Archivio del Tag ‘web’
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Illusioni e delusioni, lo show del Magus sul ring del potere
Incoerenza e fellonia conclamata anche da parte dei 5 Stelle, il cui vertice si schiera sottobanco con l’establishment euro-economicida tentando, ancora, di raccontare ai follower e agli elettori italiani la favola bella della rivoluzione gentile a colpi di democrazia diretta via Casaleggio Associati? Se c’è un capolavoro assoluto e perfetto, a cura del potere che ci manipola incessamente da decenni, per un outsider “guerrigliero” come Paolo Barnard è proprio questo: aver storicamente tolto, agli elettori, ogni possibilità di incidere realmente nei destini della comunità, nazionale e internazionale, facendo semplicemente piazza pulita di qualsiasi reale oppositore, di qualsiasi vero antagonista di un sistema che è teleguidato dalla grande finanza paramassonica ma gode del pieno consenso della gran parte del pubblico, sempre passivo, ridotto a massa composita di ex cittadini trasformati in docili spettatori, in semplici consumatori, cui la relativa libertà del web consente di coltivare l’illusione della partecipazione, affidata ai social media e alle riserve indiane, i blog della cosiddetta controinformazione complottistica.Per Barnard, la politica occidentale è stata scientificamente colonizzata dal potere economico, a partire dagli anni ‘70, sulla scorta del Memorandum Powell tradotto in tutte le lingue, attraverso la Trilaterale dei Kissinger e dei Rockefeller, e declinato in manuali di propaganda che hanno fatto storia, fino alla “Crisi della democrazia” celeberata nel Vangelo di Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki, per arrivare ai Chigaco Boys di Milton Friedman e al Nobel per l’Economia assegnato al grande stratega europeo del governo “illuminato” dell’élite, l’austriaco Friedrick von Hayek. Università, editoria, informazione: un unico grande coro, per dire che il mercato ha sempre ragione, che “non c’è alternativa” (Thatcher), che bisogna rimuovere ogni ostacolo alla finanza speculativa (Bill Clinton). E’ così che la destra economica si è imposta anche sulla sinistra, colonizzando partiti, sindacati e leader, da Massimo D’Alema a Gerhard Schroeder, da Tony Blair a Romano Prodi, per affermare l’onnipotenza “storica” nel neoliberismo, fino all’ordoliberismo dei super-massoni Angela Merkel, Mario Draghi, Wolfgang Schaeuble, Giorgio Napolitano, Jacques Attali, Jens Weidmann, François Hollande.Cade Grillo, perdendo la sua residua “credibilità antisistema” proprio mentre si affaccia sugli Usa e sul mondo il nuovo regno del presidente Trump, presentatosi come alfiere del “popolo” contro l’oligarchia? Illusioni ottiche, sostiene l’avvocato Gianfranco Carpeoro, massone e scrittore, esperto di simbologia e studioso del potere come «schema astratto, che “fabbrica” persone utili si suoi scopi». Il super-potere apolide ha rottamato per via giudiziaria la Prima Repubblica italiana, gremita anche di personaggi come Craxi e Andreotti, scomodi per il nuovo vertice europeo che si doveva imporre? Vero, ma i partiti di Craxi e Andreotti «facevano i congressi con i morti, gestendo pacchetti di voti di militanti defunti da tempo». E i cittadini dov’erano? A casa, come sempre. Rassegnati alla “fine della storia” celebrata dall’ultimo cantore della Trilaterale, Francis Fukuyama. Persuasi della “morte delle ideologie”. Una liberazione? Al contrario: «L’ideologia – sottolina Carpeoro – contiene il futuro: è l’idea di come vorremmo la società fra trent’anni. C’è qualche politico, oggi, che pensa a un orizzonte che vada oltre i sei mesi?».Carpeoro è uno studioso dei Rosacroce, misteriosi antesignani dell’anarchismo socialista utopico e pre-marxista, le cui prime parole d’ordine sono probabilmente contenute nel manifesto “Fama Fraternitatis”, che nel 1614 chiedeva l’abolizione della proprietà privata e dei confini tra le nazioni. Un mondo migliore, liberato dalla logica del dominio, la cui comparsa sulla Terra uno studioso come Francesco Saba Sardi fa risalire addirittura al neolitico, con la scoperta dell’agricoltura e l’improvvisa necessità di possedere terre, gestirle, difenderle, conquistarle. Proprio l’esigenza di sudditi, destinati a lavorare e combattere, secondo Saba Sardi partorì “l’invenzione” della religione, da parte del re-sacerdote, come pretesto per l’obbedienza e la sottomissione, da cui – per successiva e ulteriore degenerazione – nacque il Magus, l’uomo del potere che utilizza la conoscenza per manipolare la comunità.E’ una storia lunga 12.000 anni, con di mezzo imperi e dominazioni, millenni di evoluzione, grandiosi progressi, guerre, rivoluzioni. Per Carpeoro, però, siamo ancora e sempre prigionieri del cerchio magico tracciato da Magus di turno: all’interno del cerchio vivono promesse di miracoli, fuori dal cerchio ci minaccia il Nemico. «Rompere il cerchio significa imparare a chiedersi perché, il perché delle cose». Ovvero: «Perché questo sistema prevede che, perché noi stiamo meglio, altri devono per forza stare peggio?». Il Magus ha una caratteristica invariabile: non rischia mai, davvero. Durante la sanguinosa fase storica della decolonizzazione, nel secondo ‘900, l’ideologia comunista ha partorito personaggi come Patrick Lumumba, Ernesto Che Guevara, Thomas Sankara. Hanno tutti pagato, con la vita, il prezzo delle loro idee. Loro la vedevano, eccome, la proiezione nel tempo della società ideale. Oggi invece – altra epoca, altro millennio – i più restano a casa, con idee a portata di click, limitandosi ad assistere alla caduta del Magus di turno, senza mai mettere in discussione – nella vita quotidiana – il potere che l’aveva creato, per accomodare il pubblico nel suo rassicurante cerchio magico. Poi il cerchio esplode, come una bolla di sapone, nel lutto degli adepti. Il potere invece se la ride, sta già fabbricando il Magus che verrà.Incoerenza e fellonia conclamata anche da parte dei 5 Stelle, il cui vertice si schiera sottobanco con l’establishment euro-economicida tentando, ancora, di raccontare ai follower e agli elettori italiani la favola bella della rivoluzione gentile a colpi di democrazia diretta via Casaleggio Associati? Se c’è un capolavoro assoluto e perfetto, a cura del potere che ci manipola incessamente da decenni, per un outsider “guerrigliero” come Paolo Barnard è proprio questo: aver storicamente tolto, agli elettori, ogni possibilità di incidere realmente nei destini della comunità, nazionale e internazionale, facendo semplicemente piazza pulita di qualsiasi reale oppositore, di qualsiasi vero antagonista di un sistema che è teleguidato dalla grande finanza paramassonica ma gode del pieno consenso della gran parte del pubblico, sempre passivo, ridotto a massa composita di ex cittadini trasformati in docili spettatori, in semplici consumatori, cui la relativa libertà del web consente di coltivare l’illusione della partecipazione, affidata ai social media e alle riserve indiane, i blog della cosiddetta controinformazione complottistica.
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La guerra segreta di Trump contro chi comanda da 30 anni
E’ sempre più interessante questo momento politico negli Usa. Non solo per le polemiche politiche quanto, soprattutto, per la capacità di Trump di spiazzare l’establishment, di rompere le regole non scritte che hanno accomunato dagli anni Ottanta a oggi il partito democratico e quello repubblicano. Ho già spiegato in altre occasioni come funziona la democrazia americana: la rivalità tra i due partiti sui temi che contano – difesa, politica estera, finanza, globalizzazione – è più apparente che reale. Il sistema presidenziale ha funzionato in modo tale da garantire che alla fine si affrontassero due candidati – uno di destra e uno di sinistra – che, a dispetto dell’apparente fortissima rivalità, in realtà condividevano le scelte di fondo e l’appartenenza al ristretto establishment che governa davvero l’America e che funziona come una sorta di “Rotary”: che vincesse il candidato progressista o quello conservatore poco importava, entrambi erano membri dello stesso club. Le elezioni del 2016, invece, hanno segnato una rottura con questo schema perché alle primarie sono emersi ben due candidati in grado di strappare la nomination: Sanders tra i democratici e Trump tra i repubblicani.Sanders sono riusciti a fermarlo con i brogli, che hanno costretto alle dimissioni il presidente del partito Debbie Wasserman Schultz; con Trump hanno fallito, sebbene abbiano tentato in ogni modo di farlo deragliare. Ed è significativo che molti leader repubblicani si fossero schierati con Hillary Clinton durante l’ultima fase della campagna, a cominciare dalla famiglia Bush. Di fronte al rischio di perdere la Casa Bianca, l’establishment ha fatto saltare le apparenze: anche la destra “mainstream” era per Hillary. Come tutte le celebrities di Hollywood. Come tutta la stampa. Demonizzare Trump, distruggere la sua immagine, attaccare la persona prima ancora delle idee, screditarlo in ogni modo. Questo era lo schema, peraltro già usato in passato e non solo negli Stati Uniti. Ma non è bastato. Trump ha vinto. E non sembra intenzionato a recedere dai propri propositi. E’ un uomo che spiazza sempre. Lo ha fatto esternando la sua ammirazione per Putin per non aver risposto all’espulsione dei 35 diplomatici; ha continuato a ritenere non credibili le accuse di ingerenza russe nella campagna elettorale, smontando e relativizzando le insinuazioni provenienti dall’amministrazione Obama e dalla Cia.Nell’ambito di questa polemica ha dimostrato un’ottima conoscenza delle tecniche di spin dentro le istituzioni, che è la forma più insidiosa di manipolazione delle notizie; perché viola un concetto fondamentale in democrazia: quello dell’autorevolezza e dell’attendibilità delle fonti che provengono dall’istituzione stessa. O meglio: abusa di questa autorevolezza per diffondere informazioni che hanno l’aura della veridicità, che appaiono comprovate, e che invece sono strumentali, parziali e talvolta totalmente inventate. Quando scrive in un tweet “Chiederò ai capi delle commissioni di Camera e Senato di indagare sulle informazioni top secret condivise con l’Nbc”, facendo riferimento al rapporto d’intelligence per il presidente Barack Obama sugli attacchi hacker russi, a cui “Nbc News” ha avuto accesso in anticipo, in plateale violazione del segreto di Stato, accende un faro su una tecnica di spin doctoring diffusa e molto insidiosa. Chi conosce come viene gestita la comunicazione alla Casa Bianca, sa che questi non sono scoop giornalistici ma fughe pilotate e concordate al massimo livello. A cui Trump dice basta, rompendo ancora una volta la tacita consuetudine bipartisan, che induceva i due partiti a non indagare mai su quelle che talvolta erano vere e proprie frodi, come le motivazioni della guerra in Iraq.Rapporto d’intelligence che, peraltro, ha non lo convince come afferma pubblicamente, parlando di “caccia alle streghe” e rompendo un altro tabù: mai nella storia recente americana un presidente si era permesso di mettere in dubbio il lavoro dei vertici dei servizi segreti, di cui non si fida e che intende ridimensionare nei primissimi mesi della propria presidenza. Salteranno tante teste e la struttura dell’intelligence verrà completamente rivista. E’ un’operazione di un’audacia senza precedenti e che spiega il grande nervosismo di Obama e della ristretta élite che ha governato fino ad oggi l’America e il mondo. Non è un caso che proprio quell’establishment abbia tentato nelle ultime settimane di imporre la censura su Internet e sui social media, lanciando una campagna coordinata in più Stati, inclusa l’Unione Europea e Italia, sempre prontissime nel recepire i desiderata di Washington o meglio della Washington che sta uscendo di scena. Il web ha permesso a Trump (e prima di lui al britannico Farage) di scardinare un sistema che sembrava perfetto e intramontabile. Per questo l’establishment globalista tenta, con un colpo di coda, di silenziare l’informazione alternativa online, usando qualunque pretesto: gli hacker russi, l’Isis, le fake news. Non può riuscirci, non deve riuscirci.(Marcello Foa, “La guerra segreta di Trump contro chi governa davvero l’America”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 7 gennaio 2017).E’ sempre più interessante questo momento politico negli Usa. Non solo per le polemiche politiche quanto, soprattutto, per la capacità di Trump di spiazzare l’establishment, di rompere le regole non scritte che hanno accomunato dagli anni Ottanta a oggi il partito democratico e quello repubblicano. Ho già spiegato in altre occasioni come funziona la democrazia americana: la rivalità tra i due partiti sui temi che contano – difesa, politica estera, finanza, globalizzazione – è più apparente che reale. Il sistema presidenziale ha funzionato in modo tale da garantire che alla fine si affrontassero due candidati – uno di destra e uno di sinistra – che, a dispetto dell’apparente fortissima rivalità, in realtà condividevano le scelte di fondo e l’appartenenza al ristretto establishment che governa davvero l’America e che funziona come una sorta di “Rotary”: che vincesse il candidato progressista o quello conservatore poco importava, entrambi erano membri dello stesso club. Le elezioni del 2016, invece, hanno segnato una rottura con questo schema perché alle primarie sono emersi ben due candidati in grado di strappare la nomination: Sanders tra i democratici e Trump tra i repubblicani.
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Il disastro del M5S, tra i fan dell’euro-rigore ‘a sua insaputa’
Grande è il disordine sotto il cielo dei 5 stelle, ma la situazione è tutt’altro che eccellente. Dopo un negoziato tenuto rigorosamente nascosto, è stato annunciato che i deputati del M5S sarebbero passati dal gruppo antieuropeista – con l’Ukip e Afd – al gruppo ultraeuropeista dei liberali. In quattro e quattr’otto è stata organizzata una consultazione on line (con la partecipazione non oceanica di poco meno di un terzo degli iscritti) che ha approvato con il 78% la decisione. Ma la cosa non è servita a molto, perché, neppure sei ore dopo, erano i liberali a rifiutare di ratificare l’accordo siglato il 6 gennaio dal capogruppo M5s Borrelli e dal capogruppo liberale Guy Verhofstadt e tutto è andato per aria. Leggendo il testo del “contratto prematrimoniale” (reso pubblico da un redattore di “Radio Radicale” e consultabile sill’Hp) si capisce una cosa: che i 5 stelle, il 17 gennaio, avrebbero votato per Verhofstadt quale prossimo presidente del Parlamento Europeo ed in cambio sarebbero stati ammessi nel gruppo liberale, ottenendone la vice presidenza e, qualora fosse stato possibile, anche una vice presidenza dell’Assemblea di Strasburgo, oltre alla divisione dei fondi e del personale. Una volta queste cose si chiamavano “mercato delle vacche” in perfetto stile Dc.L’operazione è saltata, ma per la decisione dei liberali, mentre i 5 stelle hanno ricavato un disastro di immagine. La cosa può sorprendere ma ha una sua logica e va inquadrata in un contesto di dichiarazioni, gesti, decisioni che dura da almeno sette mesi. A maggio Luigi Di Maio fece un viaggio in giro per l’Europa, con l’evidente intento di tranquillizzare gli ambienti politici d’oltralpe su un’eventuale ascesa al governo del M5S e non mancarono ammiccamenti in tema d’euro (del tipo “non mi sento più tanto antieuropeista”). La campagna per le amministrative, l’estate, i problemi della giunta Raggi, la campagna referendaria hanno gettato la sordina sul tema euro. Nei primi di dicembre Di Battista lanciava, un po’ estemporaneamente, la proposta di un referendum sui nostri rapporti con la Ue, ma la cosa era lasciata cadere e nessuno prendeva le difese di “Dibba” di fronte alla gragnuola di insulti dei mass media e dei partiti che lo accusavano di non conoscere la Costituzione che vieta i referendum in materia di trattati (ma “Dibba” aveva detto altro e su questo abbiamo scritto).Poi c’è stata una raffica di decisioni di Beppe Grillo apparentemente slegate fra loro: il salvataggio in extremis della Raggi dopo i casi Muraro e Marra, la dichiarazione sul rimpatrio immediato degli immigrati irregolari (come se sapessimo quale è il loro paese d’origine!), la svolta in materia di avvisi di garanzia, il discorso di fine anno. Intendiamoci, tutti atti perfettamente leciti (anche se qualcuno discutibile, come quello sugli immigrati irregolari al solito accomunati ai terroristi) e qualcuno perfettamente condivisibile (come quello sull’avviso di garanzia), ma il senso politico complessivo è quello di dimostrare che il M5S è una forza responsabile, persino moderata, quando occorre, che può andare tranquillamente al governo senza provocare sconquassi. Nel M5S c’è un processo di lenta trasformazione in forza di governo, che rimuove i suoi tratti di forza “antisistema”. E il tentato passaggio all’Alde è stato lo sbocco naturale. Accreditarsi come forza moderata (adesso capiamo il senso del “né di destra né di sinistra”: perché forza “di centro”) e rimuovere l’immagine antieuropeista.Per la verità, il regista dell’operazione, il capogruppo Borrelli (che si è guardato bene dal darne notizia ai suoi parlamentari, esattamente come ha fatto il suo interlocutore Verhofstadt) non ha mai nascosto il suo “europeismo” e il suo giudizio ostile ad ogni abbandono dell’euro, sino ad incassare l’apprezzamento di Mario Monti. Dunque si pone il problema di definire, una volta per tutte, quale sia la posizione del M5S sull’euro, se c’è una revisione della posizione che era di Roberto Casaleggio (ed anche di Beppe Grillo per quel che ricordo), lo si dica apertamente, magari dopo una adeguata discussione seguita dal voto degli iscritti. C’è poi un altro punto da chiarire: il nodo di eventuali accordi con altre forze politiche. Non sono mai stato favorevole al “noi non ci alleiamo con nessuno” ed ho sempre detto che in politica gli accordi sono necessari, però che lo si dica e si fissino i criteri con cui li si può concludere.Questa sciagurata vicenda fissa un precedente: dopo che stavi per fare addirittura un gruppo comune con una forza politica basato solo su una spartizione (con l’Ukip, almeno, c’era il comune terreno dell’opposizione alla Ue) come potrai declinare una proposta di accordo di altra forza politica in Italia, opponendo il solito “noi non facciamo accordi con nessuno”?Quanto poi alla questione dei soldi, qualcuno dovrebbe spiegarmi perché in Italia il M5S rifiuta il finanziamento pubblico, mentre poi lo cerca affannosamente in Europa, al punto di includerlo fra le motivazioni di un accordo così singolare. Il tutto poi con questo clima clandestino da loggia carbonara: altro che diretta streaming e trasparenza, qui si è firmato un accordo senza che ne sapessero nulla neanche i deputati del M5S e quelli liberali che avrebbero dovuto fare gruppo insieme: vi sembra normale?C’è poi la questione di questa fregola governativa che ha preso il M5S. Personalmente non capisco perché ci sia tanta fretta di cingere la corona governativa in un biennio (tanto durerà la prossima legislatura) durante il quale non si tratterà di una corona di alloro, quanto di una corona di spine: pensateci cari amici del M5S. Infine: il disastro di immagine di questa storia è troppo evidente perché se ne debba dire, però voglio lasciarvi con un consiglio: Borrelli è un ottimo imprenditore, indiscutibilmente bravo; dopo questo brillante esito della sua strategia credo che non si possa provare ulteriormente l’azienda del suo talentuoso capo. Non vi sembra il caso di restituirlo subito al lavoro che sa fare meglio?Grande è il disordine sotto il cielo dei 5 stelle, ma la situazione è tutt’altro che eccellente. Dopo un negoziato tenuto rigorosamente nascosto, è stato annunciato che i deputati del M5S sarebbero passati dal gruppo antieuropeista – con l’Ukip e Afd – al gruppo ultraeuropeista dei liberali. In quattro e quattr’otto è stata organizzata una consultazione on line (con la partecipazione non oceanica di poco meno di un terzo degli iscritti) che ha approvato con il 78% la decisione. Ma la cosa non è servita a molto, perché, neppure sei ore dopo, erano i liberali a rifiutare di ratificare l’accordo siglato il 6 gennaio dal capogruppo M5s Borrelli e dal capogruppo liberale Guy Verhofstadt e tutto è andato per aria. Leggendo il testo del “contratto prematrimoniale” (reso pubblico da un redattore di “Radio Radicale” e consultabile sill’Hp) si capisce una cosa: che i 5 stelle, il 17 gennaio, avrebbero votato per Verhofstadt quale prossimo presidente del Parlamento Europeo ed in cambio sarebbero stati ammessi nel gruppo liberale, ottenendone la vice presidenza e, qualora fosse stato possibile, anche una vice presidenza dell’Assemblea di Strasburgo, oltre alla divisione dei fondi e del personale. Una volta queste cose si chiamavano “mercato delle vacche” in perfetto stile Dc.
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Tre naufragi identici in 160 anni. Unico superstite: Williams
Tre navi affondate, a 160 anni di distanza, tutte e tre nello stesso punto, nello stesso giorno, ed in tutti e tre i casi sono morti tutti i membri dell’equipaggio eccetto un superstite in ogni affondamento e, indovinate, come si chiamavano questi tre superstiti? Tutti e tre Hugh Williams. Sembra una storia ai limiti della realtà e sta circolando su Internet attraverso il video “The Strangest Coincidence Ever Recorded?”, che racconta la storia di 3 navi, tutte affondate nello Stretto di Menai, tra l’isola di Anglesey ed il Galles continentale, tra il 1664 ed il 1820. La prima nave in questione affondò nello stetto il 5 dicembre del 1664. Tutti gli 81 passeggeri perirono, eccetto uno, appunto di nome Hugh Williams. La seconda nave affondò nel 1785, sempre il 5 dicembre, sempre nello stesso stretto, e dei 60 passeggeri a bordo riuscì a salvarsi solo un uomo di nome Hugh Williams. Infine, nel 1820, sempre il 5 dicembre, sempre nello stesso stretto, un vascello affondò trascinando nelle acque i 25 passeggeri, meno, ovviamente, un superstite di nome Hugh Williams.Una storia incredibile che, se vera, darà qualche brivido ai passeggeri di nome diverso da Hugh Williams che navighino attraverso lo stretto di Menai il 5 dicembre di ogni anno. Per valutarne la veridicitò però bisogna analizzare i dettagli. Una prima versione della storia viene data dal libro di Cliffe, “Il libro del Nord del Galles”, pubblicato nel 1851, in cui, in una nota a pagina 155, viene riportata la storia degli affondamenti del 1664 e del 1785, con Hugh Williams il solo superstite. La storia per l’affondamento del 1820 poi cambia, lasciando sempre Hugh Williams come solo superstite, ma l’evento accadde secondo il libro il 5 di agosto e non di dicembre. La nota continua affermando che un’altra nave, il 20 maggio del 1842, ignorando i pericoli, stava navigando proprio vicino al punto del tragico evento del 1820, quando iniziò ad imbarcare acqua e andò a fondo, uccidendo tutti i 15 passeggeri eccetto uno, questa volta di nome Richard Thomas.Un altro libro di Francis Coghlan, “Guida al Nord del Galles”, del 1860, racconta gli stessi episodi. Sulla nave affondata nel 1785 poi c’è anche una prova documentata dal libro del reverendo William Bingley intitolato “Nord del Galles, includendo paesaggi, antiquariato ed usanze”, che narra la storia di come Hugh Williams si sia tratto in salvo il 5 dicembre del 1785. Andando avanti negli anni, un’altra storia narra di un peschereccio che il 10 luglio del 1940, venne distrutto da una mina tedesca, due soli uomini si salvarono, zio e nipote, entrambi chiamati Hugh Williams. In ogni caso, coincidenza o no, la storia sembra avere diversi fondamenti di verità, forse un po’ forzati come il fatto del 5 dicembre, che magari era il 5 di agosto, ma rimane il fatto che il nome Hugh Willams porterà qualche fortuna ai malcapitati nelle disgrazie navali (anche se purtroppo c’è un caso di una vittima chiamata Hugh Williams tra i passeggeri del Titanic) almeno nelle acque dello Stretto di Menai.Tra le varie spiegazioni per una simile coincidenza, rimane che in Galles, nei secoli scorsi, nomi come John, William e Thomas erano molto comuni, e c’era la tendenza per i figli di prendere come cognome il nome di battesimo dei loro padri. Ecco allora che il cognome Williams (e cioè “figlio di William”) non era così raro. Circa il luogo degli eventi, lo Stetto di Menai è famoso per essere “il Triangolo delle Bermuda” d’Europa, pericoloso per le sue correnti fortissime (incanalate tra il Mare del Nord e l’Oceano Atlantico) e le onde improvvise causate dalla collisione delle sue correnti. Per concludere, vera o no, la storia rimane un’incredibile leggenda dei mari, da narrare ai propri nipoti, magari rimanendo sulla terraferma o almeno lontani dallo stretto, ovviamente, a meno che uno non si chiami Hugh Williams.(“La storia incredibile dell’inaffondabile Hugh Williams: sarà vero o è solo una leggenda?”, da “Il Britannico” del 23 febbraio 2014, ripreso da “La Crepa nel Muro”).Tre navi affondate, a 160 anni di distanza, tutte e tre nello stesso punto, nello stesso giorno, ed in tutti e tre i casi sono morti tutti i membri dell’equipaggio eccetto un superstite in ogni affondamento e, indovinate, come si chiamavano questi tre superstiti? Tutti e tre Hugh Williams. Sembra una storia ai limiti della realtà e sta circolando su Internet attraverso il video “The Strangest Coincidence Ever Recorded?”, che racconta la storia di 3 navi, tutte affondate nello Stretto di Menai, tra l’isola di Anglesey ed il Galles continentale, tra il 1664 ed il 1820. La prima nave in questione affondò nello stretto il 5 dicembre del 1664. Tutti gli 81 passeggeri perirono, eccetto uno, appunto di nome Hugh Williams. La seconda nave affondò nel 1785, sempre il 5 dicembre, sempre nello stesso stretto, e dei 60 passeggeri a bordo riuscì a salvarsi solo un uomo di nome Hugh Williams. Infine, nel 1820, sempre il 5 dicembre, sempre nello stesso stretto, un vascello affondò trascinando nelle acque i 25 passeggeri, meno, ovviamente, un superstite di nome Hugh Williams.
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Barnard: ci sveglieremo in altro pianeta, e nessuno ne parla
«Casaleggio vide lungo: voleva creare la società civile del click da casa, tutto si fa in casa sul divano, in rete», ma «era un principiante: Facebook-Vr sarà la più devastante paralisi civica dlla storia, un fenomeno che non sfiorò neppure i sogni del padre della paralisi civica programmata, Edward Bernays». Parola di Paolo Barnard, secondo cui il dilagare della cosiddetta realtà virtuale, da Zuckerberg a Oculus con i visori “Rift Headset”, ben fotografa i mutamenti epocali ormai dietro l’angolo: «Il mondo si sta letteralmente trasformando in un altro pianeta», mentre in Italia le news sono ancora firmate da Grillo e Formigoni, Mediaset-Vivendi, Gentiloni e Poletti. Il capo di stato maggiore dell’esercito britannico e il suo futuro omologo americano, scrive Barnard, stanno preparando gli eserciti alla guerra futura, che sarà “cyber”. Alla “Bbc” il generale Richard Barrons ha detto: «Non ci saranno più bombardieri e soldati, ma “cyber fighters”. La Russia di Putin ha fatto il primo passo, in questo, ed è avanti: hanno un milione di programmatori già affiliati a 40 reti illegali. Silicon Valley, Google e Nsa stanno arrancando dietro a Mosca».Le guerre, aggiunge il generale Barrons, saranno combattute «infiltrando le infrastrutture vitali di un paese avversario». Esempio: «Una notte le luci di tutta la Francia salteranno, e nel panico i francesi scopriranno che sono saltati anche i back-up, i server saranno tutti muti. Una potenza Nato messa in ginocchio in meno di un secondo, senza bombe». E che dire dell’energia? «Le rinnovabili uccideranno gli idrocarburi», scrive Barnard nel suo blog. «Questo lo si è capito ai massimi livelli in Usa, Cina, Arabia Saudita, ma soprattutto fra i colossi d’investimento. Chi segue “Carbon Tracker” si fa un’idea della furiosa corsa dei poteri mondiali per l’energia di domani, ma soprattutto del potenziale di conflitti mostruosi per la spartizione della torta. Tutti i paradigmi politici legati all’energia sono saltati, e l’energia è tutto. Miliardi di poveri del mondo rischiano di finire nelle mani degli investitori per accendere una lampadina, mille volte più di quanto non lo siano già oggi».Oltre ai conflitti “cyber”, poi, rimane l’atomica: «Se ci sarà conflitto nucleare sarà in due luoghi: il mar del Sud della Cina, dove gli Usa stanno tentando di tagliare le comunicazioni mercantili ed energetiche di Pechino; oppure nel Jammu-Kashmir, dove fra India e Pakistan la miccia atomica è letteralmente tutti i giorni a un centimetro dal fuoco», sostiene Barnard. Per non parlare della finanza: «Tutta Europa, e tutta la vita economica di ogni vivente oggi in Ue, è appesa al filo del “tapering” della Bce di Draghi. Il “tapering” è il momento certo e già annunciato nel quale la Bce finirà di tenere viva l’Europa comprandogli trilioni di euro di assets (statali e privati) che altrimenti nessuno vorrebbe o che avrebbero prezzi stracciati e tassi alle stelle». Il quantitative easing di Draghi «è oggi l’oggetto di discussione frenetica di tutti gli Ad di ogni singolo istituto finanziario del pianeta. C’è il totale panico, ed è panico vero», ma in Italia a tener banco sono solo la Raggi, Equitalia, i 104 indagati del Pd.Poche settimane fa, aggiunge Barnard, il più grande gruppo assicurativo del mondo, Ing, ha convocato un seminario con oltre 600 esperti mondiali sulla “glocalization”. Letteralmente, per Google: «Diffusione su scala mondiale, grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, di elementi culturali, idee, stili di vita propri di realtà locali». Ma anche: «Strategia economica e politica volta a correggere gli aspetti più problematici della globalizzazione, sfruttandone le opportunità per valorizzare a livello mondiale il ruolo di governi, mercati o imprese locali». Per Wikipedia, il neologismo introdotto dal sociologo Zygmunt Bauman significa: «Adeguare il panorama della globalizzazione alle realtà locali, così da studiarne meglio le loro relazioni con gli ambienti internazionali». E quindi: «La creazione o distribuzione di prodotti e servizi ideati per un mercato globale o internazionale, ma modificati in base alle leggi o alla cultura locale», nonché «l’uso di tecnologie di comunicazione elettronica, come Internet, per fornire servizi locali su base globale o internazionale. Craigslist e Meetup sono esempi di applicazioni web glocalizzate». E infine: «La creazione di strutture organizzative locali, che operano su culture e bisogni locali, al fine di diventare multinazionali o globali. Questo comportamento è stato seguito da varie aziende e corporation, ad esempio dall’Ibm».Per Barnard, «è il fenomeno inverso della vecchia globalizzazione e dell’“outsourcing” dei posti di lavoro verso paesi a manodopera per pochi centesimi (Cina, Thailandia, Messico, Bangladesh)». Domanda: perché la “glocalization” sta diventando un altro tema di fibrillazione dei colossi e delle think-tank del mondo occidentale? «Perché anche qui tutti i paradigmi della produzione industriale sono saltati: siamo in un incubo d’incognite su cosa accadrà nel processo di “glocalization” ai nostri impieghi, alle nostre economie. Un intero mondo è di nuovo saltato in frantumi nel cosmo». Da noi chi ne parla? Nessuno. «Oggi le parole di filosofia politica e morale più impressionanti escono dalla bocca di uomini come Ray Dalio, Ceo di Bridgewater, hedge fund “monster”. O da Bill Gross, l’ex Re Mida di Pimco, il più grande gestore di “fixed income” del mondo», investitori in azioni private e titoli di Stato. «Parlano di informazione, di moralità nell’economia, delle strutture sociali, del senso della morte persino, ma lo fanno però con la conoscenza degli strumenti dei padroni del mondo, cioè con la conoscenza del motore che fa vivere o morire 7 miliardi di umani. Questo fa una differenza incredibile». Perfettamente inutili, dice Barnard, «gli sproloqui di filosofi o intellettuali contemporanei», perché «non sanno nulla del motore che fa vivere o morire 7 miliardi di umani». Conclusione: tutto sta cambiando alla velocità della luce, e nessuno ce lo spiega.«Casaleggio vide lungo: voleva creare la società civile del click da casa, tutto si fa in casa sul divano, in rete», ma «era un principiante: Facebook-Vr sarà la più devastante paralisi civica dlla storia, un fenomeno che non sfiorò neppure i sogni del padre della paralisi civica programmata, Edward Bernays». Parola di Paolo Barnard, secondo cui il dilagare della cosiddetta realtà virtuale, da Zuckerberg a Oculus con i visori “Rift Headset”, ben fotografa i mutamenti epocali ormai dietro l’angolo: «Il mondo si sta letteralmente trasformando in un altro pianeta», mentre in Italia le news sono ancora firmate da Grillo e Formigoni, Mediaset-Vivendi, Gentiloni e Poletti. Il capo di stato maggiore dell’esercito britannico e il suo futuro omologo americano, scrive Barnard, stanno preparando gli eserciti alla guerra futura, che sarà “cyber”. Alla “Bbc” il generale Richard Barrons ha detto: «Non ci saranno più bombardieri e soldati, ma “cyber fighters”. La Russia di Putin ha fatto il primo passo, in questo, ed è avanti: hanno un milione di programmatori già affiliati a 40 reti illegali. Silicon Valley, Google e Nsa stanno arrancando dietro a Mosca».
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Addio fatale 2016, mai così tante morti eccellenti: perché?
La scomparsa di George Michael contribuisce a fare del 2016 l’anno nero della musica pop, dopo la perdita di David Bowie, Prince e Leonard Cohen, nonché del cantante degli Eagles, Glenn Frey, e di uno degli eroi di Woodstock, Paul Kantner, leader dei Jefferson Airplane. Ma non c’è solo musica nel “cimitero” del 2016: se ne sono andati due grandissimi come Fidel Castro e Muhammad Alì. Morti pure Shimon Peres e Dario Fo, Giorgio Albertazzi e Umberto Eco. Il grande cinema piange Michael Cimino, Abbas Kiarostami, Gene Wilder. Stando al necrologista della “Bbc”, Nick Serpell, nei primi tre mesi del 2012 erano stati solo 3 i “coccodrilli” tirati fuori dal cassetto, mentre nello stesso periodo del 2016 la cifra è salita subito a 24. Vale anche per le carrellate di foto che “Corriere.it” dedica ogni anno all’elenco delle persone famose scomparse: 50 decessi nel 2013, quasi 100 nel 2014. Molti personaggi celebri che se ne sono andati nel 2016, annota Federica Seneghini sul “Corriere”, appartenevano alla cosiddetta generazione del baby boom, nata tra il 1946 e il 1964. «Oggi i babyboomers hanno tra i 52 e i 70 anni. In Italia gli over 65% sono il 22%. La fascia d’età 65-69 è quella in cui il tasso di mortalità fa un brusco salto in avanti ed è pari a 10,2 ogni 1.000 abitanti».Lo schema è chiaro, secondo il “Corriere”: «Più persone nate in una certa fascia di tempo, più persone diventate famose, più persone che oggi sono anziane e quindi hanno più probabilità di morire. Molte star morte nel 2016 sono babyboomers: Prince (57 anni), David Bowie (69), Anna Marchesini (63), Alain Rickman (69), Victoria Wood (62), Gianroberto Casaleggio (61), Johan Cruyff (68), Glenn Frey (67)». Tra le varie spiegazioni che si possono trovare a questo “Spoon river”, aggiunge il giornale, c’è anche il culto delle celebrity, che «dagli anni Cinquanta a oggi, è cresciuto esponenzialmente grazie a cinema, tv e globalizzazione: da 60 anni a questa parte sono sempre di più gli sportivi, altezze reali e i cantanti considerati famosi». C’è poi il “fattore social”, che trasforma in notizie di massa quelle che in una lontana epoca pre-Facebook non lo erano affatto. «Un esempio: quella della morte della star del wrestling Chyna, ripresa in Italia dai media nazionali. Fino a qualche tempo fa sarebbe risultata accessibile (e di interesse) solo a una ristretta cerchia di fan».Secondo Giovanni Boccia Artieri, docente di sociologia dei media digitali all’università di Urbino, ormai «bastano pochi clic per trasformare notizie che fino a qualche tempo fa sarebbero state di nicchia», restituendoci dunque l’impressione che le persone più o meno famose muoiano più di prima. Esiste anche un sito, Deathlist.net, che pubblica (dal 1987, all’inizio di ogni anno) la classifica delle 50 persone famose che molto probabilmente moriranno entro 12 mesi. «Tra i candidati di quest’anno – scrive Federica Seneghini – finora il sito ci ha preso 7 volte, azzeccando la scomparsa del giocatore di cricket Martin Crowe, dell’ex presidente della Fifa Joao Havelange, dell’attore Abe Vigoda, dell’ex first lady Nancy Reagan, dell’ex segretario generale dell’Onu Boutros-Ghali, del presentatore tv Cliff Michelmore e di Muhammad Ali». Certo resta impressionante, l’elenco dei “caduti”, soprattutto nell’ambito della musica: se n’è andato Keith Emerson, tastierista e anima degli Emerson, Lake & Palmer, seguito dal suo bassista Greg Lake. Addio anche a George Martin, produttore dei Beatles, nonché a Pete Burns, frontman dei Dead or Alive (“You spin me round”).In Italia ci ha lasciati il cantautore Gianmaria Testa. Poi il cinema e la televisione: oltre ad Anna Marchesini del trio Lopez-Marchesini-Solenghi e al presentatore Luciano Rispoli sono scomparsi Lino Toffolo e Carlo Pedersoli (Bud Spencer). Il cinema internazionale ha perso il polacco Andrzej Wajda, lo statunitense Garry Kent Marshall (“Pretty woman”, “Happy days”), gli attori Alan Rickman (della serie “Harry Potter”), Douglas Wilmer (Sherlock Holmes). Nonché Michael Massee, Peter Vaughan, Zsa Zsa Gabor, l’italiana Silvana Pampanini e la scrittrice Harper Lee, autrice de “Il buio oltre la siepe”. Addio anche a Franca Sozzani, storica direttrice di “Vogue Italia”, all’oncologo Umberto Veronesi, a Carlo Azeglio Ciampi, all’astronauta e pioniere dello spazio John Glenn.La scomparsa di George Michael contribuisce a fare del 2016 l’anno nero della musica pop, dopo la perdita di David Bowie, Prince e Leonard Cohen, nonché del cantante degli Eagles, Glenn Frey, e di uno degli eroi di Woodstock, Paul Kantner, leader dei Jefferson Airplane. Ma non c’è solo musica nel “cimitero” del 2016: se ne sono andati due grandissimi come Fidel Castro e Muhammad Alì. Morti pure Shimon Peres e Dario Fo, Giorgio Albertazzi e Umberto Eco. Il grande cinema piange Michael Cimino, Abbas Kiarostami, Gene Wilder, Ettore Scola. Stando al necrologista della “Bbc”, Nick Serpell, nei primi tre mesi del 2012 erano stati solo 3 i “coccodrilli” tirati fuori dal cassetto, mentre nello stesso periodo del 2016 la cifra è salita subito a 24. Vale anche per le carrellate di foto che “Corriere.it” dedica ogni anno all’elenco delle persone famose scomparse: 50 decessi nel 2013, quasi 100 nel 2014. Molti personaggi celebri che se ne sono andati nel 2016, annota Federica Seneghini sul “Corrieredario fo”, appartenevano alla cosiddetta generazione del baby boom, nata tra il 1946 e il 1964. «Oggi i babyboomers hanno tra i 52 e i 70 anni. In Italia gli over 65% sono il 22%. La fascia d’età 65-69 è quella in cui il tasso di mortalità fa un brusco salto in avanti, pari a 10,2 ogni 1.000 abitanti».
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“Caro Crozza, se non sei un buffone ti sfido a dire la verità”
Caro Crozza, ti sfido a duello: sei un buffone di talento o solo uno sbruffone? Sei anche un cittadino capace di impegnarsi per la verità? Questo il senso della sfida che Massimo Mazzucco rivolge al comico più amato d’Italia, creatore di esilaranti imitazioni destinate a sbriciolare la credibilità di tante maschere del potere. Crozza fu il primo (e l’unico, nel mainstream italiano) a mettere in scena “l’altra possibile verità” dietro al massacro del Balaclan, a poche ore dalla strage di Parigi: una coraggiosa performance di taglio teatrale, in prima serata, in cui un ineffabile uomo-ombra del supremo potere, attraverso parole livide e minacciose, lascia intendere qualcosa come “siamo stati noi, anche stavolta, e voi ci cascate sempre, credendo alla fiaba dell’Uomo Nero”. Un’uscita tempestiva e temeraria: nessuno, in televisione, si era mai spinto a tanto, mentre a Parigi la polizia dava ancora la caccia “all’Isis”. «Noi facciamo un buon lavoro con i mujaheddin: li creiamo, poi li armiamo coi vostri quattrin», canta l’infido manager della fantomatica “Inc.Cool8”. «Dopo esserci inventati questi beduin, siam costretti a bombardarli ed aumentiamo il Pil. Solo tu lo puoi far: creare dei nemici da ammazzar».Era il 20 novembre 2015, a una settimana dalla macelleria andata in scena a Parigi tra lo stadio, i bistrot del centro e il teatro divenuto tristemente famoso. Poi, quasi ad aggiustare il tiro, un anno dopo lo stesso Crozza si produce in un monologo contro il “complottismo” che fa infuriare Mazzucco, regista dei più importanti documentari realizzati sull’11 Settembre, uno dei quali trasmesso anche da Mentana su Canale 5. Filmati nei quali si dimostra – prove alla mano – che la versione ufficiale (crollo delle Torri a causa di aerei dirottati a insaputa dell’intelligence Usa) è semplicemente ridicola, completamente falsa. «Caro Crozza», gli scrive Mazzucco, «in un recente puntata del tuo show hai preso in giro i cosiddetti “complottisti”, mescolando con sapiente malizia stupidaggini da quattro soldi (come gli alieni di gomma) con argomenti molto più seri (come l’11 Settembre), nel palese tentativo di equiparare gli uni agli altri: è la vecchia tecnica, vile e disonesta, usata dai debunkers del Cicap come Piero Angela o Paolo Attivissimo».Per sfidare Crozza, Mazzucco utilizza il suo blog, “Luogo Comune”: «In particolare, parlando dell’11 Settembre – scrive – hai mescolato le Torri Gemelle con la ridicola faccenda della sosia della Clinton, concludendo “Ma ragazzi, vi rendete conto di quante puttanate si inventano ogni giorno?”, come se la stupidaggine del secondo caso dovesse automaticamente invalidare anche la serietà del primo. Nello stesso segmento – continua Mazzucco, sempre rivolto a Crozza – hai anche dichiarato “C’è gente che dubita persino dello sbarco dell’uomo sulla Luna”, con una tale saccenza che ricordava – appunto – i toni paternalistici dei debunkers sopraccitati». Ed ecco l’invito rivolto al comico: «Visto che sembri animato da certezze incrollabili, ti sfido ad un pubblico confronto su uno qualunque di questi argomenti, a tua scelta. L’11 settembre, oppure lo sbarco sulla Luna (oppure l’assassinio Kennedy, se preferisci). Uno qualunque dei grandi “complotti” della storia moderna per me va bene, non fa nessuna differenza».Mazzucco è disponibile: «Possiamo confrontarci per telefono, alla radio, sulla rete, in televisione, oppure in un bar, davanti ad una semplice telecamera. Puoi anche scegliere un moderatore di tua fiducia, se la cosa ti fa sentire più tranquillo. Per me, nuovamente, non fa nessuna differenza. Scegli tu». In questo modo, aggiunge Mazzucco, «il pubblico potrà finalmente decidere chi è che racconta le stupidaggini più grossolane: “quelli che dubitano dell’11 Settembre e dello sbarco sulla Luna”, oppure quelli che li deridono dall’alto del loro scranno televisivo, convinti di essere intoccabili». Perchè, sottolinea, «è molto facile fare i gradassi all’interno del tuo spettacolo, dove nessuno ti può contestare quello che dici. Leggermente più difficile è farlo durante un vero contraddittorio». L’appello finale: «Forza Crozza, mostraci che sai davvero di cosa parli, quando tocchi argomenti così importanti come l’11 Settembre, e che non sei solo un buffoncello che cerca il facile applauso ripetendo a macchinetta le stupidaggini altrui». Mazzucco si premura anche di informare il comico: «Se vuoi alcune delucidazioni sui casi citati, puoi scrivermi a redazione@luogocomune.net. Sono a tua disposizione».Caro Crozza, ti sfido a duello: sei un buffone di talento o solo uno sbruffone? Sei anche un cittadino capace di impegnarsi per la verità? Questo il senso della sfida che Massimo Mazzucco rivolge al comico più amato d’Italia, creatore di esilaranti imitazioni destinate a sbriciolare la credibilità di tante maschere del potere. Crozza fu il primo (e l’unico, nel mainstream italiano) a mettere in scena “l’altra possibile verità” dietro al massacro del Bataclan, a poche ore dalla strage di Parigi: una coraggiosa performance di taglio teatrale, in prima serata, in cui un ineffabile uomo-ombra del supremo potere, attraverso parole livide e minacciose, lascia intendere qualcosa come “siamo stati noi, anche stavolta, e voi ci cascate sempre, credendo alla fiaba dell’Uomo Nero”. Un’uscita tempestiva e temeraria: nessuno, in televisione, si era mai spinto a tanto, mentre a Parigi la polizia dava ancora la caccia “all’Isis”. «Noi facciamo un buon lavoro con i mujaheddin: li creiamo, poi li armiamo coi vostri quattrin», canta l’infido manager della fantomatica “Inc.Cool8”. «Dopo esserci inventati questi beduin, siam costretti a bombardarli ed aumentiamo il Pil. Solo tu lo puoi far: creare dei nemici da ammazzar».
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Poliziotti ora in pericolo, il potere stragista investe sull’odio
Quei due poliziotti di Milano ora sono in pericolo, ma a questo Stato «servono eroi da esibire», anche a rischio della loro incolumità: lo afferma l’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del libro “Dalla massoneria al terrorismo” che denuncia la “sovragestione” degli attentati, progettati da “menti massoniche” e coordinati da settori dei servizi segreti che utilizzano manovalanza di pretesa matrice islamista. «L’Isis è sostanzialmente una marionetta, a disposizione di Ur-Lodges reazionarie americane, prime fra tutte la “Hathor Pentalpha” e la “Three Eyes”», la cui esistenza è stata rivelata da Gioele Magaldi nel saggio “Massoni”, a fine 2014. La strage di Berlino? «Sembra attuata per colpire Angela Merkel in vista delle prossime elezioni politiche in Germania, per forzare il governo tedesco spingendolo ad assumere un atteggiamento intransigente verso l’immigrazione: come sempre – aggiunge Carpeoro – chi utilizza il terrorismo colpisce gli elementi moderati e dialoganti: in Italia fu colpito Moro perché dialogava col Pci, in Israele a cadere fu Rabin perché dialogava coi palestinesi. Gli estremisti invece non vengono mai toccati, perché seminano odio, e l’odio fa sempre comodo al potere».Riflessioni a caldo, che Carpeoro ha consegnato alla diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di Border Nights la mattina di Natale. Durissimo il giudizio dello studioso sulla decisione di esporre al pubblico l’identità dei due agenti di polizia che, a Sesto San Giovanni, hanno fermato e poi abbattuto il tunisino Anis Amri, sospettato di essere l’autore della strage di Berlino dopo il ritrovamento dei suoi documenti sotto il sedile del camion-killer. «Un terrorista “normale” non va a compiere un attentato portando con sé il passaporto: il far ritrovare prontamente il documento è la prova della “sovragestione” che ha diretto l’attentato», sostiene Carpeoro, che spiega: «Risalire immediatamente al presunto killer, in modo da neutralizzarlo subito, è estremamente utile agli strateghi del terrorismo: una prolungata caccia all’uomo manterrebbe in tensione per molto tempo le forze di polizia, e questo disturberebbe i piani dei manovratori occulti». A Milano, inoltre, l’identità dei poliziotti è stata esibita: «Il problema è questo potere ha bisogno di eroi», insiste Carpeoro, «e questa sua esigenza è superiore al tutelare la vita delle persone che lavorano per noi». Finì sotto i riflettori anche il “Capitano Ultimo”, l’ufficiale dei carabinieri coinvolto nella cattura di Riina: «Fu gettato in pasto ai porci in maniera evidente, esposto al rischio della vita in modo ancora più efferato».Carpeoro sta analizzando le clamorose analogie tra l’attentato di Nizza del 14 luglio e quello di Berlino al mercatino natalizio. Identiche modalità: «Un camion lanciato contro la folla è uno strumento probabilmente più facile da utilizzare, non richiede requisiti tecnici come invece gli esplosivi, e infine un mezzo di trasporto non suscita di per sé allarme, può sfuggire al controllo delle forze di sicurezza». Di regola, questi attentati stragicisti sono “firmati” con un corredo simbolico, «segnali in codice rivolti a chi li può intendere», nei circoli del massimo potere. In attesa di decifrare quali segni (anche nascosti) possano legare la strage di Nizza e quella di Berlino, Carpeoro avverte: «Temo che siamo di fronte a un’escalation», uno “sciame” di stragi «destinate a preparare il terreno per un evento ancora più grave e sanguinoso». La “filosofia” che muoverebbe questa regia occulta? Sempre la stessa: alimentare l’odio, attraverso il falso “scontro di civiltà”. «La paura e l’odio sono strumenti adottati dall’attuale élite di potere, il cui obiettivo è impedire qualsiasi cambiamento dello status quo, dopo che la finanza ha neutralizzato la democrazia. Non serve nemmeno una Terza Guerra Mondiale: basta e avanza quello che è già in atto, cioè un insieme di tante guerre locali». Paura, tensione, odio: funzione che, in Europa, è svolta dal terrorismo “sovragestito”, comodamente targato Isis.Quei due poliziotti di Milano ora sono in pericolo, ma a questo Stato «servono eroi da esibire», anche a rischio della loro incolumità: lo afferma l’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del libro “Dalla massoneria al terrorismo” che denuncia la “sovragestione” degli attentati, progettati da “menti massoniche” e coordinati da settori dei servizi segreti che utilizzano manovalanza di pretesa matrice islamista. «L’Isis è sostanzialmente una marionetta, a disposizione di Ur-Lodges reazionarie americane, prime fra tutte la “Hathor Pentalpha” e la “Three Eyes”», la cui esistenza è stata rivelata da Gioele Magaldi nel saggio “Massoni”, a fine 2014. La strage di Berlino? «Sembra attuata per colpire Angela Merkel in vista delle prossime elezioni politiche in Germania, per forzare il governo tedesco spingendolo ad assumere un atteggiamento intransigente verso l’immigrazione: come sempre – aggiunge Carpeoro – chi utilizza il terrorismo colpisce gli elementi moderati e dialoganti: in Italia fu colpito Moro perché dialogava col Pci, in Israele a cadere fu Rabin perché dialogava coi palestinesi. Gli estremisti invece non vengono mai toccati, perché seminano odio, e l’odio fa sempre comodo al potere».
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“Bufale sul web”, l’ultima guerra di Obama contro la verità
Bavaglio ai social, per evitare la valanga “populista”. Hanno speso anni a spiegarci che non esistono i fatti, solo le interpretazioni, senza oggettività? Adesso, pare arrivato il contrordine: media e politici hanno scoperto che bisogna combattere contro la “post-verità”, ossia, secono l’Oxford Dictionary, le “circostanze in cui le credenze contano più dei fatti oggettivi”. «Il concetto di “post-verità” non è granché fresco, ma è stato riesumato in queste settimane e riverniciato per adattarlo a una crociata che è essenzialmente politica», sostiene Daniele Scalea. La grande paura dell’élite? Semplice: la vittoria di Donald Trump. «La tesi di fondo, al di là del ricorso a lessico ricercato e para-scientifico, è che il successo dei movimenti populisti in Occidente sia dovuto non a oggettivo malessere sociale o economico patito dai cittadini, bensì al loro essere turlupinati dalle bufale che girano in Internet». Da qui la pression su Facebook e Google, «avviata da Barack Obama in persona e andata a buon fine» affinché i grandi social media intervenissero per frenare la diffusione di notizie incontrollate. Alla base, c’è un’idea auto-assolutoria: l’establishment è «buono e giusto», gli elettori sono “depistati”.Fino a ieri, scrive Scalea sul “Foglio”, si era soliti prendersela col basso livello d’istruzione e l’analfabetismo funzionale degli elettori. Poi «ci si è accorti che, a furia di dare del cretino ignorante a qualcuno, non te lo fai amico e non lo convinci a votare a tuo favore». Così, «le bordate dell’artiglieria mediatica hanno scelto un nuovo bersaglio: le bufale web». Davvero Internet sta cambiando il panorama dell’informazione, portandoci da un passato fatto di notizie vere e accurate a un presente di bufale virali in cui non si distingue più il vero dal falso? Lo studioso Mario Pireddu ritiene che quest’asserzione sulla post-verità sia, essa stessa, una post-verità, poiché non trova riscontro in nessun dato oggettivo: la maggior parte degli utenti di Internet utilizza fonti più differenziate rispetto a coloro che si informano con mezzi tradizionali (Tv, radio e giornali), e oggi il controllo incrociato sulle news è più facile, rapido e diffuso di un tempo. Ma se le cose stanno così, si domanda Scalea, che cosa si nasconde dietro la crociata sulla post-verità cui stiamo assistendo? «Probabilmente, un’assai tradizionale reazione censoria contro la montante critica rivolta all’establishment».Il confine tra notizia falsa e notizia dubbia «è labile, come sempre più labile è il confine tra notizia e opinione», osserva Scalea: «Con la scusa delle “fake news” si potranno ben colpire le visioni eterodosse, lasciando per giunta il lavoro sporco a impersonali algoritmi sviluppati nella liberal Silicon Valley». In effetti, «sarebbe come pretendere che un software ci dicesse se è più giusto votare per un candidato o per un altro». L’esito, ovviamente, «non sarebbe quello suggerito dall’oggettività del computer, ma dalla soggettività dello sviluppatore», dal momento che «soggettiva, e non oggettiva, è la domanda posta». I media? Non distinguono più tra i fatti e i semplici punti di vista: «Le opinioni, le valutazioni, sono raffrontate con l’opinione prevalente (o per meglio dire, mainstream) e in base alla loro aderenza con essa accreditate di verità o falsità intese in senso assolute». Per Scalea, «il metodo non è molto lontano da quello dell’Inquisizione, ma almeno allora ci si fondava su un testo sacro e una tradizione apostolica, non certo su qualche blog di debunking».In linea di principio, conclude Scalea, «promuovere la verità non è mai sbagliato». Nella pratica, «dal momento che la verità è spesso inafferrabile, quest’intento si è sovente tramutato in disastro». I bolscevichi, ad esempio, «hanno cercato di seguire le verità proposte dal “socialismo scientifico”, coi ben noti risultati». La “Pravda”, che in russo si traduce in modo esplicito (“la verità”), era la loro voce ufficiale. «Non si può realizzare un mondo in cui tutta l’informazione sia sempre verità, senza annichilire il libero discorso e affermare una falsa verità soggettiva e partigiana», conclude Scalea. «Lo stolto che afferma che la Terra sia piatta è il prezzo che paghiamo affinché l’onesto possa indicarci che il “Re è nudo” – senza essere accusato perciò di propinare una bufala e censurato da Facebook e Google».Bavaglio ai social, per evitare la valanga “populista”. Hanno speso anni a spiegarci che non esistono i fatti, solo le interpretazioni, senza oggettività? Adesso, pare arrivato il contrordine: media e politici hanno scoperto che bisogna combattere contro la “post-verità”, ossia, secono l’Oxford Dictionary, le “circostanze in cui le credenze contano più dei fatti oggettivi”. «Il concetto di “post-verità” non è granché fresco, ma è stato riesumato in queste settimane e riverniciato per adattarlo a una crociata che è essenzialmente politica», sostiene Daniele Scalea, analista geopolitico. La grande paura dell’élite? Semplice: la vittoria di Donald Trump. «La tesi di fondo, al di là del ricorso a lessico ricercato e para-scientifico, è che il successo dei movimenti populisti in Occidente sia dovuto non a oggettivo malessere sociale o economico patito dai cittadini, bensì al loro essere turlupinati dalle bufale che girano in Internet». Da qui la pressioni su Facebook e Google, «avviata da Barack Obama in persona e andata a buon fine» affinché i grandi social media intervenissero per frenare la diffusione di notizie incontrollate. Alla base, c’è un’idea auto-assolutoria: l’establishment è «buono e giusto», gli elettori sono “depistati”.
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Berlino: altro sangue, sull’altare di un potere nel panico
Ankara, Zurigo, Berlino. Il più grosso è ovviamente a Berlino, 9 morti una cinquantina di feriti – modus operandi simile all’attentato di Nizza del 14 luglio; è la prima volta che un vero attentato “alla francese” colpisce la Germania. La Francia ha ed ha avuto le mani in pasta in Siria, fa i giochi sporchi da anni; Berlino è rimasta neutrale. A Zurigo, uno sconosciuto ha sparato in un centro islamico. Ad Ankara, ucciso da un poliziotto l’ambasciatore russo. E’ troppo presto per dire qualcosa di più preciso. L’assassinio di Ankara è stato rivendicato, più precisamente esaltato, dall’Is e da Al-Qaeda, certo, come no: attraverso il “Site” di Rita Katz. E’ un indizio abbastanza preciso. Anche Obama, anche al Dipartimento di Stato, e alla Cia, hanno ottime ragioni per esaltare l’omicidio, prima di dover traslocare. A che scopo?, mi chiede qualcuno. Che domanda: uno degli scopi della strategia della tensione, l’ondata sincrona di attentati l’ha già ottenuto dentro di voi: vulnerabili, esposti ad un’aggressione che può colpirvi in ogni momento, perché il nemico, musulmano, è folle.Lo è, infatti; solo pensate che è quel nemico musulmano che vi hanno imposto di accettare a centinaia di migliaia, masse troppo subitanee che manca il tempo di integrare, giovani maschi per lo più, per cui le fanciulle europee sono una provocazione sessuale; quanti di loro sono criminali e pregiudicati? Jihadisti? Ma se provate a fare questa domanda siete razzisti, egoisti, privi di carità. La centrale che vi obbliga ad accoglierli tutti è la stessa che vuol farvi paura – e giustamente – per questa invasione inassimilabile. Contraddizione? Ma questo è uno dei suoi strumenti più preziosi nella strategia della tensione, vi lacera fra due pulsioni opposte, due discrasie cognitive, fra senso di colpa e urto irrazionale di rabbia, voglia di uccidere. E’ un successo. Perché la strategia della tensione in Europa, in queste ore? Mentre Aleppo è liberata? Mentre Obama fa le valige? Putin, limpido, ha spiegato: «L’assassinio (dell’ambasciatore) è una provocazione mirante a impedire il miglioramento delle relazioni russo-turche, minare il processo di pace in Siria promosso da Russia, Turchia, Iran ed altri paesi interessati a risolvere il conflitto in Siria».Per noi europei, la strategia della tensione ha uno scopo quasi tradizionale: farci travolgere dal terrore che è dovunque, odiare i musulmani mentre ci obbligano ad accoglierli; significa che ci sentiamo insicuri – e perciò chiediamo un governo forte, autoritario, con una polizia che censuri i siti – non solo gli islamici, anche i nostri: ne va della nostra vita! Leggi speciali d’emergenza, legge marziale. O stringiamoci tutti sotto l’ombrello della Nato, che ci difende dai jihadisti… L’oligarchia di Bruxelles travolta dalle critiche e contestazioni, dal crescere del “populismo”, l’Unione Europea che vede incagliato il suo progetto sovrannazionale, può trovarvi il suo tornaconto: imporre ordine e disciplina, recuperare “autorità”. E’ presto per dirlo. Aspettiamo i media di domani, cosa dicono, quali ricette invocano, quale capo o “fratello” per l’emergenza, capace di calmare i nostri terrori: sono le parole d’ordine a cui ci faranno obbedire. Quale il prossimo “Je suis Charly”?(Maurizio Blondet, estratto da “State calmi, è strategia della tensione”, post pubblicato sul sito di Blondet il 19 dicembre 2016).Ankara, Zurigo, Berlino. Il più grosso è ovviamente a Berlino, 9 morti una cinquantina di feriti – modus operandi simile all’attentato di Nizza del 14 luglio; è la prima volta che un vero attentato “alla francese” colpisce la Germania. La Francia ha ed ha avuto le mani in pasta in Siria, fa i giochi sporchi da anni; Berlino è rimasta neutrale. A Zurigo, uno sconosciuto ha sparato in un centro islamico. Ad Ankara, ucciso da un poliziotto l’ambasciatore russo. E’ troppo presto per dire qualcosa di più preciso. L’assassinio di Ankara è stato rivendicato, più precisamente esaltato, dall’Is e da Al-Qaeda, certo, come no: attraverso il “Site” di Rita Katz. E’ un indizio abbastanza preciso. Anche Obama, anche al Dipartimento di Stato, e alla Cia, hanno ottime ragioni per esaltare l’omicidio, prima di dover traslocare. A che scopo?, mi chiede qualcuno. Che domanda: uno degli scopi della strategia della tensione, l’ondata sincrona di attentati l’ha già ottenuto dentro di voi: vulnerabili, esposti ad un’aggressione che può colpirvi in ogni momento, perché il nemico, musulmano, è folle.
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La fine del mondo per il Pd, l’Italia in crisi a sua insaputa
La fine del mondo, ovvero: l’assemblea nazionale del Pd che incorona in trionfo il suo sovrano, Matteo Renzi, già tornato in cabina di regia dopo aver solennemente promesso che avrebbe lasciato la politica, in caso di sconfitta al referendum. Proprio la speranza di cancellarlo dagli schermi, trasversale a vari settori dell’elettorato, cominciando dai giovani, era stata la molla principale, per milioni di elettori, decisi a votare No. Tutto inutile, come da copione: Gentiloni a Palazzo Chigi insieme alla Boschi, e Renzi ancora lì. Soprattutto: è ancora lì il Pd, straordinario autoscatto di quest’Italia in crisi “a sua insaputa”. Dal palco romano dove si alternano i relatori è perfettamente inutile sperare di ascoltare parole utili al paese, a parte le rituali e irrilevanti autocritiche sulle difficoltà del partito come macchina di consenso. Qualche accento sullo stato dell’arte proviene da esponenti come Cuperlo e Damiano, ma l’unico che fornisce una visione prospettica è il dinosauro Piero Fassino: la nostra, dice, è stata una sinistra cresciuta nel ‘900, nel fordismo, e oggi non difende più nessuno, non serve più. Fassino sfiora addirittura la verità dell’euro e dell’Ue, ma solo per ricordare quanto fu brava, la sinistra prodiana, a mobilitare gli italiani per convincerli ad affrontare i sacrifici necessari a entrare nel club della moneta unica.A chi chiede timidamente se sia il caso di celebrare un congresso, creando così lo spazio necessario per sviluppare una riflessione profonda, Renzi risponde che non è ancora tempo di congressi, perché l’agenda richiede altre urgenze, la legge elettorale, le elezioni anticipate. Non è più epoca di congressi, da tempo: Forza Italia ha sempre e solo inscenato assemblee plebliscitarie, celebrative del Capo, e Grillo non è mai andato oltre i Vaffa-Day o le consultazioni online. Niente congressi, niente confronto di idee, nessuna analisi indipendente. Meglio correre, ferocemente divisi, nella stessa direzione: il baratro. Lo dimostra, una volta di più, la mancanza di timonieri alla guida del grosso barcone del Pd, una ciurma di naufraghi spaventati da quello che chiamano populismo, senza però riuscire a spiegarsi l’origine del fenomeno che – riconoscono – sta scuotendo come un brivido l’intero Occidente. Di tutto è lecito di parlare, tranne che di politica. Lo dice lo stesso Renzi, l’unico politico capace di auto-accusarsi di aver “politicizzato” il voto («la mia colpa non è stata la personalizzazione del referendum», dice, «ma la sua politicizzazione»).«Con questi dirigenti non vinceremo mai», sentenziò Nanni Moretti nel 2002, un milione di anni fa, pensando alla sua squadra di brocchi – D’Alema, Veltroni – e alla corazzata da battere, quella del Cavaliere. Ben lungi, Moretti, dall’intuire che il problema non era nemmeno la squadra, ma il campionato. Ci sono voluti anni, ma poi l’allenatore il suo campione l’ha messo in campo: solo che al massimo vince Renzi, non l’Italia. E Renzi è uno che vince comunque, anche quando perde, visto che di fronte non ha più nessuno. Non mantiene mai la parola data? Vero, ma anche questo è secondario: Renzi non ha mai nemmeno lontanamente sfiorato, neppure a parole, la verità nella quale è sprofondata l’Italia dopo che la sua classe dirigente, come ricorda Fassino, l’ha iscritta nel prestigioso campionato europeo del rigore e dell’austerity, dell’agonia del welfare, della morte della sovranità e quindi dell’economia. Nel Renzi-day, il Pd attacca la crisi romana dei grillini, il collasso politico della capitale dove – nessuno lo ricorda – fu proposto l’ingresso in municipio di un economista eretico come Nino Galloni, con in testa (lui sì) una soluzione per uscire dalla grande crisi inutilmente evocata da Fassino, la crisi che sta travolgendo l’Italia “a sua insaputa”, o almeno a insaputa di un partito che ancora acclama Renzi, così come i grillini acclamano Grillo. Il problema è ancora e sempre il leader, la squadra, e non il campionato? Se è così, i sabotatori dell’Italia possono dormire sonni tranquilli.La fine del mondo, ovvero: l’assemblea nazionale del Pd che incorona in trionfo il suo sovrano, Matteo Renzi, già tornato in cabina di regia dopo aver solennemente promesso che avrebbe lasciato la politica, in caso di sconfitta al referendum. Proprio la speranza di cancellarlo dagli schermi, trasversale a vari settori dell’elettorato, cominciando dai giovani, era stata la molla principale, per milioni di elettori, risoltisi a votare No. Tutto inutile, come da copione: Gentiloni a Palazzo Chigi insieme alla Boschi, e Renzi ancora lì. Soprattutto: è ancora lì il Pd, straordinario autoscatto di quest’Italia che sarebbe in crisi “a sua insaputa”. Dal palco romano dove si alternano i relatori è perfettamente inutile sperare di ascoltare parole spendibili per il paese, a parte le rituali e irrilevanti autocritiche sulle difficoltà del partito come macchina di consenso. Qualche accenno allo stato dell’arte proviene da esponenti come Cuperlo e Damiano, ma l’unico che fornisce una visione prospettica è il dinosauro Piero Fassino: la nostra, dice, è stata una sinistra cresciuta nel ‘900, nel fordismo, e oggi non difende più nessuno, non serve più. Fassino sfiora addirittura la verità dell’euro e dell’Ue, ma solo per ricordare quanto fu brava, la sinistra prodiana, a mobilitare gli italiani per convincerli ad affrontare i sacrifici necessari a entrare nel club della moneta unica.
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Renzi travolto, media ancora umiliati dopo Brexit e Trump
«E fanno tre. Dopo la Brexit e l’elezione di Trump, anche il referendum italiano si può tranquillamente interpretare come un calcio in faccia al pensiero mainstream, per quanto fortemente sostenuto e veicolato dai media di regime», osserva Massimo Mazzucco, mentre i dati scodellano il bruciante 6-4 che costringe Renzi a lasciare Palazzo Chigi, sommerso dal voto contrario della maggioranza degli italiani, il 70% alle urne (solo uno su tre è rimasto fermo all’astensionismo). Ma, insieme al finto “rottamatore” al servizio dei super-poteri europei e finanziari, tra gli sconfitti Mazzucco iscrive soprattutto i media: «Non ha funzionato il terrorismo mediatico contro la Brexit (“crollerà l’economia britannica”, avevano detto), non ha funzionato il terrorismo mediatico contro Trump (“finiremo nelle mani di un incapace”, avevano detto), e non ha funzionato il terrorismo mediatico a favore del Sì (“se vince il No sarà un salto nel buio”, ci hanno detto)». Cosa accadrà ora in Italia nessuno lo sa con certezza, «ma nel frattempo l’unico che può fare il suo bel salto nel buio sarà proprio Matteo Renzi». La vera notizia? «Per tre volte in un anno i media mainstream hanno tentato di condizionare il voto degli elettori su tre eventi di grande importanza internazionale, e per tre volte gli stessi elettori – grazie alla rete e all’utilizzo dei social – si sono rifiutati di farsi infinocchiare».Questo ormai è un punto di non-ritorno, sottolinea Mazzucco su “Luogo Comune”, e «sembra che i grandi conglomerati informatici se ne stiano accorgendo con dolore», se è vero che la stessa Cnn ha promosso un dibattito sul fatto che la televisione abbia “perso il controllo delle masse”, con la sua clamorosa “incapacità di prevedere i risultati”, ovvero di «condizionare il pensiero della popolazione». Nessuna illusione: «La reazione a questo punto sarà durissima», avverte Mazzucco: «Sicuramente assisteremo alla comparsa, da qualche parte nel mondo, di tentativi più o meno goffi di imbavagliare la rete». Per Marcello Foa, è estremamente significativo che la partecipazione alle urne sia stata molto alta: «E’ stato autenticamente un voto popolare, che non lascia spazio ad interpretazioni e ad ambiguità». Anche Foa sottolinea la débacle di giornali e televisioni, editorialisti e analisti mainstream da prima serata: «Ancora una volta le intimidazioni e lo spin attraverso i media tradizionali è risultato inefficiente: le vecchie regole della propaganda e della manipolazione per influenzare e intimidire i popoli, non sono più efficienti come un tempo». Di fatto, gli italiani «si associano al messaggio già formulato con forza dai britannici scegliendo la Brexit e dagli americani eleggendo Donald Trump».Bocciando Renzi, capo del terzo governo consecutivo non-eletto dopo quelli di Monti e Letta, gli elettori sono convinti di aver «detto no all’establishment e alle élite transnazionali ed europee che hanno governato la globalizzazione, l’Europa e di fatto anche l’Italia, limitandone la sovranità e la possibilità di cambiare», scrive Foa sul “Giornale”. «Gli italiani, come gli americani e come i britannici, vogliono un vero cambiamento, vogliono tornare padroni del proprio destino». Ottimista anche Tomaso Montanari aull’”Huffington Post”: «Renzi non ha detto di aver sbagliato. Ha detto di aver perso (difficile dire il contrario). Ma non hanno vinto la Lega, il Movimento 5 Stelle o la Sinistra. Hanno vinto tutti i cittadini». C’è una rivolta in atto: sarà una rivoluzione? Il politologo Aldo Giannuli ringrazia l’elettorato giovanile, quello da 18 a 34 anni: «E’ quello che ha trainato il risultato con quasi un 70% di No». Viceversa, «le generazioni dei sessanta-ottantenni sono state quelle che hanno fatto un ultimo regalo con un 51% del Sì (a quanto pare): decisamente passano alla storia come le peggiori del secolo, le più spregevoli».Se il progetto di Renzi «fallisce e viene ripudiato dalla Repubblica Italiana», in quanto essenzialmente sleale, fondato sull’abuso di potere, come scrive Pino Cabras su “Megachip”, ora «si addensano molte nubi all’orizzonte, perché Renzi in questi suoi mille giorni non ha governato, ha rinviato, ha congelato i problemi, e ci sono sempre i poteri che vogliono spolpare l’Italia». Concorda Giannuli: «Il risultato va molto oltre la questione in sé, come sempre accade quando scattano certi numeri». E’ uno «tsunami», quello che «sta travolgendo il sistema politico». Larghe intese e altre minestre riscaldate? «Sono tutte formule esaurite, mentre sta venendo giù tutto». Ragione di più, scrive Giannuli, perché il M5S pensi davvero al da farsi, evitando passi falsi: «Gestire il successo è molto più difficile che gestire le sconfitte». Per bene che vada, prima di maggio non si voterà, e non certo con questa legge elettorale. «I partiti ne farebbero una peggiore? Possibilissimo». E’ un fatto: «Il sistema politico entra naturalmente in una fase di ristrutturazione interna che lo cambierà profondamente anche con la nascita di nuovi soggetti politici come accadde nel 1992-93 e con questa realtà occorrerà misurarsi».Com’è noto, oggi in Italia non esiste un vero piano-B, paragonabile a quello che Marine Le Pen disegna per la Francia, con il ritorno alla sovranità nazionale. Alle manfrine di Renzi contro la Ue (la minaccia del veto al bilancio comunitario) gli italiani non hanno creduto. E nella cocente bocciatura del fiorentino si possono leggere istanze precise, come scrive lo stesso Cabras: «Renzi voleva riorganizzare efficacemente il blocco sociale conservatore dopo che era crollata l’analoga funzione di Berlusconi, e voleva farlo salvaguardando una fetta ancora molto elevata del suo elettorato tradizionale proveniente da sinistra». Ma ha sbagliato: «Ha sopravvalutato la presa degli incantatori di serpenti volgari e ignoranti che aveva mobilitato, assieme alle clientele, per imbrogliare un paese affezionato alla propria Costituzione». Ricordate il referendum di aprile sulle trivelle? «Non raggiunse il quorum e i corifei renziani perculavano gli avversari con tweet irridenti. Ciaone, dicevano. Gravissimo errore di sottovalutazione». Ma anche allora gli italiani-contro erano tanti, oltre 13 milioni, «nonostante un quorum impraticabile, una propaganda assillante del governo e del Pd per spingere gli elettori a non votare, organi di stampa bugiardi e zitti».Con un’affluenza alle urne del 70% al No, per vincere, «sarebbe bastato prendersi appena un elettore su quattro di quelli che ad aprile non votarono (o votarono per tenere le trivellazioni) e vincere così con il 51%. Invece siamo ben oltre». Perché Renzi, «nella sua hybris costituzionale», ha di fatto «interpretato la propria carica fino a svilirla in una sequela di abusi: ha ridotto la Costituzione al rango di una chiacchiera da Barbara D’Urso, ha buttato a mare equilibri nati dallo studio e dal sangue per triturarli in slogan falsi (“ecco la scheda con cui voterete il Senato”, vergogna Matteo!), ha fatto di tutto per abbagliare, intimidire, costringere a schierarsi per ottenere finanziamenti che spettavano comunque agli enti locali». Senza contare le «squallide passerelle» come quella del presidente campano De Luca, per «giocare intorno al referendum fondi pubblici e risorse». Renzi «ha usato enti pubblici, televisioni, manovrine e mance», in più «ha abusato anche delle ambasciate per condizionare in modo non neutrale il voto degli italiani all’estero».Ma attenzione, conclude Cabras: «Nessuna delle forze di opposizione – alle Agende Monti, Agende Letta e Agende Renzi che ci governano da anni – può bastare a se stessa. Dovremo pensarci». E’ stata solo una micidiale “punizione” inflitta a Renzi, divenuto insopportabile ai più, o c’è anche un po’ di futuro nel voto del 4 dicembre? I 5 Stelle finora sono stati ultra-prudenti, anche su Bruxelles. Un recente sondaggio rivela che 2 italiani su 3 vogliono tenersi stretti sia l’Ue che l’euro, non collegando né l’Unione Europea dei tecnocrati né la moneta della Bce alla crisi che ha piegato l’economia nazionale. Governano, come prima, tecnocrati e banchieri: quanto impiegheranno a sostituire il loro uomo, caduto nell’imboscata democratica del 4 dicembre? O, al contrario: è credibile ipotizzare uno sviluppo non più oligarchico, sull’onda dello “tsunami” che si è abbattuto sul capo del Pd? «Renzi finirà asfaltato dai No», profetizzò tempo fa l’ex ministro socialista Rino Formica. «E il suo successore lo designerà il Vaticano».«E fanno tre. Dopo la Brexit e l’elezione di Trump, anche il referendum italiano si può tranquillamente interpretare come un calcio in faccia al pensiero mainstream, per quanto fortemente sostenuto e veicolato dai media di regime», osserva Massimo Mazzucco, mentre i dati scodellano il bruciante 6-4 che costringe Renzi a lasciare Palazzo Chigi, sommerso dal voto contrario della maggioranza degli italiani, il 70% alle urne (solo uno su tre è rimasto fermo all’astensionismo). Ma, insieme al finto “rottamatore” al servizio dei super-poteri europei e finanziari, tra gli sconfitti Mazzucco iscrive soprattutto i media: «Non ha funzionato il terrorismo mediatico contro la Brexit (“crollerà l’economia britannica”, avevano detto), non ha funzionato il terrorismo mediatico contro Trump (“finiremo nelle mani di un incapace”, avevano detto), e non ha funzionato il terrorismo mediatico a favore del Sì (“se vince il No sarà un salto nel buio”, ci hanno detto)». Cosa accadrà ora in Italia nessuno lo sa con certezza, «ma nel frattempo l’unico che può fare il suo bel salto nel buio sarà proprio Matteo Renzi». La vera notizia? «Per tre volte in un anno i media mainstream hanno tentato di condizionare il voto degli elettori su tre eventi di grande importanza internazionale, e per tre volte gli stessi elettori – grazie alla rete e all’utilizzo dei social – si sono rifiutati di farsi infinocchiare».