’anno Amazon ha finanziato il governo federale sborsando più di 9,6 milioni di dollari». Bezos è ricorso alle pagine del “Washington Post” per promuovere l’agenda del Partito democratico. Il “Post”, sotto la gestione di Bezos, è stato uno dei principali difensori della campagna contro la Russia, pubblicando nel novembre 2016 la lista “PropOrNot”, «una finta compilation di agenzie di stampa presumibilmente “propagandisti russi” includente anche siti di informazione di sinistra». In più, Bezos «sta prendendo nettamente le distanze dal piccolo mondo dei super-ricchi, e soprattutto dai compari della Silicon Valley». Lo si evince «dall’affermazione quasi pubblica dei legami tra Bezos e il servizio di informazione ed eventualmente i militari», con la convinzione che la Cia sia priviligiata come interlocutrice principale.Beninteso: «Tutta la Silicon Valley, dalla preistoria di Gates alla sexy-semplicità di Zuckerberg, ha sempre camminato a braccetto con la Comunità di sicurezza nazionale, Snowden ce l’ha ampliamente dimostrato». Ma con Bezos è un’altra cosa, continua “Dedefensa”: «La relazione è alla luce del sole, ambo le parti ostentano soddisfazione, e nulla ci può dire dove essa possa portare, né chi dei due domini l’altro; c’è un problema di preponderanza del potere». Secondo un analista come Robert Parry, il “Washington Post” di Bezos ha influenzato tutta la stampa mainstream, compreso il “New York Times” e gli altri grandi media occidentali, anche non americani. «L’isteria del Russiagate – scrive Parry – ha provocato un enorme abbassamento del livello giornalistico», per il fatto che i principali media statunitensi hanno ignorato le regole fondamentali nell’acquisizione di vere prove, prendendo per buone semplici vociferazioni sulla presunta interferenza russa nelle elezioni presidenziali. «Dato che la creazione di questa isteria antirussa, avviata dal 2013-2014 (Siria e sopratutto Ucraina), poteva effettivamente essere un obiettivo strategico della Cia, si può concludere che la missione sia stata compiuta. Ma a che prezzo?».Quanto alla Cia, non può non destare attenzione «la sua maniera di uscire allo scoperto, come ha fatto e continua a fare, affermando pubblicamente la sua soddisfazione di “lavorare” con un tale partner». La Cia è incredibilmente potente, come lo stesso Bezos, rileva “Dedefensa”. Ma si ha l’impressione – rispetto alle operazioni che furono affettuate dall’agenzia nel primo mezzo secolo dalla sua fondazione – che si sia persa un po’ di quella “sottigliezza”, tipica del recente passato. «Tra questi due partner – conclude “Dedefensa” – ci sono diverse cose in comune: il potere, la brutalità, il cinismo, la falsa virtù affermata perentoriamente e, in breve, tutto ciò che caratterizza la politica-sistema dal 2001, ma ostentato, istituzionalizzato, ufficializzato, proclamato». Se si analizza il risultato dei primi 16 anni di geopolitica Usa a partire dalla data-spartacque dell’11 Settembre, osservando «questo mostro Bezos-Cia», secondo il blog «si ha un’impressione per certi aspetti temperata: la loro potenza combinata può dare la vertigine, ma la vertigine può anche generare errori di manovra e cadute ancora più brutali». L’unione tra Bezos e la Cia era nell’aria da tempo, ma «si tratta di un’unione eccessiva che nasconde in sé la chiave della propria autodistruzione».Jeff Bezos non è solo l’uomo più ricco del mondo, dopo aver superato la vetta dei 100 miliardi di dollari grazie al “black friday”, impennata che ha relegato in seconda posizione Bill Gates, patron della Microsoft. L’uomo-Amazon, che ha inaugurato l’ultima generazione dei nuovi iper-miliardari, con «un ammontare di denaro diluviano e perennemente in crescita», è anche un cardine del potere “totale” dell’élite: il maxi-contratto da 600 milioni stipulato con la Cia, ricorda “Dedefensa”, gli ha permesso di acquisire una testata giornalistica leader come il “Washington Post”, che da quel momento ha preso di mira gli avversari geopolitici dell’intelligence, condizionando l’intero mainstream statunitense, a cominciare dal “New York Times”. A questo si aggiunge «l’interessante maniera con cui Amazon si appropria di territori concreti, rispolverando il fenomeno della “città di una sola compagnia”», come al tempo in cui Detroit “apparteneva” alla General Motors. L’Institute for Policy Studies ha stabilito che i tre miliardari più ricchi possedevano quanto la metà più povera degli Stati Uniti. Grazie a Bezos, questo studio è sorpassato: perché il miliardario, nel frattempo, ha accresciuto la propria ricchezza di altri 20 miliardi di dollari. Nel mondo intero, i cinque miliardari più ricchi possiedono quanto la ricchezza della metà della popolazione mondiale, all’incirca 3,5 miliardi di persone.
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Zurigo vara il reddito sociale universale: 2.200 euro a tutti
Si chiama “reddito di base incondizionato”, ha qualche affinità con il reddito di cittadinanza che piace al Movimento 5 Stelle ed è stato adottato, a titolo sperimentale, dal Consiglio Comunale di Zurigo. Grazie alla mobilitazione della sinistra, gli abitanti della principale città elvetica potranno disporre di una sorta di “salario di Stato garantito” di 2.500 franchi mensili, ovvero di poco meno di 2.200 euro. Stiamo parlando, secondo i canoni svizzeri, dell’equivalente della soglia di povertà. Come prevedeva l’analogo testo di legge, sottoposto a referendum e bocciato lo scorso anno a livello svizzero, il “reddito di base incondizionato” dovrebbe toccare ogni singolo cittadino. Con la differenza che, mentre per gli adulti sarà di 2.500 franchi, per i minori dovrebbe essere di 625, più o meno 550 euro. In realtà, scrive Franco Zantonelli su “Repubblica”, sia il suo finanziamento che i tempi e modi d’applicazione non sono ancora chiari, visto che al legislativo di Zurigo la proposta è passata con soli due voti di scarto. L’esecutivo ha, in effetti, due anni di tempo per stabilire come metterla in pratica. «Ci muoviamo con i piedi di piombo», ha non a caso dichiarato alla tv pubblica il consigliere comunale socialista Urs Helfenstein.«Il progetto che avevamo proposto a livello nazionale – spiega a “Repubblica” uno dei sostenitori dell’iniziativa respinta nel 2016, il docente di economia all’università di Friburgo, Sergio Rossi – sarebbe stato sostenuto, tra l’altro, tassando le transazioni finanziarie». Era previsto, inoltre, che il “reddito di base incondizionato” si sostituisse alla maggior parte delle prestazioni sociali. In sostanza, si calcolava che lo Stato non ne avrebbe sofferto più di tanto. Rossi è contento che il progetto che era stato messo a punto per tutti gli svizzeri possa venire messo in pratica a Zurigo: «È la dimostrazione – afferma – che sul piano locale esiste, ormai, la consapevolezza che le sfide poste dalla globalizzazione e dalla digitalizzazione delle attività economiche non possono essere affrontate e superate correttamente, senza modificare in maniera fondamentale l’attuale sistema di protezione sociale, che risale alla seconda metà del secolo scorso». Il reddito di base incondizionato (Rbi) sarebbe una rendita mensile, sufficiente per vivere, versata individualmente ad ogni persona, dalla nascita alla morte, indipendentemente dalle altre sue fonti di reddito o ricchezze personali.«Attualmente ricaviamo tutte le entrate dal nostro lavoro, dal nostro patrimonio, dalla nostra famiglia o dalle prestazioni sociali che ci vengono versate», spiega il sito svizzero creato per sostenere l’iniziativa. Il “reddito di base incondizionato” si sostituisce alla parte di reddito individuale che copre i bisogni fondamentali, «mentre le altre rendite rivestiranno la funzione di completare il reddito di base, apportando il margine di comodità, di agio». In sostanza, la nuova entrata dovrebbe sostituirsi alla maggior parte delle prestazioni sociali fino alla quota del suo ammontare, coprendo assistenza sociale, sussidi allo studio, assegni familiari e assicurazione sulla disoccupazione. Le prestazioni sociali più mirate «saranno mantenute per gli aventi diritto, per esempio nel caso della disoccupazione o delle prestazioni complementari». In pratica, dicono gli elvetici, l’Rbi «garantisce la parte di reddito destinata a coprire i bisogni di base: le persone non cercheranno più un impiego perché devono sopravvivere, ma perché nessuno desidera accontentarsi di sopravvivere». Gli svizzeri «potranno così negoziare le loro condizioni di lavoro per soddisfare le loro comodità, più che i loro bisogni vitali».Secondo i sostenitori del “reddito di base”, «le condizioni di lavoro miglioreranno per motivare le persone, che già avranno una base di reddito, a impegnarsi di più». Di fatto, «potranno più facilmente negoziare condizioni di lavoro migliori a tempo parziale, se desiderano», e le imprese «saranno sollevate dalla responsabilità di far vivere le persone». Di conseguenza, «saranno incoraggiate ad automatizzare i compiti più ripetitivi e meno attraenti». Secondo i suoi sostenutori, l’Rbi non rappresenta un vero costo: l’attuale erogazione del welfare svizzero equivale già a un “reddito minimo”. «Non resta dunque che un piccolo saldo da finanziare per le persone che oggi guadagnano meno di quell’importo». Il reale saldo da finanziare, in termini di prestazioni sociali, sarebbe di appena 18 miliardi di franchi, pari al 3% del Pil svizzero. «Questo saldo può facilmente essere coperto in molti modi, come una correzione della Tva», l’Iva elvetica, oppure «della fiscalità diretta», o magari inserendo «una tassa sulla produzione automatizzata, sull’impronta ecologica», senza contare l’eventualità di introdurre una tassazione sulle transazioni finanziarie. Diverse forme di reddito sociale garantito sono state sperimentate negli Usa, in Canada, in Namibia e in India. Il principio è stato introdotto nella Costituzione del Brasile nel 2004. Il Kuwait e altri Stati del Golfo Persico hanno adottato una misura simile al reddito universale. «La Finlandia e il Quebec hannno deciso di introdurlo dal 2017. In Olanda, la città di Utrecht e una decina di altre città si preparano a realizzare dei test con l’Rbi, che intanto è entrato nel dibattito pubblico in Francia».Si chiama “reddito di base incondizionato”, ha qualche affinità con il reddito di cittadinanza che piace al Movimento 5 Stelle ed è stato adottato, a titolo sperimentale, dal Consiglio Comunale di Zurigo. Grazie alla mobilitazione della sinistra, gli abitanti della principale città elvetica potranno disporre di una sorta di “salario di Stato garantito” di 2.500 franchi mensili, ovvero di poco meno di 2.200 euro. Stiamo parlando, secondo i canoni svizzeri, dell’equivalente della soglia di povertà. Come prevedeva l’analogo testo di legge, sottoposto a referendum e bocciato lo scorso anno a livello svizzero, il “reddito di base incondizionato” dovrebbe toccare ogni singolo cittadino. Con la differenza che, mentre per gli adulti sarà di 2.500 franchi, per i minori dovrebbe essere di 625, più o meno 550 euro. In realtà, scrive Franco Zantonelli su “Repubblica”, sia il suo finanziamento che i tempi e modi d’applicazione non sono ancora chiari, visto che al legislativo di Zurigo la proposta è passata con soli due voti di scarto. L’esecutivo ha, in effetti, due anni di tempo per stabilire come metterla in pratica. «Ci muoviamo con i piedi di piombo», ha non a caso dichiarato alla tv pubblica il consigliere comunale socialista Urs Helfenstein.